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Poesia del '900: Ungaretti, Quasimodo e l'Ermetismo, Montale e Saba, Appunti di Italiano

DALLA POESIA “PURA” A QUELLA “METAFISICA”. La poesia italiana: linea novecentesca e anti-novecentesca. UNGARETTI: Guerra e desertificazione dell'Io (Il Porto Sepolto, Veglia, San Martino del Carso). L'Ermetismo e QUASIMODO: rifiuto della Storia e investigazione interiore (Ed è subito sera). MONTALE: la poetica del detrito e la disarmonia con il mondo (Spesso il male di vivere ho incontrato, Non chiederci la parola). SABA: la poesia onesta e la ricerca della verità (Amai, La capra).

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 08/07/2022

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Scarica Poesia del '900: Ungaretti, Quasimodo e l'Ermetismo, Montale e Saba e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! POESIA DEL ‘900 LA RICERCA DI UNA NUOVA FORMULA. DALLA POESIA “PURA” A QUELLA “METAFISICA”. ESISTENZA TRA FRAMMENTO E DETRITO. ❖ Introduzione A seguito del primo conflitto mondiale, facendo riferimento a Rimbaud, Baudelaire, Verlaine e Mallarmé , si sviluppa una poesia fondata su nuove forme, sia metriche che stilistiche, in grado di registrare i movimenti dell’animo e le condizioni interiori del poeta, per poi poterle esprimere. Di fronte a un cambiamento del suo stato d’animo e della sua visione del mondo, che si fa sempre più insicura rispetto alla sua identità, travolta da un conflitto bellico così sanguinario come la Prima Guerra Mondiale, il poeta si trova di fronte a un vuoto di senso, e riesce a trovare gli strumenti per esprimere la sua condizione attraverso la poesia, che ha appunto come obiettivo il recupero della propria identità. Quindi, la poesia novecentesca è estremamente difficile, perché nasce da un profondo conflitto interiore ed esteriore, per cui la poesia si richiuderà in sé stessa, per comprendere il senso della vita del poeta (disperata ricerca della propria ragion d’essere). È chiaro che tutto questo possa avvenire solo in maniera irrazionale, o meglio A-razionale, poiché la poesia diventa scavo interiore. Dunque la poesia non è più scoperta della verità assoluta (crollo della figura del poeta vate), ma è frammentarietà e DETRITO, foriero della verità di ciascuno; il poeta è solo nelle sue fragilità, e trova nella poesia l’unica vera arma per conoscere sé stesso e riportare dal buio dell’inconscio, attraverso le parole, sempre più secche aride ed essenziali, rivelatrici del viaggio interiore del poeta. La poesia che nascerà da questo viaggio sarà scarna, in alcuni casi si esaurirà in un verso o perfino in una parola, che però è ANALOGICA, all’interno della quale il momento dell’intuizione della realtà troverà una completa espressione nella parola-frammento e nella brevità dei componimenti. Si tratta di una poesia difficile, perché difficile è l’interiorità del poeta, “scandagliata” nella chiusura alla storia dell’autore – Asor Rosa ha definito questa una poesia in cui «la metafisica divora la fisica», per cui la parola diviene espressione dei risultati di autoanalisi del poeta, che non si riconosce in sé stesso e nel mondo che lo circonda. Difatti, tema dominante della poetica di questo periodo è il rifiuto della storia per privilegiare l’interiorità; per manifestare il dolore interiore, la poesia del novecento diviene dunque un urlo metafisico, che non riesce a trovare risposta, espressione in cui la parola poetica diventa strumento fondamentale. Giacomo Debenedetti individua nella poesia del Novecento due linee nel suo libro “La poesia italiana del ‘900”: - LINEA NOVECENTESCA (dominante), strumento di autocoscienza che nasce dal dolore del presente e tende a recuperare l’esistenza del poeta, il cui capostipite è Giuseppe Ungaretti, che ha nella corrente dell’ermetismo il momento più importante, e trova il suo punto d’arrivo in Eugenio Montale, Ossi di Seppia (1925); - LINEA ANTI-NOVECENTESCA, in cui i poeti più importanti non perdono mai il loro rapporto conflittuale con il reale, ma mantengono uno stretto legame con la tradizione classica, utilizzando quindi un linguaggio più chiaro, e riprendendo le forme d’espressione tradizionali, usando una lingua tradizionale e talvolta colloquiale; questa linea è aperta non solo alla storia, ma anche agli esseri umani; massimo esponente è Umberto Saba, che parte anch’egli da un conflitto interiore, senza però dimenticarsi della tradizione, aprendosi alla condivisione con gli altri. Queste due posizioni, apparentemente antitetiche, in realtà non lo sono, perché anche la linea anti-novecentesca nasce da un rapporto irrisolto con il mondo circostante. ❖ UNGARETTI Poco prima della sua morte, avvenuta nel 1970, Ungaretti raccoglie tutte le sue poesie in Vita di un Uomo, titolo che testimonia l’ispirazione soggettiva della poesia. Ungaretti nasce nel 1888 ad Alessandria d’Egitto da genitori italiani, entrambi lucchesi, che si trovavano in Egitto per il lavoro del padre, che si stava occupando del Canale di Suez. Ungaretti compie gli studi in Egitto e ci rimane fino ai 24 anni. Il fatto che le sue poesie abbiano come tema fondamentale il DESERTO è strettamente collegato alle sue origini: lui è nato in un paesaggio desertico, in cui il poeta riconosce perfettamente sé stesso; per questo, il deserto sarà il luogo in cui il poeta esprimerà la propria condizione esistenziale, la DESERTIFICAZIONE DELL’IO, che non ha una sostanza, disidratato, in continua ricerca di senso. Nel 1912 Ungaretti si trasferisce a Parigi, dove segue le lezioni di Bergson alla Sorbona, e frequenta Picasso e Polimier, considerato nel ‘900 un poeta apollinaire. In Francia, essendo la guerra alle porte, nel suo spirito futurista di interventismo, Ungaretti decide di combattere come soldato semplice. La GUERRA sarà per lui un’esperienza centrale della sua formazione poetica e umana, segnandolo in maniera indelebile per la violenza che egli non si aspettava. Da ciò deriva la sua prima raccolta di poesie, protese verso l’interiorità, intitolata Il Porto Sepolto. Tornato in Italia dopo il conflitto, egli pubblica in Italia Allegria di Naufragi, che comprende anche la raccolta precedente, la cui edizione definitiva sarà Allegria (1931). Il titolo Allegria di Naufragi (1919) fa riferimento all’ALLEGRIA, intesa come senso di pienezza di sé, provata dai navigatori dopo essersi salvati da possibili naufragi in un viaggio pericoloso, ed è così importante che poi nel 1931 Ungaretti leva di Naufragi; metaforicamente, allegria indica la sensazione provata dopo aver compiuto un viaggio dentro sé stesso, terminato con la consapevolezza dell’essere parte dell’universo → “una docile fibra dell’universo”. Così, in Ungaretti la parola è rivelatrice della realtà assoluta delle cose e scandaglio interiore dell’ignoto. Nell’attimo in cui il poeta, attraverso la mediazione dell’Io, entra in sintonia con l’universo, il poeta entra in contatto con l’eterno; la parola di Ungaretti è metafisica perché reinventa la realtà e la crea. Perciò, in Ungaretti la parola ha valore gnoseologico, perché egli tratta la condizione dell’uomo di fronte al dolore e lo rappresenta nella sua essenzialità, spoglio di ogni convinzione e modificazione, con una parola che diventa nuda, e trova nell’analogia la sua realtà. Ungaretti viene mandato al fronte del Carso, composto da una pietra carsica, porosa, che assorbe l’acqua, ove ci sono pochi alberi isolati, qualche pozzanghera, che Ungaretti chiama “colina”. Questa zona gli richiama il deserto di Alessandria d’Egitto, per cui egli vi si riconosce perfettamente: il Carso è il deserto dell’esistenza, in cui si combatte una guerra di trincea, costituita da una snervante attesa dell’attacco nemico per poi combattere, attesa foriera di morte. Da questo contesto nasce Il Porto Sepolto, da cui deriva il titolo dalla prima raccolta del 1916. Attraverso la condivisione del dolore con gli altri, l’uomo può raggiungere l’Allegria come condizione metafisica, con cui può trovare un senso alla propria vita: Ungaretti infatti presentando la sua esperienza in guerra illustra anche il suo percorso interiore: "Non sono mai stato tanto attaccato alla vita”, “è il mio cuore il paese più straziato”. La poesia, essendo strumento di autoanalisi e allo stesso tempo espressione della propria sofferenza, acquista un significato importante: uomo immergendosi nella propria interiorità, scopre la propria essenza nel dolore e nel dolore prova questa Allegria, intesa come pienezza ontologica e metafisica. L’Allegria consiste proprio in questo viaggio che l’uomo compie dentro se stesso. Ecco che assume significato l’affermazione di Asor Rosa che la poesia di questo periodo, e in particolare la linea novecentesca, è tutta metafisica ed il rapporto tra fisica e metafisica va contro la Storia. Dunque Il Porto Sepolto diventa emblematica rispetto alle altre poesie di guerra, le quali comunque mantengono sempre non la cronaca della guerra, ma i risvolti psicologici che l’esperienza traumatica della guerra ha avuto sul personaggio. ➢ Il Porto Sepolto Vi arriva il poeta e poi torna alla luce con i suoi canti e li disperde Di questa poesia mi resta quel nulla d’inesauribile segreto Il poeta vi discende (nel porto sepolto) e poi riemerge con le sue poesie e le diffonde Di questa poesia mi rimane un mistero insondabile e indicibile ANALISI →Come secondo la tecnica futurista, la poesia non presenta punteggiatura; è una poesia criptica che va interpretata. Una poesia che si staglia nella pagina come circondata dal nulla, con parole-verso che narrano il suo viaggio interiore. Il componimento si propone di cogliere l’essenza della poesia, il mistero che nasconde. Vi (avverbio di luogo che si riferisce al titolo della poesia) arriva (ma dove? Il poeta arriva in questo “porto sepolto”, perché esso diventa il luogo da cui nasce la poesia, è la fonte di ispirazione per chi scrive→ la poesia come strumento di analisi conoscitiva ed espressione poetica) il poeta (soggetto, giunge quindi in questo scrutinio interiore e, una volta conosciuto ciò che c’è di segreto in sé stesso, “torna alla luce” ) e poi torna alla luce con i suoi canti (torna in superficie, «torna alla luce», con le sue poesie) e li disperde (li getta, li disperde tra gli uomini, come se fosse una sibilla cumana). - trafitto da un raggio di sole: questo secondo verso racchiude in sé un’ambivalenza, in quanto il raggio di sole è sia luce, che illumina e porta gioia, sia un dardo che trafigge l’uomo, ferendolo, nel momento in cui gli reca dolori e dispiaceri. Il raggio di sole è metafora di vita e felicità, che però si trasforma in un’arma, essendo accostato al verbo trafiggere; la luce diventa così una spada che porta con sé solo morte, immagine -tra le due- destinata a prevalere grazie all’unico verso che viene isolato da due punti che spiegano quello che accade all’improvviso. - ed è subito sera: la sera è metafora della morte (o comunque della fine dei momenti felici), che arriva in maniera fulminea, senza che ci si renda conto che la propria esistenza volge al termine. Con questo verso Quasimodo mostra il senso della vita, la sua caducità e soprattutto il suo essere precaria. ❖ MONTALE Nasce a Genova nel 1896, da una famiglia abbastanza abbiente, da cui viene avviato verso gli studi di ragioneria, nonostante la sua vocazione prettamente letteraria. Prima raccolta di poesie esce nel 1925 (marcia su Roma nel ‘22→ esordi del fascismo) si intitola Ossi di seppia. Non ci sarebbe la poetica del primo Montale se non ci fossero state le sue estati passate nelle Cinque Terre (al confine con la Francia), presso la villa a Monterosso: sono presenti coste ripide, molto spesso i paesi sono scavati nella roccia come a rappresentare la resistenza dell’uomo nei confronti della natura, vista come ostile. Montale risente molto di questo paesaggio, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto della poesia ‘scarnificata’, difficile, ardua. Ossi di seppia sono i detriti (→ “poetica del detrito”), che spesso si trovano sulla battigia e intorno ai quali si è agganciata la seppia; una volta che la seppia è cresciuta e si è staccata dall’”osso”, questo oggetto viene portato dalla marea e abbandonato sulla spiaggia. L’osso di seppia per Montale diventa quindi la rappresentazione della condizione non solo propria, ma dell’uomo degli anni ‘20 del ‘900. La giovinezza di Montale, oltre a una lettura onnivora e alla sua passione per il canto lirico, è caratterizzata da una forte attività politica: si trasferisce a Torino ed entra nell’ambiente liberale, che ha il suo esponente più importante in un grandissimo intellettuale antifascista, Pietro Gobetti. Dopo l'edizione degli Ossi del 1925, Montale nel 1929 è chiamato a dirigere il Gabinetto scientifico letterario Vieusseux a Firenze (uno dei circoli culturali più rilevanti dell’epoca, frequentato anche da Leopardi, Manzoni, Schopenhauer, Zolà, Huxley), dove risente della poetica dell’ermetismo, qui vi rimarrà fino al 1948. Firmando il manifesto degli intellettuali antifascisti redatto dal critico Benedetto Croce, Montale prendeva posizione dichiaratamente contro il fascismo, che gradualmente acquistava sempre più potere. Le poesie della raccolta Ossi di seppia, pubblicata a Torino nella edizione di Gobbetti, si presentano immediatamente come nuove: rifiutano (come l’ermetismo) apertamente l’eloquenza dannunziana e ogni fede, ogni mito positivo. La poesia, come in Ungaretti, diventa una scelta etica, politica, civile: di fronte all’eloquenza tipica e ostentata dal fascismo, oppone una poesia cruda che testimonia una presa d’atto della condizione dell’esistenza umana. Questo non significa che Montale volta le spalle completamente alla tradizione, certamente è un anti dannunziano, ma è molto più vicino a Pascoli e mostra di aver assimilato perfettamente l’esperienza dell’intellettuale torinese Guido Gozzano a capo del movimento poetico avanguardistico, il Crepuscolarismo. Da costoro riprende la funzione negativa e antisublime della poesia, tuttavia in Montale non c’è un canto consolatorio, bensì una voce poetica ferma, amara, desolata, che parte dalla consapevolezza della propria DISARMONIA CON IL MONDO. Quindi avremo delle parole pacate che propongono una lucida indagine su una condizione metafisica dell’uomo, ossia la sua incapacità di adattarsi alla Storia e alla realtà, rifiutando ogni elemento irrazionale. Allora si capisce che con “ossi di seppia” si intendono frammenti dell’uomo gettati a riva dalla marea della vita. Ma una poesia così concepita non intende cambiare la vita, non offre certezze, bensì ha un ruolo razionalmente critico e conoscitivo. Parte dall’amara consapevolezza di un mondo spietato, disgregato, che però in Montale, a differenza della scarnificazione tecnica, non si traduce in una disgregazione formale, ma viene espressa in una struttura compositiva organica, più legata al canto, con un linguaggio estremamente puntiglioso e tecnico. Da che cosa deriva questa disarmonia da parte dell’uomo contemporaneo nei confronti del mondo? Risponde Montale con un testo del 1946 in cui si immagina un’auto-intervista: voleva che la parola, la poesia fosse più aderente alla realtà, rispetto a quella degli altri poeti. Scrive inoltre che si sentiva di vivere sotto una “campana di vetro” →Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione → idea che le realtà sensibili siano “parvenze” ingannevoli, non corrispondenti alla realtà vera delle cose. Il poeta si sentiva di vivere sotto a questa “campana di vetro” eppure sentiva di essere vicino a qualcosa di essenziale = il ‘quid’, inteso come pronome interrogativo, oppure ‘aliquid’, come pronome indefinito. In ogni modo questo QUID DEFINITIVO, che corrisponde alla realtà vera, sta al di fuori della campana di vetro, è il velo sottile (→ velo di Maya schoperioniano) della campana a separarlo dall’essenza della vita. Dunque per lui la vita all’interno della campana è inautentica perché rappresentata schopenaueriamente dalla convenzionalità del mondo come espressione della Voluptas. La poesia di Montale perciò sarà destinata alla ricerca di un varco, di una rottura di questa campana, che corrisponde alla fine dell’inganno del mondo come rappresentazione. Nello stesso tempo in cui Montale è consapevole di questa condizione metafisica e storica, egli sa anche che squarciare questo velo è un limite irraggiungibile, pur sapendo che al di là di esso c’è il quid essenziale, che dà senso alla vita. Da qui deriva la scelta di una nuova via poetica: «All'eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza». D’Annunzio assurge da antimodello per Montale (come per i crepuscolari): l’obiettivo del poeta è quello di creare una poetica che aderisca al reale, rappresentandolo non in modo idealizzato, ma cogliendolo nella sua drammaticità. Da qui la necessità di una materia poetabile al negativo, che descriva questa disarmonia col mondo = “MAL DI VIVERE”, che consiste nella separazione dalla vita vera, ossia una vita felice e realizzata, ma che sfugge e a cui si oppone una vita disarmonica, che non aderisce al reale. Il muro, l’azzurro del cielo percepibile solo a tratti, il fiume interrotto da una diga oppure da un ammasso di sassi che non gli permettono di scorrere → sono una serie di immagini, una ‘fisica’, che per Montale simboleggiano la mancanza di una realizzazione esistenziale. Eppure vi sono dei momenti in cui il poeta sembra essere vicino al quid, ma che poi non riesce mai a raggiungere. ➢ Spesso il male di vivere ho incontrato Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato. Critico GianFranco Contini afferma che nella prima raccolta montale utilizza due componenti: 1. assertiva = esprime il concetto; 2. descrittiva = scioglie il concetto in immagini. nelle altre raccolte la parte descrittiva scomparirà rendendo la comprensione delle poesie sempre più difficile. Composta da due quartine di endecasillabi, eccetto il vero finale che è più lungo. Primo verso è assertivo, i seguenti tre descrittivi: non solo le immagini, ma anche la lingua quotidiana che usa non è dura, a voler rappresentare la drammaticità di questa disarmonia con la vita. Domina la nota R e sono presenti scontri consonantici: es. rivo strozzato = fiume bloccato forse dalle foglie o dai detriti → irrealizzabilità della vita, incartocciarsi della foglia / (=enjambement) riarsa→ aridità della vita, cavallo stramazzato. “Non ho conosciuta tanto bene, all’infuori del miracolo che la divina Indifferenza (soggetto posto a fine frase, intesa come distacco da questo mal di vivere) scopre” : per Montale l’unica alternativa al male di vivere è il rifiuto della ricerca del quid definitivo. Al distico che costituiva la parte assertiva, seguono due immagini che sono l’opposto delle tre immagini precedenti, sia a livello linguistico, sia a livello fonico: la sonnolenza (=indifferenza) del meriggio (=mezzogiorno d’estate) e la nuvola (dominano vocali aperte) che è al di sopra del mondo degli uomini, ma soprattutto il falco alto levato (domina vocale aperta A). ➢ Non chiederci la parola Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco lo dichiari e risplenda come un croco Perduto in mezzo a un polveroso prato. Ah l'uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico, e l'ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro! Non domandarci la formula che mondi possa aprirti sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Composta da tre quartine formate da versi di varia lunghezza. Con il Non iniziale si apre una poesia al negativo. A differenza di D’Annunzio cultore della parola, “a noi poeti nuovi non chiederci la parola che renda regolare da ogni lato il nostro animo che è informe” perchè l’animo è in disarmonia col mondo; “e lo renda chiaro con parole scritte con lettere di fuoco e come una pianta di zafferano (=croco è termine aulico → convivenza linguaggio alto e quotidiano) perduto in mezzo a un prato polveroso” , il quale prato costituisce la parte descrittivo della condizione esistenziale dell’uomo: di fronte ad un prato polveroso non può nascere una pianta gialla di zafferano, non può esserci una parola che possa dare forma a ciò che forma non ha, ossia la nostra dissonance. All’inizio della seconda terzina ritorna il tema dell’unica soluzione che è quella dell’indifferenza: “l’uomo che se ne va sicuro nei confronti degli altri e di se stesso, e non si preoccupa della parte oscura di sé che il pieno mezzogiorno proietta sul muro scalcinato”: ecco che il groviglio che anima Montale e che chiama beato il conformista, l’indifferente, il quale è perfettamente integrato col mondo senza rendersi conto che la sua ombra si staglia sulla sofferenza del mondo. “Non domandarci la formula che possa aprirti dei mondi (D’Annunzio aveva una poesia formula che rivelasse la verità, ma i poeti nuovi non la possiedono), sì possiamo soltanto qualche sillaba sporta e priva di vita. Questo solo possiamo dirti, ciò che non siamo (→ in armonia col mondo), ciò che non vogliamo (→la Storia che ci circonda): l’ultimo verso, come sottolineato dalla anafora interna del nome, costituisce la parte assertiva. ❖ SABA Coetaneo di Ungaretti, nasce a Trieste nel 1883, ma la vita di Umberto Poli è diversa da quella di Svevo: la madre ebrea, il padre cristiano, ma quest’ultimo abbandona presto la moglie lasciando il figlio ancora in fasce. La madre, che ora deve lavorare per vivere, affida il piccolo Umberto alla nutrice Peppa, che avrà influenza molto importante: il suo cognome infatti era Sabaz. Molti critici come Gioanola e Lavagetto ritengono che Umberto elimini il cognome Poli e assuma quello di Sabaz per onorare la sua vera madre, la nutrice. In ebraico tuttavia ‘saba’ -come vuol mettere in luce Lavagetto- vuol dire anche ‘pane’: elemento base del nutrimento di ognuno, è un alimento semplice, fatto con solo con acqua, lievito e farina, che quindi rappresenta la purezza d’animo del poeta, il quale guarda spesso il mondo con gli occhi di un bambino mai cresciuto. Umberto intraprende dunque studi regolari, oltre a beneficiare della vicinanza con la mitteleuropa, che una città cosmopolita come Trieste gli offriva. Tornato a casa però il rapporto con la madre è invivibile: lei sfoga tutte le sue frustrazioni sul figlio, lo definisce colpevole del fatto di essere stata abbandonata dal marito e lo accusa di essere un peso all’interno dell'economia familiare. Quindi l’ebraismo è una componente molto forte in Saba, rispetto a Svevo, la religione ebraica infatti è di tipo matriarcale, cioè in cui la figura femminile un svolge ruolo importante, talvolta anche castrante nei confronti dei figli maschi, oltretutto la madre di Saba lo considera responsabile della fine del suo matrimonio e del fatto di essere costretta a lavorare anche per mantenerlo → origine della nevrosi. Umberto apre una libreria antiquaria, quindi raggiunge una certa autonomia da un punto di vista economico, per poi entrare in terapia psicoanalitica, presso uno dei più cari allievi di Freud che operava a Trieste, Edoardo Weiss. Questi capisce che all’origine della nevrosi di Saba c’è un complesso edipico rovesciato: si vede il principio di autorità rappresentato dalla figura materna, da cui cerca in tutti i modi di fuggire, da cui vuole emanciparsi. Solitamente è rappresentato dal padre, ma Umberto lo conoscerà solo quando avrà ormai 20 anni, quando ormai sarà cresciuto, e per poco tempo, perché poi fuggirà: Mio padre è stato per me “l’assassino”; fino ai vent’anni che l’ho conosciuto. Allora ho visto ch’egli era un bambino, e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto. Aveva in volto il mio sguardo azzurrino, un sorriso, in miseria, dolce e astuto [...] In questa poesia, in cui ricorda il loro incontro, emerge che nei confronti del padre, nonostante lo abbia abbandonato, Umberto prova una dolcezza che non ha nei confronti della madre. Comunque il contrasto con la figura materna lui non lo risolve perché prosegue con un’altra donna, Carolina (la Lina delle sue poesie), sua moglie (da cui avrà una figlia Linuccia, il suo unico vero amore) completamente simile alla
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