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Politica economica cellini-prof Di Vita, Appunti di Politica Economica

Riassunti libro cellini- Politica Economica

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 22/03/2021

claudio_quattrocchi
claudio_quattrocchi 🇮🇹

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Scarica Politica economica cellini-prof Di Vita e più Appunti in PDF di Politica Economica solo su Docsity! POLITICA ECONOMICA _ ANNO 2020_ PROF. DI VITA Cellini R III edizione- CAPITOLI: 1,2,6,7,12,13,14,15,16,17,18,19,20,21,23,22,23,24,25,26. Cryptovalute come argomento a latere; PARTE 1 _ LA POLITICA ECONOMICA E I SUOI OBIETTIVI CAPITOLO 1 _ LA POLITICA ECONOMICA E IL CONFLITTO 1.CHE COS’È LA POLITICA ECONOMICA? DEFINIZIONI: ● Secondo la definizione classica di Lionel Robbins (1935) la politica economica “è il corpo dei princìpi dell’azione o dell’inazione del governo rispetto all’attività economica”; ● La politica economica è quella disciplina che cerca le regole di condotta tendenti a influire sui fenomeni economici in vista di orientarli in un senso desiderato ( Federico Caffè, 1978); ● La politica economica è quella parte della scienza economica che studia una comunità, riguardo all’individuazione dei fini, al modo di perseguire tali fini e all’esito dell’eventuale intervento (Cellini, 2011). Le tre componenti, che costituiscono anche le tre parti concettuali in cui si articola la disciplina sono: 1) Individuazione dei fini di un corpo sociale complesso; 2) Modalità di raggiungimento di tali fini (scelta tra azione ed inazione); 3) Effetto dell’eventuale azione. 2.I FINI DI UNA COMUNITÀ Per comunità (o ente collettivo) si intende un aggregato di individui, con preferenze e obiettivi eterogenei, per questo è fisiologica la presenza di un conflitto tra i diversi obiettivi individuali. La teoria delle scelte collettive è il corpus teorico che studia se e come sia possibile individuare obiettivi per una comunità, a partire dalle preferenze degli individui che la costituiscono, e che relazioni esistano tra le preferenze individuali e le preferenze collettive. Sostanzialmente studia come arrivano all’individuazione degli obbiettivi. Solo su alcuni fini ci può essere una convergenza non problematica di tutti gli individui. Un obiettivo di massima potrebbe essere quello di evitare le situazioni inefficienti in senso paretiano (ossia quelle situazioni rispetto alle quali tutti potrebbero stare meglio e non peggio). Chi ha l’onere di rappresentare un ente composto da più unità costituenti, però, non sempre riesce ad aggregarne e rappresentarne, in modo appropriato, gli obiettivi. Talvolta, le finalità delle singole unità vengono aggregate in modo non neutrale oppure il rappresentante può perseguire prioritariamente obbiettivi propri. Di conseguenza possono sorgere conflitti tra obiettivi individuali e collettivi. Il conflitto nasce per esempio tra obbiettivi politici di natura retributiva (redistribuzione personale del reddito) e l’interesse degli specifici soggetti danneggiati dalla redistribuzione. Il conflitto potrebbe riguardare anche una singola unità, per esempio tra ragione e sentimento. La teoria assiomatica del consumatore, riesce ad eliminare dalla rappresentazione teorica questi eventuali conflitti, imponendo assiomi di razionalità alla struttura di preferenze degli individui. 3.IL PERSEGUIMENTO DEI FINI Individuati i fini, la politica economica esamina i possibili modi per perseguirli. Una prima valutazione va fatta in merito alla necessità di intervento. Vi è il conflitto tra intervento e non-intervento. Può darsi, infatti, che il raggiungimento del fine che la comunità si è posta si realizzi “naturalmente” senza bisogno di un intervento ad hoc. Se si considera il pensiero liberista il libero mercato è in grado di raggiungere da solo la Pareto-efficienza, ma potrebbe nascere un problema legato alla dimensione temporale e quindi per non aspettare tempi troppo lunghi si preferisce intervenire. Se le valutazioni collettive hanno portato alla conclusione che è necessario agire, al fine di raggiungere l’obiettivo preposto. 1 La teoria della controllabilità è quella parte della teoria della politica economica che studia sotto quali condizioni i risultati prefissati sono raggiungibili, studia quali condizioni devono essere soddisfatte affinché si raggiungano i fini prefissati. Tutto ciò viene riassunto nella ricetta di politica economica. La ricetta di polita economica è la regola che stabilisce quali azioni bisogna intraprendere per raggiungere determinati obiettivi. In essa vengono enunciati sia gli obiettivi che si intendono realizzare, sia gli strumenti da utilizzare. In numerose occasioni, le strade per raggiungere un risultato possono essere molteplici e occorre quindi individuare un criterio utile per capire quale sia la strada preferibile. In poche parole, quello che si deve risolvere è un conflitto tra strumenti impiegabili. Spesso la scelta degli strumenti risponde a precisi orientamenti ideologici, cioè ad un sistema di valori che non necessariamente è condiviso da tutte le unità che costituiscono la collettività. 4.IL RISULTATO DELL’AZIONE DELLA POLITICA ECONOMICA (RISULTATI) Può succedere che, una volta individuati i fini e i metodi, e realizzate le prescrizioni della ricetta, si verifichino risultati diversi da quelli che si erano prospettati in principio. Bisogna, dunque comprendere le ragioni del conflitto tra obiettivi previsti e obiettivi realizzati. A tal proposito, si possono avanzare numerose ipotesi, tra cui: ⮚ l’inadeguatezza del set informativo relativo all’effettiva situazione di partenza; ⮚ la mancata realizzazione degli interventi pianificati; errori nella tempistica e nella dimensione degli interventi; ⮚ una variazione delle condizioni ambientali contemporanea all’applicazione delle prescrizioni della “ricetta” o dovuta alle prescrizioni stesse. La politica economica li esamina e cerca di individuare il problema. 5.I SOGGETTI DELLA POLITICA ECONOMICA Il modello che viene utilizzato per semplificare la realtà non può dare conto di tutti i soggetti effettivamente esistenti, è comunque necessario che rappresenti esplicitamente quei soggetti il cui comportamento è rilevante ai fini del fenomeno che si sta indagando. In ogni modello utilizzabile in politica economica è necessario che figurino almeno due categorie di soggetti: ● I privati: gli individui che perseguono i propri obiettivi individuali (consumatori, imprese,…) ● Le autorità di politica economica (policy maker): il soggetto al quale spetta l’individuazione dei fini di politica economica e delle ricette da attuare; esistono diverse concezioni di policy maker, nelle diverse teorie. Concezioni policy maker: Secondo la teoria tradizionale di politica economica, l’autorità di politica economica è un ente che non ha una propria personalità, ma è semplicemente un aggregatore delle preferenze individuali; in questo ambito, quindi, il policy maker si limita a osservare le preferenze degli individui, a stabilire un fine di politica economica e a decidere se e come intervenire per realizzarlo. Anziché un unicum, l’autorità di politica economica può essere vista come un insieme di enti, differenti tra loro sotto vari profili. PRIMO PROFILO Nel modello dei bureau, Musgrave (1959) suggerisce di rappresentare l’autorità di politica economica come un insieme di tre uffici, che perseguono finalità di diversa natura (allocativa, redistributiva, macroeconomica). Quindi si distinguono in base alla natura dei fini: ● Allocation bureau (obbiettivi di efficienza allocativa microeconomica dei mercati); ● Stabilization bureau (stabilizzazione del livello del reddito e dell’occupazione, obb. macroeconomici); ● Redistribution bureau (interventi di redistribuzione del reddito). 2 dimensione indica in quale direzione sta andando il sistema economico a seguito delle misure di politica economica adottate. Le variabili obiettivo di politica economica sono quelle alle quali il policy maker attribuisce valori obiettivo che intende realizzare; gli obiettivi possono essere di tipo fisso ( raggiungere un valore puntuale o per intervallo) o di tipo flessibile (se le variabili obiettivo confluiscono in una funzione che il policy maker intende massimizzare o minimizzare, raggiungere il mx o min di funzione). Gli obiettivi, sia quelli fissi che quelli flessibili, si devono confrontare con la struttura dell’economia, descritta in un modello. Le variabili strumento di politica economica sono quelle che godono di tre proprietà (controllabilità, impermeabilità(sufficientemente isolata dagli elementi fuori controllo dall’autoità) dal contesto ed efficacia) e che possono essere utilizzate dal policy maker per raggiungere gli obiettivi prefissati. L’efficacia di una variabile su un’altra può essere misurata valutandola insieme alla derivata parziale o ricorrendo all’elasticità; in entrambi i casi, per avere efficacia, dobbiamo osservare che la sensibilità, oppure l’elasticità, sia diversa da zero. Ovviamente, in un contesto dinamico, l’efficacia di una variabile su un’altra potrebbe variare al variare dell’intervallo considerato. Nella valutazione dell’efficacia, pertanto, vi può essere un conflitto derivante dai diversi intervalli temporali presi in considerazione. 4.GLI OBIETTIVI FISSI NEL MODELLO FORMALE DI ECONOMIA POLITICA L’autorità di politica economica può porsi, nel caso di obiettivi fissi, fino a un massimo di m obiettivi, uno per ogni variabile endogena. Indichiamo con (y1 ¿ , y2 ¿ , …, ym ¿ ) i valori che l’autorità si pone come obiettivi e vediamo di stabilire se e come essi possano essere raggiunti. Si noti che, facendo questa operazione, si interpretano ora come esogeni (dati) i valori delle variabili y, prima interpretate come endogene. Poiché le variabili y dipendono dalle variabili x, l’autorità di politica economica cerca di stabilire quali valori devono assumere le x, per poter raggiungere i valori y*. In termini algebrici, se abbiamo come fine quello di raggiungere determinati valori per un numero m di variabili obiettivo e utilizziamo un numero n di strumenti, dovremmo risolvere un sistema di m equazioni in n incognite. Utilizzando le diciture proprie della politica economica, se il sistema è risolvibile si dice controllabile. Posti di fronte a un sistema di m equazioni da risolvere per n variabili incognite, sappiamo che sono possibili tre casi: a) m = n: il sistema è esattamente determinato; dal punto di vista della politica economica avremo da assegnare a ogni variabile utilizzata come strumento uno e un solo valore puntuale obiettivo; b) m < n: il sistema è sottodeterminato e ci saranno infinite soluzioni; in questo caso saremo in presenza di più strumenti che obiettivi, si avranno più gradi di libertà per scegliere quale strada percorrere tra le infinite che consentono di raggiungere gli obiettivi prefissati; c) m > n: il sistema non è risolvibile, poiché vi sono più equazioni che variabili; dal punto di vista della politica economica ci si trova in una situazione in cui vi sono più obiettivi che strumenti. In questo caso il modello di politica economica non è controllabile. Gli obiettivi non sono tutti raggiungibili. Possiamo condensare i tre casi enunciando la cosiddetta regola aurea della politica economica: Teorema della regola aurea di Timbergen (1966): “condizione necessaria affinché un modello statico e deterministico di politica economica con obiettivi fissi sia controllabile è che il numero di strumenti a disposizione del policy maker sia almeno pari al numero degli obiettivi”. Tale condizione è necessaria ma non sufficiente, dal momento che il sistema, anche quando n>m, deve essere poi risolvibile. Due precisazioni Sul teorema della regola aurea: 5 1. Un modello si definisce statico quando ignora la dimensione temporale delle variabili e dei parametri considerati; 2. un modello E detto deterministico Ogni qualvolta le variabili Da cui dipendono i suoi risultati Sono fissi. I risultati ottenuti Sono riportati in termini fissi. In termini più formali Un modello può essere deterministico Quando partendo da uno stato iniziale S0 e applicando una trasformazione T0k, Si ottiene sempre anche Lo stato finale Sk. Modello è detto statico quando tiene conto Della variabilità dei valori Che le variabili input Possono assumere. I risultati che atteniamo da questi modelli sono espressa in termini di probabilità. Quando l’autorità di politica economica si pone troppi obiettivi rispetto a quelli che può raggiungere e quindi il sistema risulta non controllabile, sono ipotizzabili tre linee di condotta: 1) lasciare perdere alcuni obiettivi (fino a che m = n): questa scelta equivale a stabilire delle priorità, ossia a individuare quali siano gli obiettivi più importanti; 2) cercare di costruire o inventare nuovi strument i; 3) abbandonare gli obiettivi fissi e perseguirne uno flessibile : questo vuol dire che si convogliano in un’unica funzione obiettivo (da massimizzare o minimizzare) i valori di tutte le variabili su cui il policy maker ha obiettivi. 5.L’OBIETTIVO FLESSIBILE Il modo più consueto di costruire funzioni obiettivo nella teoria della politica economica è il seguente: costruire una funzione che dipende da quanto la realizzazione di una variabile si discosta dal valore ritenuto ottimale dal policy maker, gli scostamenti possono essere misurati in valore assoluto, oppure se ne può considerare il quadrato e lo scostamento rappresenta una disutilità che si cerca di rendere minima. Più nello specifico, si costruisce una funzione, che viene solitamente chiamata funzione di perdita (loss- function) che assume la forma seguente: L = ( y1− y1 ¿ ) 2 + ( y2− y2 ¿ ) 2 + … + ( ym− ym ¿ ) 2. In ognuno di questi addendi c’è il quadrato dello scostamento tra la variabile endogena e il suo obiettivo. Talvolta, ciascuna di queste perdite può essere pesata con un coefficiente che indica il peso che il policy maker attribuisce allo scostamento della specifica variabile dal suo obiettivo: L = ω1( y1− y1 ¿ ) 2 + ω2( y2− y2 ¿ ) 2 + … + ωm( ym− ym ¿ ) 2. Il problema di minimizzazione della funzione di perdita è soggetto a degli ovvi vincoli: infatti, le variabili obiettivo sono legate fra di loro, e sono legate alle variabili strumento. I legami tra le variabili sono nient’altro che la struttura economica, condensata nel sistema che prima abbiamo indicato come y = Ax. Pertanto, il problema di politica economica con obiettivo flessibile è schematizzabile nel modo seguente: minx1 ,x2…, xm L = ∑ i=1 m ❑ωi( y i− y i ¿ ) 2 s.v. : y = Ax Dalla risoluzione del problema deriva il piano di politica che rende minima la perdita; in particolare, il problema deve essere risolto rispetto alle variabili x che sono utilizzate come strumenti. L’indice di malessere di Okun è un esempio di funzione obiettivo da minimizzare, nell’ambito di obiettivi flessibili che si può porre il policy maker; l’indice corrisponde alla somma tra tasso di inflazione e tasso di disoccupazione, in un dato Paese: IMO = π + u. 6 La rappresentazione grafica del c.d. “indice di malessere di Okun” è una semplice Curva di Phillips, che è possibile rappresentare graficamente come una curva decrescente in uno spazio euclideo dove riportiamo sull’asse delle ascisse il tasso di disoccupazione u e in quello delle ordinate il tasso di inflazione π. In seguito a un aumento dell’inflazione importata la curva di Phillips che rappresenta le combinazioni tra inflazione e disoccupazione si trasporrà verso l’alto a destra. 6.LA CRITICA DI LUCAS L’idea che la possibilità, per la politica economica, di raggiungere i suoi obiettivi possa essere valutata guardando alla risolvibilità di un sistema di equazioni matematiche è stata radicalmente contestata, in un notissimo articolo del 1976, da Lucas. La cosiddetta critica di Lucas si riallaccia proprio alla visione secondo cui gli individui utilizzano tutte le informazioni a loro disposizione e le elaborano in modo razionale al fine di decidere quale sia il comportamento ottimale da intraprendere. Secondo Lucas non è possibile stabilire quali siano i risultati delle politiche economiche, poiché queste, nel momento in cui sono attuate, modificano i criteri comportamentali degli individui. Più precisamente, secondo l’economista, in queste situazioni mutano i parametri che figurano nella matrice A della struttura economica y = Ax. Pertanto, calcolare i valori appropriati di x, utili a raggiungere i valori desiderati di y, è secondo Lucas, concettualmente scorretto, perché nel momento stesso in cui varia x, variano gli elementi che figurano nella matrice A. L’effetto della politica economica sulle variabili obiettivo è pertanto imprevedibile, perché non è prevedibile il modo in cui cambiano i parametri comportamentali degli individui, proprio a seguito dell’azione di politica economica. Pertanto, secondo la critica di Lucas, la politica economica ha sì effetto sulle variabili economiche, ma in un modo che non può essere previsto sulla base dei comportamenti osservati nel passato. Di conseguenza, la conclusione a cui perviene Lucas è che sia meglio, per le autorità di politica economica, astenersi da interventi attivi, proprio perché l’esito del loro intervento è sempre imprevedibile. Cittadini e policy maker sono coinvolti in un vero e proprio gioco, in cui la strategia ottimale per ognuno dipende da quello che fanno gli altri. Proprio a seguito della critica di Lucas, la teoria della politica economica ha iniziato a fare ampio ricorso a strumenti di analisi derivanti dalla teoria dei giochi. Questa nuova impostazione è talvolta indicata come “nuova teoria della politica economica”. 7 5.LE VIE D’USCITA DALL’INEFFICIENZA STATICA DI MONOPOLIO È il policy maker che deve stabilire se tollerare o meno la presenza del monopolio. ⮚ Se non la si tollera, la politica da intraprendere è quella della liberalizzazione del mercato, ovvero mettere in atto tutte quelle misure che possono favorire l’ingresso di altre imprese su un mercato servito da un’impresa monopolista; attuabile attraverso politiche di tipo istituzionale (normative antitrust) o grazie a strategie di concessione di sussidi per la produzione del bene o finalizzati a stimolare l’ingresso di nuove imprese nel mercato. ⮚ In casi diversi, il policy maker potrebbe decidere di tollerare la presenza dell’impresa monopolista, cercando però di influenzarne il comportamento per evitare il verificarsi dell’inefficienza allocativa. Se si sceglie questa strada, un primo modo di agire è quello di statalizzare l’impresa monopolista, vale a dire renderla di proprietà pubblica. Dal punto di vista teorico, questa operazione ha due giustificazioni: ● Se l’impresa monopolista realizza profitti positivi, si può ritenere giusto che questi vadano alla collettività; ● È lecito attendersi che la proprietà pubblica consenta all’impresa monopolista di non mirare al massimo profitto, bensì al massimo benessere sociale (se il mercato è in condizioni di monopolio naturale, infatti, si avranno profitti d’impresa negativi, ma la proprietà pubblica renderà possibile coprire con entrate provenienti dalla fiscalità generale le perdite operative dell’impresa monopolista che punta al massimo benessere sociale). ⮚ Se lo Stato non intende entrare direttamente nel mercato acquisendo la proprietà delle imprese, è possibile governare il funzionamento del monopolio cercando di influenzare i comportamenti dell’impresa monopolistica privata. In questo caso, il modo per influenzare il comportamento di un monopolista è quello di ricorrere a una apposita regolamentazione. Con tale termine si intende un disegno di regole alle quali le imprese di un mercato devono sottostare; esistono diversi tipi di regolamentazione (di prezzo, di quantità, di qualità, ecc.). Per esempio: il policy maker potrebbe calcolare il costo marginale di produzione e imporre il prezzo che eguaglia il proprio costo marginale di produzione. questa regola non è attuabile nel caso di monopolio naturale, perchè implicherebbe un profitto di impresa negativo. in questo caso il prezzo che rende massimo il benessere sociale è quello in corrispondenza dell’intersezione tra curva di domanda e curva di costo medio. questa regola prezzo= costo medio è un second-best perchè non garantisce la massimizzazione del benessere sociale, ma rende massimo il benessere sociale. o Ad esempio, la regola del price-cap riguarda la variazione del prezzo e consente all’impresa di aumentare il prezzo, da un anno all’altro, di una cifra non superiore a un ammontare stabilito e pari alla variazione dell’indice generale dei prezzi (tasso di inflazione, ΔP) decurtato di un certo P) decurtato di un certo fattore, denominato fattore X. La massima variazione di prezzo tollerata sarà quindi: Δpi = ΔPP – X. Il fattore X è di solito positivo, ma inferiore al tasso d’inflazione, in modo che, di norma, all’impresa soggetta a regolamentazione sia concesso un aumento del prezzo del proprio bene minore rispetto al tasso d’inflazione: in termine reali, quindi, il prezzo del bene venduto decresce. Questo non comporta per l’impresa necessariamente una contrazione dei profitti, infatti, uno degli obiettivi del price- cap è proprio quello di spingere le imprese a guadagnare in efficienza, tagliando i costi di produzione per controbilanciare la riduzione del prezzo reale che possono praticare; quanto più grande è il fattore X tanto più l’impresa sarà spinta a guadagnare in efficienza. I critici sostengono però che il metodo price-cap dinamico spinge le imprese non tanto a cercare guadagni di efficienza riducendo i costi medi, ma ad abbassare il livello qualitativo del bene, o servizio, che producono, considerato il fatto che un monopolista non ha problemi di qualità, perché, anche se regolamentata, l’impresa è senza concorrenti. 10 o Un’altra regola di fissazione del prezzo ampiamente utilizzata è quella del limite superiore al tasso di rendimento del capitale, in questo caso l’impresa deve praticare un prezzo non superiore ad un livello stabilito dall’autorità, in modo da assicurare all’impresa un tasso di rendimento normale del capitale. Anche in questo caso si possono registrare comportamenti distorti da parte dell’impresa, per esempio può indurre una sovracapitalizzazione: può trovare conveniente dotarsi di un ammontare di capitale maggiore rispetto alle sue necessità in modo che la base su cui si calcolerà il rendimento è maggiore e di conseguenza il prezzo sarà maggiore. [ price cup e limite superiore al tasso di rendimento del capitale sono interventi di controllo sui prezzi]. o Un tentativo di regolamentazione di un monopolio è quello proposto da Demsetz, che suggerisce di generare una concorrenza per il monopolio, cioè di tollerare la presenza di un’impresa monopolistica su un certo mercato, ma di spingere le imprese a competere fra loro per garantirsi questa posizione. Un tipo di competizione possibile potrebbe essere quella di un’asta in cui l’impresa che avrà fatto l’offerta più consistente vincerà la posizione di monopolista. Un’analisi teoricamente differente dell’inefficienza statica legata al monopolio è stata proposta, all’inizio degli anni Ottanta, dalla teoria dei mercati contendibili. Con contendibilità di un mercato si intende una situazione nella quale è possibile, per le imprese, entrare ed uscire da un mercato senza dovere affrontare costi irrecuperabili. In questo caso, il monopolista non potrebbe praticare un prezzo maggiore al costo medio, perché, se lo facesse, esisterebbero possibilità di profitto per potenziali entranti, cioè sarebbe sempre possibile per qualche impresa entrare nel mercato e vendere a un prezzo più basso di quello praticato dal monopolista e quindi uscire dal mercato avendo avuto un profitto positivo. Tuttavia garantire la contendibilità del mercato è molto difficile, perché nella realtà i costi irrecuperabili esistono e spesso non sono trascurabili. 6.GLI ALTRI CASI DI POTERE DI MERCATO L’inefficienza allocativa imputabile al potere di mercato non è confinata al caso di monopolio; in tutti i casi in cui l’impresa gode di un potere di mercato, infatti, l’allocazione che ne massimizza il profitto vede un allontanamento del prezzo dal costo marginale di produzione. 11 COURNOT Per esempio, l’oligopolio alla Cournot (nel mercato opera un numero limitato di imprese) produce un allocazione di equilibrio che non è efficiente in senso allocativo. Ciascun oligopolista punta al proprio massimo profitto scegliendo la quantità da produrre. La decisione di produzione di ogni impresa incide sulla quantità complessiva immessa sul mercato, che si ripercuote sul prezzo, determinando dunque i profitti di tutte le altre imprese. Ci si trova perciò in un contesto di interdipendenza strategica: il meglio che può fare un oligopolista dipende da quello che si attende che faccia l’altro. Anche l’oligopolio alla Cournot genera un efficienza statica, perché il prezzo ottimo per l’impresa è diverso dal costo marginale di produzione. In termini di allocazione di mercato, l’oligopolio produce una situazione intermedia tra monopolio e perfetta concorrenza: la quantità complessivamente immessa in un mercato di questo tipo è maggiore rispetto alla quantità di monopolio, ma minore rispetto alla quantità che rende massimo il benessere sociale. È auspicabile, dunque, un intervento pubblico a correzione del mercato. Un’allocazione inefficiente si verifica anche nel caso in cui le scelte delle due imprese non siano simultanee, come avviene nel modello di Cournot, ma sequenziali, come suggerito dal modello di Stackelberg. BERTRAND Se la variabile di scelta delle imprese è il prezzo da praticare, anziché la quantità da produrre (oligopolio alla Bertrand), l’esito è molto diverso. Nel caso in cui tutte le imprese abbiano la medesima struttura dei costi, l’unica situazione di equilibrio risulta essere quella in cui si stabilisce un prezzo pari al costo marginale; ogni altra configurazione, infatti, non sarebbe stabile in quanto ciascuna impresa potrebbe accaparrarsi l’intero mercato tagliando il prezzo e continuando ad avere profitti positivi. Nel caso in cui le imprese producono beni omogenei, competono nei prezzi, ma hanno strutture di costo differenti, succederà che l’impresa con i costi di produzione più bassi potrà accaparrarsi l’intero mercato, fissando un prezzo leggermente inferiore al costo medio di produzione delle altre imprese. Pertanto, l’oligopolio alla Bertrand determina un equilibrio che replica la perfetta concorrenza (p = c’) nel caso in cui le imprese producano beni omogenei e abbiano la medesima struttura dei costi. Questo risultato è noto come paradosso di Bertrand. Dal punto di vista della regolamentazione, se l’autorità di politica economica fosse in grado di far competere imprese oligopoliste che producono beni omogenei nei prezzi anziché nella quantità, potrebbe raggiungere l’efficienza allocativa. Tuttavia il paradosso di Bertrand non vale nel caso in cui i beni prodotti siano differenziati. Anche la concorrenza monopolistica porta a configurazioni che non sono efficienti in senso allocativo. Ricordiamo che la concorrenza monopolistica è una forma di mercato nella quale ogni impresa produce un bene differenziato rispetto a quello prodotto da tutti i concorrenti. Tuttavia, rispetto al monopolio, nel regime di concorrenza monopolistica i prodotti delle singole imprese esibiscono un certo grado di sostituibilità e inoltre si assume che sia possibile, nel tempo l’ingresso di nuove imprese che producono beni parzialmente sostituibili con quelli già sul mercato; ciò dà luogo a una concorrenza tra nicchie. Il processo di ingresso di nuove imprese, e di concorrenza tra nicchie, continua fino a quanto i profitti delle imprese presenti non tendono a zero. In questa situazione, il prezzo del prodotto tende a eguagliare il costo medio, ma non è comunque vero che il prezzo risulta uguale anche a quello marginale. L’impresa, dunque, non sta operando nel punto di minimo costo medio, sicché è corretto affermare che la concorrenza monopolistica di lungo periodo non conduce a una situazione di efficienza allocativa, pur determinando profitti teoricamente nulli per le imprese. 7.IL CARTELLO Un cartello è un accordo tra le imprese oligopoliste teso a massimizzare una funzione obiettivo comune, generalmente la somma dei profitti individuali. Tale accordo porta le imprese a produrre una minore quantità rispetto al caso di assenza di accordo (competizione alla Cournot), e quindi conduce al prevalere di un prezzo di mercato maggiore, con un danno per il benessere dei consumatori e per il social welfare. Più in generale, si configura come un accordo di cartello ogni intesa tra imprese volta a modificare l’allocazione di mercato in favore delle imprese stesso e a danno dei consumatori. 12 mercati. Di fatto, lo Sherman Antitrust Act risultò poco efficace nel combattere il formarsi di monopoli e quindi, nel 1914, proprio con questa finalità, venne varato il Clayton Act. Il Clayton Act individua, sanzionandoli, alcuni comportamenti ritenuti responsabili di portare a situazioni di monopolio; tra questi, le pratiche di discriminazione di prezzo, le pratiche di vendita di un bene condizionata all’acquisto di un altro bene, le pratiche di contratti in esclusiva. Inoltre, nel Clayton Act sono previste restrizioni alla possibilità di fusioni e acquisizioni di imprese. La normativa non condanna tali pratiche in se stesse, ma solamente nel caso in cui rappresentino un mezzo per ridurre significativamente la concorrenza in un settore. Sempre nel 1914, venne istituita, con il Federal Trade Commission Act, un’autorità governativa garante della concorrenza. Successivamente (1938) a questa autorità venne attribuito il compito esplicito di tutelare i consumatori. 4.LE ESPERIENZE EUROPEA E ITALIANA Gli articoli 81, 85, 86 e 92 del Trattato di Roma (trattato istitutivo della Comunità Europea), del 1957, rappresentano, storicamente, il primo atto di normativa antitrust per i Paesi europei. L’articolo 81 recita che “sono da considerare vietate, in quanto incompatibili col mercato comune, tutte le pratiche di accordo tra sottoscrittori e associazioni che possono influenzare il commercio tra gli stati membri e che hanno come obiettivo quello di prevenire, restringere o distorcere la competizione all’interno del mercato comune…”. L’articolo 85 precisa che sono consentite le intese fra imprese che determinino miglioramenti nella produzione o nella distribuzione dei beni, a vantaggio dei consumatori, e che comportino progressi tecnologici. L’articolo 86 vieta lo “sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato comune o su una parte rilevante di esso”. Infine, l’articolo 92 vieta gli aiuti concessi dagli Stati che favoriscono specifiche imprese, falsando così la concorrenza; sono tuttavia tollerati aiuti regionali destinati allo sviluppo economico, aiuti rivolti a incentivare particolari comportamenti d’impresa e aiuti settoriali. La logica del Trattato di Roma è stata ripresa da specifiche normative antitrust nei vari singoli Paesi europei. In Italia, l’articolo 41 della Costituzione tutela la libera concorrenza, ma è soltanto con la Legge 287 del 1990, esattamente un secolo dopo la nascita della normativa antitrust americana, che vede la luce una coerente normativa a tutela della concorrenza. Con la nuova legge, tra le altre cose, si è istituita l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, andando a rafforzare quel sistema di autorità di sorveglianza di specifici mercati cui si era data vita negli anni precedenti e che sarà sempre più potenziato in quelli successivi. Modus operandi dell’Autorità: in un primo momento si procede alla definizione del mercato rilevante, esaminando il grado di sostituibilità tra prodotti diversi; successivamente si passa alla rilevazione della posizione dominante, si valuta considerando la quota di mercato, l’esistenza di barriere all’entrata e all’uscita, etc..; infine si conclude il procedimento con la determinazione dell’abuso, in relazione a comportamenti ritenuti lontani dalle forme di concorrenza. 5.LE AUTORITÀ DI SETTORE Accanto all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), in Italia, come nei principali Paesi industrializzati, operano autorità di settore (authorities) che hanno il compito di vigilare sui comportamenti delle imprese attive in specifici settori. Rispetto all’autorità antitrust, che ha il generale compito di tutelare la libertà di concorrenza in tutti i settori e su tutto il territorio nazionale, le varie authorities hanno compiti più specifici e/o ambiti di intervento maggiormente circoscritti. In alcuni casi (com’è stato per il mercato 15 dell’elettricità e del gas), hanno avuto il compito di vigilare sul processo di privatizzazione delle imprese pubbliche esistenti e sulla progressiva liberalizzazione dei mercati. L’esistenza di autorità garanti della concorrenza non può, di per sé sola, costituire un elemento di tranquillità circa il trasparente funzionamento dei mercati. Le autorità, infatti, agiscono in un contesto di informazione asimmetrica in cui il reperimento di informazioni presso le aziende è costoso e le asimmetrie possono essere rilevanti. In alcuni casi, l’autorità di controllo potrebbe diventare eccessivamente accondiscendente verso le esigenze delle imprese che operano su un mercato vigilato. Altre problematiche correlate al funzionamento del sistema di autorità garanti sono i costi di mantenimento della struttura, spesso non trascurabili, e il rischio di sovrapposizione, quando non di conflitto, tra le molteplici autorità esistenti, che spesso incrociano i settori di interesse. In sostanza: è ingenuo credere che l’esistenza delle autorità sia sufficiente a garantire il trasparente funzionamento dei mercati. 6.LA LIBERALIZZAZIONE E LA PRIVATIZZAZIONE I due processi, benché non siano sinonimi, spesso si affiancano: per liberalizzazione si intende l’ingresso di nuove imprese su mercati serviti da monopolisti; per privatizzazione si intende il passaggio di proprietà delle imprese (parziale o totale) da soggetti pubblici a soggetti privati. Un primo dibattito riguarda l’ordine temporale da seguire, se prima liberalizzazione o prima privatizzazione. Se la privatizzazione precede la liberalizzazione, l’impresa pubblica potrà essere venduta ai privati a un prezzo maggiore perché, almeno per un certo lasso di tempo, il privato che acquisisce l’impresa potrà operare su un mercato nel quale non vi sono concorrenti; d’altro lato, questa opzione consegna il mercato a un monopolio privato (almeno per un certo lasso di tempo), con le inefficienze allocative che ne conseguono. Altro grande tema di dibattito è stato quanto rilevante avrebbe dovuto essere la privatizzazione delle imprese pubbliche che operavano in settori strategici, come quello del settore dei servizi, dove molti operatori e imprese godono ancora di condizioni di scarsa concorrenzialità, potendo così praticare prezzi di monopolio.Prezzi non concorrenziali praticati in questi settori si traducono in condizioni di costo penalizzanti per le imprese locali, che spesso non hanno fonti di approvvigionamento alternative. In alcuni casi, la vendita di pacchetti azionari di proprietà pubblica non è stata totale e lo Stato ha mantenuto il controllo di alcuni pacchetti azionari. Di conseguenza si è avuta una privatizzazione parziale. I processi di privatizzazione e liberalizzazione dei mercati hanno riguardato anche i Paesi che hanno affrontato la transizione da sistemi di economia pianificata di tipo comunista al libero mercato. Abbandonare il sistema pianificato, come è avvenuto agli inizi degli anni Novanta in tutti i Paesi dell’Europa orientale, ha voluto dire molto più che privatizzare e liberalizzare i mercati. Per esempio, la liberalizzazione dei prezzi ha generato, in molte economie in transizione, problemi di inflazione e di iperinflazione; inoltre, il mutamento dei prezzi relativi ha generato profonde variazioni nella distribuzione settoriale e personale dei redditi, conducendo a un considerevole ampliamento della povertà. Negli ultimi anni, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato è intervenuta più volte per vigilare sulle dinamiche dell’economia dei big data, per tutelare il consumatore nelle transazioni online. I c.d. «Big Data» In statistica e informatica la locuzione bigdata ("grandi [masse di] dati o megadati, indica genericamente una raccolta di dati informativi così estesa in termini di volume, velocità e varietà da richiedere tecnologie e metodi analitici specifici per l'estrazione di valore o conoscenza. Da un lato, i big data sono descritti come un input essenziale controllato da imprese dominanti, che costituisce una barriera all’entrata, consolida le posizioni di mercato e consente pratiche commerciali a danno dei consumatori. Dall’altro lato, i big data sono descritti come una commodity, un input che può essere acquisito attraverso una molteplicità di mezzi e che consente alle imprese di offrire ai consumatori servizi innovativi. La lettura del rapporto tra big data e concorrenza attraverso le lenti tipiche dell’analisi antitrust suggerisce che queste due visioni del mondo non costituiscono due modelli teorici da valutare in astratto, ma due descrizioni che vanno considerate empiricamente alla luce delle caratteristiche specifiche dei diversi mercati e servizi (Pitruzzella,Il problema dei big data). 16 La nuova Commissione Europea vuole presentare delle linee guida per la gestione dei dati, l’intelligenza artificiale e nella politica industriale; Oggi il 4 5 società al mondo ( Google, Amazon, Apple e Facebook, etc. etc.) gestiscono l’80% dei dati dell’intera popolazione mondiale. L’Europa produce moltissimi dati e rappresenta un quarto del PIL mondiale. I dati hanno un altissimo valore economico, in quanto forniscono informazioni preziose sui consumatori e, in generale, sui mercati. La quantità di dati si raddoppia ogni 18 mesi! Dati economici, industriali, pubblici, privati, legati alla sanità o ai trasporti; I dati hanno un altissimo valore economico, in quanto forniscono informazioni preziose sui consumatori e, in generale, sui mercati. CAPITOLO 9 _ L’INTERDIPENDENZA STRATEGICA COME CAUSA DI FALLIMENTO DEL SISTEMA DI MERCATO 2.LA TASSONOMIA DEI GIOCHI Ogni gioco è costituito dai seguenti elementi: ● I giocatori: i soggetti impegnati nella relazione di interdipendenza; ● Le strategie: le azioni (o le sequenze di azioni) tra le quali ciascun giocatore può scegliere; ● Gli esiti (guadagni o pay-off): l’insieme dei risultati che conseguono i singoli giocatori, in corrispondenza di ogni possibile combinazione di strategie. I giochi possono essere classificati : ● Secondo la natura del gioco: in questo caso distinguiamo i giochi cooperativi, dove è ammesso che i soggetti contrattino fra loro le azioni da intraprendere e stringano accordi vincolanti; e i giochi non- cooperativi, dove, invece, è inammissibile o impossibile che i soggetti stringano fra loro accordi vincolanti. Pertanto, l’esito dipende semplicemente dalle azioni messe in atto da ciascuno. o All’interno dei giochi non-cooperativi, si può distinguere tra giochi a somma fissa (nei quali l’ammontare complessivo per la società è dato e quindi ciò che guadagna un giocatore è necessariamente perso dagli altri) e giochi a somma variabile (nei quali l’ammontare complessivo a disposizione della società, cioè la dimensione della torta da spartire, non è fissa, bensì dipende essa stessa dalle azioni messe in atto dai giocatori). ● Secondo la dimensione temporale: un gioco può essere one-shot, ossia a colpo secco, quando la situazione d’interazione si propone una volta soltanto e quindi ha una natura atemporale; ripetuto, quando la medesima situazione d’interazione si ripresenta più volte e, al limite, un numero infinito di volte; dinamico, quando l’interazione si svolge nel tempo e almeno una variabile rilevante cambia nel corso del periodo considerato; evolutivo, quando l’interazione si svolge nel tempo e cambia il contesto istituzionale entro cui la stessa ha luogo. ● In base all’ordine con cui i giocatori assumono le proprie decisioni: dividiamo i giochi in simultanei (le scelte vengono prese simultaneamente) e sequenziali (le scelte dei giocatori si susseguono secondo un ordine noto). ● Secondo le strategie: esse possono essere definite in modo discreto (ogni agente ha a disposizione un numero definito di possibili mosse), oppure su un intervallo continuo (ogni agente ha come variabile di scelta un numero contenuto in un intervallo di numeri reali e pertanto l’insieme di scelta ha infiniti elementi). La strategia può anche essere pura (il giocatore sceglie una delle mosse a disposizione) oppure mista (il giocatore definisce scelte probabilistiche, ossia si affida alla sorte nella mossa da attuare). 17 disponibilità a giocare la mossa che potrebbe condurre all’esito efficiente (C-C). In questo modo, la scelta di giocare la mossa C da parte di ciascuno dei giocatori si configura non tanto come una scelta altruista, ma come una scelta orientata al vantaggio individuale, in un’ottica di lungo periodo. Tuttavia, affinché il teorema valga è necessario che gli individui diano adeguato peso al futuro; inoltre l’eventuale momento in cui il gioco termina deve essere sconosciuto. In sintesi, il folk-theorem mostra che la ripetizione di situazioni di interdipendenza, pur se conflittuali, dà luogo a comportamenti cooperativi, come le scelte razionali individualmente ottimali. Chi crede alla validità del folk-theorem, non ritiene pertanto che sia strettamente necessario un intervento esogeno per scongiurare il manifestarsi di situazioni inefficienti in presenza di interdipendenza strategica ripetuta. 5.IL GIOCO DELLA BATTAGLIA DEI SESSI Il gioco racconta di due fidanzati (M e F) che non possono comunicare perché si sono scordati i telefoni a casa, ma che sanno che si devono incontrare la domenica pomeriggio; il problema è rappresentato dal fatto che i due non hanno deciso preventivamente se andare al cinema o alla partita. Per entrambi è prioritario passare una giornata con il partner, ma lui (M) preferirebbe vedere (con lei, F) la partita, mentre lei preferirebbe trascorrere con lui una giornata al cinema. Ciascuno dei due può scegliere tra la mossa “andare al cinema” (C) e la mossa “andare alla partita” (P). Si noti che ciascun giocatore non possiede una strategia dominante: per M, per esempio, è meglio scegliere P nel caso che F scelga P, ma è meglio scegliere C, nel caso che F scelga C. Vale lo stesso per F. Nel gioco esistono due equilibri di Nash nell’ambito delle strategie pure, ossia (P-P) e (C-C): in ciascuno di questi casi, ognuno dei due giocatori è contento delle propria scelta, anche dopo avere visto la scelta del partner. Inoltre, le due allocazioni di equilibro di Nash sono entrambe Pareto-efficienti. Il fatto, però, che esistano due equilibri nelle strategie pure, entrambi Pareto-efficienti, fa sì che non si possa prevedere ex-ante quale situazione si verrà effettivamente a verificare, quando il gioco avrà luogo. La conclusione che si raggiunge è che una soluzione sia rappresentata dall’affermarsi di alcune istituzioni, intendendo come istituzione, in maniera molto semplice, un comportamento consolidato, sia esso formalizzato da norma di legge o meno. In altre parole, le istituzioni possono essere viste come un modo per risolvere l’indeterminatezza (e la possibile inefficienza) che si viene a creare in tutti quei casi in cui l’interdipendenza dà luogo a una pluralità di equilibri di Nash che siano tutti Pareto-efficienti. L’istituzione potrebbe essere data da fuori, da un’autorità esogena, ma potrebbe anche nascere come risultato della ripetizione dell’interazione. 6.IL RUOLO DELLA POLITICA ECONOMICA IN PRESENZA DI INTERDIPENDENZA STRATEGICA TRA GLI AGENTI PRIVATI In questo ambito, la politica economica agisce nella sfera del disegno istituzionale. Un modus operandi alternativo dell’autorità di politica economica è quello di intervenire modificando gli esiti del gioco. Per esempio, l’introduzione di un’appropriata ammenda pecuniaria per chi proviene da sinistra e non dà la precedenza comporta una modificazione dei pay-off del gioco, e quindi porta a un nuovo gioco, nel quale l’equilibrio di Nash diventa unico e Pareto-efficiente ed è quindi ragionevole attendersi che rappresenti effettivamente l’esito del gioco. L’azione di un policy maker tesa a modificare i guadagni dei giocatori coinvolti in un gioco viene detta politica economica strategica. La modifica dei pay-off è rilevante perché si potrebbe configurare per un soggetto una strategia dominante che prima non possedeva. La conclusione sostanziale è che la politica economica può essere utile per scongiurare l’instaurarsi di situazioni inefficienti, in presenza di interdipendenza strategica. Il modus operandi della politica economica può essere quello di intervenire per modificare i pay-off, oppure quello di imporre dall’esterno un’istituzione, ossia delle regole di comportamento. 20 È egualmente possibile argomentare che gli stessi giocatori, in prima persona e senza l’intervento esterno della politica economica, potrebbero cercare di modificare i pay-off della matrice dei guadagni per condurre l’esito del gioco verso l’allocazione desiderata. I comportamenti dei giocatori tesi a modificare la configurazione dei guadagni dei giochi vengono denominati mosse strategiche. Per esempio, può essere una mossa strategica quella di “legarsi le mani”, ossia di impegnarsi in modo credibile a non giocare una certa mossa. In alcuni casi (gioco degli eserciti) in presenza di interdipendenza strategica, limitare le proprie possibilità di scelta (ossia ridurre il proprio insieme decisionale) può portare a migliorare il proprio benessere. 7.UNA RIFLESSIONE CONCLUSIVA In situazioni di interdipendenza strategica, la razionalità individuale volta all’ottimizzazione della propria condizione può portare a esiti collettivamente inefficienti, come mostra chiaramente il gioco del dilemma del prigioniero. In questi casi, quindi, degli interventi esogeni appropriati possono apportare efficienza. Anche in tale contesto, però, si ripropone il conflitto ideologico tra chi sostiene la necessità di interventi di politica economica e chi ritiene migliore un comportamento non attivo della politica economica. Infatti, vi è chi segnala che il ripetersi di situazioni di interdipendenza rende i soggetti coinvolti maggiormente consapevoli, capaci di riprodurre esiti efficienti, e, quindi, rende non necessario l’intervento della politica economica. Allo stesso tempo, però, vi è chi invoca, invece, l’intervento attivo di politica economica come l’unica strada sicura per scongiurare l’instaurarsi di allocazioni inefficienti. L’intervento, naturalmente, può prendere forme diverse: dal disegno istituzionale delle regole del gioco, all’intervento di modifica degli esiti per i soggetti coinvolti. PARTE 3 _ POLITICHE REDISTRIBUTIVE CAPITOLO 12_ LA DISTRIBUZIONE DEL REDDITO E IL BENESSERE SOCIALE INTRODUZIONE Esistono diverse prospettive sotto le quali valutare la distribuzione del reddito: ● distribuzione personale del reddito: il modo in cui il reddito si distribuisce tra i soggetti che compongono la comunità; ● distribuzione funzionale del reddito: si concentra su come il reddito si distribuisce tra i fattori produttivi che hanno concorso a produrlo (nel particolare il capitale ed il lavoro); ● distribuzione sociale del reddito: si concentra sul modo nel quale il reddito si ripartisce tra le classi sociali (ad esempio tra capitalisti e lavoratori); ● distribuzione spaziale del reddito: si concentra sul modo nel quale il reddito si ripartisce tra le aree geografiche che costituiscono un’economia; ● distribuzione settoriale del reddito: come il reddito si ripartisce tra i settori che compongono un’economia. 2.LA DISTRIBUZIONE PERSONALE DEL REDDITO. 2.1 QUALE VARIABILE E QUALE UNITÀ DI ANALISI? Il primo problema da affrontare riguarda quale variabile da considerare; ci si può focalizzare sul reddito (lordo o netto), su specifiche forme di reddito ( salari) oppure sui consumi. Un secondo problema riguarda la definizione di quale unità considerare. Infatti, anche se in genere si guarda al singolo individuo, la famiglia potrebbe rappresentare un unità di analisi più adeguata. Tuttavia, le famiglie differiscono tra loro per numerosità e composizione. Per superare questo problema, si ricorre all’utilizzo di scale di equivalenza. Secondo la scala composta dall’Ocse, ogni adulto aggiuntivo in una famiglia equivale a 0,7 adulti e ogni minorenne aggiuntivo è pari a 0,5 adulti; in questo caso una famiglia composta da due adulti e due minorenni corrisponde a 2,7 adulti-equivalenti. 2.2 Le misure statistiche della dispersione e della concentrazione. 21 Il reddito è un carattere misurabile che si ripartisce in modo non uniforme tra i componenti di un gruppo. Le scienze statistiche hanno elaborato numerosi indicatori allo scopo di valutare la variabilità e la concentrazione nella distribuzione di caratteri. Gli indicatori utilizzati sono: ● indicatori di dispersione (o variazione): esprimono quanto una distribuzione sia dispersa intorno alla sua media. Si utilizzano la varianza, lo scarto quadratico medio (radice quadrata della varianza), lo scostamento medio assoluto dalla media ed il (bisogna ordinare i soggetti in modo crescente rispetto al reddito posseduto e si divide il gruppo ordinato in dieci sottogruppi. Il rapporto fra il reddito medio del decimo e del primo decile fornirà un’indicazione della diseguaglianza distributiva); ● indicatori di concentrazione: forniscono una misura di quanta parte di un carattere misurabile sia posseduta da una data frazione della popolazione. Si utilizzano la curva di Lorenz (si considera il gruppo di soggetti da esaminare, ordinati in modo crescente rispetto al reddito personale, e si calcolano le distribuzioni cumulate del reddito, ottenendo così una curva che, in caso di distribuzione egualitaria, coincide con la bisettrice che taglia in due parti uguali il primo quadrante ed avente angolo di 45°. Quanto più la curva di Lorenz si allontana dalla bisettrice, tanto meno equamente il reddito sarà distribuito) e l’indice di Gini (è dato dal rapporto tra l’area H, che è l’area compresa tra la retta a 45° e la curva di Lorenz, e l’area del triangolo ORT. Poiché l’area del triangolo ORT è base per altezza fratto due, si può affermare che l’indice di Gini è pari al doppio dell’area H. Questo indice può assumere valore compreso tra 0, che è la distribuzione perfettamente equa, ed 1, che è la massima concentrazione nella distribuzione del reddito. Quanto più lontana è la curva di Lorenz dalla bisettrice, tanto più l’indice di Gini si avvicinerà ad 1 e quindi tanto più iniqua sarà la distribuzione del reddito ). 2.3 I CONCETTI E GLI INDICATORI DI POVERTÀ La povertà è una condizione di una fascia di popolazione che vive in condizioni particolarmente disagiate. Esistono 2 differenti concetti di povertà: ⮚ povero assoluto: colui che può contare su un reddito giornaliero non superiore a 1 o 2 dollari e che gode di un reddito annuo inferiore a 390 dollari; ⮚ povero relativo: colui la cui condizione dipende dal reddito individuale e dal contesto nel quale il reddito è percepito. Si definisce povero relativo colui il cui reddito equivalente è inferiore rispetto al 50% del reddito individuale medio della comunità di riferimento. Reddito equivalente: si intende il reddito di cui un componente della famiglia dovrebbe disporre per avere lo stesso livello di benessere economico nel caso in cui vivesse da solo. Si ottiene rapportando il reddito familiare alla dimensione della famiglia in termine di adulti-equivalenti, consentendo di confrontare i livelli di reddito di famiglie di dimensione diversa. 4.IL LEGAME TRA DISTRIBUZIONE DEL REDDITO E BENESSERE SOCIALE. Secondo il teorema di Atkinson, se ogni individuo ha funzione di utilità crescente e concava nel livello del proprio reddito e se l’ammontare complessivo di reddito in una comunità non dipende dal modo in cui è distribuito, allora una distribuzione più equa del reddito è associata ad un più alto livello di benessere sociale: La prima ipotesi (= se ogni individuo ha funzione di utilità crescente e concava nel livello del proprio reddito) equivale a dire che l’utilità di ogni individuo dipende dal reddito, e ciò vuol dire che dosi aggiuntive del 22 istituzione obbligatoria dell’assicurazione per gli infortuni sul lavoro e, grazie al regime fascista, fu istituito in Italia quello che oggi chiamiamo comunemente INPS. Dopo la seconda guerra mondiale, in tutti i Paesi occidentali con sistemi di libero mercato, si registrò un’enorme espansione quantitativa e qualitativa dell’intervento pubblico nell’economia con finalità sociali. Dopo gli anni ‘70, a seguito delle crisi economiche generate dal primo shock petrolifero, sorsero i primi dubbi sulla sostenibilità dello stato sociale dovuti a fattori economici, sociali e politici. 3.LA STRUTTURA DELLA SPESA PER LO STATO SOCIALE. Nell’ultimo quindicennio la quota della spesa sociale sul PIL è stata poco superiore al 26%. L’articolazione della spesa era invece composta da: ● previdenza (in particolare la spesa pensionistica); ● assistenza (contributi per particolari condizioni di lavoro, come la disoccupazione); ● sanità. Il sistema dello stato sociale in Italia si è concentrato prevalentemente sui rischi di vecchiaia ed è stato meno attento rispetto ai “nuovi” bisogni. 4.LA PREVIDENZA. Coincide con la spesa per le pensioni. La previdenza sta ad indicare che in una fase della vita (quella lavorativa) si verseranno contributi in modo tale da poter contare, nella fase successiva della vita (quella del pensionamento), su una rendita che rappresenta una fonte di reddito non da lavoro. Nell’ambito del welfare state, lo Stato interviene per rendere obbligatorio il risparmio pensionistico per 3 ragioni: 1. l risparmio pensionistico è un bene di merito e gli individui privati, lasciati a sé, non sarebbero in grado di percepire quanto importante sia il risparmio finalizzato alla costruzione di una rendita pensionistica; 2. le asimmetrie informative tra individui ed enti pensionistici sono rilevanti, e questo provoca fallimenti microeconomici di mercato; 3. la presenza di una parte della popolazione non coperta da forme di pensione configurerebbe una esternalità negativa per l’intera società. Esistono diversi tipi di pensione: ● pensione di vecchiaia: trasferimenti percepiti da persone che hanno raggiunto un’età avanzata e che sono tenute a ritirarsi dal lavoro; ● pensione di anzianità: trasferimenti percepiti da persone che decidono di ritirarsi dal lavoro e di percepire quanto possono in base a quanto hanno versato; ● pensione di reversibilità: trasferimenti percepiti dal coniuge o dai figli di chi ha versato i contributi ed è venuto a mancare; ● pensione di invalidità: trasferimenti percepiti da persone che si trovano in condizioni tali da non poter esercitare una normale attività lavorativa; ● pensione sociale: trasferimenti percepiti da soggetti che sono privi di mezzi di sostentamento. Le pensioni di tipo diverso da quella di anzianità e di vecchiaia hanno una natura assistenziale, questo è una delle cause dei disequilibri finanziari che caratterizzano gli enti pensionistici italiani. 4.1 I SISTEMI PENSIONISTICI. Possono essere organizzati secondo 2 logiche alternative: 25 sistemi a capitalizzazione: ciascun lavoratore versa i contributi all’ente pensionistico, che a sua volta li impiega in investimenti finanziari che producono interessi. Nel momento in cui il lavoratore inizia a percepire la pensione, questa viene coperta dai contributi che egli stesso ha versato più gli interessi maturati. L’ammontare della pensione viene stabilito secondo una logica di equivalenza tra il valore attuale dei contributi versati ed il valore attuale atteso delle prestazioni pensionistiche. In un ideale sistema a capitalizzazione, il tasso di rendimento dei contributi pensionistici equivale al tasso d’interesse; sistema a ripartizione: i contributi versati dai lavoratori vengono utilizzati per erogare le prestazioni pensionistiche ad altri lavoratori. In un ideale sistema a capitalizzazione, se nel primo periodo della vita si versa h, nel secondo periodo della vita si riceverà una rendita pensionistica il cui valore complessivo sarà (1 + ),ℎ(1 + 𝑟), 𝑟), essendo il tasso d’interesse. 𝑟), In un ideale sistema a ripartizione, se nel periodo vi sono 𝑡 vi sono 𝑁 𝑁t lavoratori che versano in media il contributo ℎ(1 + 𝑟),t, la raccolta complessiva sarà 𝑁t ∙ ht e servirà a pagare le pensioni della generazione nata nel periodo − (𝑡 vi sono 𝑁 1). La generazione nata nel periodo riceverà invece la pensione nel periodo + 1), allorquando i contributi 𝑡 vi sono 𝑁 (𝑡 vi sono 𝑁 complessivamente versati dalla generazione che lavora in + 1) saranno pari a(𝑡 vi sono 𝑁 𝑁t+1 ∙ ℎt+1. Ciascuno degli t lavoratori della generazione riceverà nel secondo periodo di vita [ 𝑁 𝑡 vi sono 𝑁 (𝑁t+1 ∙ ℎt+1)/𝑁t]. Per stabilire quale sia il rendimento del contributo versato bisogna vedere che relazione intercorre tra la somma percepita ed il contributo versato: [(N t+1 x h t+1)/ Nt]/ h t In teoria risulta quindi più conveniente, per chi versa contributi, versarli ad un sistema di capitalizzazione, se si ritiene che il tasso d’interesse sarà maggiore del rendimento del versamento. Viceversa, risulterebbe conveniente il sistema a ripartizione se il rendimento del versamento fosse maggiore del tasso d’interesse. Il sistema a capitalizzazione si affida al mercato, mentre il sistema a ripartizione richiede un patto intergenerazionale. In riferimento ai sistemi basati sulla ripartizione è necessario fare una distinzione tra metodo contributivo e metodo retributivo, a seconda che il calcolo circa l’ammontare della rendita pensionistica venga fatto in relazione ai contributi versati o in relazione alle retribuzioni percepite. Il metodo di calcolo contributivo/retributivo è una modalità con cui si calcola l’ammontare della rendita vitalizia nei sistemi pensionistici a ripartizione: ● metodo contributivo: lega l’entità della rendita ai contributi versati lungo l’arco lavorativo della propria vita; ● metodo retributivo: lega l’ammontare della rendita agli stipendi percepiti (tipicamente negli ultimi anni della vita lavorativa). In questo caso si possono adottare 2 metodi di calcolo, ovvero il regime contributivo (l’ammontare della rendita pensionistica viene calcolata in base ai contributi effettivamente versati) ed il regime retributivo (l’ammontare della pensione che si riceverà può essere determinato in base alla retribuzione ricevuta facendo riferimento all’ultima retribuzione che è stata ricevuta). Il rapporto tra l’entità della pensione e l’entità della retribuzione lavorativa viene definito “tasso di sostituzione”. In un ideale sistema a ripartizione, il rendimento del versamento è pari al tasso di crescita della produzione aggregata. Per valutare quanto gravosa sia la spesa pensionistica rispetto al PIL è possibile utilizzare l’IGSP (Indice di Gravosità della Spesa Pensionistica), che è il rapporto tra la spesa pensionistica ed il PIL: Np: numero di pensionati : entità media della rendita pensionistica𝑆: entità media della rendita pensionistica NL : numero di lavoratori : salario𝑊 𝑁p : spesa pensionistica∙ 𝑆: entità media della rendita pensionistica 26 𝑁L : monte salari∙ 𝑊 (𝑁p )/∙ ( 𝑆: entità media della rendita pensionistica (𝑁 L ):: indice di dipendenza∙ 𝑊 La spesa pensionistica sarà tanto più elevata quanto maggiore sarà l’indice di dipendenza pensionistica e quanto più l’entità delle pensioni è elevata rispetto ai salari. All’inizio degli anni ’80 gli economisti rilevarono che esisteva un debito pensionistico notevole, facendo così maturare l’idea di attuare una riforma sul sistema pensionistico. 4.2 IL SISTEMA PENSIONISTICO ITALIANO E LE RIFORME DEGLI ANNI ’90. In Italia le riforme più significative sono state: riforma Amato: prevedeva la cancellazione dell’indicizzazione (autonomo agganciamento) delle pensioni ai salari, facendo sì che il rapporto tra spesa pensionistica e PIL proiettato nel 2040 calasse dal 23% al 18%. La pensione di vecchiaia spetta a chi ha almeno 20 anni di contributi ed abbia raggiunto i 65 anni di età ( può essere goduta con 35 di retribuzione); riforma Dini: prevedeva il passaggio al metodo di calcolo secondo il principio contributivo e, in ambito INPS, venne meglio separata la spesa assistenziale da quella previdenziale; 4.3 riforma del governo Berlusconi: puntava ad accelerare il passaggio al metodo contributivo e a favorire la scelta di permanere al lavoro delle persone che avrebbero maturato già i requisiti per il collocamento in pensione grazie all’incentivo rappresentato dall’erogazione dei contributi. Le azioni di tali governi hanno teso al sostegno di strumenti pensionistici privati, invocando l’attivazione di un sistema a 3 pilastri: 1. sistema pensionistico ad adesione obbligatoria e basato sul criterio della ripartizione; 2. sistemi pensionistici, pubblici o privati, provvisti da associazioni su base aziendale e basati sul criterio della ripartizione/capitalizzazione; 3. sistemi pensionistici individuali e volontari offerti da istituzioni finanziarie private e basati sul meccanismo della capitalizzazione. 5.L’ASSISTENZA. E’ una categoria generale di spesa per il social-welfare, suddivisibile in: ● misure intese a combattere la povertà ed i disagi: possono essere classificate a seconda che siano universali ( a tutti) oppure selettive ( specifici soggetti), possono prevedere erogazioni monetarie o la fornitura diretta di beni o servizi. Praticamente si è discusso sull'opportunità di garantire a tutti i cittadini un reddito di minimo garantito ( reddito di cittadinanza o reddito base). In alternativa si può immaginare un’imposta sul reddito negativa, e quindi individuare una soglia di reddito pari a e di 𝑦∗ e di stabilire che l’imposta sul reddito percepito dall’individuo sia = i – ), dove indica 𝑖 sia 𝑇 = 𝑡(𝑦i – 𝑦∗), dove 𝑡 indica 𝑇 = 𝑡(𝑦i – 𝑦∗), dove 𝑡 indica 𝑡 vi sono 𝑁(𝑦 𝑦∗ e di 𝑡 vi sono 𝑁 un’aliquota di imposizione. Se il reddito è maggiore del valore soglia si dovrà pagare un’imposta positiva > 0), mentre se il (𝑇 = 𝑡(𝑦i – 𝑦∗), dove 𝑡 indica reddito è negativo si dovrà rimborsare un sussidio < 0). L’istituzione di un reddito di minima (𝑇 = 𝑡(𝑦i – 𝑦∗), dove 𝑡 indica potrebbe inoltre disincentivare gli individui ad offrire lavoro e a risparmiare, rafforzare i rapporti di lavoro sommerso ed esercitare un effetto stigma (cioè la vergogna di ricevere il sussidio porta i beneficiari a forme di auto-esclusione sociale); ● ammortizzatori sociali: istituti che prevedono contributi/aiuti ad individui che si trovano in situazioni di disagio transitorio. L’ammontare della prestazione dipende da una serie di condizioni che sono legate alla retribuzione percepita dal lavoratore al momento dell’interruzione del rapporto di lavoro. In riferimento all’Italia gli ammortizzatori sociali sono la Cassa integrazione ordinaria/straordinaria e l’indennità di mobilità/di disoccupazione; ● politiche per la casa: costituite da tutte quelle misure che favoriscono il reperimento di abitazioni da parte delle famiglie e consistono nella concessione di contributi alle famiglie bisognose e nella fornitura di alloggi appositamente costruiti da enti; 27 imprese, agevolando la formazione di reti; promuovere lo sfruttamento del potenziale industriale, etc.. Si tratta di politiche industriali generali di tipo istituzionale. Strumenti utilizzati: tutti quelli che promuovano la cooperazione tra imprese. In sostanza, si viene a stabilire una particolare attenzione per la competitività di sistema e si riconosce che il sistema è costituito dalle imprese e dai policy-maker locali nazionali e comunitari. L'aggregazione dei diversi soggetto è un esplicito obiettivo dell’azione i politica industriale, in particolare può essere effettuata su base territoriale-storica ( distretti) oppure su base tecnologica ( reti di imprese). In tutti i casi si sottolinea come la concorrenza con i produttori di tutto il mondo richiede di puntare su tre fattori chiave: i progetti di sviluppo tecnologico, la formazione delle risorse umane, la diffusione delle conoscenze. 3.4 LA QUARTA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E LE POLITICHE INDUSTRIALI Tratti caratteristici della quarta rivoluzione industriale sarebbero la possibilità di raccogliere e analizzare flussi enormi di dati; la possibilità di connessione permanente di tutti i soggetti coinvolti nella produzione di beni e servizi alle reti informatiche; la possibilità, per le imprese, di offrire ampi volumi di produzione e al tempo stesso prodotti personalizzati. In attesa di avere una politica dell'unione europea, è possibile osservare che i piani de diversi Paesi condividono alcune caratteristiche: attenzione alla necessità di adeguate infrastrutture materiali e immateriali, per garantire l'accesso universale alle reti; attenzione alla formazione del personale; sostegno alla ricerca e innovazione. 4.I SISTEMI DI IMPRESE E LE POLITICHE INDUSTRIALI La prima riflessione riguardo l'eterogeneità di distribuzione delle attività produttive è da ricondurre ai lavori di Alfred Marshall che notò che le imprese tendevano ad agglomerarsi in specifici settori e denominò queste aggregazioni “distretti”. Quando si parla di distretto industriale si fa riferimento a un'entità socioeconomica costituita da un insieme di imprese, facenti generalmente parte di uno stesso settore produttivo, localizzate in un'area circoscritta, tra le quali vi è collaborazione ma anche concorrenza. All'origine dei distretti, si può trovare la spinta alla riduzione dei costi di produzione.Si possono individuare 3 ordini di motivi per cui l'aggregazione territoriale di imprese operanti nello stesso settore porta a ridurre i costi di produzione: grazie all’'ampia circolazione di informazioni di conoscenze e di tecniche si determina un Industrial atmosphere, nei Distretti Si crea un'atmosfera in cui si respirano le conoscenze tecniche,che diventa un patrimonio comune diffuso; Lo sviluppo di un pool di forze di lavoro che sono qualificate e specializzate e l'insediamento dei fornitori specializzati. Beccattini Propone la seguente definizione di distretto: un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un'area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone è di imprese industriali; nel distretto la comunità e le imprese tendono a interpretarsi a vicenda. L'industrial atmosphere che aleggia in un distretto si configura come un fattore produttivo ed agibile, come un'esternalità positiva che comporta riduzioni di costo per tutte le imprese. La specializzazione della forza lavoro deriva da tradizioni familiari, più che da formazione scolastica. La circolazione delle notizie relative alle esigenze produttive e tecnologiche delle imprese favorisce l'introduzione e la rapida diffusione di modifiche tecnologiche. L’innovazione tecnologica dei distretti avviene spesso non grazie ad attività formale di ricerca e sviluppo ma sulla scorta delle esperienze del learning by doing. 4.1 EVIDENZE EMPIRICHE In Italia il decreto del ministero dell'industria nel 1993 richiede che siano soddisfatte 5 condizioni per individuare un distretto: ● L'indice di specializzazione manifatturiera nell’area considerata deve essere superiore del 30% rispetto a quello a livello nazionale; 30 ● L'indice di specializzazione produttiva deve essere Superiore del 30% rispetto all'indice a livello nazionale; ● La densità imprenditoriale deve mostrare un indice superiori rispetto a quello nazionale; ● L'occupazione nell’attività manifatturiera di specializzazione deve superare la soglia del 30%; ● L'occupazione delle piccole imprese appartenenti al settore di specializzazione deve essere Superiore al 50% dell'occupazione di tutte le imprese operanti nel settore manifatturiero nella medesima aria. In genere si distingue tra 4 tipi di agglomerazione distrettuale: 1. Il distretto Marshalliano, caratterizzato da una molteplicità di unità produttive di piccola dimensione, integrate tra loro sia orizzontalmente sia verticalmente; 2. Il distretto hub and spoke, caratterizzato dalla presenza di un'impresa leader, affiancata da una molteplicità di piccole imprese follower, che producono input per essa o beni parzialmente sostituibili; 3. Il distretto piattaforma satellite, costituito da un insieme di stabilimenti sorti a seguito di delocalizzazione produttiva; 4. il distretto state-anchored in cui il nocciolo duro dell'aggregazione è rappresentato da imprese o enti pubblici. Pure essendo presenti su tutto il territorio nazionale, i distretti hanno caratterizzato la cosiddetta Terza Italia, cioè le regioni del Nord-est e della fascia adriatica.Questo nome è stato dato per distinguerle dalle regioni del Triangolo industriale e dal Mezzogiorno.Le regioni della Terza Italia sono caratterizzate da una distribuzione personale del reddito e della ricchezza più equa rispetto alle altre regioni , da una maggiore coesione sociale e da reti civiche consolidate. 4.2 QUALI POLITICHE PER I DISTRETTI Questi interventi di politica industriale hanno puntato a sviluppare il riconoscimento dell'appartenenza al distretto, hanno promosso una divisione del lavoro tra le imprese, basata sulla reciproca affidabilità,hanno cercato di ridurre i costi di coordinamento,istituendo soggetti pubblici a questo preposti e anche fornendo beni pubblici alle imprese. Lo scoglio principale per le imprese raggruppate nei tradizionali distretti italiani sembra essere la ridotta capacità di ricerca e sviluppo sulla frontiera tecnologica e la limitata capacità di adottare nuove tecnologie basate sulla comunicazione l'informazione. CAPITOLO 15_ LE POLITICHE REGIONALI 1.INTRODUZIONE Quando si parla di politica regionali si fa riferimento all'insieme delle azioni di politica economica che hanno come obiettivo primario la redistribuzione geografica del reddito tra le aree territoriali di un'economia. La politica regionale mira sostenere la crescita e lo sviluppo dell'economia in zone geografiche specifiche, attraverso strumenti che cercano di favorire il permanere delle imprese presenti e la localizzazione, nelle aree individuate, di nuove attività produttive. Nell'esperienza storica dell'Italia, il tema delle politiche economiche regionali riveste una particolare importanza importanza, perché il nostro Paese presenta uno dei più eclatanti esempi di persistente dualismo (Rappresentazione secondo la quale l'Italia sarebbe caratterizzata dalla presenza di un Nord industrializzato e ricco e di un Sud economicamente più arretrato. Le differenze tra nord e sud sarebbero di ordine non soltanto economico, ma anche sociale, politica e culturale in senso lato). Negli ultimi anni, l'interpretazione dualistica dell'economia italiana Hai lasciato spazio a interpretazioni secondo cui è corretto dare una rappresentazione più articolata: si è parlato, degli anni 70 di Terza Italia 31 riferendosi a peculiarità del Nord-est; si è trovato consenso sul fatto che le zone in ritardo di sviluppo sì distribuiscano a macchia di leopardo, tanto al nord quanto al sud; si parla oggi,di dualismo delle regioni adriatiche rispetto a quelle tirreniche, piuttosto divario tra nord e sud e così via. 2. GLI SQUILIBRI REGIONALI E LE TEORIE ECONOMICHE Nella tradizione keynesiana, se i legami tra le diverse regioni che compongono un'economia sono ridotti, ossia se le regioni sono assimilabili economie chiuse,non vi è motivo per ritenere che tutti debbano convergere verso i medesimi livelli di reddito; al contrario, vi sono motivi per ritenere che gli squilibri tra i livelli di reddito delle diverse regioni debbano permanere. Questa tesi è nota anche come tesi della causazione cumulativa. Se vale il principio della domanda effettiva,le imprese produrranno ciò che si attendono verrà loro domandato. Se una regione, in un dato periodo, ha espresso una ridotta domanda, le imprese di quella zona produrranno poco e distribuiranno poco il reddito; ciò alimenterà una ridotta domanda e quindi non potrà stimolare ulteriore produzione. Un’insufficiente domanda è insomma, al tempo stesso, causa ed effetto di una ridotta produzione e quindi di un radiatore rotto.Le regioni in ritardo di sviluppo si trovano perciò intrappolate in una situazione di equilibrio di sottoccupazione, talvolta denominata trappola della povertà. Schematicamente: DOMANDA bassa→ PRODUZIONE bassa→ REDDITO basso→ DOMANDA bassa .. Evidentemente uno shock positivo esogeno può rilevarsi efficace per far uscire la regione dalla trappola della povertà. Affinché questo intervento sia efficace è necessario che l'apparato produttivo della regione riesca a soddisfare la domanda addizionale. Pertanto, uno shock esogeno è giudicato essenziale dal pensiero di derivazione keynesiana per permettere a una regione in ritardo di sviluppo di uscire dalla sua condizione; tuttavia, politiche orientate alla sola domanda sono chiaramente giudicate insufficienti anche dall’impostazione keynesiana, poiché la presenza di vincoli alla produzione rappresenta un ostacolo rilevante per l'uscita dalle trappole del sottosviluppo regionale. Questa valutazione di convenienza nell'impiego dei fattori produttivi rappresenta una spinta alla convergenza tra le diverse zone. Convergenza: Tendenza alla diminuzione degli squilibri di reddito tra diverse regioni. La sigma-convergenza sta a significare una riduzione, nel tempo, dei livelli di indicatori di dispersione,mentre la beta-convergenza sta a indicare una correlazione negativa tra il livello di partenza del reddito pro-capite e il suo successivo tasso di crescita,in un insieme di regioni. Sarà conveniente investire unità di capitale nella zona in cui ne è accumulato di meno,perché in quella zona il suo rendimento sarà maggiore. Questo semplice ragionamento (neoclassico) produce l'implicazione che tutte le regioni convergono alla medesima struttura produttiva e al medesimo livello di reddito pro capite, posto che abbiano accesso alla stessa tecnologia, ossia la stessa funzione di produzione. Secondo la studiosa Vera Lutz la mancata convergenza tra le regioni era ad attribuire a rilevanti fattori di natura “istituzionale”. Si potrebbe dire che inefficienze nella pubblica amministrazione,un’insufficiente infrastrutturazione del territorio, elevati tassi di criminalità si configurano come differenze istituzionali rilevanti, che impediscono al processo di convergenza di avere luogo. Considerazioni analoghe possono essere sviluppate in merito alle differenze nella dotazioni di fattori rilevanti per la produzione, come il capitale pubblico o i livelli di istruzione, che qualora fossero carenti impedirebbero il verificarsi della convergenza. In riferimento all’italia almeno per quanto riguarda gli ultimi decenni non si può affermare che sia stato il gap nelle dotazioni di fattori come il capitale umano o il capitale pubblico la vera causa del dualismo. In un influente opera del 92 Putnam ha sostenuto che la vera differenza nelle donazioni iniziali riguarderebbe la dotazione di capitale sociale,il quale sarebbe più abbondante al nord che non al sud. A detta di Putnam, l'affermarsi dello Stato centralistico di Federico II nell'Italia meridionale del duecento sarebbe stato il germe storico a causa del quale il capitale sociale nelle regioni del Meridione ancora oggi è inferiore rispetto al Nord. 32 2. I QUATTRO DISEQUILIBRI POSSIBILI NEL MODELLO MACROECONOMICO Ipotizziamo un sistema economico in cui vi siano 2 soggetti(Imprese e famiglie) e 2 mercati (mercato del lavoro e mercato dei beni) e un terzo soggetto che è il governo; un terzo bene, la moneta , il suo mercato è sempre in equilibrio. Le famiglie domandano beni e offrono lavoro, le imprese domandano lavoro e offrono beni. La domanda di beni è funzione decrescente del P (prezzo) L'offerta dei beni è crescente in P L’offerta di lavoro è crescente W (salario) La domanda di lavoro è decrescente rispetto a W Per la legge di Warlas se in un sistema di n mercati vi è equilibrio su (N -1) mercati, allora vi sarà equilibrio anche sul mercato rimanente. Nello specifico caso di questo paragrafo, N= 3 (beni, lavoro, moneta), ma il mercato della moneta è per ipotesi sempre in equilibrio, sicchè i mercati rilevanti da considerare sono quello del lavoro e quello dei bene: se ci sarà equilibrio in uno, allora ci deve essere equilibrio anche nell'altro. Il mercato si trova in condizioni di equilibrio macroeconomico quando la quantità di beni domandata dai lavoratori è uguale a quella offerta dalle imprese e quando la quantità di lavoro offerto dai lavoratori è uguale a quello domandato dalle imprese. Se in uno di questi due mercati (mercato del lavoro e mercato dei beni) non è in equilibrio, anche l’altro sarà in squilibrio e ci troveremo di fronte ad un disequilibrio macroeconomico dovuto all’eccesso di domanda o di offerta (vince il lato corto). Vi sono 4 possibili disequilibri (modello 2x2): -Regime di disoccupazione keynesiana , in cui, con eccesso di offerta nel mercato del lavoro, non tutto il lavoro che viene offerto trova corrispondenza nella domanda ed i lavoratori sono razionati nel mercato. Anche nel mercato dei beni vi è un eccesso di offerta, per cui non tutti i beni offerti trovano corrispondenza nel mercato. Le imprese producono più di quanto domandato. Per risolvere questo squilibrio, la riduzione dei salari risulta inefficiente e dannosa poiché la contrazione del reddito familiare diminuirebbe ulteriormente la domanda di beni, aggravando il mercato dei beni che ha già un eccesso di offerta. Il corretto intervento per Keynes è esogeno sulla domanda dei beni. -Regime di disoccupazione classica , in cui nel mercato del lavoro c’è eccesso di offerta accompagnata dall’eccesso di domanda nel mercato dei beni. Dunque i lavoratori sono razionati in entrambi i mercati. Le imprese producono meno di quanto gli viene domandato. Per risolvere questo squilibrio bisogna aumentare i prezzi e diminuire i salari, ripristinando la flessibilità dei prezzi. -Regime di inflazione repressa , in cui sia sul mercato del lavoro che dei beni c’è eccesso di domanda. Così i lavoratori/consumatori sono razionati nel mercato dei beni perché l’offerta di beni non è sufficiente a soddisfare la loro domanda, e le imprese sono razionate nei mercati del lavoro, perché non hanno l’offerta adeguata a soddisfare la loro domanda. Questa era una condizione tipica dei paesi con economie pianificate, in cui tutti i lavoratori erano occupati ma non riuscivano a realizzare i loro desideri sulla domanda dei beni, e le imprese se avessero voluto produrre di più non avrebbero potuto dato l’esaurimento della forza lavoro. Per risolvere ciò bisognava aumentare i prezzi, cosa impossibile dato che questi erano stabili e controllati dagli uffici centrali. Dunque, si dice inflazione repressa proprio perché non era possibile aumentare i prezzi e generare inflazione. Dopo l’abbandono di questo tipo di economia, i paesi che prima la esercitavano hanno vissuto un incremento generale dei prezzi. 35 -Quarto regime, in cui vi è eccesso di domanda nel mercato del lavoro ed eccesso di offerta nel mercato dei beni. Si tratta di una condizione che non ha avuto riscontri nella realtà, perché va contro i desideri delle imprese che si troverebbero a domandare più lavoro di quanto possono avere e non riuscirebbero a vendere tutto ciò che producono. 3. DISOCCUPAZIONE CLASSICA E KEYNESIANA Molti credono che la disoccupazione sia forse necessaria per lo sviluppo del capitalismo poiché disciplina le richieste dei lavoratori e salvaguarda il capitalismo. Ma il tasso di disoccupazione ed il suo contenimento è importante per prevenire o risolvere situazioni di squilibrio. Per farlo bisogna distinguere la disoccupazione classica (volontaria) e keynesiana (involontaria). 4. DISEQUILIBRIO KEYNESIANO COME EQUILIBRIO STABILE DI SOTTOCCUPAZIONE Si parla di equilibrio stabile di sottoccupazione nel caso della disoccupazione di Keynes e nello specifico per l’eccesso di offerta nel mercato dei beni. Questo equilibrio si verifica quando, in una situazione di squilibrio in cui i soggetti sono razionati, ossia non riescono a mettere in pratica le loro decisioni, succede che una volta che si realizzano gli scambi sui mercati i soggetti ritengono che le loro decisioni sono ottimali e non vogliono cambiarle. Si trovano, dunque, in un equilibrio di Nash, in cui si ‘accontentano’ di una certa situazione che non è ottimale (walrasiano) come quella che si otterrebbe se solo le due parti (imprese e consumatori) si mettessero d’accordo. I soggetti non cambiano le loro decisioni perché presi ad uno ad uno non hanno convenienza a farlo. Infatti, dovrebbe intervenire il policy maker in maniera esogena per ovviare all’eccesso di offerta agendo con incremento della domanda. 5. UNA SEMPLICE MODELLIZZAZIONE DEL SISTEMA MACROECONOMICO, COME SISTEMA DI TRE MERCATI Esiste un altro mercato: Il mercato degli investimenti, in cui le imprese (investitori) domandano e le famiglie (risparmiatori) offrono. Di questo mercato vi sono due visioni contrapposte: -Visione Neoclassica, in cui il punto di equilibrio nel mercato si raggiunge in base alla flessibilità del prezzo, in questo caso del tasso d’interesse (r). Qui la domanda di beni di investimento da parte delle imprese è decrescente rispetto al tasso d’interesse (I=I(r)) e l’offerta di risparmio da parte delle famiglie è crescente rispetto al tasso d’interesse (S=S(r)). Secondo i neoclassici, in caso di eccesso di domanda bisogna aumentare r in modo che le famiglie offrono di più e le imprese domandano di meno. Viceversa, in caso di eccesso di offerta. -Visione Keynesiana, contesta che l'eguaglianza tra investimenti domandati dalle imprese, e risorse risparmio offerte delle famiglie possa realizzarsi grazie agli appropriati aggiustamenti del tasso di interesse. La visione keynesiana ritiene che sia corretto ipotizzare che la domanda di investimenti dipende anche dal tasso di interesse oltre che dalle aspettative delle imprese,ma reputa inappropriato sostenere che l'offerta di risparmio delle famiglie dipenda prioritariamente dal tasso di interesse. Nello specifico il risparmio offerto delle famiglie non è altro che la differenza tra redditi e consumi. I=I(r, ASP), ASP=aspettative,; la funzione di offerta/risparmio dipende dal reddito delle famiglie (se aumenta, il risparmio anche) à S=S(Y). 36 PARTE 4 _ LE POLITICHE MACROECONOMICHE CAPITOLO 17 _ I MODELLI DI BASE PER L’ANALISI MACROECONOMICA IL MODELLO MACROECONOMICO A PREZZI FISSI CON TASSO D’INTERESSE ESOGENO IL MODELLO REDDITO-SPESA Il modello reddito-spesa è un modello a prezzi fissi in cui si ipotizza che la domanda sia funzione del reddito. La domanda soddisfatta dalla produzione domestica, D, è rappresentata dalla somma dei consumi delle famiglie, C, più gli investimenti delle imprese, I, più la domanda del settore pubblico o spesa pubblica, G, più la domanda netta proveniente dall’estero, NX. D = C + I + G + NX I consumi I consumi sono espressi dalle famiglie, al fine di soddisfare i loro bisogni. È ragionevole ritenere che i consumi di beni e servizi siano una funzione crescente del reddito disponibile delle famiglie, perciò C = C(Y D). Inoltre, incrementi successivi del reddito incrementano i consumi, ma in misura via via decrescenti. Possiamo assumere che il consumo cresca in base alla propensione marginale al consumo della collettività, una grandezza (denotata con c) con cui si rappresenta il rapporto tra l’incremento dei consumi e il corrispondente incremento del reddito disponibile, c = δC/δ C/δC/δ Y D; nelle ipotesi, tale propensione è data come positiva (perché il consumo è una funzione diretta del reddito), ma decrescente (dato che incrementi successivi di reddito disponibile danno luogo a incrementi via via minori di consumo). Per semplicità, tuttavia, scriveremo la funzione del consumo come funzione lineare del reddito disponibile: C = C 0 + cY D. 37 Dato che tutto ciò che viene prodotto viene anche necessariamente distribuito, la produzione aggregata di un sistema economico coincide con il reddito, O = Y. La condizione di equilibrio macroeconomico, pertanto, può essere espressa anche dall'uguaglianza tra domanda e reddito, D = Y. Eguagliando a Y l’equazione precedente si osserva che in equilibrio deve valere: Y = [C 0 + c(TR0 - T 0) + I 0 + G0 + NX 0 - hr] + [c(1 – t) - m]Y Si può a questo punto ricavare il valore del reddito che soddisfa la condizione di equilibrio: portando a sinistra dell’uguale tutti i termini che contengono Y e poi risolvendo per Y, si trova il reddito di equilibrio macroeconomico (denotato con Y eq), che garantisce che la domanda aggregata sia pari all’offerta aggregata: Y eq = 1 1−c (1−t )+m [D0] Poiché, date le ipotesi introdotte, l’espressione [1 - c(1 – t) + m] è minore di 1, la frazione 1/[1 - c(1 – t) + m] deve necessariamente essere maggiore di 1. Pertanto, il reddito di equilibrio risulta un multiplo della domanda autonoma. Vale la pena soffermarsi ulteriormente su un particolare aspetto: il reddito di equilibrio macroeconomico è quello che garantisce l’uguaglianza tra domanda aggregata e offerta aggregata, ma nulla assicura che l’offerta aggregata sia quella che utilizza tutti i fattori produttivi disponibili nell’economia. In altre parole, in corrispondenza del reddito di equilibrio macroeconomico può ben darsi che i fattori produttivi non siano tutti pienamente utilizzati (per esempio, può ben darsi che esistano lavoratori disoccupati). In questo senso, l’equilibrio macroeconomico potrà essere un equilibrio di sottoccupazione. L’output gap rappresenta la differenza tra il reddito corrente e il reddito che garantisce la piena occupazione di tutti i fattori produttivi. Nella costruzione teorica di Keynes, se un sistema economico si trova nel punto di equilibrio macroeconomico, ma al di sotto del pieno impiego, non vi è alcun meccanismo automatico che lo sposti da dove è posizionato. Dunque, si può affermare che l’equilibrio di sottoccupazione è un equilibrio stabile. L’intuizione basilare di Keynes consiste nell’avere osservato come sia possibile incrementare il reddito di equilibrio (in modo da utilizzare risorse produttive eventualmente inutilizzate), accrescendo la domanda autonoma; graficamente, ciò comporta la traslazione verso l’alto della curva di domanda D e determina un punto di equilibrio macroeconomico in cui il reddito si avvicina (o addirittura raggiunge) il livello di pieno impiego. Il principio del moltiplicatore keynesiano A seguito di una variazione di domanda autonoma, ΔP) decurtato di un certo D0, la corrispondente variazione nel reddito di equilibrio risulta: ΔY eq = 1 1−c (1−t )+m ΔD0. Poiché vale 1/[1 - c(1 – t) + m] > 1, un incremento della domanda autonoma determina un maggiore incremento del reddito di equilibrio; in altre parole, la variazione del reddito di equilibrio risulta essere un multiplo rispetto all’iniziale variazione della domanda autonoma. Questo principio è noto come moltiplicatore keynesiano e la frazione 1/[1 - c(1 – t) + m] prende il nome di moltiplicatore keynesiano. In altri termini, il moltiplicatore keynesiano del reddito è un processo dinamico innescato da un iniziale aumento di domanda esogena, che mette in moto adeguamenti della produzione (e quindi del reddito distribuito e dei consumi indotti); al termine del processo di aggiustamento, si converge a un equilibrio nel quale il reddito risulta aumentato in misura maggiore rispetto all’iniziale aumento della domanda autonoma. 40 Il fattore moltiplicativo deriva dal fatto che la produzione (e quindi il reddito) incrementa non solo per far fronte all’iniziale incremento di domanda autonoma, ma anche per sostenere l’incremento dei consumi indotti dell’aumento di produzione e reddito. Affinché il moltiplicatore esplichi i suoi effetti è necessario: che trascorra tempo; che l’aumento della componente autonoma di domanda sia permanente; che l’economia non si trovi nella situazione di pieno impiego delle risorse. Inoltre il moltiplicatore sarà tanto maggiore: quanto maggiore è la propensione marginale al consumo; quanto minore è l’aliquota di imposizione; quanto minore è la propensione marginale all’importazione. Queste osservazioni derivano direttamente dalla formula del moltiplicatore. Infine, si noti che il processo moltiplicativo è messo in moto da una qualsiasi componente della domanda autonoma. Se però ci concentriamo sulla spesa pubblica, notiamo che vale: ΔY eq = 1 1−c (1−t )+m ΔG0 Mentre se ci concentriamo sui trasferimenti, risulta: ΔY eq = 1 1−c (1−t )+m c ΔTR0 Dato che c < 1 risulta immediato osservare che 1/[1 - c(1 – t) + m] > c/[1 - c(1 – t) + m], ossia l’effetto moltiplicatore della spesa pubblica è maggiore rispetto all’effetto moltiplicatore dei trasferimenti . Concludendo, il principio del moltiplicatore rende molto efficace la leva della domanda autonoma, che quindi può essere interpretata come un possibile strumento della politica economica per governare il reddito di equilibrio macroeconomico. 2.IL MODELLO A PREZZI FISSI CON TASSO D’INTERESSE ENDOGENO 2.1. CURVA IS Fino ad ora abbiamo assunto che il tasso di interesse sia costante, ponendo quindi gli investimenti complessivi come esogeni. Adesso, ipotizziamo che il tasso di interesse possa variare. È noto che un aumento del tasso d’interesse fa diminuire gli investimenti, comportando dunque una contrazione della domanda autonoma e, di conseguenza, del reddito di equilibrio; al contrario, una diminuzione del tasso d’interesse determina un incremento degli investimenti e mette in moto il processo del moltiplicatore keynesiano, che porta a un aumento del reddito di equilibrio. La relazione che lega il reddito di equilibrio macroeconomico al valore del tasso di interesse prende il nome di relazione IS. Più precisamente, la relazione IS rappresenta le combinazioni tra tasso d’interesse e reddito, compatibili con l’equilibrio sul mercato dei beni. Per ricavare l’espressione analitica della relazione IS basta considerare la definizione di equilibrio sul mercato dei beni, e riscriverla evidenziando proprio la variabile r. Si ottiene: r = 1 h [C 0 + cTR0 - c T0 + I 0 + G0 + NX 0] - 1 h [1 - c(1 – t) + m]Y ossia r = 1 h [A0] - 1 h( 1 α ) Y dove si è posto 1/α = 1/[1 - c(1 – t) + m] (moltiplicatore keynesiano). 41 ⮚ Tutti i punti che giacciono lungo la curva IS (come il punto E) rappresentano combinazioni del reddito con il tasso d’interesse che assicurano l’equilibrio sul mercato dei beni. ⮚ Tutti i punti del piano al di sopra della curva IS (come il punto F) rappresentano combinazioni di tasso d’interesse e reddito a cui corrisponde una carenza di domanda (ossia, un eccesso di offerta) di beni; infatti, per dato reddito, vi è rappresentato un tasso di interesse eccessivo rispetto a quello di equilibrio (e quindi vi è una carenza di investimenti rispetto a quelli che garantirebbero l’equilibrio). ⮚ Simmetricamente, i punti del piano al di sotto delle IS (come G) rappresentano situazioni di eccesso di domanda: per ogni dato livello del reddito, il tasso di interesse è inferiore (e quindi gli investimenti superiori) rispetto a quanto è compatibile con l’equilibrio. Analizzando le caratteristiche della curva IS si nota che l’intercetta è data da [A0 /h]. In particolare, maggiore è la dimensione della domanda autonoma, maggiore sarà l’intercetta della curva IS. In altre parole, incrementi delle componenti autonome della domanda (e in particolare, incrementi della spesa pubblica) determinano uno spostamento verso destra della curva IS. Per quanto concerne l’inclinazione della curva (ossia il coefficiente angolare della retta), invece, si nota che è data da -1/[h(1/α)]. Si tratta, pertanto, di un’inclinazione negativa, e questo è ovvio da un punto di vista economico: infatti, a valori via via maggiori del tasso d’interesse fanno riscontro valori sempre minori del volume di investimenti (e quindi della domanda aggregata), pertanto si riscontreranno valori via via minori della produzione in equilibrio. Inoltre, quanto più gli investimenti sono sensibili al tasso d’interesse (ossia, quanto più h è elevato), tanto più piatta sarà la curva IS. Ed infine, quanto maggiore è il moltiplicatore, tanto più piatta sarà la curva IS. A corollario di quest’ultima osservazione, si possono rilevare alcuni altri aspetti. Quanto maggiore è la propensione al consumo, tanto più piatta sarà la curva IS (infatti, maggiori livelli di c implicano più elevati valori del moltiplicatore); ● Un’economia in cui l’aliquota di imposizione è molto elevata presenterà una curva IS più ripida di quella di un’economia identica, ma con aliquote d’imposte meno elevate. ● Un’economia aperta presenterà una curva IS più ripida rispetto alla stessa economia se fosse chiusa (infatti il moltiplicatore di economia aperta è minore di quello di economia chiusa). 2.2.LA CURVA LM La relazione LM rappresenta le combinazioni di tasso di interesse e reddito che assicurano l’equilibrio sul mercato della moneta. Il mercato della moneta è in equilibrio se la domanda di moneta eguaglia l’offerta di moneta. L’offerta di moneta è rappresentata dall’insieme di tutti i mezzi di pagamento a disposizione di una collettività. Immaginiamo che l’offerta di moneta sia frutto di scelte esogene e venga indicata come M S = M. Per tradizione se ne considera il valore reale, ossia il rapporto fra lo stock di moneta nominale e il livello generale dei prezzi, M/P, anche se questa precisazione è irrilevante in un modello a prezzi fissi. La domanda di moneta, seguendo la tradizione keynesiana, viene effettuata per tre differenti motivi: ● La domanda di moneta a scopo transattivo ha luogo al fine di regolare gli scambi e rappresenta una necessità e non una scelta. È ragionevole ipotizzare che essa sia direttamente proporzionale al volume degli scambi effettuati, che è a sua volta proporzionale al reddito. Perciò, la domanda di moneta a scopo transattivo è legata al reddito in modo diretto. ● La domanda di moneta a scopo speculativo risponde, invece, a una scelta; la moneta, infatti, rappresenta un modo di impiegare la propria ricchezza, alternativamente all’impiego in titoli finanziari oppure all’impiego in ricchezza reale. Per quantificare la domanda di moneta speculativa bisogna quindi confrontare la remunerazione associata alla moneta con la remunerazione associata a impieghi alternativi. La caratteristica fondamentale della moneta è che non dà luogo a un interesse nominale 42 È possibile considerare simultaneamente l’equilibrio sul mercato dei beni (curva IS) e l’equilibrio sul mercato della moneta (curva LM). Questi due mercati sono entrambi in equilibrio in corrispondenza del punto di intersezione fra la curva IS e la curva LM. Ipotizziamo, sebbene non sia scontato, che l’equilibrio esista e sia stabile. Le politiche fiscali hanno effetto sulla curva IS; in particolare, le politiche fiscali espansive fanno spostare la curva IS verso destra, mentre le politiche fiscali restrittive la fanno spostare verso sinistra. Le politiche monetarie, invece, determinano spostamenti della curva LM: quelle espansive verso destra, e le restrittive verso sinistra. GLI EFFETTI DI UNA POLITICA FISCALE ESPANSIVA Esempi di politica fiscale espansiva possono essere l’aumento della spesa pubblica, l’aumento di trasferimenti alle famiglie o la riduzione della pressione fiscale; tutte queste misure comportano un aumento della domanda autonoma. Queste misure incidono sulla posizione (e alcune anche sull’inclinazione) della curva IS. In tutti i casi la curva IS si sposta verso destra, in modo parallelo, oppure no, a seconda che risulti modificata o meno l’inclinazione. Il nuovo punto di equilibrio sarà caratterizzato da un reddito e da un tasso d’interesse di equilibrio maggiori rispetto alla situazione di partenza. La ragione è la seguente: la domanda autonoma aumenta a seguito della politica fiscale espansiva; ciò induce le imprese ad aumentare la produzione, determinando un reddito accresciuto. L’aumento del reddito ha ripercussioni sul mercato della moneta; in particolare comporta un aumento della domanda di moneta a scopo transattivo; dato che l’offerta di moneta rimane ferma (infatti abbiamo ipotizzato che la politica monetaria non vari), sul mercato della moneta si crea una situazione di eccesso di domanda, che viene riassorbito soltanto con l’aumento del tasso d’interesse. Questo però, ha dei contro-effetti sul mercato dei beni: infatti, l’incremento del tasso d’interesse incide negativamente sulla domanda di investimento, provocando una riduzione del reddito di equilibrio, rispetto al livello precedentemente individuato conseguente all’aumento di produzione delle imprese. Infatti, prendendo in considerazione che il tasso d’interesse si muove, in risposta allo squilibrio generato sul mercato della moneta, l’effetto è tale per cui, alla fine, il reddito aumenta, ma meno di quanto sarebbe aumentato se il tasso d’interesse fosse rimasto costante al livello iniziale. Questo teorico passaggio prende il nome di fenomeno dello spiazzamento. In altri termini si indica spiazzamento (crowding-out) il fenomeno che a seguito dell’aumento esogeno di una componente di domanda porta a una diminuzione endogena di un’altra componente di domanda; se la diminuzione indotta è esattamente pari all’iniziale incremento, lo spiazzamento è completo (o totale). In questo caso la componente che diminuisce sono gli investimenti a causa dell’aumento del tasso di interesse. L’interrelazione tra mercato dei beni e mercato della moneta porta perciò al seguente risultato: l’efficacia sul reddito (e anche sul tasso d’interesse) di una medesima politica fiscale espansiva dipende anche dai comportamenti sul mercato della moneta (sintetizzati dalla curva LM). Inoltre, quanto più è sensibile la domanda di moneta al tasso di interesse, tanto più efficace risulterà (sul reddito) una politica fiscale espansiva. Si noti che se la curva LM fosse verticale (cioè quanto la domanda di moneta è del tutto insensibile al tasso d’interesse), una politica fiscale espansiva (graficamente, uno spostamento verso destra della curva IS) determinerebbe un aumento del tasso d’interesse di equilibrio, ma lascerebbe esattamente invariato il reddito. Al contrario, se la curva LM fosse orizzontale, uno spostamento verso destra della curva IS lascerebbe fermo il tasso d’interesse d’equilibrio, mentre avrebbe l’effetto massimo possibile sul reddito di equilibrio (proprio perché, data la costanza del tasso di interesse, non ha luogo nessun effetto di spiazzamento). Possiamo 45 concludere che la politica fiscale espansiva avrà la massima efficacia possibile sul reddito quando i sistemi economici si trovano in trappola della liquidità. GLI EFFETTI DI UNA POLITICA MONETARIA ESPANSIVA La politica monetaria espansiva determina uno spostamento verso destra della curva LM. Se l’intersezione tra curva IS e curva LM avviene nel tratto significativo della curva LM, allora una politica monetaria espansiva comporta un aumento del reddito e un abbassamento del tasso d’interesse. Infatti, l’aumento dell’offerta di moneta spinge gli operatori a volersi liberare di moneta e, a tal fine, a domandare titoli finanziari; questo eccesso di domanda di titoli finanziari comporta un abbassamento del tasso d’interesse corrente, che a sua volta si ripercuote sul mercato dei beni, facendo incrementare la domanda di investimenti; ma ciò significa un aumento della domanda, che spinge le imprese ad accrescere la produzione e quindi il reddito distribuito (incremento di reddito che attiva l’aumento dei consumi indotti, tramite meccanismi di moltiplicatore keynesiano). Alla fine, l’espansione dell’offerta di moneta determina un nuovo equilibrio caratterizzato da un più elevato reddito e da un più basso tasso di interesse. L’effetto sul reddito di una politica monetaria espansiva sarà tanto maggiore, quanto più la curva IS è piatta. Nel caso limite in cui la curva IS sia verticale (per esempio perché gli investimenti sono insensibili al tasso d’interesse), politiche monetarie espansive determinano un abbassamento del tasso d’interesse, ma non comportano alcun effetto sul reddito di equilibrio: infatti, l’aumento dell’offerta di moneta provoca, sul mercato monetario, un abbassamento del tasso d’interesse, senza esercitare alcun effetto sul mercato dei beni, proprio perché gli investimenti non reagiscono alla variazione del tasso d’interesse e non forniscono alcun motivo per variare la produzione (quindi il reddito rimane fermo). Al contrario, in una situazione in cui la curva IS fosse orizzontale, la politica monetaria espansiva avrebbe la massima efficacia possibile sul livello del reddito di equilibrio. Si noti che in un’economia che si trova nella regione della trappola della liquidità, la politica monetaria risulta totalmente inefficace sul reddito di equilibrio. GLI EFFETTI DI UNA POLITICA FISCALE CONGIUNTA A UNA POLITICA MONETARIA Nel mondo reale, gli strumenti di politica monetaria possono essere mossi congiuntamente agli strumenti di politica fiscale. Prendiamo in esempio una politica espansiva (precisamente, una sensibile riduzione delle imposte) contemporaneamente a una politica monetaria restrittiva. Se vogliamo capire quali siano gli effetti di questo mix di politiche, possiamo fare riferimento al sistema IS-LM: la curva IS, a seguito della politica fiscale espansiva, si sposta verso destra, mentre la curva LM, a seguito della politica monetaria restrittiva, si sposta verso sinistra. L’effetto congiunto delle politiche è dunque un deciso innalzamento del tasso d’interesse, mentre l’effetto sul reddito è ambiguo. Questo succede perché entrambe le politiche fanno alzare il tasso d’interesse, ma mentre la manovra monetaria restrittiva fa abbassare il livello del reddito, la politica fiscale espansiva lo fa innalzare; quale dei due effetti sul reddito prevalga, dipende dall’entità quantitativa relativa delle due misure. Un altro mix di politiche, può essere rappresentato da una politica fiscale espansiva, congiunta a una politica monetaria espansiva. A seguito di queste misure, si spostano verso destra sia la IS sia la LM. L’equilibrio simultaneo sul mercato dei beni e della moneta porta ad avere un deciso incremento del reddito, mentre è ambiguo l’effetto finale sul tasso d’interesse. 46 Quando una politica fiscale espansiva è accompagnata da una politica monetaria espansiva, si dice che le autorità di politica monetaria hanno tenuto un comportamento accomodante: infatti, accompagnare l’espansione fiscale con un’espansione monetaria significa puntare a evitare l’aumento dei tassi di interesse tramite la politica monetaria, e quindi di evitare l’effetto di spiazzamento e ad amplificare l’effetto espansivo sul reddito. 3.IL MODELLO CON PREZZI E QUANTITÀ ENDOGENI 3.1. L’EFFETTO DI UNA VARIAZIONE DEI PREZZI SULL’EQUILIBRIO IS-LM: LA CURVA PPE O DI DOMANDA AGGREGATA Possiamo chiederci adesso cosa succederebbe se all’interno di questo schema teorico si verificasse una variazione esogena dei prezzi. L’insieme dei punti che rappresentano le combinazioni di prezzo e reddito che assicurano equilibrio al mercato dei beni e della moneta prende il nome di curva PPE (Prezzo-Prodotto d’Equilibrio). Sul mercato della moneta, un aumento dei prezzi equivale, a parità di tutto il resto, a una contrazione della quantità reale di moneta offerta (M/P), e quindi a uno spostamento verso sinistra della curva LM. Sul mercato dei beni, un aumento dei prezzi comporta effetti sia sul consumo, sia sulle esportazioni nette, in entrambi i casi di segno restrittivo; queste contrazioni di componenti di domanda comportano spostamenti verso sinistra della curva IS. Riassumendo, un aumento dei prezzi interni comporta uno spostamento verso sinistra sia della curva LM sia della curva IS; inequivocabilmente, perciò, il reddito di equilibrio diminuisce. Quindi, a valori via via più elevati dei prezzi interni corrispondono valori sempre più bassi del livello di reddito che assicura equilibrio simultaneo sui mercati dei beni e della moneta. Questo equivale ad affermare che la curva PPE ha, di norma, un’inclinazione negativa. Poiché la curva rappresenta la relazione negativa tra prezzo e quantità, si usa definirla anche curva di domanda aggregata, dato che è concettualmente una quantità domandata che si contrae, a seguito di aumenti di prezzo. Inoltre, questa terminologia, è giustificata dal fatto che il modello IS-LM postula che le imprese siano disposte a produrre tutto quanto viene loro richiesto e quindi il reddito di equilibrio IS-LM sia una grandezza che non ha a che fare con i comportamenti di offerta, ma piuttosto con quelli di domanda. 3.2 LA CURVA DI OFFERTA AGGREGATA Nella realtà, la quantità ottimale offerta dalle imprese dipende, in vero, anche dai prezzi. Per ottenere la funzione che lega l'offerta aggregata ai prezzi, nel modello base di breve periodo assumiamo che, dato che lo stock di capitale nel breve periodo è dato, La produzione dipende soltanto dal numero dei lavoratori occupati, Secondo la funzione di produzione aggregata Y=Y(N), assunta crescente concava. Il numero di lavoratori occupati viene determinato sul Merc. del lavoro dalla interazione tra domanda e offerta di lavoro. La domanda di lavoro è una funzione crescente del salario reale ND = f(W/P). L'offerta di lavoro è una funzione crescente del salario reale; a livello macroeconomico, in genere, si assume che l'offerta di lavoro sia crescendo al salario reale oppure sia inelastica, poiché che esiste un numero di lavoratori che si offre a prescindere dal salario vincente. Il salario reale è dato dal rapporto tra salario nominale(W) e livello dei prezzi attesi(Pe ). Ne consegue che la funzione di offerta di lavoro aggregata può essere sintetizzata dalla seguente scrittura NS= g(W/Pe) con g>0. 47 ● Entrate tributarie: a) imposte e tasse sui consumi, sui redditi, sulle ricchezze e sugli affari; b) i proventi dei monopoli di Stato; c) i proventi di lotto, lotterie e altri giochi; ● Entrate extra-tributarie: comprendono i proventi dei beni dello Stato, ecc.; L’indice di incidenza fiscale è dato dal rapporto delle entrate in conto corrente ed il PIL, esso esprime il peso del prelievo fiscale nel complesso dell’economia. 2) Entrate in conto capitale: l’alienazione di beni patrimoniali e la riscossione di crediti; l’accensione di prestiti. Il rapporto tra la somma delle entrate in conto corrente e il PIL dà il cosiddetto indice di incidenza fiscale, con cui si esprime il peso del prelievo fiscale (entrate tributarie ed extra-tributarie) nel complesso dell’economia. T rappresenta le entrate (1,2,3) pubbliche che vengono prese in considerazione nei modelli macroeconomici. Le uscite possono essere distinte in: 1) Spese correnti: a) erogazione di compensi per il lavoro del personale dipendente; b) spese di consumo corrente; c) trasferimenti in conto corrente alle famiglie e alle imprese; ecc. 2) Spese in conto capitale: spese per l’acquisto di macchinari, trasferimenti in conto capitale a famiglie e imprese; ecc. 3) Rimborso di prestiti precedentemente ottenuti. G rappresenta le uscite (1,2) pubbliche che vengono prese in considerazione nei modelli macroeconomici. La differenza tra le entrate e le uscite rappresenta il saldo, in particolare vengono definite diversi tipi di saldi, tra cui: a) Saldo corrente: differenza tra entrate correnti e spese correnti; b) Saldo netto da finanziare o fabbisogno complessivo: differenza tra (T – G). Il saldo corrente e il fabbisogno complessivo rappresentano i due obiettivi che per primi vengono individuati dall’azione della politica fiscale. 2.IL MODUS OPERANDI DELLA POLITICA FISCALE IN ITALIA In Italia, l’art.81 della Costituzione stabilisce che il bilancio preventivo, di durata annuale, predisposto dal Governo, deve essere approvato dal Parlamento; il bilancio non può stabilire nuovi tributi e nuove spese e che ogni nuova legge che importi nuove spese deve prevederne la copertura. Nel 1978, per evitare il divieto imposto dall’art.81 della Costituzione, si è previsto la predisposizione, accanto al bilancio dello Stato, della legge finanziaria, che consiste in una manovra di legge, da votare prima del bilancio, nella quale è possibile apportare modifiche legislative che introducono nuove spese ed entrate. Nel 2012, l'art.81 della Costituzione è stato modificato con una legge che ha inteso a rafforzare il carattere programmatorio del bilancio, e ha stabilito un criterio misto (Competenza/cassa) per la redazione del bilancio;In generale ha disciplinato l'adozione del bilancio anche in coerenza con gli accordi siglati in sede europea. Il processo del bilancio dello Stato si articola in diverse fasi: 1) Formulazione del bilancio di previsione dello Stato: si approntano i bilanci di previsione e la legge finanziaria. In questa fase, il Governo: ● Predispone il bilancio preventivo a legislazione corrente; ● Individua gli obiettivi della manovra fiscale; ● Procede a disegnare una manovra che è contenuta nella legge finanziaria; ● Contestualmente all’approvazione della legge finanziaria, da parte del Parlamento, si approvano le note di variazione al bilancio; ● Infine, si vota la legge di bilancio di previsione. in sintesi: Formulazione da parte del governo dei progetti di bilancio della legge di stabilità entro (15 ottobre) e discussione e approvazione da parte del Parlamento (entro 31 dicembre) 50 2) Gestione del bilancio: cioè realizzazione delle entrate e delle uscite; durante la fase della gestione possono essere introdotti provvedimenti di legge che comportano nuove o diverse entrate e uscite rispetto a quelle contenute nel bilancio approvato. 3) Rendicontazione: nella quale vengono rendicontate le entrate e le uscite che hanno avuto luogo durante l’esercizio. Il rendiconto consuntivo viene esaminato dapprima dalla Corte dei conti e quindi firmata dal ministro del Tesoro, che lo presenta al Parlamento, cui spetta l’approvazione. 4.GLI EFFETTI MACROECONOMICI DELL’IMPOSIZIONE PROGRESSIVA Si indica con imposizione progressiva il principio secondo il quale l’aliquota di imposizione deve essere crescente nel reddito: all’aumentare del reddito, l’ammontare dell’imposta aumenta quindi in misura più che proporzionale. Un’imposizione di tipo progressiva risponde prioritariamente all’obiettivo di realizzare una redistribuzione personale del reddito e comporta alcune conseguenze: ● L’imposizione fiscale progressiva si configura come uno stabilizzatore automatico, cioè un qualsiasi meccanismo economico che porta endogenamente il livello del reddito a muoversi nel senso opposto rispetto a quello di uno shock esogeno che lo colpisce. A titolo di esempio: immaginiamo che il reddito sia colpito da uno shock positivo. L’imposizione fiscale farà aumentare il prelievo fiscale e ciò determina che il reddito disponibile aumenta in misura più contenuta rispetto al reddito lordo (le variazioni nel reddito netto saranno più modeste di quanto non siano le variazioni nel reddito lordo); ● Il drenaggio fiscale (fiscal drag) si verifica quando un aumento del reddito nominale, a cui non corrisponde un aumento del reddito reale, comporta un aumento più che proporzionale rispetto all’imposizione fiscale e quindi un aumento dell’incidenza fiscale che darà luogo ad una riduzione del reddito disponibile reale. 5.GLI EFFETTI DELLE DIVERSE MODALITÀ DEL FINANZIAMENTO DELLA SPESA PUBBLICA La spesa pubblica può essere finanziata in due modi: 1. Finanziamento con imposte. L’aumento della spesa pubblica determina un aumento del reddito di equilibrio e quindi un aumento dell’imposizione fiscale, ma l’incremento endogeno nel gettito fiscale non può mai essere sufficiente a coprire l’iniziale spesa pubblica. Supponiamo che il gettito fiscale sia idoneo a coprire la spesa pubblica (caso di spesa pubblica con bilancio a pareggio): ∆G=∆T 0>0. nel caso che t=m=0 si avrà il Teorema di Haavelmo: in un’economia chiusa e con aliquota marginale d’imposizione nulla, un aumento della spesa pubblica interamente finanziato con un pari aumento dell’imposizione fiscale autonoma, determina un aumento esattamente uguale del reddito di equilibrio. In altre parole, se aumenta la spesa pubblica, e di un pari ammontare l’imposizione, allora aumenta anche il reddito di equilibrio. In questo modo il Governo è in grado di far aumentare il reddito, mantenendo il bilancio pubblico in pareggio. Il teorema di Haavelmo Cessa di essere valido nel momento in cui si raggiunge reddito di pieno impiego, d'allora in poi non sarà più possibile che reddito di equilibrio aumenti a seguito di un aumento della domanda autonoma. 2. Spesa pubblica che genera deficit. Consideriamo il caso in cui la variazione di spesa pubblica sia finanziata soltanto per una parte da nuova imposizione fiscale autonoma: ∆T 0=μ∆G0. In questo caso si verrà a determinare un fabbisogno pari a ∆G0 - ∆T 0. Calcoliamo l’aumento del reddito di equilibrio: 51 ΔY eq = 1 1−c [∆G0 - c∆T 0] = 1 1−c [∆G0 - cμ∆G0] Ossia: ΔY eq = 1−cμ 1−c [∆G0] ● Se μ=0 (incremento di spesa pubblica non accompagnato da alcun incremento di imposizione), si registra il massimo valore del moltiplicatore [1/(1-c)] (tutto deficit); ● Se μ=1 (incremento di spesa pubblica accompagnato da un pari incremento delle imposte), si registra il minimo valore del moltiplicatore che risulta pari a 1 (bilancio in pareggio); ● Se 0<μ<1 (incremento di spesa pubblica è parzialmente finanziato con incremento delle imposte), il valore del moltiplicatore è compreso tra 1 e 1/(1-c) e sarà tanto più elevato, quanto più l’incremento di imposte è ridotto. Il fabbisogno che la spesa pubblica ha generato può essere coperto in due modi: a) Con l’emissione di debito pubblico (senza emissione di moneta): in questo caso si muove verso destra soltanto la curva IS; b) Con l’emissione di moneta: in questo caso si muove verso destra sia la curva IS (per l’aumento della spesa pubblica) sia la curva LM (per l’aumento dell’offerta di moneta). Questa viene chiamata politica monetaria accomodante(Politica monetaria espansiva che accompagno una politica fiscale di segno espansivo,In pratica le autorità monetaria sarebbero disponibili a finanziare le spese del governo con emissione di moneta). Una politica di spesa pubblica accompagnata da una politica monetaria accomodante produce effetti espansivi sul reddito perché la politica monetaria espansiva consente di evitare l’aumento del tasso di interesse associato ad un aumento della spesa pubblica e limita, così, l’effetto spiazzamento della spesa pubblica ai danni della domanda privata. Bisogna fare attenzione a: ● Questo risultato vale soltanto nel caso che il reddito di equilibrio sia inferiore a quello di pieno impiego (in caso contrario, anche secondo i Keynesiani, un aumento di spesa pubblica, comunque sia finanziata, è destinata a tradursi in un aumento dei prezzi, senza effetto sul livello del reddito); ● La modalità di finanziamento della spesa pubblica è rilevante sugli effetti del reddito di equilibrio di breve periodo e non tiene in considerazione valutazioni di vincoli di bilancio intertemporali. La esplicita considerazione dei vincoli a cui è soggetto un sistema economico nel tempo ha portato alcuni economisti a credere a un diverso teorema, il cosiddetto teorema di equivalenza ricardiana. 5.1.IL TEOREMA DI EQUIVALENZA RICARDIANA 52 indicata anche come moneta legale, in quanto la sua emissione è regolata dalla legge che rende obbligatoria per tutti i cittadini l’accettazione di questo strumento per regolare i pagamenti. Viene invece definita Moneta (M) la somma della moneta legale detenuta dal pubblico (o circolante) più i depositi dei risparmiatori. A seconda della rigidità definitoria che si utilizza, si configurano differenti aggregati monetari, in particolare: ● M0 è l’insieme delle banconote e monete in circolazione, questa coincide con la base monetaria in mano al pubblico (BMP chiamata anche circolante o moneta ad alto potenziale): [M0 = BMP]; ● M1 è la somma tra M0 e l’insieme dei depositi bancari a vista (o in conto corrente): [M1 = BMP + c/cD]; ● M2 è la somma tra M1 e tutti gli altri depositi bancari a breve termine: [M2 = BMP + D≤ 2 anni]; ● M3 è la somma tra M2 e le quote e le partecipazioni in fondi comuni monetari e le operazioni pronti contro termine: [M3 = BMP + D]. 2.LA CREAZIONE DELLA BASE MONETARIA Le banche centrali possono emettere base monetaria come contropartita rispetto a quattro specifiche operazioni, che configurano i cosiddetti canali o fonti di creazione della base monetaria e sono: a) I finanziamenti al Tesoro: le banche centrali emettono carta moneta per coprire le spese dei rispettivi governi. Questa fonte di creazione della base monetaria, non è altro che la monetizzazione della spesa pubblica. La sua controllabilità da parte delle autorità monetarie, pertanto, dipende dalle leggi e dalle disposizioni che regolano i rapporti fra autorità monetarie e autorità di Governo. b) I finanziamenti alle banche: le banche centrali emettono base monetarie per rispondere alle richieste di finanziamento delle banche e delle aziende di credito. Praticamente in tutti i Paesi, il mercato del credito è regolamentato e le banche centrali svolgono compiti di controllo, vestendo anche i panni di ri-finanziatore delle aziende di credito che devono sorvegliare. Le aziende di credito possono, quindi, rivolgersi alle banche centrali per ottenere liquidità, nel caso ne abbiano bisogno; a tale fine cedono alla banca centrale eventuali titoli di credito che vantano verso terzi, ricevendo in cambio la liquidità. Il canale di creazione della base monetaria attraverso il finanziamento alle aziende di credito è ben controllabile dalle banche centrali, le quali hanno, solitamente, margini discrezionali ampi sulla concessione o meno di tali finanziamenti. c) I finanziamenti al settore estero: le banche centrali emettono base monetaria come contropartita dell’acquisto di valute estere. Si tratta dell’emissione o dell'eliminazione di base monetaria, per far fronte alle richieste di cambiare la moneta domestica contro valute estere, o viceversa. d) Le operazioni di mercato aperto: le banche centrali possono decidere di emettere base monetaria in contropartita all’acquisto di titoli finanziari preesistenti sui mercati finanziari. Naturalmente, se la banca centrale acquista titoli, crea base monetaria; al contrario, se l’istituto centrale decide di vendere sui mercati finanziari titoli che sono in suo possesso, riceve in contropartita moneta legale e quindi ritira (o distrugge) base monetaria. Tali operazioni rappresentano, attualmente, il canale di creazione di base monetaria quantitativamente più importante, in particolare, nei Paesi dell’Euro. 3.I MOLTIPLICATORI DELLA BASE MONETARIA Tra i diversi aggregati monetari sussistono delle relazioni che possono essere analizzate attraverso il modello di moltiplicazione della base monetaria, che consta di alcune equazioni: Equazioni definitorie: ● BM = BMP + BMB (la Base Monetaria può essere detenuta dal Pubblico o dalle Banche); ● M = BMP + D (la Moneta consiste nella somma tra Base Monetaria in mano al Pubblico e Depositi). Equazioni comportamentali: ● BMP = hD , h>0 : questa equazione descrive il comportamento dei privati, i quali scelgono di tenere come Base Monetaria presso di sé la frazione h dell’ammontare che detengono come depositi. 55 h può essere interpretato come un parametro comportamentale dei privati, ma è in realtà una funzione che varia al variare del tasso di interesse, quindi si avrà: h = h(r)); ● BMB = jD , j<1 : questa equazione descrive il comportamento delle banche, circa l’ammontare di Base Monetaria che detengono presso di sé, in relazione ai depositi che ricevono. La legislazione bancaria impone alle banche di trattenere presso di sé una certa frazione dei depositi ricevuti dai risparmiatori (coefficiente di riserva obbligatoria), inoltre le banche detengono presso di sé le cosiddette riserve libere. j è data dalla somma del coefficiente di riserva obbligatoria più il coefficiente di riserva libera: j = c RO + c RL. Il coefficiente di riserva obbligatorio rappresenta uno strumento di politica monetaria facilmente controllabile, invece il coefficiente di riserva libero risponde a valutazioni di convenienza economica delle aziende di credito. Sostituendo [BM=BMP+BMB] con [BM=hD+jD=(h+j)D] si avrà [D = 1/h+j BM] dove [1/(h+j)] è il moltiplicatore dei depositi. Sostituendo [M=BMP+D] con [M=hD+D] si avrà [M=(1+h)D] e [M= h+1/h+j BM] dove [(h+1)/(h+j)] è il moltiplicatore della moneta. L’equazione esprime la relazione che sussiste tra Base Monetaria e Moneta e rende chiaro che la moneta è un multiplo della base monetaria. 3.3LE DETERMINANTI DEL MOLTIPLICATORE DELLA MONETA Analizzando l’equazione del moltiplicatore della moneta possiamo renderci conto che, a parità di base monetaria, la quantità di moneta è tanto maggiore: ● Quanto minore è j. Infatti, quanto maggiore è il coefficiente di riserva delle banche, tanto più il processo di moltiplicazione della moneta sarà attenuato dalla mancata concessione in credito di ciò che le banche hanno ricevuto in deposito, e quindi tanto più piccolo sarà il moltiplicatore. Nel caso limite in cui il coefficiente di riserva delle banche fosse massimo, cioè pari a 1, il moltiplicatore della moneta diventerebbe esso stesso pari a 1 e la moneta finirebbe col coincidere esattamente con la base monetaria. ● Quanto minore è h. h esprime la propensione degli operatori a detenere base monetaria presso di sé, se gli operatori preferissero detenere sempre tutto in depositi (h=0) questi attivano la re-immissione della carta-moneta in circolazione, e quindi rendono massimo il valore del moltiplicatore. Se, invece, gli operatori detengono presso di sé i propri mezzi di pagamento soltanto come circolante e non depositano nulla presso le banche, non viene attivato per nulla il processo di moltiplicazione. La creazione della base monetaria. È importante sottolineare che la quantità di moneta esistente in un’economia dipende non soltanto dalle autorità monetarie, ma dipende anche dal comportamento degli operatori privati. Infatti il comportamento dei risparmiatori è rilevante sulla quantità di moneta, grazie il parametro h, e il comportamento delle aziende di credito è rilevante sulla quantità di moneta, tramite il coefficiente di riserva libera, che rientra il parametro j. 56 Perciò è scorretto pensare che la moneta possa essere un buono strumento di politica economica, dato che essa non risponde al requisito della controllabilità da parte delle autorità di politica economica (il moltiplicatore della moneta). 4.GLI STRUMENTI E GLI OBIETTIVI DELLA POLITICA MONETARIA: LA TEORIA TRADIZIONALE DEL MODUS OPERANDI DELLA POLITICA MONETARIA Nella teoria tradizionale del modus operandi della politica monetaria, le variabili possono essere: 1) Gli strumenti: la teoria economica individua come strumenti della politica monetaria: ● La base monetaria, la cui controllabilità dipende dallo specifico canale di creazione e dal contesto istituzionale in cui ci si trova; ● Il coefficiente di riserva obbligatorio nato per fini prudenziali; ● Il massimale sugli impieghi, si tratta di una misura amministrativa con la quale le Autorità monetarie impongono alle aziende di credito un limite massimo alla concessione di crediti; ● I vincoli di portafoglio per le aziende di credito; ● La posizione netta sull’estero, si tratta di una disposizione amministrativa con la quale si invitano le aziende di credito ad assumere una posizione (debitoria o creditoria) in valuta straniera presso banche straniere; ● La fissazione di tassi di interesse di pertinenza delle Autorità monetarie, si tratta di fissare tassi d’interesse applicati dalla banca centrale a particolari operazioni (ad esempio: il Tasso Ufficiale di Sconto); 2) Gli indicatori: si tratta di variabili, facilmente osservabili, la cui dinamica informa le Autorità sull’effettiva direzione che stanno prendendo le variabili rilevanti (ad esempio: i tassi di interesse di mercato) 3) Obiettivi operativi: si tratta di variabili che sono endogene, direttamente influenzate dagli strumenti utilizzati. La loro dinamica consente di fare previsioni sugli obiettivi che si stanno perseguendo (M2); 4) Obiettivi intermedi: si tratta di variabili influenzate dagli strumenti e che hanno un chiaro e diretto legame con gli obiettivi finali. La loro evoluzione consente di prevedere con immediatezza l’evoluzione delle variabili che rappresentano gli obiettivi finali; 5) Obiettivi finali: la politica monetaria deve condividere tutti gli obiettivi macroeconomici della politica economica (il livello di reddito e di occupazione, il livello dell’inflazione, il saldo dei conti con l’estero, la crescita). 5. I CANALI DI TRASMISSIONE DELLA POLITICA MONETARIA I meccanismi di Trasmissione della politica monetaria sull'economia reale sono riconducibili a: 1. Domanda di credito e di investimenti: Una variazione del tasso di interesse determinato della politica monetaria fa variare la domanda di credito dei consumatori e di imprese, che generalmente sono finalizzati a investimenti. 2. Effetti ricchezze e loro influenza sul consumo: è noto che se diminuisce il tasso di interesse, aumenta il prezzo delle attività finanziarie; questo determina un aumento del valore ricchezza delle famiglie e può portare a un incremento dei consumi; questo canale sarà più importante laddove il consumo è più elastico al valore della ricchezza. 3. Effetti ricchezza e la loro influenza sul valore dei collaterali presentabili agli intermediari finanziari per ottenere crediti: Se diminuisce il tasso di interesse, aumenta il valore di asset detenuti dalle imprese e presentabile alle banche per ottenere più crediti. 4. Offerte di credito: Un aumento del tasso di interesse fa diminuire la domanda di crediti, ma ha effetti anche sulla offerta di credito; in un mondo di perfetta concorrenza, l'aumento del tasso dovrebbe spingere le banche a offrire più crediti, ma nel mondo reale delle banche potrebbero trovare conveniente non innalzare i tassi e razionare il credito; sostanzialmente per determinare l’ammontare di crediti concessi non è solo o tanto rilevante il livello dei tassi di interesse, ma 57 Quest’idea è stata contestata dai monetaristi, in quanto stabiliscono che l’aumento dell’offerta di moneta è l’unica vera causa dell’inflazione. Si immagini che abbia luogo un incremento di spesa pubblica, finanziata in deficit, senza che aumenti l’offerta di moneta; l’aumento di una componente della domanda aggregata (la spesa pubblica, in questo caso) determina una diminuzione di un’altra componente di domanda aggregata (ad esempio: gli investimenti fissi delle imprese) causata dall’aumento del tasso d’interesse. Se la politica fiscale espansiva è accompagnata da un aumento di offerta di moneta, quest’ultimo contrasterà innalzamento del tasso d’interesse, ma la domanda aggregata aumenterà provocando tensioni inflazionistiche. 3.5LA SCUOLA DELLA SPINTA DA COSTI Questa scuola sostiene quindi che l'inflazione sia spinta dai costi, ipotizza che la regola delle imprese che seguono nel fissare i prezzi dei prodotti sia quella di calcolare il costo medio di produzione e aumentarlo di una percentuale (Markup): P= (1+m) Cme. Secondo la scuola della spinta da costi le cause principali dell’inflazione sono: ● L’aumento dei margini di profitto cercati dalle imprese. ● L’aumento dei costi medi di produzione che dipende da: o Il costo delle materie prime: Infatti, un aumento del costo delle materie prime avrà ripercussione sui prezzi. In un sistema di cambi fissi, una decisione politica delle Autorità di fissare un tasso di cambio nel quale diventa più costoso acquistare valuta estera per l’acquisto di input importato, comporta maggiori costi medi di produzione e si traduce quindi in inflazione. Perciò un deprezzamento (o una svalutazione) della moneta nazionale è una delle cause di inflazione. o Il costo del lavoro: (CLUP = WL/Y) esso sarà dato dalla spesa per retribuire i lavoratori diviso il volume di produzione; CLUP = WL/Y può essere espresso come CLUP = W/ (Y/L) Rapporto tra salario nominale e la produttività media del lavoro. poniamo π= Y/L. la fissazione dei prezzi sarà: P=(1+m) (W/π + altri) in termini di tassi percentuali di variazione, avremo: P* = g*+W*-π*. Da ciò la regola aurea della politica economica (se g*=0, margini di profitto costanti) non ci sarà inflazione se i salari nominali cresceranno allo stesso tasso al quale cresce la produttività media del lavoro (P*=W*- π*). Ancora oggi, nelle trattative sui rinnovi contrattuali, si è soliti agganciare la dinamica dei salari nominali alla produttività del lavoro. Un’ulteriore conseguenza della regola aurea della politica economica: se i margini di profitto delle imprese non variano (g*=0) e se il salario nominale cresce allo stesso tasso della produttività media del lavoro (W*=π*), allora la quota di reddito che va al fattore lavoro rimane inalterata (SL=0); infatti se: SL = W/ Pπ, consideriamo la variazione percentuale: SL* = W*-P*-π*. SL= quota distributiva del lavoro. 3.6. L’INFLAZIONE STRUTTURALE E IL MORBO DI BAUMOL ● L’inflazione strutturale: aumenti salariali che sarebbero giustificati in un settore (poiché in questo settore la dinamica della produttività è cresciuta altrettanto), quando sono applicati ad altri settori (nei quali la produttività del lavoro è cresciuta a un tasso minore) sono causa di inflazione. ● Morbo dei costi di Baumol: si verifica quando aumentano i costi di produzione in quei settori nei quali la produttività del lavoro è costante nel tempo; per esempio, nel settore delle arti dal vivo, Baumol 60 osserva che per suonare un quartetto di Mozart occorrono oggi gli stessi quattro musicisti che servivano quando Mozart lo ha composto, i tempi di esecuzione e di studio sono rimasti invariati. 4.LA POLITICA DEI REDDITI La politica dei redditi sono interventi di politica economica che mirano a fare coordinare le decisioni di imprenditori, sindacati e soggetti pubblici al fine di mantenere stabile il livello dei prezzi, e non innescare fenomeni di inflazione da conflitto sociale. Rappresenta un tentativo di influenzare, tramite un accordo fra le parti sociali, la dinamica delle variabili macroeconomiche; esistono diversi tipi di politica dei redditi, tra cui: ● Politiche dei redditi “dirigiste”: nel caso che il policy-maker intervenga con atto autoritativo per imporre tetti ai prezzi fissati dagli operatori, si tratta di atti di politica economica che limitano il libero volere degli operatori; ● Politiche dei redditi “istituzionali”: nel caso che il policy-maker partecipi a incontri “triangolari”, insieme ai rappresentanti dei lavoratori e degli imprenditori; ● Politiche dei redditi “di mercato”: nel caso che il policy-maker rimanga esterno alle trattative fra i rappresentanti dei lavoratori e delle imprese, e si limiti a fissare schemi di sussidi e incentivi a quei soggetti che hanno raggiunto e applicano accordi coerenti con l’obiettivo di lotta dell’inflazione. Inoltre l’inflazione può essere vista come un’esternalità negativa e per correggerla, l’autorità di politica economica può intervenire applicando vincoli sulle quantità (politiche dei redditi dirigistiche), fissando appropriate tasse e incentivi (politiche dei redditi di mercato); oppure può attribuire i diritti di proprietà (secondo quanto argomentato dal teorema di Coase): si attribuisce alle imprese e alle associazioni dei lavoratori un diritto a ottenere incrementi di prezzo e poi consentendo a questi soggetti di scambiarsi tali “diritti” sul mercato dei diritti ad aumentare i prezzi. 5.I VANTAGGI DELL’INFLAZIONE E LA TRAGEDIA DELLA DEFLAZIONE L’inflazione danneggia chi si trova in posizione creditoria, nei moderni sistemi capitalistici, le imprese si trovano in posizione debitoria, mentre le famiglie si trovano in posizione creditoria, l’inflazione produce una redistribuzione in favore delle imprese e a danno delle famiglie. Un altro soggetto che si trova in posizione debitoria è il settore pubblico (è evidente che l’inflazione rende meno gravoso l’onere del debito pubblico), ma nessun Governo responsabile può mai pensare di dichiarare che intende risolvere il problema del debito pubblico generando inflazione perché l’inflazione causerebbe una perdita di valore reale ai risparmi delle famiglie. 6.DEFLAZIONE Viceversa, effetti di deflazione hanno effetti opposti, infatti una riduzione generalizzata del livello dei prezzi rende più gravosa la posizione di chi ha contratto un debito. Solitamente episodi di deflazione si sono verificati in momenti in cui la domanda aggregata è risultata “troppo bassa” o da un eccesso di offerta. è scorretto pensare che la deflazione sia il contrario dell'inflazione: all'origine dell'inflazione si possono essere causa di natura monetaria, raramente queste sono all'origine di deflazione; le origini della deflazione sono invece riconducibili sempre alla scarsa domanda. CAPITOLO 21 _ LA CURVA DI PHILIPS E LE POLITICHE DEL LAVORO 1.VERSIONE ORIGINALE DELLA CURVA Nel 1958 chiamarono “curva di Phillips” la curva che lega il tasso di disoccupazione col tasso di variazione dei salari. A tal proposito vi furono due versanti del pensiero economico: 61 1) Sul versante della ricerca empirica, vennero ripetuti esercizi simili, in riferimento a diversi Paesi. Per tutti i Paesi analizzati, e per ogni periodo di tempo preso in esame, sempre emergeva una curva molto simile a quella trovata da Phillips: ● Lungo l’asse orizzontale si misura il tasso di disoccupazione, sull’asse verticale è misurato il tasso di variazione percentuale dei salari nominali; ● Per valori del tasso di disoccupazione via via crescenti, il tasso di variazione del salario nominale è via via decrescente, fino ad assumere valori negativi, quindi tra il tasso di disoccupazione ed il tasso di variazione dei salari nominali sussiste un legame di segno negativo; ● La curva non è lineare, bensì convessa, ciò significa che, a incrementi del tasso di disoccupazione corrispondono decrementi via via decrescenti del tasso di variazione dei salari nominali; ● La curva interseca l’asse orizzontale in corrispondenza di un valore del tasso di disoccupazione intorno al valore u0 = 5,5% ( u0=tasso di disoccupazione di equilibrio): questo vuol dire che per un tasso di disoccupazione intorno al 5,5%, il salario nominale mostra un tasso di variazione nullo; ● Se u < u0 il salario tende a crescere; ● Se u > u0 il salario tende a decrescere; ● praticamente il segno della variazione di W è l’opposto del segno di ( u - u0) ● Non si osserva mai un valore del tasso di disoccupazione inferiore allo 0,8%, in tale punto la curva di Phillips tende ad avere un asintoto verticale; ● Non si osserva mai un valore del tasso di variazione del salario nominale inferiore a -1%, in tale punto la curva di Phillips tende ad avere un asintoto orizzontale. (i salari monetari sono veramente rigidi verso il basso e possono diminuire, ma non oltre una certa percentuale, solo quando il tasso di disoccupazione è veramente alto: il potere dei sindacati è basso e quindi i salari diminuiscono, ma tale potere non svanisce del tutto e quindi non si può sfondare il pavimento inferiore relativo alla variazione dei salari). 2) Sul versante della spiegazione dei fondamenti teorici della relazione, già Phillips su suggerimento Lipsey, osservò che la variazione del salario, essendo la variazione di un prezzo (il prezzo del lavoro), poteva rispondere a eccessi di domanda e di offerta (spiegazione di Lipsey della curva di Phillips). La curva di Phillips è data da: W* = f(u) e dalla teoria della spinta dei costi si ricordi che è possibile interpretare il livello generale dei prezzi come (P* = g*+W*-π*) in termini di tassi di variazione si ottiene: P* = f(u) + g* - π* questa è l’equazione della curva di Phillips con il tasso di inflazione in luogo del tasso di variazione dei salari e ponendo (β=g*-π*) si ottiene: P* = f(u) + β. La curva di Phillips rappresentò una guida all’azione della politica economica in quanto si riteneva che esistesse un legame necessario e stabile tra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione. in base a quanto mostrato da tale curva non è possibile avere contemporaneamente bassa inflazione e bassa disoccupazione. 2.LA SPIEGAZIONE TEORICA DI LIPSEY Lipsey osservò che la relazione trovata da Phillips era una relazione ovvia, perché non facva altro che descrivere l’aggiustamento warlasiano del mercato del lavoro. 62 Nel 1973, a seguito del primo shock petrolifero, per la prima volta si osservò negli USA un aumento contemporaneo del tasso di disoccupazione e del tasso di inflazione, che nella logica della curva di Phillips, era inammissibile. Gli stessi economisti si preoccuparono di svolgere delle ricerche empiriche per quantificare il valore del tasso di disoccupazione naturale; in realtà, il valore “naturale” del tasso di disoccupazione, che per definizione non è influenzato dalle politiche di domanda, è però influenzabile da istituzioni e da comportamenti culturali consolidati. Se l’obiettivo della politica economica era quello di ridurre il tasso di disoccupazione, la preoccupazione degli economisti contrari alle politiche di domanda è stata quella di suggerire appropriate modifiche per cercare di ridurre il tasso di disoccupazione naturale. Queste politiche non possono che essere di tipo istituzionale ed essere rivolte al lato dell’offerta, piuttosto che a quello della domanda. 7.DIGRESSIONE: LE POLITICHE DEL LAVORO La disoccupazione è una manifestazione di squilibrio sul mercato del lavoro. Tutte le politiche economiche che intendono influenzare il mercato del lavoro vengono connotate come “politiche del lavoro”. 7.1ALCUNE DEFINIZIONI E DATI SULLA RECENTE SITUAZIONE ITALIANA. ● Disoccupato è colui che pur offrendo, alle condizioni prevalenti sul mercato del lavoro, il proprio lavoro, non riesce a scambiare questo servizio contro una remunerazione; ● Disoccupati volontar i sono coloro che, alle condizioni prevalenti sul mercato, ritengono ottimale non offrire il proprio lavoro (non si considerano disoccupati); ● Le forze di lavoro (offerta di lavoro) sono gli occupati e i disoccupati; ● Non-forze di lavoro sono la popolazione che ha età inferiore a 15 anni e superiore a 64 anni (chi è disoccupato volontario rientra tra le non-forze di lavoro). ● Il tasso di disoccupazione è il rapporto tra i disoccupati e le forze di lavoro; ● Il tasso di attività è il rapporto tra le forze di lavoro e la popolazione in età lavorativa; ● Il tasso di occupazione è il rapporto tra il numero degli occupati e la popolazione in età da lavoro. In base alle politiche economiche più appropriate da adottare risulta molto utile distinguere vari tipi di disoccupati: ● in base alla permanenza nello stato di disoccupazione (di breve e di lungo periodo); ● chi ha perso il lavoro e quindi ha già esperienze lavorative e chi è in cerca della prima occupazione. 7.2LE POLITICHE CONTRO LA DISOCCUPAZIONE Le politiche del lavoro vengono divise in: ● politiche passive del lavoro, sono quelle che si limitano a lenire il disagio derivante dalla condizione di disoccupazione e sono costituite da due provvedimenti: sostegno economico ai disoccupati (indennità di disoccupazione), collocamento in pensione dei lavoratori espulsi dai processi produttivi (schemi di pensionamento anticipato). ● politiche attive del lavoro, sono quelle che mirano ad attivare comportamenti specifici virtuosi, da parte di chi domanda e soprattutto da parte di chi offre lavoro, in modo da limitare il periodo dello status di disoccupato e da favorire il re-ingresso nel processo produttivo. Queste politiche sono costituite da alcuni provvedimenti: a) Supporto e orientamento dei disoccupati; b) Formazione e addestramento; c) Schemi di suddivisione delle opportunità di lavoro; d) Incentivi all’occupazione; 65 e) Inserimento lavorativo per categorie particolari di lavoratori (ad esempio: portatori di handicap); f) Creazione diretta di posti di lavoro da parte delle pubbliche amministrazioni. CAPITOLO 22 POLITICHE DI MACRO IN PRESENZA DI INTERDIPENDENZA TRA GOVERNO E PRIVATI. 1.LA VERSIONE DI BASE DEL MODELLO DI BARRO E GORDON I cittadini (C), come il governo (G), perseguono determinati obiettivi e per raggiungerli fanno delle scelte. Queste scelte, però, sono effettuate tenendo conto della controparte e degli effetti che può subire. Si crea dunque una sorta di gioco e di interdipendenza fra i cittadini ed il governo (o policy maker). Lo studio di queste dinamiche è stato iniziato dalla Critica di Lucas, il quale sosteneva che i parametri di comportamento dei cittadini non fossero invariati rispetto alle azioni atte dal governo. Pertanto i policy maker per disegnare interventi appropriati devono tenere in conto le relazioni dei cittadini (e viceversa). Ad approfondire questo concetto è il Modello di Barro e Gordon, che analizza il sistema economico entro il quale operano i due soggetti. Il governo imposta il tasso di inflazione da attuare (i), mentre i cittadini hanno come variabile di scelta il tasso di inflazione atteso (ie¿ . Le due variabili di scelta influenzano le performance dell’economia e ad ogni combinazione delle due variabili corrisponde un livello di produzione: La produzione y è pari al livello di pieno impiego(y^PI) . Se i>ie si ottiene un livello di produzione superiore a quello di pieno impiego. non è altro che un modo alternativo di esprimere la curva di phillips. Entrambe le parti perseguono un obiettivo, quello dei cittadini è minimizzare la differenza i-ie , per realizzare il proprio obiettivo i cittadini dovrebbero comportarsi in modo che i=ie La funzione obiettivo del governo, invece, ha due obiettivi: 1. raggiungere un livello di produzione maggiore di quello di pieno impiego y*=(1+k)y^PI con k>0; 2. raggiungere una bassa inflazione i*=0. Il problema è che ci sono due obiettivi ma un solo strumento. Dunque, il governo ha una sola variabile di scelta per un solo obiettivo che passa da fisso a flessibile. Barro e Gordon hanno elaborato una funzione (detta ‘di perdita’) che esprime come i valori di produzione e di inflazione si allontanino da quelli obiettivo, per cui il governo deve minimizzare tale perdita: L=b(y-y* )^2 + (i – i*)^2 con b>0 che moltiplica la perdita associata allo scostamento della produzione dal suo valore obiettivo, ed indica qual è il peso che il governo attribuisce all’obiettivo produzione rispetto all’obiettivo inflazione. 66 Quando b si avvicina allo zero, il governo attribuisce un peso ridotto allo scostamento della produzione dal valore obiettivo mentre rende minimo lo scostamento dell’inflazione dal valore obiettivo. Il contrario accade se b assume valori elevati. Sostituendo ai valori della precedente funzione i valori esplicitati di y e i, si ottiene: L=b[(y-(1+k)y^PI ]^2+i^2 Inglobando il vincolo strutturale dell’economia in questa funzione, ossia sostituendo a y la funzione che ci è data dalla funzione 1, otteniamo: L=b{F[h(y-y*)] + β} [(y(^PI)+ a (i-ie)] - (1+k) y^PI ](^2) + i(^2) Che può essere semplificata: L=b[-ky^PI + a (i-ie)]^2 + i(^2) Dunque, il governo deve scegliere quale valore di i minimizzi questa funzione calcolando la derivata prima di L rispetto alla variabile i e porla uguale a zero. Esplicitando i otteniamo che la variabile scelta è uguale a: i = (abky^PI)/(1+ba^2) + (ba^2)/(1+ba^2) * ie Si evince che i dipende dalle variabili del problema e dalle variabili esogene (a,b,k,y^PI), ma anche dalla variabile ieche rappresenta la scelta dei cittadini. Perciò, la funzione sovrascritta rappresenta la funzione di reazione del governo perché esprime la scelta ottimale di i per ogni livello di ie scelto dalla controparte. E’ possibile rappresentare la relazione tra cittadini e governo, attraverso un grafico che riporta la funzione di reazione dei cittadini (R^c) e la funzione di reazione del governo (R^G). Soltanto nel punto N, dove le due funzioni si intersecano, entrambi i giocatori reagiscono in maniera ottimale alle azioni dell’avversario e si trovano in equilibrio di Nash. N = punto di equilibrio. I valori di equilibrio si trovano con semplici passaggi di sostituzione: Con delle sostituzioni si vede come il settore privato non ha subito alcuna perdita, mentre il governo la subisce a causa dell’inflazione e della produzione pari a quella di pieno impiego. 67 Chiamiamo “forte” il governo per il quale b=0 e lo indichiamo con la lettera T; chiamiamo “debole” il governo nella cui funzione obbiettivo b>0 indicandolo con la lettera W. Dunque, diciamo che lo spazio dei tipi possibili del giocatore G presenta due elementi: W e T. Supponiamo che l’interazione tra le parti sia ripetuta due volte: per il governo di tipo T sappiamo già che attuerà una sequenza di scelte i1=0 e i2=0 perché non gli importa dell’occupazione, ma solo di rendere nulla l’inflazione. Per il governo W non è facile prevedere le scelte per via delle preferenze poco chiare. Pertanto, possiamo individuare due casi: -inflazione positiva in entrambi gli anni con I1>0 e I2>0, questo gioco è detto separating (separante)perché l’azione del governo nel primo periodo ne rivela esattamente il tipo; -inflazione nulla I1=0 per fare credere ai cittadini che attua politiche per antinflazionistiche, per poi coglierli di sorpresa con un’inflazione positiva I2>0 ottenendo un reddito maggiore di quello di pieno impiego. In questo caso, il gioco ad info incompleta si dice pooling (accumunante) perché tutti i tipi di giocatori giocano la stessa mossa nel primo periodo. 6.INTERDIPENDENZA STRATEGICA TRA I CENTRI DECISIONALI DELLA POLITICA ECONOMICA: Questo è il caso in cui le diverse autorità della politica economica sono legate da situazioni di interdipendenza strategica, sicché il risultato ottimale per ciascuna di esse dipende dal comportamento dell'altra: si instaura quindi una situazione di gioco tra le autorità di politica economica. Ciò può essere spiegato attraverso un gioco fra le autorità di politica fiscale come il governo (GOV) e la banca centrale (BC). Immaginiamo che l’autorità di politica fiscale, il governo, sia interessato alla crescita economica ; mentre l’autorità monetaria sia interessata alla stabilità dei prezzi. Le mosse disponibili rispondono a politiche restrittive ed espansive. Nella tabella A sono rappresentati i pay-off per i due giocatori tali che a>b>c>d. Si nota che la scelta dominante per il governo è la politica espansiva mentre per la banca centrale è la politica restrittiva. Entrambe le parti applicano la loro scelta dominante e arrivano ad un equilibrio di Nash (c,c) che non è quello ottimale (b,b) che sarebbe efficiente. Questo si configura proprio come il dilemma del prigioniero. CAPITOLO 23 _ LA BILANCIA DEI PAGAMENTI E I TASSI DI CAMBIO 1.INTRODUZIONE Il mercato in cui vengono scambiate le valute di Paesi diversi prende il nome di mercato valutario (o mercato dei cambi). Il mercato valutario rappresenta un “segmento” del mercato internazionale dei titoli finanziari. Il rapporto di scambio tra valute di paesi diversi prende il nome di tasso di cambio; Il modo in cui si stabilisce il tasso di cambio dipende dagli accordi vigenti tra gli Stati, se il tasso di cambio è fisso vuol dire che è definito in modo puntuale o su un dato intervallo, in alternativa abbiamo un cambio flessibile quando si stabilisce sulla base del libro gioco di domande offerta delle valute. 2.LA BILANCIA DEI PAGAMENTI 2.1. DEFINIZIONE La Bilancia dei Pagamenti (BDP) è un documento contabile che registra gli scambi economici che intercorrono, in un certo lasso di tempo, tra i residenti di un Paese e i residenti nel resto del mondo. Gli elementi che caratterizzano questa regola sono: a) La bilancia dei pagamenti è un conto, conto vuol dire che la BDP viene tenuta secondo le regole ragionieristiche della partita doppia (quindi la somma algebrica delle voci deve dare zero). In attivo vengono indicate tutte le vendite (i cui proventi vengono poi registrati una seconda volta in passivo), 70 in passivo vengono indicati tutti gli acquisti (i cui pagamenti vengono poi registrati una seconda volta in attivo). b) La bilancia dei pagamenti registra gli scambi economici. c) Durante un periodo di tempo, la bilancia dei pagamenti va sempre riferita a un arco temporale. d) Residenti e non-residenti, questo significa che nella bilancia dei pagamenti lo scambio deve riguardare un residente e un non-residente. La bilancia dei pagamenti si basa su: - le registrazioni delle dogane; - i dati valutari, trasmessi dalle banche, nei quali figurano le domande e le offerte di valute straniere; - le stime delle spese effettuate da soggetti. La bilancia dei pagamenti presenta aspetti di interesse economico: ● la sezione delle partite correnti, che registra lo scambio di beni e servizi, nonché i trasferimenti unilaterali; ● la bilancia dei movimenti dei capitali finanziari, che registra lo scambio di attività e passività finanziarie. La somma algebrica delle due sezioni corrisponde all’esito della BDP (BP=PC+SMKF). BP= esito economico complessivo PC= esito partite correnti SMKF= esito movimento capitali finanziari Se entrambi le sezioni sono in pareggio la BDP è in situazione di “pieno equilibrio”. La sezione della BDP in cui è registrato l’esito viene detta anche “bilancia monetaria” perché è relativa alla variazione delle riserve ufficiali del Paese. 2.2.SCHEMI DI BILANCIA DEI PAGAMENTI Le voci principali del conto dei capitali finanziari sono quattro: a) la compravendita di titoli azionari finalizzati al controllo di imprese (investimenti diretti), b) la compravendita di titoli (azionari e obbligazionari) operati a fini di aggiustamento di portafoglio finanziario degli operatori, c) l’accensione o la concessione di crediti commerciali e i prestiti a cui vengono aggiunti; d) possibili errori o omissioni. Si perviene all’esito della BdP. Le Autorità di politica economica erano solite dare disposizioni amministrative per fare modificare la “Posizione Netta sull’Estero (PNE) delle aziende di credito”: cioè la banca centrale obbliga le aziende di credito ad accendere debiti (o crediti) presso l’estero, al fine di reperire (o cedere) valuta. Attualmente lo schema della bilancia dei pagamenti utilizzato all’interno dell’area euro è diviso in quattro sezioni: 1) il conto corrente, che contiene: beni, servizi, redditi e trasferimenti; 2) il conto capitale, nel quale viene registrato l’interscambio di attività intangibili (ad esempio: i brevetti), che contribuiscono alla formazione del capitale intangibile delle imprese; 3) il conto finanziario, nel quale vengono computati sia i movimenti di capitale effettuati dai privati, sia le operazioni inerenti alle variazioni delle riserve che rappresentano quindi l’esito economico; 4) errori o omissioni. 3.2. CENNI SULLE CARATTERISTICHE DEI CONTI CON L’ESTERO DELL’ITALIA. Nel Secondo dopoguerra, l’apertura commerciale del nostro Paese ha rappresentato uno dei capisaldi della politica economica (infatti, l’apertura è stata vista come elemento di tutela della concorrenza e come occasione di crescita economica, sociale e politica). 71 ● Invece, l’apertura agli scambi di capitali finanziari, è soltanto recente e, infatti, la transazione di capitali finanziari è stata molto ridotta fino alla metà degli anni Settanta. ● Circa la bilancia commerciale, l’Italia presenta: situazioni di deficit per quanto riguarda le materie prime, i prodotti energetici e i prodotti ad alto contenuto tecnologico; situazione di avanzo per quanto riguarda i lavorati dei settori tradizionali, i lavorati ad alto contenuto creativo. Proprio per questo motivo c’è chi ritiene che il nostro Paese abbia una limitata capacità e possibilità di innovazione tecnologica. ● In conto servizi, il turismo ha segnato forti attivi fino a qualche anno fa. ● In conto trasferimenti, sono molto evidenti, in Italia, le rimesse degli emigrati. Soltanto con l’adesione irrevocabile alla moneta unica europea (1997), sono cessate le aspettative di svalutazione sulla lira e ciò ha consentito di limitare i passivi dei movimenti di capitale. 3.I TASSI DI CAMBIO Per tasso di cambio nominale bilaterale (o tasso di cambio) si intende il prezzo di una valuta nei confronti di un’altra valuta. Esistono due metodi di calcolo: ● “incerto per certo” (ei/c), essa esprime quante unità della moneta domestica si scambiano contro una unità di valuta estera; se il tasso di cambio aumenta (ad esempio: il cambio lira/dollaro passa da 1700 a 1800), significa che la lira si deprezza ed il dollaro si apprezza. ● “certo per incerto” (ec/i), in questo caso si fissa a 1 la quantità di moneta domestica e si chiede a quante unità di valuta estera corrisponde un’unità di moneta interna; se il tasso di cambio aumenta (ad esempio: il cambio euro/dollaro passa da 1,05 a 1,10), significa che l’euro si sta apprezzando ed il dollaro si deprezza. Poiché ci troviamo in un Paese dell’area euro ci riferiremo al sistema “certo per incerto”. TASSO DI CAMBIO NOMINALE EFFETTIVO La nostra moneta viene scambiata contemporaneamente da più monete estere che hanno un tasso di cambio diverso, pertanto, per avere un’idea dell’andamento del tasso di cambio verso tutte le altre valute estere, occorre considerare una media dei tassi di cambio (più correttamente una media ponderata, in cui i coefficienti di ponderazione rispecchino il peso che ciascuna valuta straniera ricopre nell’interscambio tra il Paese ed il rispettivo partner commerciale). ● Tasso di cambio nominale effettivo: rappresenta la media ponderata dei tassi di cambio verso tutte le valute con cui una moneta è scambiata: eeff = e Aw A + eBwB + … + eN wN = ∑ i=A N ❑eiwi. ● Tasso di cambio bilaterale reale, questo cambio intende tenere in considerazione il valore reale di scambio fra due monete (si deve tenere in considerazione non solo il rapporto di cambio nominale fra le due monete, ma anche i prezzi vigenti nei due Paesi). A tal proposito avremo: ereale = ePeuro/PUSA ● Tasso di cambio reale effettivo, è dato dalla media ponderata dei cambi bilaterali reali: erealeeff= eeff Pd P f Vale la pena notare che più elevato risulta il tasso di cambio reale effettivo, meno competitivo nel prezzo sarà il prodotto dell’economia domestica nei confronti dei prodotti stranieri. L’indicatore di competitività non è altro che il reciproco del tasso di cambio reale effettivo (se il tasso di cambio reale effettivo aumenta, aumenta anche il prezzo dei prodotti domestici nei confronti del resto del mondo e quindi diventano meno competitivi): ε = P f ePd Si utilizzano i termini di apprezzamento e deprezzamento quando le variazioni del tasso di cambio rappresentano l’esito di forze di mercato, mentre si utilizzano i termini di rivalutazione o svalutazione quando i movimenti del tasso di cambio sono imputabili a decisioni di politica economica. 72 importazione diminuiscono, diminuiscono i prezzi e quindi aumenta la competitività, aumenta l’afflusso di capitali esteri; questo è un meccanismo di aggiustamento automatico sui prezzi e sulle quantità. 6.LE POLITICHE ATTIVE DI RIEQUILIBRIO DEI CONTI CON L’ESTERO: LA MANOVRA DEL CAMBIO E LE SUE LIMITAZIONI Attendere la realizzazione di meccanismi automatici di aggiustamento può richiedere tempi lunghi, per cui le Autorità di politica economica possono ritenere opportuno intervenire attivamente, per ripianare squilibri nei conti con l’estero. Posto che l’obiettivo di politica economica sia il pareggio dei conti con l’estero, si tratta di stabilire quale sia lo strumento di intervento più opportuno. Solitamente viene utilizzato la variazione del tasso di cambio: il buon senso suggerisce di svalutare (o fare deprezzare) il tasso di cambio, in presenza di deficit nei conti con l’estero e di rivalutare (o fare apprezzare) il tasso, in presenza di surplus. In questo modo, si agisce sulla competitività della produzione nazionale e quindi sull’esito delle partite correnti. Ma affinché la manovra del cambio sia efficace, è necessario che siano verificate alcune precondizioni: 1. La condizione di Marshall-Lerner: occorre che le importazioni e le esportazioni siano sufficientemente reattive al tasso di cambio, affinché una svalutazione (o deprezzamento) del tasso di cambio migliori l’esito delle partite correnti. 2. L’effetto j: le quantità fisiche di beni importati ed esportati, per adeguarsi alle nuove condizioni di prezzo, hanno bisogno di tempo; nell’immediato, il valore delle esportazioni cala, proprio perché il tasso è diminuito a seguito della svalutazione; questo dà luogo ad un immediato e netto calo del valore delle partite correnti, che poi inizieranno a migliorare solo lentamente. Il temporaneo peggioramento che intercorre tra t0 e t1 prende il nome di “effetto j” (nelle economie avanzate questo effetto dura fra 3 e 8 mesi). 3. Assenza di strozzature: occorre “assenza di strozzature nel lato dell’offerta”, la svalutazione della moneta riesce a migliorare le partite correnti soltanto se l’apparato produttivo dell’economia domestica non è soggetto a rigidità (strozzature) tali da rendere l’economia non in grado di produrre beni per soddisfare l’accresciuta domanda estera (in altre parole, l’economia non deve trovarsi in condizioni di pieno impiego); se così non fosse, una svalutazione accrescerà la domanda che di tradurrà in una spinta inflazionistica. 4. Effetto pass-through: occorre fare attenzione che, una svalutazione della moneta domestica, potrebbe tradursi unicamente in un maggiore profitto per gli intermediari commerciali. 5. Aspettative di svalutazione: spesso una svalutazione della moneta nazionale induce aspettative di ulteriori svalutazioni. In merito alle partite correnti, attese di svalutazione futura fanno sì che agli operatori nazionali convenga accelerare il più possibile i pagamenti che essi debbono effettuare all’estero e ritardare gli incassi che essi debbono ricevere dall’estero per il fatto che ci si aspetta che in futuro le valute estere valgano di più rispetto alla moneta. Quindi, affinché la svalutazione abbia effetti positivi sull’esito della BdP, è necessario richiedere che i miglioramenti delle partite correnti non siano neutralizzati da peggioramenti nel saldo dei movimenti di capitali; stiamo richiedendo che l’elasticità dell’aspettativa della variazione futura del tasso di cambio a una variazione corrente sia limitata. Quando le Autorità di politica economica sono pronte a svalutare (o a fare deprezzare) la propria moneta per accrescere la competitività, significa che stanno seguendo una politica di svalutazione competitiva (politiche che consistono nello svalutare la propria moneta per conferire competitività di prezzo al prodotto nazionale). 7.LA TEORIA DELLA BILANCIA DEI PAGAMENTI E LA CURVA BP L’esito delle partite correnti (PC) dipende: 75 a) Negativamente dal reddito domestico (mY); b) Positivamente dal reddito del resto del mondo (χYRM); YRM); c) Positivamente dall’indicatore di competitività (γ = Pf / ePd); avremo: PC = PC0 – mY + χY^RM + γ(P^f / eP^d). Y^RM + γPt* (P^f / eP^d). Naturalmente la sensibilità dell’esito delle partite correnti rispetto al reddito dipende da tutti i parametri comportamentali e istituzionali, E in particolare dalla dimensione della propensione marginale a importare: Più alta è tale propensione, tanto maggiore sarà il peggioramento delle partite correnti. L’esito del movimento dei capitali (SMK) dipende: a) Positivamente dal tasso di interesse interno (αr); b) Negativamente dal tasso di interesse estero (βrRM); c) positivamente dalle aspettative di apprezzamento del cambio (γeexp*); avremo: SMK = K0 + αr - βr^RM + λe^exp*. r - βr^RM + λe^exp*. e^exp*. La sensibilità di SMK rispetto a r dipende dai parametri comportamentali degli operatori e dall’assetto istituzionale. L’esito complessivo della bilancia dei pagamenti è dato dalla somma del saldo delle partite correnti e del saldo dei movimenti di capitale (BP=PC+SMK). La relazione BP esprime l’insieme delle combinazioni di reddito e tasso d’interesse di un’economia che assicurano il pareggio della bilancia dei pagamenti. Dato che le partite correnti dipendono (negativamente) dal reddito ed il saldo dei movimenti di capitale dipende (positivamente) dal tasso d’interesse, si ottiene: BP = PC(Y) + SMK(r) = 0; effettuando le opportune sostituzioni, si avrà: BP = [PC0 –mY + χY^RM + γ(P^f / eP^d). Y^RM + γPt* (P^f / eP^d)] + [K0 + αr - βr^RM + λe^exp*. r - βr^RM + λe^exp*. e^exp*] = 0; da cui si ricava: r = m/αr - βr^RM + λe^exp*. Y – [PC0 + χY^RM + γ(P^f / eP^d). YRM + γPt* (Pf / ePd) + K0 - βrRM + λe^exp*. eexp*] / αr - βr^RM + λe^exp*. . A cui corrisponde la curva BP: - i punti lungo la curva BP rappresentano situazioni di equilibrio della BdP; - i punti del piano che stanno al di sopra di tale curva rappresentano situazioni associate a surplus nei conti con l’estero; - i punti del piano che stanno al di sotto di tale curva rappresentano situazioni associate a deficit nei conti con l’estero; - m/α <0 rappresenta l’inclinazione (positiva) della curva: a fronte di un aumento del reddito, per mantenere una BdP in pareggio è necessario che aumenti anche il tasso d’interesse, per poter migliorare il saldo di movimenti di capitali; 76 Quanto più sensibili sono i capitali finanziari al tasso di interesse, tanto più piatta sarà la curva BP. Analizziamo i due casi limite: ● la curva BP si presenta come perfettamente verticale se i movimenti di capitali finanziari sono del tutto insensibili ai tassi d’interesse (ossia, se i capitali finanziari sono totalmente immobili); ● la curva BP si presenta come perfettamente orizzontale se i movimenti di capitali finanziari sono infinitamente sensibili al tasso d’interesse (ossia, se i capitali finanziari hanno un’infinità mobilità). In questo caso il tasso d’interesse interno è uguale al tasso d’interesse estero e ciò provoca un infinito afflusso (se r>rf) o deflusso (se r<rf) di capitali finanziari dal Paese preso in considerazione (Perfetta integrazione finanziaria o perfetta sostituibilità fra i titoli di Paesi differenti). Passiamo ora a esaminare la posizione della curva BP: a) se aumenta il reddito del resto del mondo, la curva BP si deve spostare verso destra nel piano; b) se aumenta il tasso d’interesse estero, la curva BP si sposta verso sinistra; c) se il tasso di cambio si deprezza (o viene svalutato), la curva BP si sposta verso destra. Viceversa, se il tasso di cambio si apprezza (o viene rivalutato), la curva BP si sposta verso sinistra; d) un’attesa di svalutazione di tasso di cambio, richiede un minore livello del reddito e quindi uno spostamento della curva BP verso sinistra. CAPITOLO 24 GLI EFFETTI DELLE POLITICHE MACROECONOMICHE IN ECONOMIA APERTA: IL MODELLO IS-LM 1.INTRODUZIONE In questo capitolo prenderemo in esame gli effetti delle politiche macroeconomiche in una economia aperta. Utilizzeremo l'elaborazione di Mundell e Fleming che riguardano delle ricerche che si configurano come estensione nel modello IS-LM, essi hanno costituito il modello IS-LM-BP, che ha rappresentato e rappresenta tutt'oggi un'importante guida teorica per valutare le politiche macroeconomiche in economia aperta. Quale modello prendi in considerazione il mercato dei beni, della moneta e i conti con l’estero di uno stato. L'ipotesi sottostante è che il mercato dei beni e quello della moneta, come nel modello IS-LM, raggiungano l'equilibrio grazie a modifiche endogene della produzione e del tasso di interesse.Si considera che entrambi questi mercati raggiungono le rispettive condizioni di equilibrio nel breve periodo. L'equilibrio IS-LM è conseguenza di conti con l'estero che invece possono essere, nel breve periodo, in disequilibrio (ossia, la bilancia dei pagamenti può sopportare almeno nel breve periodo, di essere in surplus o in deficit). Con queste dinamiche inoltre si avviano necessariamente determinati processi di aggiustamento automatico dei conti con l'estero, che saranno differenti a seconda del sistema di cambio vigente, e che portano, nel lungo periodo, all'equilibrio su tutti e 3 i mercati. Servendosi di tale modello, si considera un sistema economico che parte da una situazione di equilibrio iniziale e si esamina come cambi l'equilibrio a seguito di shock esogeni specifici o di determinate azioni di politica economica. Durante l'analisi, si distinguono gli effetti di breve periodo (che spingono una nuova posizione di equilibrio il mercato dei beni e quello della moneta) mentre può tollelarsi la situazione di disequilibrio della bilancia dei pagamenti, dagli effetti di lungo periodo (quando i meccanismi di aggiustamento automatico dei conti con l’estero portano equilibrio su tutti e 3 i mercati rilevanti). In alcune circostanze, dunque, vi è la possibilità che vi sia una differenza tra i risultati raggiunti nel breve periodo e risultati che si realizzano invece nel lungo periodo. Dobbiamo richiamare le determinanti della forma e della posizione di ciascuna curva: ● Curva IS : Esprime le combinazioni di reddito tasso di interesse compatibili con l'equilibrio del mercato dei beni. Tale curva presenta un’inclinazione negativa e sarà tanto più piatta, quanto 77 L’esito complessivo è che in entrambe le componenti ci sarà un peggioramento. Il punto B, di equilibrio di impatto, si trova al di sotto della curva BP, sia nel caso di bassa sia in quello di alta mobilità dei capitali finanziari. Il passivo dei conti con l'estero prova con deprezzamento del tasso di cambio .Ciò ha effetti positivi sulla domanda di beni soddisfatta da produzione nazionale e questo comporta uno spostamento verso destra sia della curva IS sia della curva BP. Questi spostamenti proseguiranno fin tanto che l'equilibrio IS-LM non assicuri anche il pareggio dei conti con l'estero. Pertanto, rispetto all equilibrio di breve periodo, i meccanismi di aggiornamento automatico, in un regime di cambi flessibili, esaltano l'effetto espansivo sul reddito della politica monetaria espansiva. Questa conclusione non è influenzata dal grado di mobilità dei capitali finanziari. Anche nel caso limite di capitali finanziari perfettamente mobili, la politica monetaria espansiva determina un aumento del reddito e una diminuzione del tasso di interesse e un disavanzo in conto capitale e nella bilancia dei pagamenti nel suo complesso. Tale disavanzo porta un deprezzamento del tasso di cambio, con effetti di competitività positivi che comportano uno spostamento verso destra della curva IS: l'effetto espansivo d'impatto, pertanto, è esaltato nel lungo periodo. 3.GLI EFFETTI DELLE POLITICHE ECONOMICHE IN UN’ECONOMIA APERTA CON CAMBI FISSI 3.1. POLITICA FISCALE Esaminiamo gli effetti della politica fiscale espansiva. Anche in questo caso, è necessario distinguere tra economie contraddistinte da limitata mobilità dei capitali finanziari e sistemi economici in cui la mobilità dei capitali è elevata. I riquadri della figura in alto Si parte da una situazione di equilibrio su tutti e 3 i mercati (punto A). Con una manovra di politica fiscale espansiva la curva IS si sposta verso destra e il sistema trova equilibrio nel punto B. L'effetto di impatto è un aumento del reddito e del tasso di interesse. Per quel che riguarda i conti con l'estero, ciò che si determina è un peggioramento delle partite correnti e un miglioramento del saldo dei movimenti di capitali finanziari. Quale di questi 2 contrapposti effetti prevalga, dipende da quanto sono mobili i capitali finanziari. Se questi sono molto mobili prevale l’attivo del movimento di capitali (b); se sono poco mobili prevale il disavanzo delle partite correnti(a). Il punto B rappresenta l'equilibrio di breve periodo, si viene a trovare al di sotto della curva BP. Però il punto B non può rappresentare la posizione finale del sistema economico,in quanto il disequilibrio dei conti con l’estero mette in atto meccanismi di aggiustamento automatico. In particolare, poiché ci si trova in regime di cambi fissi, succede che: se c'è disavanzo nella bilancia dei pagamenti, si distrugge base monetaria; mentre se c'è un avanzo in bilancia dei pagamenti, si genera base monetaria. Questo effetto si ripercuote sulla posizione della curva LM, a parità di tutte le altre condizioni: nel caso di disavanzo la LM si sposta verso sinistra, mentre in caso di avanzo si sposta verso destra. Gli spostamenti della LM continuano fino a che i conti del con l'estero non tornano in equilibrio.I punti di equilibrio di lungo periodo sono il punto C e D. Dal confronto fra i 3 punti si possono trarre alcune conclusioni: ● In primo luogo, quando i capitali sono poco mobili, una politica fiscale espansiva nel breve periodo è efficace nell’aumentare il reddito il tasso di interesse, ma sviluppando un deficit nei conti con l'estero 80 che, il regime di cambi fissi, porta distruggere base monetaria, analogamente a una manovra monetaria restrittiva, porta il reddito ad abbassarsi nel lungo periodo; ● Invece quando i capitali sono molto mobili una politica fiscale espansiva nel breve periodo è efficace nell’aumentare il reddito e il tasso di interesse e, pertanto, determina anche un surplus nei confronti con l'estero che, in regime di cambi fissi, porta creare analogamente base monetaria; ciò equivale a una manovra monetaria espansiva che porta il reddito ad aumentare ulteriormente nel lungo periodo. In conclusione, l’effetto espansivo sul reddito di una politica fiscale espansiva, con cambi fissi,è esaltato nel lungo periodo se i capitali finanziari sono molto mobili, mentre è ridotto se sono poco mobili, e addirittura annullato se i capitali sono perfettamente immobili. 3.2. LA POLITICA MONETARIA Esaminiamo ora gli effetti di una politica monetaria espansiva. Immaginiamo sempre di prendere in considerazione un'economia che ha equilibrio su tutti e tre i mercati. Data una manovra di politica monetaria espansiva, la curva LM si sposta verso destra e il sistema trova equilibrio di breve periodo dove sono in equilibrio sia mercato della moneta che mercato dei beni. L'effetto di impatto è un aumento del reddito e una diminuzione del tasso di interesse. Riguardo i conti con l'estero si determina un evidente passivo, dato che peggiorano sia le partite correnti (a causa dell'aumento del reddito) sia il saldo dei movimenti di capitali (per la diminuzione dei tassi di interesse domestici). Il disequilibrio mette comunque in atto meccanismi di aggiustamento automatico. In regime di cambi fissi il disavanzo dei conti con l'estero si traduce in una distribuzione di base monetaria endogena e ciò produce gli stessi effetti una politica monetaria restrittiva, che comporta uno spostamento verso sinistra della curva LM, ferme restano la IS e la BP. Sostanzialmente la curva LM Inizia a tornare indietro finché non torna l'equilibrio, nel punto iniziale di partenza. L’effetto espansivo di impatto della politica monetaria è annullato nel lungo periodo, dalla contrazioni di base monetaria messa in moto dal disavanzo nei conti con l'estero. Questo il risultato vale qualunque sia la mobilità dei capitali finanziari. Abbiamo raggiunto la conclusione anche la politica monetaria, in regime di cambi fissi, è totalmente inefficiente nel lungo periodo e può avere effetti soltanto transitori. 4.LA VALUTAZIONE DEGLI EFFETTI DELLE POLITICHE ECONOMICHE IN CASI PARTICOLARI 4.1 L’ASSENZA DI MOBILITà DI CAPITALI FINANZIARI Primo caso limite che prenderemo in considerazione è quello in cui i capitali finanziari hanno una mobilità nulla, ossia non reagiscono alle variazioni dei tassi di interesse. Questa situazione si verifica quando esistono norme di legge che vietano l'ingresso e l'uscita di capitali finanziari dal paese. Graficamente avremo una curva BP perfettamente verticale, dato che l'unica variabile rilevante è il reddito interno. L'equilibrio del Merato dei beni e della moneta non necessariamente garantisce il pieno impiego e quindi può avere luogo della regione F, nella regione G, oppure nella regione H. 81 È evidente che se si parte da un punto della regione F, bisogna muovere in senso espansivo sia lo strumento di politica fiscale sia quello di politica monetaria, mentre se si parte da un punto della regione H, entrambe le politiche andranno attuate in senso restrittivo. Se invece l'economia si trova in un punto della regione G, si è difronte a un conflitto tra obiettivi: Perseguire l'obiettivo del pieno impiego richiederebbe politiche di tipo espansivo, mentre perseguire l'obiettivo del pareggio dei conti con l'estero richiederebbe politiche restrittive. Questo conflitto è stato vissuto dall'Italia nella seconda metà degli anni 70. Come uscire da questa situazione di conflitto fra obiettivi? La situazione di deficit nei conti con l'estero implica l’attivarsi di un deprezzamento automatico del tasso di cambio, questo porta la curva BP a spostarsi verso destra, avvicinando l'obiettivo esterno a quello interno. tale meccanismo automatico è troppo lento per poter essere affidabile. Ciò che si fa in questi casi, è dunque ricordare a nuovi strumenti di politica economica. Una soluzione disponibile è far deprezzare il tasso di cambio più velocemente di quando succede in virtù del meccanismo di riequilibrio automatico; questo è quanto venne fatto in Italia. Un'altra politica praticabile è fare acquisire di nuovo sensibilità ai movimenti di capitali: questo trasforma la curva BP da una retta verticale a una curva positivamente inclinata e si trova un nuovo punto di intersezione tra la retta che rappresenta il reddito di pieno impiego e la nuova curva BP (PUNTO L). In questo modo viene meno il conflitto tra obiettivi e si possono scegliere le politiche da attuare. 4.2 LA PERFETTA MOBILITà DEI CAPITALI FINANZIARI Nel caso di perfetta mobilità dei capitali finanziari la curva BP è perfettamente orizzontale, in corrispondenza di un tasso di interesse domestico pari al tasso di interesse prevalente all'estero. Questo modello teorico è quello che più fedelmente descrive l'attuale situazione economico-istituzionale. In situazioni di questo tipo il livello dei tassi di interesse domestici è in qualche modo vincolato ai livelli prevalentI nei paesi esteri, sicchè un allontanamento significativo dei tassi domestici da quelli internazionali non è tollerabile, perché comporterebbe un infinito afflusso (o deflusso) di capitali da o verso l'estero. In questo contesto il tasso di interesse rappresenta un vero vincolo per i policy maker. In un contesto simile la politica fiscale può avere solo effetti transitori, mentre gli esiti delle politiche monetarie sono esaltati dagli aggiustamenti automatici che si mettono in moto nel lungo periodo. 5.I TASSI DI CAMBIO FLESSIBILI E QUELLI FISSI: UNA VALUTAZIONE COMPLESSIVA Siamo adesso in grado di avere una visione complessiva dei pro e dei contro associati a sistemi di cambi fissi e a sistemi di cambio flessibile. Un sistema di cambio fisso garantisce un quadro caratterizzato da minore incertezza; tale stabilità favorisce l'interscambio di beni e servizi. La maggiore difficoltà nell'operare svalutazioni limita il rischio di inflazione importata e costringe gli operatori domestici a una più rigida disciplina. I guadagni di competitività internazionale devono essere ottenuti incrementando la produttività dei fattori. Tra i contro dei cambi fissi bisogna segnalare il fatto che l'offerta di moneta dipende dall'esito della bilancia dei pagamenti e quindi vi sono severe limitazioni all'autonomia discrezionale della politica monetaria. La politica monetaria è totalmente inefficace nel lungo periodo. 82 Nel settore capitalistico, per un dato livello di capitale, la produttività marginale del lavoro è decrescente. Fino a che punto le imprese domanderanno lavoro? La figura 25.1 mostra i livelli richiesti dalle imprese ed i relativi surplus per i capitalistici saranno reinvestiti in nuovi capitali. Tale investimento aumenterà la produttività marginale del lavoro e di conseguenza la quantità di lavoro domandata che comporterà un nuovo e maggiore livello di surplus…si verifica un processo di accumulazione di capitale che si autoalimenta. Bisogna sottolineare che l’aumento di occupazione non porta ad un aumento del salario reale poiché vi è un’offerta illimitata di lavoro data dal trasferimento dalle campagne alla città. In tale modo aumenta il prodotto industriale senza diminuire quello agricolo. Altri fenomeni riscontrati nel modello di Lewis sono: - La riallocazione settoriale delle forze lavoro - La trasformazione della composizione settoriale della produzione - La redistribuzione del reddito in favore dei capitalisti In termini di politica economica, la industrializzazione viene intesa come sinonimo di sviluppo. Il problema è quello di far partire il processo di sviluppo capitalistico. Lewis sostiene che sia l’insorgere di una classe di persone che iniziano a risparmiare a far partire l’accumulazione di capitale. Una seconda indicazione di politica economica sta nel fatto che l’accumulazione di capitale non richiede alcuna rinuncia al consumo corrente. È sempre possibile impiegare lavoratori, improduttivi in agricoltura, nella produzione di beni capitali per aumentare la produttività del lavoro. Tuttavia, si arriverà ad un punto in cui non è più possibile trasferire forze lavoro dal settore tradizionale a quello capitalistico senza diminuire il prodotto tradizionale e bisognerà passare ad altri modelli di crescita. 5.IL MODELLO DI HARROD-DOMAR I due economisti cercano di spiegare i fenomeni di crescita di lungo periodo facendo ricorso ad alcune idee fondamentali del pensiero Keynesiano. Il modello keynesiano, di fatto, trascura le dinamiche di lungo periodo. Integrando l’impianto analitico keynesiano con la considerazione dell’incremento apportato al potenziale produttivo dagli investimenti delle imprese, si riesce a estendere l’analisi al lungo periodo. Il modello si basa su 3 equazioni. 1) La prima si riferisce alla tecnologia ed ipotizza che essa sia a coefficienti fissi. In altre parole, che vi sia un rapporto costante tra stock di capitale e produzione, K t/Y t = v con v>0. Tale equazione può essere vista come una funzione di produzione in cui l’unico input è il capitale, Y t = (1/v) K t. Il parametro v’è detto intensità capitalistica della produzione ed indica la quantità di capitale necessaria per produrre ogni unità di output. 2) La seconda equazione descrive i comportamenti di consumo dell’economia. Si assume che il risparmio sia semplicemente una frazione costante del reddito: St = sY t con 0<s<1, dove s rappresenta la propensione marginale al risparmio. 3) La terza impone l’equilibrio macroeconomico. Come è noto, in un’economia chiusa (e senza settore pubblico) l’eguaglianza tra domanda e offerta aggregata equivale all’eguaglianza tra investimenti e risparmio programmati: St = I t. Differenziando la prima equazione, ricordando che la variazione dello stock di capitale nel tempo non è altro che l’ammontare di investimento, otteniamo: dY t dt = ( 1 v ) dK t dt = ( 1 v ) I t Le imprese domandano investimenti per adeguare la produzione alla domanda attesa. Se sostituiamo il risparmio agli investimenti e contestualmente sostituiamo all’ammontare di risparmio la sua espressione, otteniamo: dY t dt = ( 1 v ) St = ( 1 v ) s Y t 85 Dividendo entrambi i membri per Y t, otteniamo: d Y t dt Y t = s v Il termine di sinistra indica il tasso di variazione percentuale del reddito che corrisponde al tasso di crescita del reddito che garantisce l’equilibrio macroeconomico (dato che si ricava dall’equazione dell’equilibrio macroeconomico). Questo tasso viene anche detto tasso di crescita garantito, gw. Ponendo l’attenzione al lato dell’offerta, possiamo individuare un tasso di crescita, tasso di crescita naturale gn, che esprime la crescita del prodotto potenziale ed è pari alla somma del tasso di crescita della produttività del lavoro e del tasso di crescita delle forze di lavoro. In formula avremo gn = n + λ. Secondo i keynesiani, così come non vi è certezza che il reddito di equilibrio macroeconomico coincida con il reddito di pieno impiego, analogamente, nulla assicura (in ambito dinamico) che il tasso di crescita compatibile con l’equilibrio macroeconomico coincida con il tasso di crescita compatibile con il pieno impiego delle risorse produttive. Infatti, poiché n, λ, s e v sono dei parametri dati e costanti non vi è nessun motivo per cui gn = gw. Segn > gw, ossia n+λ > s/v, implica che le forze lavoro e le conoscenze tecnologiche crescono ad un tasso maggiore rispetto quello che garantirebbe l’equilibrio. In altre parole, si genera disoccupazione strutturale. La propensione al risparmio è troppo bassa rispetto al tasso di crescita naturale e l’investimento è troppo basso rispetto alla potenzialità produttive dell’economica. Ciò determina una bassa domanda attesa e quindi le imprese non sono incentivate ad investire e si accumulerà troppo poco. Segn < gw, ossia n+λ < s/v, l’economia si trova in una situazione di sostanziale depressione dovuta ad una strozzatura determinata da un’insufficiente crescita delle forze lavoro. L’eccessivo investimento determina una domanda eccessiva che genera maggiore capacità produttiva e maggiori investimenti. Per avere gn = gw è necessario un intervento esogeno. Si possono considerare n, λ, s e v come variabili. È possibile influenzare n tramite politiche demografiche o politiche che incidono sui comportamenti di offerta di lavoro. La variabile λ (tasso di crescita della produttività del lavoro) è influenzabile tramite innovazioni tecnologiche. La variabile s è modificabile tramite politiche di incentivo al risparmio o sui tassi d’interesse o sull’efficienza del sistema finanziario. Infine, la variabile v è influenzabile modificando la composizione strutturale dell’economia. Se, ad esempio, si favoriscono industrie ad alta intensità capitalistica la variabile v tenderà ad aumentare. 6.IL MODELLO DI KALDOR Tale modello introduce un meccanismo di aggiustamento automatico della variabile s che si muoverebbe endogenamente per garantire l’uguaglianza n+λ=s/v. Nel modello si ipotizzano due classi, lavoratori e capitalisti, e che queste abbiano diverse propensioni al risparmio. Il modo in cui si ridistribuisce il reddito tra le classi incide sulla propensione al risparmio: quando aumenta la quota di reddito che spetta ai lavoratori, si abbassa la propensione al risparmio; Viceversa quando aumenta la quota sociale di reddito che spetta i capitalisti, si innalza la propensione al risparmio. Vi sono due possibili casi: 1. Quando gn > gw, ossia n+λ>s/v, si genera disoccupazione e la quota di reddito che spetta ai lavoratori diminuisce e quindi aumenta s. Grazie a tale aumento si avrà un aumento del rapporto s/v fino a quando il tasso di crescita garantito non eguagli quello naturale. 86 2. Quandogn < gw., ossia n+λ<s/v, la popolazione cresce con un tasso più basso di quello che permette la crescita del reddito che assicura l’equilibrio macroeconomico. Si ha una strozzatura dovuta a carenza di fattore lavoro che porterà ad un aumento dei salari e ad una minore propensione al risparmio. La conseguenza sarà una diminuzione del rapporto s/v fino alla correzione dello squilibrio. 7. IL MODELLO DI SOLOW Tale modello è il più noto modello di crescita neoclassico. L’obiettivo di Solow era di risolvere l’instabilità tipica del modello Harrod-Domar inserendo l’ipotesi si sostituibilità tra i fattori produttivi (capitale e lavoro). In altre parole, la sostituibilità fa sì che il rapporto capitale-prodotto (ossia la variabile v) si muove in maniera tale da garantire endogenamente l’eguaglianza tra tasso di crescita di equilibrio macroeconomico e tasso di crescita naturale. Tale modello mostra alcune caratteristiche: A. che il sistema economico converge a un sentiero detto steady state raggiunto il quale, il reddito pro- capite cresce ad un tasso pari al tasso di crescita delle conoscenze tecniche. B. Se non vi fosse aumento delle conoscenze tecniche, non vi potrebbe essere crescita del reddito pro capite. Non mento sostenuto nel tempo del reddito pro capite è riconducibile unicamente all'esistenza di progresso tecnico esogeno. C. Quanto più alta è la propensione al risparmio, tanto maggiore sarà il livello di reddito di steady state. D. Quanto maggiore è il tasso di crescita demografica, tanto minore sarà il livello di reddito di Stato stazionario a cui il sistema economico converge. Da ciò si deducono alcune osservazioni: Uno stimolo della propensione al risparmio e una politica demografica volta a contenere un aumento della popolazione hanno effetti positivi sul livello di reddito di Stato stazionario a cui si converge. Si noti che, una volta raggiunto lo stato stazionario, né la politica economica né altri elementi possono essere efficaci nel variare il tasso di crescita del reddito pro capite, poiché tale tasso sarà pari al parametro esogeno g. In altre parole, le politiche economiche che agiscono su s o su n possono avere degli effetti di livello, ma non degli effetti di crescita. Le determinanti di g non sono spiegate nel modello di Solow ma nei modelli di crescita endogena. 8.LA QUESTIONE DELLA CONVERGENZA Nella teoria di Solow, la convergenza è una proprietà matematica del modello, che va interpretata come convergenza nel tempo di ciascuna economia verso il suo sentiero di crescita di steady state. Inoltre, se tutte le economie del mondo condividessero la medesima funzione di produzione e i medesimi valori dei parametri rilevanti(s, n, g), dovrebbero tutte convergere verso il medesimo stato stazionario. Pertanto, è scorretto affermare che il modello di Solow prevede convergenza tra i livelli di reddito delle diverse economie, la prevede solo nell’ipotesi che le economie condividono la stessa tecnologia e gli stessi parametri strutturali. Tuttavia, si rivela interessante considerare la questione se le diverse economie del mondo mostrino una tendenza alla convergenza o meno. Per dare una risposta a questo dubbio, è necessario chiarire sotto il profilo statistico cosa significhi convergenza. Una prima accezione è quella di convergenza di livello; in questo ambito, ci si chiede se esista una tendenza all’eguaglianza tra i livelli di reddito procapite delle diverse economie. Questa accezione però è ritenuta troppo ambiziosa e non viene mai considerata nelle indagini empiriche. 87 2.2.L’EUROPA E IL MERCATO UNICO Il mercato unico è un accordo tra i Paesi che oltre a essere un’unione doganale, garantiscono anche la piena mobilità di fattori produttivi. I contenuti più importanti dell’atto unico europeo del 1986 sono: ● rimozione degli ostacoli residui al commercio interno ( particolarmente significativa fu l’abolizione fisica delle frontiere) ● e piena libertà di movimento dei fattori produttivi, lavoratori e capitali. Il suo complimento richiede uniformità negli standard tecnologici, nelle regole, nelle legislazioni, eccetera. Si prevedeva di ottenere da una tale operazione vantaggi superiori a quelli tipicamente associati alle unioni doganali. Ci si attendeva che la specializzazione produttiva raggiungesse livelli ancora più elevati, spinta della libertà di movimento dei fattori oltre a quella dei beni. I vantaggi di un’organizzazione più efficiente dei sistemi produttivi avrebbero dovuto ricadere principalmente sui consumatori, grazie all’attenzione per le politiche a difesa della concorrenza e a nuovi campi di intervento della Commissione Europea. In realtà parte di queste attese sono state deluse. Le cause del fallimento furono: ● l’esclusione dei processi di liberalizzazione, da alcuni settori che gli Stati consideravano strategici; ● la permanenza di monete nazionali, che ha creato il pericolo di politiche di svalutazione competitiva. 2.3.L’EUROPA DELLA MONETA UNICA Con la caduta del sistema di Bretton Woods del 1971 la comunità europea cerco di limitare i danni per limitare la variabilità dei tassi di cambio tra le valute nazionali attraverso l’adozione di una moneta unica già sancita da keynes. L’adozione di una moneta unica comportava anche effetti negativi nel senso che: ● il costo principale di rinunciare a una moneta nazionale consiste nel perdere parte di sovranità, ● di rinunciare a strumenti di politica economica legati alla moneta. Come il controllo del tasso di cambio. ● Altro fattore negativo è la riallocazione delle risorse e della mobilità dei fattori produttivi. I vantaggi riguardano l’abbattimento dei costi di transazione, annullamento dei rischi di cambio; tutto ciò dovrebbe accelerare i processi di integrazione commerciale e finanziaria. Con il trattato di Maastricht oltre all’obbiettivo di una moneta unica, trasferendo la gestione della politica monetaria alla banca centrale eu. Secondo il trattato i paesi dovevano soddisfare 5 condizioni: 1. il tasso di inflazione non può eccedere dell’1,5% La media del tasso di inflazione dei tre Paesi con l’inflazione più bassa, 2. il tasso di interesse nominale a lungo termine nell’anno precedente all’adesione non deve eccedere del 2% La media del tasso di interesse dei 3 paesi con tasso di interesse più bassi, 3. il terzo quesito prevede che nel corso dei due anni precedenti l’adesione, il tasso di cambio della moneta nazionale deve rimanere stabile, 4. in 4° istanza al momento dell’ammissione alla moneta unica il deficit pubblico non deve eccedere il 3% in rapporto al PIL. 5. In fine al momento dell’ammissione lo stock di debito pubblico non deve eccedere il 60% del pil. Il patto di stabilità e crescita firmato dai paesi che sono favorevoli all’adozione della moneta unica, prevede un accordo di coordinamento delle rispettive politiche fiscali al fine di renderle coerenti e compatibili con la 90 gestione di una politica monetaria, oltre a disposizioni che riguardano il pareggio di bilancio pubblico nel medio termine con una tolleranza di debito non superiore al 3% del pil. 3.LE POLITICHE EUROPEE OGGI E IL LORO FUTURO L’Analisi di bilancio dell’unione europea può risultare utile per identificare i campi di intervento delle istituzioni comunitarie. L’unione eu non ha entrate fiscali proprie: le risorse derivano da i trasferimenti dei paesi membri (in proporzione al reddito, in rapporto al gettito iva nazionale) a cui si aggiungono i proventi da dazi doganali e agricoli. Attualmente il bilancio dell’unione eu è di circa 145 miliardi di euro che corrisponde al l’1% del pil complessivo dei paesi dell’unione e circa il 2%della spesa pubblica degli stati membri. 3.1.Le entrate fiscali: innanzi tutto è essenziale una maggiore armonizzazione fiscale tra i paesi membri, in quanto esistono rilevanti distorsioni nei prezzi finali dei beni e servizi, certamente una maggiore armonizzazione implica una effettiva perdita di sovranità per i paesi membri riguardo sempre le politiche fiscali. ( Questo è un ostacolo verso una maggiore integrazione fiscale ). L’introduzione di tasse europee sarebbe una soluzione, ma di impossibile applicazione data dalla pluralità di politiche eco-fiscali interne dei paesi e dal suo grado di sviluppo. 3.2.La spesa: per molti anni l’unione con l’implementazione della PAC ha sostenuto un forte flusso di spesa, oltre il 33%. Nasce ora la necessità di spostare le risorse su altri quesiti e politiche (ambientali – energetiche). Tutto dipende dalla pluralità degli obbiettivi da prefissare che si differenziano dalle situazioni attuali dei paesi membri. APPUNTI SULLE CRYPTOVALUTE (a cura del docente) L’offerta di moneta L’offerta di moneta si articola in tre diversi aggregati crescenti in base al diverso grado di liquidità posseduto: 1) Gli aggregati monetari dell’area dell’euro comprendono: ● M1: circolante e depositi in conto corrente (c.d. base monetaria o moneta ad alto potenziale); ● M2: M1 più depositi con durata prestabilita fino a due anni, depositi rimborsabili con preavviso fino a tre mesi; ● M3: M2 più pronti contro termine, quote di fondi comuni monetari e obbligazioni con scadenza originaria fino a due anni. A partire dai dati di giugno 2010 sono escluse le operazioni pronti contro termine con controparti centrali. La moneta elettronica: è il valore monetario memorizzato elettronicamente, ivi inclusa la memorizzazione magnetica, rappresentato da un credito nei confronti dell’emittente che sia emesso, dietro ricevimento di fondi, per effettuare operazioni di pagamento e che sia accettato da persone fisiche o giuridiche diverse dall’emittente. La moneta elettronica è pertanto diversa dalle c.d. monete virtuali. Le monete virtuali in sintesi Le c.d. valute virtuali sono rappresentazioni digitali di valore, utilizzate come mezzo di scambio o detenute a scopo di investimento, che possono essere trasferite, archiviate e negoziate elettronicamente. Alcuni esempi sono Bitcoin, LiteCoin, Ripple (Banca ‘Italia, 2015). Create da soggetti privati che operano sul web, le valute virtuali non devono essere confuse con i tradizionali strumenti di pagamento elettronici (carte di debito, carte di credito, bonifici bancari, carte prepagate e altri strumenti di moneta elettronica, ecc.). Le valute virtuali differiscono dalle piattaforme elettroniche finalizzate esclusivamente a favorire transazioni assimilabili a forme di baratto. Le criptovalute (digital currencies) non rappresentano in forma digitale le comuni valute a corso legale (euro, dollaro, ecc.); non sono emesse o garantite da una banca centrale o da un’autorità pubblica e, fino a qualche tempo fa, non erano regolamentate. Le valute virtuali non hanno corso legale e 91 pertanto non devono, per legge, essere obbligatoriamente accettate per l’estinzione delle obbligazioni pecuniarie, ma possono essere utilizzate per acquistare beni o servizi solo se il venditore è disponibile ad accettarle. L’origine delle cryptovalute L’attenzione degli studiosi sulle comunicazioni anonime risale ai primi anni ‘80 del secolo scorso (Chaum, 1981). La prima moneta digitale, DigiCash, è stata introdotta sul mercato nel 1990. Essa garantiva la natura anonima delle transazioni mediante protocolli crittografici. La storia dei Bitcoin ha avuto ufficialmente inizio nel 2007, quando un anonimo gruppo di hacker mostrò al mondo intero la nuova creazione. Nessuno all’epoca sospettò che questa criptovaluta avrebbe avuto un successo planetario, né tantomeno chi fosse l’artefice di tutto ciò. Tra l’altro l’identità dell’ideatore è ancora oggi avvolta dal mistero, conosciuto con il nome d’arte di Satoshi Nakamoto. In realtà già altre persone prima di lui avevano tentato di sviluppare delle monete virtuali, ma senza ottenere successo. Ad esempio, le prime monete virtuali erano apparse già negli Stati Uniti, poi chiuse dal Governo per illeciti e in Cina. I Bitcoin riuscirono dove gli altri avevano sempre fallito, diventando velocemente un caso mondiale. Si trattava di una forma di pagamento del tutto anonima, con la quale era possibile muovere milioni di dollari rapidamente e con estrema facilità. All’inizio i Bitcoin furono adottati dai signori del dark web, usati come valuta anonima perfetta per i traffici illeciti internazionali. Erano un mezzo perfetto, sicuro, affidabile, completamente antifrode e irrintracciabile. È anche per questo che i Bitcoin aumentarono rapidamente il loro valore. Il concetto di crittografia Per crittografia si intende quella tecnica che permette di "cifrare" un messaggio rendendolo incomprensibile a tutti, fuorché al suo destinatario. In generale i due processi principali che vengono applicati in crittografia si dividono in "cifratura" e "codifica". La cifratura lavora sulle lettere "individuali" di un alfabeto, mentre una codifica lavora ad un livello semantico più elevato, come può essere una parola o una frase. I sistemi di cifratura possono lavorare per trasposizione (mescolando i caratteri di un messaggio in un nuovo ordine), o per sostituzione (scambiando un carattere con un altro carattere in accordo con una regola specifica), o una combinazione di entrambi. La crittografia delle cryptovalute Le funzioni matematiche dette hash sono costituite da un algoritmo che trasforma un “input” in un codice univoco detto “output”. Una caratteristica di queste funzioni è che uno stesso algoritmo “produrrà” sempre lo stesso output, se l’input è identico. Ciò serve, per esempio, a controllare che una trasmissione di dati non sia stata alterata – sapendo qual è l’input e l’algoritmo, chi riceve i dati può rielaborare la funzione hash e se il risultato è lo stesso, saprà che i dati non sono stati manomessi (è una possibilità che forniscono molti programmi software affinché chi li installa sia sicuro di usare l’originale e non una versione manomessa o con virus o altro). L’altra caratteristica fondamentale che rende queste funzioni il “mulo da soma” della cybersicurezza è che una minima variazione nell’input porta a un risultato molto distante da quello che darebbe l’input originale. Ciò permette di tracciare le operazioni di una criptovaluta, ma non che si possa risalire ai dati originari. Gli hacker in teoria lo possono fare, ma con uno sforzo che il più delle volte non vale la pena. Quanto più lunga la stringa, tanto più “forza bruta” di calcolo e tanto più tempo – in alcuni casi più di una vita – ci vorranno per azzeccare l’input originale. Ciò vale per bitcoin, per le firme digitali, per le password, ecc. La c.d. blockchain rappresenta un processo in cui un insieme di soggetti condivide risorse informatiche al fine precipuo di costruire un database virtuale pubblico e decentralizzato: esso è allocato su un c.d. “database distribuito”, ovvero un database sincronizzato con tecniche crittografiche che non risiede su server controllati da un singolo utente, bensì è replicato su decine di migliaia di macchine dislocate in multiple località del mondo. Essendo tale libro contabile di pubblico accesso, taluni siti web ne consentono una consultazione in tempo reale (www.blockchain.info). Dalla moneta centralizzata alla moneta decentralizzata 92
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