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Pitture ed esperienze sociali - C.G.F. Villa, Sintesi del corso di Storia dell'Arte Moderna

Il riassunto tratta del legame tra arte e e società nel 400

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 24/03/2021

mirellasantoro
mirellasantoro 🇮🇹

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Scarica Pitture ed esperienze sociali - C.G.F. Villa e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento Le condizioni del mercato Il rapporto che stava alla base di un dipinto era sia di tipo sociale che commerciale. Avevamo da una parte il committente, il cliente, che pagava e stabiliva le caratteristiche che avrebbe dovuto avere il quadro, e dall’altra l’artista. Le pale d’altare e le opere che avrebbero dovuto essere collocate nei luoghi più importanti venivano svolte su commissione di artisti importanti. Gli artisti minori, invece, si occupavano di opere che successivamente vendevano già pronte, le quali si limitavano ad avere come soggetti Madonne ordinarie oppure si occupavano della decorazione di cassoni nuziali. I criteri adottati nel 400, per stabilire il prezzo dei manufatti, avevano una grossa ripercussione sulle opere. Un buon cliente per i pittori, il mercante fiorentino Giovanni Rucellai, non nascondeva di certo la soddisfazione di avere in casa dipinti dei migliori artisti. Egli sostiene che l’acquisto di questo genere di oggetti procura il piacere di spendere bene, oscurando quello di far denaro. Pr personaggi come Rucellai spendere soldi in chiese e opere era un atto che portava riconoscimento e soddisfazione, un giusto risarcimento alla società, qualcosa a metà tra la donazione benefica e il pagamento di tasse. Vi è poi l’elemento di piacere nell’osservare i dipinti, fondamentale per una figura come quella di Rucellai, tutt’altro che insensibile ai valori visivi. Nel 1457 Filippo Lippi ricevette da Giovanni Cosimo de’Medici la commissione di un trittico destinato in dono al re Alfonso V di Napoli. Da sinistra a destra troviamo un San Bernardo, l’adorazione del bambino e un San Michele. Una distinzione tra pubblico e privato non avevano grossa importanza nel XV secolo. Il pittore, di solito, veniva assunto e controllato da una persona o da un piccolo gruppo. Il pittore aveva quindi un rapporto diretto con il committente, molto spesso identificabile, che aveva scelto il pittore e lo aveva premiato per la sua arte e che lo seguiva passo passo nella realizzazione dell’opera. Lo scultore invece, di solito, lavorava per grandi imprese comunali. Quali erano i campi dell’arte in cui il cliente interveniva direttamente? Vi sono documenti legali che riportano il rapporto tra le due parti e i principali obblighi ai quali dovevano entrambe sottostare. Alcuni sono contratti veri redatti da un notaio, altri sono specie di promemoria che, nonostante avessero una minore retorica notarile, mantenevano lo stesso un certo peso contrattuale. Il contratto (esempio nel libro-> quello tra Domenico Ghirlandaio e il priore dello Spedale degli Innocenti a Firenze) contiene tre temi principali: - Specifica ciò che il pittore deve dipingere sulla base di un disegno concordato - Modi e tempi entro i quali il pittore deve effettuare la consegna - Il pittore deve utilizzare colori di buona qualità, come l’oro e l’azzurro ultramarino. La quantità di dettagli e la loro precisione variavano di contratto in contratto La richiesta di un disegno preliminare all’opera era molto gettonata perché con le parole non si capiva bene come l’artista avrebbe voluto impostare il disegno. La somma concordata in un contratto non era del tutto rigida e se il pittore si fosse trovato in perdita avrebbe potuto rinegoziare il prezzo. Nel caso tra le due parti non si fosse trovato un accordo, sarebbero intervenuti dei pittori professionisti a fare da arbitri. La specificità dei colori nei contratti è molto importate. Ad esempio, per quanto riguarda l’uso dell’azzurro ultramarino. Questo colore era, dopo l’oro e l’argento, il più costoso sul mercato. Esso veniva ottenuto dalla polvere ottenuta dai costosi lapislazzuli importati dall’Oriente. Questa polvere veniva filtrata più volte per ottenere un colore inteso e brillante. Sostitutivo più economico dell’ultramarino era l’azzurro D’Alemagna che non era altro che carbonato di rame. Questo colore però era meno intenso del primo e anche meno resistente, soprattutto sugli affreschi. Per questo motivo, pittori e committenti erano molto attenti alla qualità dei colori e capitava anche che i clienti più esigenti specificassero il costo (fiorini) del colore all’oncia, per assicurarsi quello di più alta qualità. Altri artisti, come Mantegna, percepivano uno stipendio. Egli lavorò dal 1460 fino alla sua morte per i marchesi Gonzaga di Mantova. Lo stipendio, però, nonostante la promessa scritta, non gli veniva pagato con regolarità. Capitava però, delle volte, di ricevere in dono terre o denaro, onorari di altri committenti e alcuni privilegi. Con il passare del tempo i dettagli dei contratti cambiano, ponendo l’accento su questo o l’altro particolare. Due di questi cambiamenti sono molto importanti e una delle chiavi per comprendere il Quattrocento sta proprio nel riconoscere il fatto che il loro legame consiste in un rapporto inverso: mentre i colori preziosi perdono di importanza, la richiesta di abilità pittorica assume maggior rilievo. Nel corso del secolo, quindi, si parla sempre meno di oro e azzurro ultramarino. Certo, continuano a essere menzionati, anche per quanto riguarda il costo all’oncia, ma essi sono sempre più al margine del contratto e l’oro viene sempre più destinato alla realizzazione della cornice. A partire dalla metà del secolo, vengono concesse anche differenti tonalità di azzurro, cosa che prima era quasi impensabile. I clienti cominciano a dare meno importanza di dare sfoggio al pubblico della preziosità dei materiali. Per quanto riguarda la limitazione dell’oro, ad esempio, non bisogna far riferimento solo al campo dell’arte, ma anche a quello della moda. Con l’avanzare del secolo, questo colore venne sempre più sostituito da un più serio nero di Borgogna (le migliori qualità del tessuto olandese erano nere). Non vi era più quel continuo e massimo bisogno di ostentare la ricchezza (tale bisogno non era, però, del tutto scomparso). In compenso si sentiva la necessità di distinguersi dal nuovo ricco; a questo contribuiva anche la difficoltà nel reperimento dell’oro. Vi erano comunque altri modi per ostentare la propria magnificenza, ossia tagliare di sbieco, dispendiosamente, le stoffe olandesi. Lo stesso avveniva in pittura. A mano a mano che l’oro e l’azzurro perdevano di importanza, l’abilità dei pittori assumeva maggior pregio. Per comprendere questo passaggio naturale, bisogna tornare al ruolo del denaro in ambito pittorico-> una distinzione tra il valore del materiale prezioso da un lato e il valore attribuito all’abile uso dei materiali dall’altro, assume un rilievo decisivo. Tale distinzione solitamente rientra solo marginalmente nel nostro modo di pensare ai dipinti, ma nel primo Rinascimento costituiva il punto nodale. La divisione tra qualità del materiale e qualità dell’abilità per ottenere delle diagnosi, poteva riconoscerle anche nel quadro. Un uomo del Quattrocento trattava affari, frequentava la chiesa e conduceva una vita sociale. Da queste attività ne risultava la sua esperienza generale nel commentare i quadri. Ovviamente, vi erano persone più abili in un determinato campo e persone più abili in altro, ma il pittore scendeva al comune denominatore delle capacità del pubblico per poterlo soddisfare. La maggior parte dei dipinti del XV secolo sono religiosi-> essi erano creati in funzione di fini istituzionali cui fornivano il contributo di una specifica attività intellettuale e spirituale. Quale era la funzione religiosa di questi dipinti? Secondo la Chiesa, dovevano avere un triplice scopo: - Istruzione - Ricordare il mistero dell’incarnazione dei santi - Suscitare devozione Utilizzare queste tre ragioni in istruzioni rivoli al fruitore, equivale a usare i dipinti come stimoli che inducono l’uomo a meditare sulla Bibbia e sulle vite dei Santi. Vi erano, però, degli abusi sia nelle reazioni del pubblico di fronte ai dipinti, sia nel modo in cui i dipinti stessi venivano fatti. L’idolatria rappresentava una preoccupazione costante per la teologia-> vi era il pericolo che il pubblico confondesse l’immagine dei santi e della divinità come i santi stessi e la divinità stessa e che, quindi, li adorasse. In Germania, invece, vi fu un problema maggiore-> un abuso su cui i teologi dissertavano regolarmente, ma in modo stereotipo e piuttosto inutile. L’opinione pubblica laica riteneva che la si potesse considerare solo un uso scorretto delle immagini, che non costituiva però motivo di condanna dell’istituzione stessa delle immagini. Per quanto riguarda i dipinti, poi, la Chiesa si rese conto che c’erano talvolta nella loro concezione degli errori che andavano contro la teologia e il buon gusto. Sant’Antonio, arcivescovo di Firenze, riassume i tre principali errori, i quali continuavano ad esistere: soggetti con implicazioni eretiche, soggetti apocrifi (falsi), soggetti resi meno chiari per il loro modo di essere rappresentati, frivolo e indecoroso. Per il pittore la traduzione in immagini di storie sacre era un compito professionale. Il pubblico, allo stesso modo, era portato a riprodurre queste immagini durante i riti spirituali per concepire visivamente almeno gli episodi fondamentali della vita di Cristo e di Maria. Si può dire, quindi, che le visualizzazioni del pittore sono esteriori, quelle del pubblico interiori. L’esperienza quattrocentesca di un dipinto non si limitava solo al dipinto che noi vediamo oggi e quindi alla rappresentazione esterna, ma comprendeva anche il processo di visualizzazione che il fruitore aveva precedentemente operato sull’argomento raffigurato nel dipinto stesso. Un manuale, il “Zardino di Oration”, 1454, spiega l’esigenza di rappresentazioni interiori e il loro ruolo nell’atto della preghiera. Una certa abitudine dava una funzione curiosa alle visualizzazioni esteriori del pittore, quella di una meditazione che visualizzi le storie da rappresentare ambientandole nella propria città e utilizzando come personaggi i propri conoscenti. Il pittore cercava di evitare di caratterizzare nei particolari le persone e i luoghi: questo avrebbe influito sulla personale visualizzazione di ognuno, dal momento che i fruitori potevano accostarsi alla sua opera con un’immagine ben precisa in mente, colma di dettagli e differente per ciascuno. Un pittore come il Perugino era particolarmente apprezzato per la sua rispondenza a condizioni di questo genere. Bellini, ad esempio, non ha bisogno di fornire i dettagli di luoghi e personaggi, egli integra la visione interiore del fruitore. Le sue rappresentazioni sono generiche e concrete, strutturate secondo schemi di forte suggestione narrativa. Nessuna di queste qualità poteva essere fornita dal fruitore. Il “Zardino di Oration” descrive delle tecniche spirituali intesi a rendere più intensa e acuta l'immaginazione. I sermoni avevano un ruolo molto importante nel caso del pittore: sia il predicatore che il dipinto facevano parte dell'apparato di una chiesa e ciascuno teneva conto dell’altro. Il XV secolo segnò l'ultima occasione per il predicatore popolare di tipo medievale: infatti il V Concilio Laterano del 1512- 17 prese delle misure per sopprimerli. Questo è uno degli elementi che in Italia differenziano il sostrato culturale del 400 da quello del 500. I predicatori culturali miravano a infiammare gli animi, ma assolvevano la loro funzione di insegnanti in modo insostituibile, essi addestravano i loro fedeli ad acquisire una serie completa di capacità interpretative che corrispondono esattamente alla reazione del 400 alla pittura. Questi sermoni erano una classificazione delle storie in termini molto emotivi, strettamente legati alla personificazione fisica e quindi anche visiva dei misteri. Il predicatore e il pittore era in sostanza ripetiteur l'uno dell'altro. Esaminiamo ora un po’più da vicino un sermone: fra Roberto predicando sull’Annunciazione distingue tre misteri principali: l'Angelica Missione, l'Angelica Salutatione e l'Angelica Confabulatione. Ognuno di essi viene discusso in 5 capitoli principali. Per quanto riguarda la missione Angelica interpretazione di fra Roberto vi individua: a. Congruita-> l’angelo come tramite tra Dio e il mortale b. Dignita-> Gabriele appartiene all’ordine più alto degli angeli c. Chiarita-> l’angelo si manifesta materialmente agli occhi di Maria d. Temporalita-> Venerdì 25 marzo, forse all’alba o a mezzogiorno e. Localita-> Nazareth che significa “fiore” Per il saluto angelico: a. Honoratione-> l’angelo di inginocchia davanti a Maria b. Exemptione-> esenzione dalle doglie del parto c. Gratificatione-> conferimento della grazie d. Assumptione-> unione con Dio e. Benedictione-> beatitudine di Maria unica Vergine e a Madre Per la Angelica Confabulatione fra Roberto analizza il racconto di San Luca e delinea la successione di 5 condizioni spirituali mentali attribuibili a Maria: a. Conturbatione b. Cogitatione c. Interrogatione d. Humiliatione e. Meritatione Ultima delle Laudabili Conditioni, “Meritatione”, fa seguito al congedo di Gabriele e fa parte delle rappresentazioni della Vergine da sola, il genere cioè che ora chiamiamo “Annunziata”. La maggior parte delle Annunciazioni del XV secolo sono identificabili come annunciazioni di Conturbatione o Humiliatione o di Cogitatione e/o Interrogatione. Elemento essenziale delle storie era la figura umana. Ciò che caratterizzava la figura non era tanto la sua fisionomia, quanto piuttosto il suo atteggiamento, ma c'erano delle eccezioni, specialmente per quanto riguarda la figura del Cristo. Questa figura lasciava meno spazio di altri all'immaginazione personale perché il quindicesimo secolo aveva la fortuna di essere convinto di possedere una testimonianza oculare del suo aspetto. La Vergine viene raffigurata in modo meno uniforme nonostante i presunti ritratti di San Luca e c'era una consolidata tradizione di controversie circa il suo aspetto. C'era, per esempio, il problema della sua carnagione: scura o chiara. Lo stesso per i santi, sebbene molti avessero alcuni segni fisici come elementi emblematici di identificazione. La complessa fisiognomica della medicina del tempo era troppo accademica per costituire una fonte cui il pittore potesse attingere. Leonardo da Vinci, tuttavia, considerava questa una falsa scienza; egli riteneva che il pittore dovesse limitarsi a osservare i segni lasciati sul volto delle passioni. Leonardo, sebbene continui a insistere sulla necessità di distinguere un tipo di movimento dell'altro, naturalmente trova difficile descrivere a parole gli specifici movimenti a cui si riferisce: egli si riprometteva di fornire una descrizione dettagliata dei moti, ma in realtà non lo fece mai. Leonardo suggeriva due fonti a cui il pittore potesse attingere per i gesti: gli oratori e i muti. In questo possiamo seguirlo prendendo in considerazione due tipi di persone che hanno lasciato una descrizione di alcuni dei loro gesti: i predicatori e i monaci votato al silenzio. Di questi ultimi abbiamo solo pochi cenni che consistono in elenchi del linguaggio dei segni elaborati nell’ordine benedettino per essere usati durante i periodi di osservanza del silenzio. Una fonte più utile è anche più autorevole ci viene dai predicatori, attori dotati di notevole capacità mini che con una gamma di gesti codificati. Un predicatore italiano poteva girare nel nord Europa predicando con successo perfino in luoghi come la Bretagna e raggiungere il suo effetto proprio soprattutto grazie al gesto e la qualità del suo porgere. Trattando lo stesso argomento dei predicatori, nello stesso luogo dei predicatori, i pittori inserivano nel dipinto le espressioni fisiche del sentimento secondo lo stile usato dai quando guardava Leonello d’Este. Ma a meno che Il riferimento a un codice derivasse da speciali spunti suggeriti da circostanze di questo tipo, esso non poteva far parte del normale modo di vivere l'esperienza visiva. la cosa che più si avvicina un codice e una sensibilità maggiore della nostra ai diversi gradi di preziosità delle tinte che permettono al pittore di usarle per porre qualcosa in evidenza. Le tinte non erano uguali virgola non erano percepite come uguali, il pittore il suo cliente cercavano di tenere presente più possibile questo fatto. Quando Gherardo Starnina si atteneva alle istruzioni di usare un azzurro da due Fiorini per oncia per la Vergine e un azzurro da un fiorino per il resto del dipinto, sottolineava una distinzione teologica. Ci sono tre livelli di adorazione-> - Latria-> è il massimo di adorazione dovuto solo alla Trinità - Dulia-> la reverenza per eccellenza, cioè che dobbiamo ai santi, agli angeli e ai padri della chiesa - Hyperdulia-> forma più intensa della precedente, dovuta solo alla Vergine Meglio affreschi di Starnina, l’Hyperdulia veniva misurata a due fiorini l’oncia. La Latria dovuta al padre, allo Spirito Santo e al figlio, veniva espressa con l’oro. Vi era la distinzione tra colori costosi e colori economici, l'occhio era colpito prima da quelli preziosi poi dagli altri. Per questo fatto meschino vi era un certo disgusto intellettuale e pittorico. Il disgusto si esprimeva in una disputa sulla pura relatività del colore. L’affermazione letteraria più eloquente si ebbe intorno al 1430 da parte dell'umanista Lorenzo Valla, esasperato da un assurda gerarchia araldica dei colori. A Firenze, come nella maggior parte delle altre città, un ragazzo nelle scuole laiche private o municipali- le alternative erano quelle religiose, in declino, o quelle umanistiche, rare- riceveva due gradi di istruzione. Dai sei/sette anni frequentava le scuole elementari (botteghuzza); per quattro anni proseguiva la scuola secondaria (abbaco). Qui gli studi erano più impegnativi e si concentravano sulla matematica. Pochi proseguivano sulla via dell’università, per diventare avvocati. La matematica della scuola superiore era commerciale, strutturata sulle esigenze del mercante e le sue importanti nozioni sono inserite nella pittura del Quattrocento, una di queste è: - La misurazione-> le merci sono arrivate in contenitori di misure standard solo a partire dal XIX secolo. Prima, ogni barile, botte o sacco, era unico e calcolare il suo volume in modo preciso e rapido era una condizione necessaria negli affari. Il modo in cui una società misurava i barili e ne calcolava il volume era indice delle sue capacità analitiche e delle sue usanze. In Germania, per esempio, si misuravano i barili utilizzando complessi regoli e misure, per opera di uno specialista. In Italia, invece, si utilizzavano formule geometriche e il pigreco. Piero della Francesca scrisse un manuale per mercanti, De Abaco, in cui riportava le istruzioni per misurare un barile. Vi era uno strettissimo rapporto tra il pittore e la geometria mercantile: le capacità che Piero (e qualsiasi altro pittore) usava per analizzare le forme che dipingeva erano le stesse che Piero (e qualsiasi altro commerciante) usava per misurare delle quantità. Anche il pubblico colto aveva le medesime nozioni geometriche che mettevano in campo quando osservavano i dipinti per esprimere giudizi. Questo era un modo di soddisfare la terza richiesta della Chiesa al pittore e cioè lo stimolare l’uso della vista nella sua speciale qualità di immediatezza e di forza. Per l’uomo di commercio quasi tutto era riconducibile alle figure geometriche. Questa abitudine di analisi è molto vicina a quella utilizzata dal pittore. Mentre l’uomo misurava una balla, il pittore misurava una figura. In entrambi i casi vi è la tendenza a ridurre delle messe e dei vuoti irregolari a corpi geometrici. L’uomo più affine alla visione dei concetti geometrici sarà più portato a vedere la figura di Adamo di Masaccio (La cacciata dei progenitori dal Paradiso) come un composto di cilindri e la figura di Maria di Masaccio (Trinità) come un massiccio tronco di cono. Nell’ambiente sociale quattrocentesco del pittore ciò costituiva uno stimolo ad utilizzare i mezzi che egli aveva a disposizione in modo da rendere chiaramente il suo volume-> nel caso di Masaccio la convenzione toscana di suggerire una massa indicando i toni di luce e ombra che una fonte di luce avrebbe prodotto su di essa. Per Pisanello, invece, una massa veniva resa più nota con i suoi contorni caratteristici che non con i suoi toni. L’aritmetica era l’altra branca della matematica commerciale; al centro dell’aritmetica quattrocentesca vi era lo studio della proporzione. Lo strumento aritmetico universale usato dai mercanti colti italiani del Rinascimento era la Regola del Tre, meglio conosciuta come Regola Aurea, che esprime una proporzione geometrica e rappresenta il modo in cui il Rinascimento trattava i problemi delle proporzioni. Tali problemi riguardavano: l’allevamento, la mediazione, lo sconto, l’abbuono per la tara, l’alterazione delle merci, il baratto e lo scambio di valuta. Piero della Francesca della stessa preparazione sia per un affare di baratto, sia per il sottile gioco di intervalli tra i suoi dipinti In due problemi riguardanti un calice e un pesce, il coperchio, la coppa e il piede del calice, così come la testa, il corpo e la coda del pesce sono poste in proporzione. Le operazioni sono legate a quelle concernenti lo studio della proporzione della testa di un uomo. come descrisse Leonardo. La matematica, in sostanza, rappresentava la parte relativamente più vasta della loro cultura intellettuale convenzionale. Questa specializzazione consentiva anche un’attitudine ad indirizzare l’esperienza visiva, sia nei dipinti che al di fuori di essi considerando la struttura di forme complesse come delle combinazioni di solidi geometrici regolari e come degli intervalli raggruppabili in serie. Vi è, inoltre, una continuità tra le capacità matematiche usate dalla gente di commercio e quelle usate dal pittore per produrre la proporzionalità pittorica e la lucida solidità che ci colpiscono oggi come dei fenomeni tanto rilevanti. Il “De Abaco” di Piero è la prova di questa continuità-> il ruolo attribuito a queste capacità era un incoraggiamento per il pittore a divertirsi e a inserirle nei suoi dipinti. Vi sono due generi di letteratura devota del Quattrocento che forniscono degli accenni su come l’occhio morale e spirituale possa arricchire i dipinti-> uno è un sermone sulla qualità sensibile del paradiso e l’altro è un testo in cui le caratteristiche delle normali percezioni visive vengono esplicitamente tradotti in termini morali. Secondo il primo la vista è il più importante dei sensi. “De Deliciis sensibilibus paradisi” di Bartolomeo Rimbertino (1498, Venezia) è un resoconto completo su questi argomenti. Si distinguono tre tipi di progressi rispetto alla nostra esperienza visiva di esseri umani: - Una maggior bellezza di cose viste-> sta in tre particolari: luce più intensa, colore più chiaro, miglior proporzione (soprattutto nel corpo di Cristo). - Una maggior acutezza del senso della vista-> comprende una maggior capacità di fare distinzioni tra una forma o un colore e un altro; la capacità di vedere sia a grandissima distanza che attraverso i corpi. - Un’infinita varietà di oggetti da osservare Nel secondo tipo di testo vengono discussi alcuni aspetti della nostra normale percezione terrena. “De oculo morali et spirituali” di Pietro di Limoges era un libro del XIV secolo. Uno dei metodi dell’autore era quello di prendere un certo numero di fenomeni ottici abbastanza comuni per trarne delle considerazioni morali. Egli le chiama “tredici meravigliose cose circa la vision dell’occhio, le quali contengono spirituali informatione”. L’undicesima meraviglia è un esempio che rinvia alla percezione dei dipinti, più precisamente al significato morale della prospettiva lineare del pittore del Quattrocento. Il principio della prospettiva lineare è-> la visione segue delle linee rette e le linee parallele che vanno in tutte le direzioni sembrano incontrarsi all’infinito in un unico punto di fuga. Se si uniscono l’esperienza geometrica sufficiente a percepire una costruzione prospettica complessa e una cultura religiosa per fare di questa un’allegoria, emerge un’ulteriore sfumatura che caratterizza la rappresentazione narrativa dei pittori del Quattrocento. Gli episodi di virtuosismo prospettico assumono una diretta funzione drammatica. Il Vasari indicò la loggia di scorcio al centro dell’Annunciazione di Piero come una “prospettiva di colonne che diminuiscono, bella affatto”. È degno di nota che la maggior parte delle Annunciazioni del Quattrocento, scene di morte, scene di visioni, abbiano qualcosa in comune. Secondo la cultura religiosa questo tipo di prospettiva non viene considerata solo un tour de force, ma anche come una metafora visiva, un suggestivo artificio che esprime la condizione spirituale della Vergine negli ultimi stadi dell’Annunciazione, come li abbiamo visti nella spiegazione di fra Roberto. Dipinti e categorie Si può sottolineare che nel Quattrocento esistevano uomini di affari che andavano in chiesa e danzavano e fra questi troviamo la tipica figura di Lorenzo de’Medici. Essi Il resoconto sugli artisti si trova nell’introduzione al commento sulla Divina Commedia in cui egli mirava a respingere l’accusa che Dante fosse un anti-fiorentino. La sezione su pittori e scultori, che viene dopo quella sui musicisti, si suddivide in quattro parti: - La prima descrive l’arte antica in dieci frasi, riferendosi a Plinio - La seconda descrive Giotto e alcuni pittori del Trecento e copia un critico del XIV secolo, Filippo Villani - La terza descrive i pittori fiorentini del Quattrocento - La quarta descrive alcuni scultori Masaccio Masaccio nacque nel 1401 a San Giovanni Val d’Arno e fu ammesso all’Arte dei Pittori di Firenze nel 1422. Fra il 1423 e il 1428 dipinse i suoi due capolavori a Firenze, un affresco della Trinità in Santa Maria-Novella e i diversi affreschi nella cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine. Nel 1426 dipinse anche un polittico per la chiesa di Santa Maria del Carmine a Pisa. a. Imitatore della natura-> imitatore della natura e imitatore del vero sono varianti di una delle espressioni critiche del Rinascimento di cui è più difficile cogliere la portata, un autore, infatti, era portato a rivaleggiare e a superare la natura o la realtà stessa. La natura e la realtà sono cose diverse per ciascuno e, a meno che non se ne dia una precisa definizione, non se ne sa molto di più: quale natura e quale realtà? Sicuramente la frase “imitatore della natura” rappresenta uno dei principali valori dell’arte del Rinascimento. Una caratteristica dell’imitatore della natura è il fatto di essere relativamente autonomo verso libri che presentavano delle figure di repertorio e delle soluzioni ormai accettate che costituivano una parte essenziale della tradizione pittorica (in termini negativi). Parlando invece in termini positivi, Leonardo parla di prospettiva e di luce e di ombra attraverso cui noi percepiamo le forme degli oggetti ed è appunto per la sua maestria in prospettiva e rilievo che Landino loda Masaccio. Quindi-> l’imitatore della natura è colui che si distacca dai libri per cogliere gli oggetti reali così come si presentano. Egli si basa sullo studio e la rappresentazione del loro aspetto, reso attraverso la prospettiva e il rilievo: si ottiene una realtà rivista e corretta e una natura selettiva. b. Rilievo-> Masaccio è il principale esponente del rilievo. Alberti spiegava che il “rilievo” è l’apparire di una forma modellata a tutto tondo, ottenuta trattando abilmente e discretamente i toni sulla superficie. Il termine “rilievo” era tecnico e proprio del linguaggio di bottega e anche Cennino Cennini lo usava liberamente nel suo “Trattato della Pittura” dell’inizio del Quattrocento. È un’idea comune pensare che intorno ad una certa ora del giorno, intorno alle undici, in cui la luce è in certo qual modo giusta per osservare gli affreschi in cappella Brancacci. La luce piene e le ombre vengono percepite forma solo quando si ha un’idea chiara di dove venga la luce. Se non abbiamo questa idea, perfino corpi complessi vengono visti come superfici piatte macchiate di luce e di chiazze scure. c. Puro-> puro senza ornato è quasi pleonastico, siccome “puro” praticamente significa “senza ornato”. “puro” è uno dei latinismi di Landino e conserva il senso in cui la critica letteraria aveva usato il termine per definire uno stile semplice e conciso (disadorno e laconico). Ciò fa un concetto negativo (senza ornato) e positivo (conciso e chiaro). Questa specificazione era dunque necessaria perché nella concezione critica classica e rinascimentale, a “ornato” si poteva contrappore il concetto positivo di “semplice” quanto quello negativo di “povero”. Quindi non basta dire di qualcuno che era senza ornato. “puro” ci dice che Masaccio non era né ornato né spoglio. Il termine assume significato dal suo contrasto con “ornato”: ciò che Landino intende per “ornato” si capirà meglio quando userà questo termine in senso positivo con i pittori Filippo Lippi e Beato Angelico. d. Facilita-> termine a metà tra “facilità” e “abilità”, ma senza la connotazione negativa della prima. Molto usato nella critica letteraria e veniva spiegato come il prodotto di talento naturale e capacità acquisibile sviluppata attraverso l’esercizio. La scioltezza che deriva dalla “facilita” era una delle qualità più apprezzate nel Rinascimento. Essa si manifesta in un dipinto che appare completo ma che non è ancora rifinito: i suoi nemici sono le correzioni (pentimenti), una certa riluttanza a smettere di lavorare all’opera e quel senso di stantio cui vi si può ovviare facendo una pausa. Tutto ciò riguarda più l’affresco che il dipinto su tavola. Gli affreschi del Masaccio sono ciò che si dice “buon fresco” (autentico affresco) e cioè dipinti quasi interamente su intonaco fresco. In questo egli differisce dalla maggior parte dei dipinti che non sono autentici affreschi, sono “fresco secco”, dipinti su intonaco secco. Così la “facilita” del Masaccio è facilmente misurabile dal numero ridotto di parti di affresco che hanno lasciato il loro segno sulle pareti della cappella Brancacci. Per il Vasari, che alla metà del XVI secolo ammirava le esperienze pittoriche precedenti, “facilita nel fare” era la sola qualità di cui la pittura del Quattrocento fosse rimasta più evidentemente priva. e. Prospectivo-> qualcuno che si distingua nell’uso della prospettiva. La prospettiva pittorica è legata alla “scienza della prospettiva”, un settore in cui la ricerca accademica si era intensificata nel tardo Medioevo e che potremmo chiamare: ottica. I fondamenti matematici della prospettiva attrassero i pittori che videro in essi ciò che la rendeva una scienza sistematica. Non si sa chi sia stato a adattare l’ottica alla pittura, ma Landino suggerisce il nome di Brunelleschi. Un altro che fece la stessa affermazione fu un amico di Ladino, Antonio Manetti, nel suo libro “Vita di Filippo di Ser Brunellesco”. Se Brunelleschi ne fu l’inventore, Alberti la sviluppò e la spiegò. I principi base della prospettiva del pittore del Quattrocento sono abbastanza semplici: le linee parallele che si allontanano dal piano della superficie del dipinto sembrano incontrarsi in un unico punto all’orizzonte, il punto di fuga. Le linee parallele al piano del dipinto non sono convergenti. Il modo in cui il pittore sfruttava questi principi venne dimostrato da Paolo Uccello. Il risultato è una “scacchiera” regolare che si allontana, formata da quadrati immaginari. La prospettiva sistematica porta apparentemente e naturalmente con sé la proporzione sistematica->la prima permette al pittore di provvedere alla seconda. Filippo Lippi Orfano, entrò nell’odine carmelitano nel 1421 a 15 anni. Si presuppone un legame con Masaccio che a quel tempo stava affrescando la cappella Brancacci. Lavora per la famiglia Medici. Il suo più ampio lavoro, fuori da Firenze, è costituito dai cicli di affreschi nelle cattedrali di Prato e Spoleto. Senz’altro suo figlio Filippino e anche forse Botticelli furono suoi allievi. f. Gratioso->la caratterizzazione di Lippi inizia con una parola che oscilla tra un senso più soggettivo e uno più oggettivo. 1. Che possiede grazia. 2. Piacevole in generale. Anche lo scultore Desiderio da Settignano veniva lodato per avere somma gratia. Entrambi gli artisti producevano ritratti a mezzo busto di Madonne con visi dolci e gratiose in entrambi i sensi del termine. Lippi, sebbene dotato di gratia, ha meno rilievo di Masaccio o di Andrea del Castagno: le due qualità non sono infatti del tutto compatibili. Una definizione utile di gratia è quella data dai critici letterari neoclassici, colleghi di Landino: gratia era il prodotto di varietà e ornato. g. Ornato-> la difficoltà maggiore del comprendere il senso della parola “ornato” nel Rinascimento, sta nel fatto che tale parola ci richiama i fronzoli e l’applicazione di abbellimenti-> per noi, ornato è un elemento decorativo. Nel Rinascimento, però, ciò costituiva solo una piccola parte di “ornato”. Troviamo una definizione dai letterati neoclassici: per loro, le prime due qualità del linguaggio erano la chiarezza e la correttezza, tutto ciò che si aggiungeva ad esse era “ornato”. Filippo Lippi, come Beato Angelico, era acuto, nitido, ricco, giocondo e accurato, mentre Masaccio sacrificava queste virtù in favore di una corretta imitazione del reale. Il Quattrocento utilizzava il termine “Ornato” per riferirsi all’atteggiamento e al movimento della figura. h. Varieta-> Alberti, nel suo trattato “Della pittura”, differenzia la varietà dalla pura e semplice abbondanza di materiali. Ne distingue due tipi di interesse: “copia”, profusione di oggetti; “varieta” diversità dei soggetti. La varietà è un valore assoluto, mentre la copiosità non lo è, come dice Alberti. la varietà risiede in due fattori: in una diversità e contrasto di tinte; in una diversità e contrasto degli atteggiamenti delle figure. Ci sono quadri di Lippi che sono sia copiosi che vari, ma sono i dipinti vari che i critici del Quattrocento ammiravano maggiormente. i. Compositione-> composizione intesa come un armonizzazione sistematica dei vari elementi del dipinto, volta ad ottenere l’elemento complessivo desiderato. Venne usata per la prima volta da Alberti nel 1435. Per la critica letteraria classica degli umanisti, composito era il modo in cui una proposizione veniva costruire su 4 livelli gerarchici. clausola Proposizione Clausola frase Frase Parola parola
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