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Politica economica e strategia aziendali, Nicola Acocella capitoli da 1 a 8, Dispense di Politica Economica

Politica economica e strategia aziendali, Nicola Acocella Quinta edizione aggiornata - sintesi capitoli da 1 a 8 - Politica economica

Tipologia: Dispense

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Scarica Politica economica e strategia aziendali, Nicola Acocella capitoli da 1 a 8 e più Dispense in PDF di Politica Economica solo su Docsity! Politica economica e strategia aziendali, Nicola Acocella Sintesi capitoli da 1 a 8 Capitolo 1 Introduzione 1.1 La politica economica Possiamo definire la politica economica come la disciplina che studia l'azione economica pubblica, in quanto indaga su: le scelte correnti dell'ente pubblico, la scelta delle istituzioni di livello superiore, l'individuazione delle preferenze stesse della società. La politica economica si pone quindi come un completamento dell'analisi del comportamento degli operatori e del funzionamento dei sistemi economici condotta dell'economia politica 1. Stadio delle scelte correnti: questo livello di analisi è utile a comprendere il processo sulla base del quale l'ente pubblico opera le proprie scelte, una volta definiti gli obiettivi dell'ente stesso e supponendo ovviamente, noto il funzionamento del sistema economico. 2. Stadio delle scelte istituzionali. Questo livello di analisi concerne l'esistenza stessa dell'ente pubblico, nonché del mercato e delle rispettive articolazioni. Nell'economia politica tradizionale ambedue queste situazioni vengono considerate come naturali; l'ambito di ognuna di esse è dato e si considerano le possibili aree di sovrapposizione, i rapporti di sostituibilità o complementarità (quanto, cioè, l’azione dell’ente pubblico sostituisca il mercato o quanto ne costituisca un rafforzamento). La questione che si pone a questo livello riguarda la scelta del tipo di istituzioni economiche di grado superiore necessarie ed opportune per il governo di una collettività. A questo stadio si perviene una volta che siano dati gli obiettivi della collettività stessa e si conosca il funzionamento dell'economia con le diverse possibili istituzioni. 3. Livello delle scelte sociali. L'ultimo livello di analisi riguarda l'individuazione degli obiettivi socialmente desiderabili. Un problema simile viene affrontato dall' economia politica, allorché l'impresa venga concepita, in modo realistico, come un insieme di interessi diversi e non risulta appiattita sulla figura dell'imprenditore classico al tempo stesso proprietario. Semplificando, si può sostenere che all'interno dell'impresa operano: il proprietario, che tende a rendere massimo il profitto e il manager, che mira piuttosto ad accrescere la dimensione dell'impresa, in quanto il suo reddito, il suo potere, il suo prestigio dipendono da tale dimensione e i lavoratori, per i quali è importante la remunerazione. Si pone allora il problema della possibilità di definire una funzione di preferenza dell'impresa che tenga conto di quelle degli agenti che operano nel suo ambito. Allo stesso modo a livello sociale si tratta di comprendere come si possa derivare un sistema di preferenze e quindi di obiettivi per la società nel suo complesso, tenendo conto delle preferenze, ovvero degli obiettivi, dei vari componenti della collettività. Questo livello dello studio della politica economica mira pertanto all'individuazione degli obiettivi sociali. Differenza fra Economia politica e Politica economica: L'economia politica è la disciplina sociale che studia l'economia in senso positivo (nella relata¨), con lo scopo di rappresentare compiutamente, con l'ausilio di modelli matematici, le costanti presenti nel comportamento economico di individui e istituzioni private. Analizza i comportamenti dei singoli operatori, e le loro reazioni al variare di alcune variabili ritenute fondamentali (livello del reddito, tasso di interesse, offerta di moneta, livello dei prezzi, spesa pubblica, tassazione, ecc.). Anche se nei modelli entrano variabili come la spesa pubblica o le tasse, non vengono comunque indagate le cause che hanno condotto¨ l'operatore pubblico ad agire in un modo piuttosto che in un altro, ma solo le reazioni a tali cambiamenti degli operatori privati (banche, imprese, famiglie, lavoratori, ecc.). Essa quindi si distingue dalla politica economica che studia il comportamento degli operatori pubblici. I risultati ottenuti, e le interrelazioni fra operatori che vengono evidenziati dalle varie teorie economiche, vengono utilizzate nell'ambito della Politica economica per le indicazioni che esse danno circa gli effetti delle variazioni delle variabili fondamentali. In sintesi, dall'Economia Politica vengono tratti i suggerimenti circa gli strumenti di politica economica (politica fiscale, politica monetaria, politica di bilancio ecc.) più idonei araggiungere determinati obiettivi (tasso di occupazione, inflazione, esportazioni, reddito, ecc.) La politica economica è la disciplina che studia gli effetti dell'intervento dei poteri pubblici (Stato, banca centrale, autorità varie) e dei soggetti privati (imprese, famiglie) sull'economia allo scopo di elaborare interventi destinati a modificare l'andamento del sistema economico per condurlo verso obiettivi prestabiliti. Riepilogo: 1. La politica economica è, in senso stretto, la disciplina che studia l'azione economica pubblica, essa indaga sul processo di formazione delle preferenze della collettività (ossia le scelte sociali), sulla scelta delle istituzioni e sulle scelte correnti dell'ente pubblico. 2. Più in generale, la politica economica include ogni trattazione che sfrutti le conoscenze dell'analisi economica e di altre discipline come guida all'azione di qualsivoglia operatore. 3. La questione ricorrente a tutti e tre i livelli di indagine di cui sopra è quella dei fondamenti di un punto di vista sociale (o collettivo distinto) dal punto di vista dei singoli individui a Rossi il quale di conseguenza starà peggio; questo non sarebbe dunque un miglioramento paretiano. Che dire però di una situazione in cui Rossi ha ¼ della torta e Neri ne ha ¾? Anche questa è una situazione ottima nel senso di Pareto, perché se vogliamo migliorare la posizione di Rossi dobbiamo peggiorare quella di Neri, e questo non sarebbe un miglioramento paretiano. Quindi tutte le distribuzioni della torta sono ottime nel senso di Pareto, persino quella in cui Rossi ha tutto e Neri ha niente. Inoltre, si osservi che due diverse distribuzioni della torta non sono tra loro confrontabili nel senso di Pareto. Infatti nel passare da una all’altra uno dei due soggetti sta meglio ma l’altro sta peggio, e dunque non si può predicare alcun miglioramento paretiano. L’esempio della torta ci insegna che il criterio di Pareto non ha nulla a che fare con problemi di equità distributiva. Il criterio di Pareto, dunque, è debole: in molti casi non ci consente di formulare un giudizio perché certe alternative non sono tra loro confrontabili, e ci lascia insoddisfatti il disinteresse nei confronti dell’equità. Questo criterio, però, è molto preciso ed è difficilmente soggetto a critiche da parte di chi è coinvolto nella scelta, in quanto può solo suggerire di muoverci verso situazioni in cui nessuno peggiora il proprio benessere. L’esempio della torta, però, ci insegna anche un’altra cosa. Immaginiamo che chi ha spartito la torta faccia arrivare due piatti a Rossi e Neri: il primo contiene il 70% della torta e il secondo il 29%. In questo caso chi ha spartito la torta ha commesso uno “spreco”, tralasciando di distribuire qualche briciola residua: dunque è possibile utilizzare quelle briciole e far migliorare la posizione di Neri, portandolo al 30%, senza peggiorare quella di Rossi. È tuttavia anche possibile migliorare la posizione di Rossi, facendolo passare al 71%, senza peggiorare quella di Neri. In entrambi in casi avviene un miglioramento paretiano. Possiamo allora affermare che una situazione in cui si verificano sprechi non può essere ottimale nel senso di Pareto e il criterio di Pareto insiste sull’efficienza sociale: una situazione ottima nel senso di Pareto si dice socialmente efficiente. L'efficienza X consiste nella capacità di scegliere i programmi di produzione tecnicamente efficienti: dopo aver compiuto la scelta delle tecniche produttive efficienti si tratta di organizzare il lavoro e la produzione in modo da rendere massima la quantità dell'output. Vi sono vari modi di intendere il concetto di efficienza dinamica. A livello microeconomico in un contesto dinamico vi è anzitutto, il concetto di efficienza adattiva che consiste nella capacità di apprendimento graduale dei problemi e delle risposte corrette ai problemi stessi. In particolare, il problema può essere costituito dalla capacità di abbassare nel tempo il costo di produzione o di conoscere la curva di domanda. Un secondo modo di intendere l'efficienza dinamica è dato dalla capacità innovativa, che consiste nella capacità di introdurre innovazioni di processo (tese alla riduzione dei costi) o di prodotto (tese all'introduzione di nuovi prodotti). 2.3 Efficienza paretiana ed equilibrio di concorrenza perfetta: il primo teorema dell’economia del benessere. I teoremi del benessere sono enunciati dell'economia politica che legano l'efficienza delle allocazioni pareto ottimali (ottimo paretiano) con l'equilibrio concorrenziale di Walras ( equilibrio walrasiano ). Alla base dei teoremi del benessere si colloca la convinzione della superiorità del libero mercato concorrenziale, sviluppati dagli economisti neoclassici per dimostrare l'inefficienza delle politiche di intervento dello Stato nell'economia e delle forme di pianificazione centrale. I teoremi dell'economia del benessere sono i seguenti: il primo Teorema fondamentale dell'economia del Benessere afferma che in un sistema economico di concorrenza perfetta nel quale vi sia un insieme completo di mercati, un equilibrio concorrenziale, se esiste, è un ottimo paretiano. L'equilibrio di concorrenza perfetta realizza, infatti, le condizioni analitiche dell'ottimo paretiano, in particolare il rapporto fra i prezzi di equilibrio di due beni, ad esempio pane e tela è uguale al sms2 e al smt3 tra pane e tela. Per concorrenza perfetta intendiamo un regime di mercato caratterizzato, dal lato sia della domanda che dell'offerta, da: • Omogeneità dei beni • ampia numerosità degli operatori • assenza di intese o accordi fra essi • libertà in entrata e di uscita dal mercato • perfetta informazione L'omogeneità del prodotto consente di definire con esattezza i mercati e insieme alla numerosità degli operatori, l'assenza di accordi e alla libertà di entrata e di uscita, assicura che gli operatori nelle loro scelte considerino il prezzo che si forma sul mercato come un dato. La perfetta informazione dell'insieme dei prezzi su tutti i mercati è un requisito di trasparenza, necessario per evitare la segmentazione dei mercati e ottenere l'unicità del prezzo di un bene su tutto il mercato. La completezza dei mercati implica in particolare l'assenza di esternalità, che possono essere definite come vantaggi o danni prodotti dall'azione di un operatore su un altro operatore per i quali il primo 2 In economia, il saggio o tasso marginale di sostituzione (abbreviato in SMS o in inglese MRS Marginal Rate of Substitution) è la quantità di bene a cui si è disposti a rinunciare per ottenere una unità aggiuntiva di un altro bene mantenendo costante l'utilità. Ad esempio, il tasso marginale di sostituzione tra il bene x e il bene y è la quantità di y cui una persona è disposta a rinunciare per ottenere un'unità in più di x. 3 In economia, la frontiera delle possibilità produttive o curva di trasformazione è il luogo dei punti che mostra le combinazioni di beni che è possibile ottenere in modo efficiente nel sistema economico considerato, dato e costante il vincolo delle risorse produttive e la tecnologia. L'inclinazione della frontiera delle possibilità produttive in ciascun punto è chiamato saggio marginale di trasformazione (SMT) (marginal rate of transformation, MRT). Dà la misura del tasso a cui è possibile "trasformare" un bene in un altro bene; è anche chiamato costo opportunità (marginale) di un bene, poiché misura quante unità del bene y verrebbero sacrificate se si decidesse di incrementare di un'unità la produzione di x. E cioè se io voglio produrre una unità in più del bene "X" a quante unità di "Y" dovrò rinunciare a produrre, avendo un vincolo di bilancio rappresentato da un dato ammontare di risorse finanziarie per l'acquisto dei fattori della produzione? non riceve o paga rispettivamente un compenso al secondo. Le esternalità configurano quindi relazioni fra operatori non mediate da un rapporto di scambio e per le quali non esiste un mercato. La legge di Walras è un teorema della teoria dell'equilibrio economico generale in base al quale nell'aggregato in un mercato l'eccesso di domanda è nullo. Se ciascun agente soddisfa il suo vincolo di bilancio, cosicché il valore dei beni che compra è uguale al valore dei beni che offre, allora il valore totale delle vendite eguaglia il valore totale degli acquisti. La legge di Walras implica che, anche se esistono eccessi di domanda o offerta nei singoli mercati, la somma di questi deve essere nulla. Così, se in un mercato c'è un eccesso di domanda, deve esistere in un altro mercato un eccesso di offerta. Condizione perché ciò avvenga è l’assenza di rendimenti di scala: se esistessero, il costo medio di lungo periodo sarebbe bassissimo, ciò porterebbe le imprese esistenti ad accrescere le proprie dimensioni sino a saturare il mercato, e ciò impedirebbe l’ingresso della molteplicità di imprese necessarie perché vi sia concorrenza. La portata propositiva del teorema è alquanto limitata per la difficoltà di soddisfare nelle economie concrete le condizioni che garantiscano l’esistenza e la stabilità di un equilibrio di concorrenza perfetta. È possibile sostenere che tale modello non descriva il funzionamento di un’economia di mercato ma quello di un’economia caratterizzata dalla cooperazione (“economia cooperativa”). Secondo una tesi inizialmente formulata da Robertson, il modello di equilibrio economico generale definisce il funzionamento di una economia cooperativa in quanto ipotizza la presenza di un insieme di agenti individuali, liberi e indipendenti, che non hanno nessuna relazione di appartenenza a gruppi o a classi sociali, i quali prendono insieme (nella fase della contrattazione) le decisioni di produzione. La metodologia che sta dietro questo ragionamento non sembra applicabile allo studio delle economie reali, dal momento che esse sono caratterizzate dalla presenza di soggetti che non sono su di un piano di parità sostanziale; e ciò essenzialmente perché le decisioni di produzione vengono prese da un insieme ridotto di agenti, gli imprenditori, mentre la grande maggioranza si limita ad offrire servizi lavorativi. Nel capitalismo, stando alla visione di Robertson - condivisa da Keynes e ripresa dalla tradizione postkeynesiana -, prevalgono i conflitti d’interessi tra gli agenti e non i comportamenti cooperativi. D’altra parte, nel capitalismo le decisioni di produzione sono prese unilateralmente dagli imprenditori, e di continuo, per cui non è nemmeno possibile concepire su un piano logico la scissione tra la contrattazione e la produzione. L’equilibrio walrasiano può essere interpretato come una precisazione del concetto di mano invisibile, con riferimento in particolare alle caratteristiche dei mercati che consentono di ottenere risultati positivi (l'efficienza paretiana) per l'intera economia; ma, poiché tali caratteristiche sono molto stringenti e irrealistiche, sarebbe forse più corretto interpretare il primo teorema come una 2.5 I fallimenti del mercato la luce del primo teorema dell'economia del benessere I due teoremi rappresentano una precisazione della concezione smithiana della “mano invisibile”, tendente a sottolineare le virtù del mercato nel raggiungimento del bene pubblico. Il principale risultato conseguito dalla definizione delle condizioni nelle quali la mano invisibile consente di raggiungere un ottimo sociale è di carattere negativo; le condizioni richieste per l'ottimo sono, infatti, così stringenti e la natura delle condizioni così particolare che in realtà il primo teorema dell'economia del benessere è una precisazione delle ragioni per le quali il mercato non può riuscire ad assicurare una posizione sociale efficiente ed equa (fallimento del mercato). 2.6 La concorrenza perfetta e la realtà dei regimi di mercato Abbiamo già sottolineato il carattere irrealistico dei presupposti della concorrenza perfetta. Nella realtà dei mercati prevalgono situazione concorrenza imperfetta o monopolistica, oligopolio, monopolio. In tutte queste situazioni effettive di mercato viene violata la condizione di uguaglianza tra prezzo e costo marginale4, che realizza l'equilibrio dell'impresa in concorrenza perfetta e che, per il primo teorema dell'economia del benessere, quando siano soddisfatte le altre condizioni richieste dal teorema stesso, assicura l’ottimo paretiano. 2.6.1 La numerosità degli operatori e i rendimenti di scala Consideriamo il caso in cui il presupposto della molteplicità degli operatori non sia soddisfatto dal lato dell'offerta. Questa situazione è molto comune nelle cosiddette Public utilities, industrie di beni e servizi di pubblica utilità come energia, acqua, telefoni. Supponiamo che esista una situazione di monopolio naturale. Quale prezzo praticherà il monopolista privato? Sappiamo già dalla microeconomia che la soluzione conveniente è quella nella quale il costo marginale è uguale non al prezzo, ma al ricavo marginale5. Vediamo ora perché non è possibile una soluzione che rispetti la condizione di efficienza paretiana. Se il monopolista adottasse un prezzo pari al costo marginale, producendo una quantità x esso soffrirebbe una perdita, essendo il costo unitario sempre superiore a quello marginale. L'unico modo per evitare la perdita, senza al tempo stesso produrre effetti distorsivi sull’allocazione delle risorse, consisterebbe nel praticare un prezzo pari al costo marginale e, in aggiunta, nel coprire la perdita ponendo a carico di tutti i consumatori del bene in questione un onere in somma fissa. Ma come potrà essere ripartito l'onere complessivo? Supponiamo che il numero dei consumatori del bene non sia noto prima che l'impresa si costituisca. Se il consumatore fosse uno solo, egli dovrebbe farsi carico di tutto il costo fisso; n consumatori sopporterebbero ognuno un onere pari a 1/n del costo fisso. Come fa l'impresa a determinare l'onere in somma fissa da attribuire ad 4 il costo marginale unitario corrisponde al costo di un'unità aggiuntiva prodotta, cioè alla variazione nei costi totali di produzione che si verifica quando si varia di un'unità la quantità prodotta 5 il ricavo marginale di una merce è la derivata del ricavo totale (il fatturato di un'impresa) rispetto alla quantità di merce venduta (che coincide con quella prodotta solo nell'ipotesi di assenza di scorte di quella merce). Esso indica dunque l'incidenza di variazioni delle vendite di quella merce nel fatturato complessivo. ognuno? Realisticamente assumerà un numero minimo di consumatori n fra i quali ripartirà il costo fisso facendo pagare a eventuali ulteriori consumatori un prezzo che, per non essere distorsivo, dovrà uguagliare sempre il costo marginale6. Avendo già coperto il costo fisso con gli oneri posti a carico dei primi n consumatori, gli ulteriori consumatori non ne sosterranno il peso. ma, in queste condizioni, nessuno dei consumatori avrà interesse a domandare inizialmente il bene, potendo rientrare fra i primi n ai quali viene fatta pagare una quota del costo fisso in aggiunta al prezzo, pari al costo marginale. Ognuno, invece, tenderà a fare il furbo a comportarsi da opportunista o parassita (free rider). Con lo stesso ragionamento si può mostrare che è altrettanto difficile che l'impresa possa conoscere i suoi clienti impegnandoli all'acquisto di certe quantità prima di iniziare l'attività, ognuno dei consumatori tenderà a non sottoscrivere i primi contratti, che saranno più onerosi per le ragioni dette. Il problema del free riding potrebbe essere evitato se l'impresa potesse praticare una discriminazione dei prezzi, il che richiederebbe: a) la disponibilità delle informazioni necessarie per far pagare a ogni consumatore il suo prezzo di riserva, tenendo conto di tutti quei fattori (preferenza, reddito, ecc.) che determinano l'elasticità della domanda rispetto al prezzo; b) l'impossibilità per i consumatori di rivendere la merce su mercati secondari. Queste condizioni sono difficili da soddisfare. In conclusione si può comunque affermare che al monopolista naturale non è possibile, né conveniente, praticare un prezzo pari al costo marginale. L'esistenza di costi decrescenti porta, dunque, al fallimento del mercato, impedendo di soddisfare le condizioni che assicurano l’ottimo paretiano. Se le economie di scala non sono tanto estese da portare al monopolio, può verificarsi un regime di oligopolio. Questa è una situazione comune nella realtà di molte industrie, quelle con forti economie di scala (ad esempio minerarie, siderurgiche, della gomma, chimica e dei mezzi di trasporto, degli elettrodomestici, dei telefoni). In oligopolio, invece di rispondere in modo meccanico al prezzo fissato dal mercato, come in concorrenza perfetta, ogni impresa si troverà impegnata in un gioco: essa fisserà il prezzo o la quantità prodotta tenendo conto delle reazioni delle altre imprese alle proprie decisioni e assumerà comportamenti di tipo strategico, con la conseguenza che non tutti i possibili equilibri saranno efficienti in senso paretiano o, addirittura nessuno lo sarà. In presenza di monopolio o di oligopolio l'intervento pubblico può eliminare o alleviare il fallimento del mercato essenzialmente attraverso varie forme di regolamentazione (legislazione antimonopolistica, controllo dei prezzi) o con la costituzione di imprese pubbliche. 6 In pratica, la quota di costo fisso viene fatto pagare a tutti i consumatori in aggiunta al costo marginale. 2.6.2 La libertà di entrata e di uscita Tradizionalmente, l'esistenza di economie di scala7 è stata considerata come la più importante causa di fallimento del mercato. Alcuni autori hanno sostenuto la possibilità di equilibri analoghi a quelli di concorrenza perfetta anche in una situazione di monopolio od oligopolio che si determini per l'esistenza di rendimenti crescenti di scala. Il risultato è vincolato alla contendibilità dei mercati, ossia alla possibilità che nuove imprese entrino liberamente senza costi sul mercato e ne fuoriescano sempre liberamente senza costi (mercati contendibili). Si supponga, infatti, che le poche imprese esistenti sul mercato realizzino degli extra profitti, praticando prezzi superiori al costo medio. Se l'entrata e l'uscita sono libere, nuove imprese saranno attratte e potranno condividere con quelle già esistenti una parte degli extra profitti, acquisendo spazi di mercato mediante la fissazione di prezzi più bassi di quelli da queste praticati, fino a quando le imprese preesistenti non reagiranno abbassando a loro volta il prezzo. Per evitare di subire perdite. In seguito a una possibile guerra dei prezzi, le nuove imprese potranno sempre uscire dal mercato, per ipotesi senza costi, dopo aver realizzato un extra profitto netto. La tattica del colpisci e fuggi seguita dai nuovi entranti sarebbe resa possibile dalla completa libertà di entrata e di uscita; quest'ultima costituirebbe, dunque il principale presupposto della concorrenza, salvaguardando il quale si avrebbero esiti del tipo di quelli derivanti dalla concorrenza perfetta, anche in presenza di economie di scala. Tuttavia la contendibilità deriva dall'assenza assoluta di costi in entrata in uscita, mentre nella realtà tali costi esistono e, anzi, non sono affatto irrilevanti: si pensi, ad esempio, alla specificità del capitale, sia umano, sia fisico, che implica costi di addestramento, progettazione e adattamento per lo svolgimento di funzioni particolari; si pensi, inoltre, alle spese di promozione di specifici prodotti; simili costi sono irrecuperabili (costi sommersi - sunk cost) in caso di cessazione dell'attività o di una diversa destinazione di quei componenti del capitale che appaiono più fungibili. Inoltre, anche se i mercati fossero effettivamente contendibili, in regime di costi decrescenti il prezzo applicato da un'impresa privata dovrebbe essere pari al costo medio e non al costo marginale, ma, così, vi sarebbe lo stesso una distorsione nell'allocazione delle risorse fra i vari impieghi: affinché le condizioni di efficienza paretiana siano soddisfatte occorre, infatti, che vi sia uguaglianza tra prezzo e costo marginale. L'efficienza che è possibile conseguire nei mercati contendibili è, dunque, diversa da quella paretiana e consiste semplicemente nel fatto che l'impresa monopolista produce una quantità in corrispondenza della quale il costo di produzione è minimo, tenuto conto del vincolo della domanda complessiva. 7 La locuzione economie di scala indica la relazione esistente tra aumento della scala di produzione (correlata alla dimensione di un impianto) e diminuzione del costo medio unitario di produzione. ridurre il suo consumo di dischi rispetto alla quantità che sceglierebbe se dovesse tener conto soltanto della propria soddisfazione. Però, come si è detto, Andrea non ha alcun incentivo a tener conto del danno che il suo consumo di dischi causa a Bice, non dovendo pagare un prezzo per il danno stesso. La condizione di efficienza allocativa del consumo valida in assenza di esternalità porta ad una allocazione inefficiente in presenza di estrenalità, infatti, con riferimento all’esempio precedente, partendo da una situazione nella quale i sms fossero uguali fra i due soggetti e uguali al saggio marginale trasformazione (smt)9 - ad esempio, un'unità di pane contro quattro dischi - la soddisfazione di almeno uno dei due potrebbe aumentare, in particolare, se si togliesse un disco ad Andrea dandolo a Bice e compensando Andrea con un quarto di unità di pane, preso da Bice, Andrea manterrebbe invariata la sua soddisfazione, mentre Bice la crescerebbe, in quanto meno disturbata dai dischi di Andrea. Se ne desume che: a) la locazione iniziale non era ottimale, se è vero che Bice ha potuto accrescere la sua soddisfazione e Andrea non l’ha ridotta, b) essendo variata la quotazione di beni di ognuno, nella nuova situazione, paretianamente superiore alla precedente, i sms sono diversi tra loro. Un’efficiente allocazione del consumo in presenza di esternalità negative richiede che per il soggetto che causa esternalità negative il sms fra dischi e pane debba essere superiore al rapporto fra i prezzi e il smt. Infatti si è detto che agendo con criteri pubblicistici ovvero tenendo conto delle esternalità, Andrea dovrebbe ridurre il suo consumo di dischi. Così facendo, il suo sms tra dischi e pane aumenta. Esternalità di produzione: il raggiungimento dell'efficienza paretiana in presenza di queste esternalità richiede che vi sia divergenza, non uguaglianza, dei saggi marginali di sostituzione tecnica fra i due fattori nella produzione di diversi beni. Le esternalità sono causa di divergenza tra costi privati e costi sociali, ovvero fra prodotto marginale privato e prodotto marginale sociale. In presenza di economie esterne, il costo marginale privato è maggiore di quello sociale. Le diseconomie esterne comportano, invece, che il costo marginale privato sia minore di quello sociale. Viceversa, per il prodotto marginale. Ciò ha importanti conseguenze. Si consideri il caso della fabbrica inquinante. L'imprenditore che non sosterrà il costo dell'inquinamento e, pertanto, nell’uguagliare il suo costo marginale privato al prezzo sarà indotto a produrre una quantità superiore a quella che avrebbe scelto se avesse tenuto conto anche del costo, non privato sociale, connesso con l'inquinamento. Il contrario avverrà nel caso di economie esterne. Ne discende la conclusione secondo cui le industrie che causano esternalità negative producono più di quanto sia socialmente ottimale, mentre quelle da cui si originano economie esterne producono meno di quanto non sarebbe socialmente auspicabile. 9 Rapporto in base al quale è possibile trasformare la produzione di un bene A nella produzione di un bene B. L'intervento pubblico può rimuovere la divergenza fra costo privato e sociale interno (internalizzando) il costo o il vantaggio procurato dall'operatore al resto della collettività. Ciò può essere ottenuto attraverso imposte, dette pigouviane, a carico dei creatori di diseconomie esterne; in alternativa può essere introdotta una regolamentazione che ne vieti la creazione. 2.8 Le esternalità e il teorema di Coase Il teorema di Coase, frutto degli studi di Ronald H. Coase che lo pubblicò nel 1960 nell'articolo The Problem of Social Cost che gli valse il premio Nobel per l'economia nel 1991, è un tentativo di dimostrare come, attraverso il mercato, si possa giungere a un'efficienza, intesa come somma netta del benessere sociale (un succedaneo più facile da misurare rispetto alla felicità) superiore rispetto a quella che si può ottenere con l'intervento dello Stato o di altre regolamentazioni. Su queste basi è stato stipulato, ad esempio, il Protocollo di Kyōto. Entrambi i casi precedentemente citati di interventi governativi (imposte pigouviane, regolamentazione) partono dal presupposto che vi sia un diritto di alcuni, ad esempio dei cittadini a usare l'aria, ossia a non essere inquinati, e non di altri, ad esempio delle imprese usare l’aria stessa ossia a inquinare. Una simile assegnazione di diritti di proprietà è apparentemente non controversa. Ma facciamo riferimento ad esempio al problema del rapporto tra agricoltori e allevatori. Se si suppone che il diritto di proprietà sia assegnato ai primi, il passaggio di una mandria su un terreno coltivato si configurerebbe come un danno causato dagli allevatori agli agricoltori e quindi richiederebbe un intervento pubblico correttivo. Ma il diritto di proprietà sulla terra potrebbe essere attribuito agli allevatori e quindi il passaggio di una mandria su un qualsiasi terreno non causerebbe alcuna esternalità; anzi è l'eventuale coltivazione di un terreno che potrebbe produrre intralcio al passaggio di una mandria causando una diseconomia esterna per gli allevatori. Si può quindi affermare che la stessa esistenza di un danno o di un vantaggio non pagati e l'identità dei soggetti che li procurano dipende da come vengono assegnati i diritti di proprietà. Secondo Coase il vero problema che la società deve affrontare e risolvere è quello della scelta delle istituzioni e quindi anche dei criteri di assegnazione dei diritti di proprietà. A suo avviso le situazioni dovrebbero essere tali da garantire la massima efficienza possibile. Egli enuncia le due seguenti proposizioni. 1. se sono soddisfatte alcune condizioni tra le quali la preventiva assegnazione dei diritti di proprietà e l'assenza di costi di transazione, gli operatori interessati dall'esistenza di esternalità potranno raggiungere accordi mutuamente vantaggiosi senza intervento governativo, inoltre, se la posizione che massimizza la ricchezza sociale è unica, gli operatori interessati raggiungeranno quella posizione indipendentemente dal modo in cui erano stati preventivamente assegnati i diritti di proprietà. 2. in presenza di costi di transazione la possibilità di raggiungere la posizione più efficiente attraverso il mercato può dipendere dall’assegnazione dei diritti di proprietà, pertanto, i diritti di proprietà dovranno essere attribuiti in modo tale da garantire il raggiungimento della posizione più efficiente, che non è necessariamente unica. La proposizione 1, denominata da Stigler teorema di Coase, prevede, oltre all’assegnazione dei diritti di proprietà e all'inesistenza di costi di transazione, anche la presenza di un'autorità esterna agli operatori che assicuri l'esecuzione dei contratti e l'esistenza di una merce liberamente trasferibile che agisca da numerario, come la moneta. Alle condizioni annunciate in presenza di esternalità il solo ruolo dell'intervento pubblico dovrebbe essere quello di assegnare diritti di proprietà e di assicurare l'esecuzione degli accordi. Secondo la proposizione 2 invece, in presenza di costi di transazione la possibilità di raggiungere l'allocazione delle risorse più efficiente per la società è condizionata dall’assegnazione dei diritti di proprietà. Dunque il modo in cui sono attribuiti i diritti di proprietà non è irrilevante dal punto di vista dell'efficienza, lo sarebbe soltanto se non esistessero costi di transazione. Nella realtà i costi di transazione sono presenti e, pertanto, l'attribuzione di diritti di proprietà a l'uno o all'altro operatore è condizione stessa per il raggiungimento dell'efficienza. Quest'analisi ha il merito di aver evidenziato il fatto che l'analisi pigouviana delle esternalità e la relativa proposta di politica (imposizione) si muovono, implicitamente, in un determinato contesto istituzionale ossia nell'ambito di una certa azione di diritti di proprietà, senza porsi il problema della possibilità che una diversa assegnazione dei diritti abbia un impatto positivo sulla efficienza. In secondo luogo l'analisi di Coase è all'origine di una letteratura, ormai amplissima sui diritti di proprietà. Tale analisi è stata oggetto di critiche, in particolare da parte di chi ne ha considerato l'interpretazione fornita da Stigler, imperniata sulla proposizione 1. Un primo rilievo al teorema di Coase concerne la possibilità che gli individui assumano atteggiamenti reciproci non cooperativi, ma ostili, del tipo di quelli immaginati da Hobbes (minacce, attentati, tentativi di eliminazione dell'avversario). Ciò potrebbe accadere in assenza di un'autorità che obblighi gli individui a negoziare. Questa è una critica che va apparentemente oltre il bersaglio, in quanto Coase non ritiene che, anche in assenza di costi di transazione si possa fare a meno dello Stato, al quale sarebbe comunque affidato, tra l'altro, il compito di garantire la tutela dei diritti della persona. Tuttavia la critica di Cooter può cogliere nel segno: l'esistenza di atteggiamenti cooperativi dei vari soggetti non dipende soltanto dalla possibilità di procurarsi qualche guadagno economico; anche ove questo ci sia, la cooperazione potrebbe mancare. Inoltre la cooperazione può dipendere dalla distribuzione complessiva dei redditi di una società. E ognuno sarà incentivato ad agire da parassita, tentando di utilizzare il bene pubblico prodotto da altri. Così, insieme, le due proprietà dei beni pubblici quella della non rivalità e l'altra della non escludibilità forniscono la ragione d'essere dell'intervento da parte di enti pubblici, per produrli, per stimolarne la produzione da parte di altri o per regolamentare l'uso al fine di evitare la cosiddetta tragedia delle proprietà comuni (con questa espressione si indica l'eccessivo sfruttamento di proprietà comuni come l'aria l'acqua e altre risorse naturali). In presenza di beni pubblici, le condizioni dell'ottimo paretiano generale sono diverse da quelle già viste (saggio marginale di sostituzione tra due beni per ogni individuo uguale al saggio marginale di trasformazione). Ipotizzando l'esistenza di due soli beni, pane e faro, se il saggio marginale di trasformazione è di 2 con le risorse esistenti si potrebbe rinunciare a due unità di pane per costruire un faro. Affinché la rinuncia effettiva a produrre due unità di pane denoti una situazione paretianamente efficiente non si richiede che ognuno dei consumatori sia disposto a riallocare due beni nello stesso rapporto: se ci sono 4 consumatori, basta che ognuno sia disposto a rinunciare a 0,5 unità di pane per avere un faro in più, rimanendo con una soddisfazione invariata. Quindi la condizione di efficienza generale dell’allocazione delle risorse in presenza di beni pubblici è che la somma dei saggi marginali di sostituzione dei vari soggetti sia uguale al saggio marginale di trasformazione. Per ribadire le ragioni di fallimento del mercato nel caso di esistenza di beni pubblici descriviamo il dilemma del prigioniero. 2.9.1 Dilemma del prigioniero Il dilemma può essere descritto come segue. Due criminali vengono accusati di aver commesso un reato. Gli investigatori li arrestano entrambi e li chiudono in due celle diverse, impedendo loro di comunicare. Ad ognuno di loro vengono date due scelte: confessare l'accaduto, oppure non confessare. Viene inoltre spiegato loro che: 1. se solo uno dei due confessa, chi ha confessato evita la pena; l'altro viene però condannato a 7 anni di carcere. 2. se entrambi confessano, vengono entrambi condannati a 6 anni. 3. se nessuno dei due confessa, entrambi vengono condannati a 1 anno, perché comunque già colpevoli di porto abusivo di armi. Questo gioco può essere descritto con la seguente bimatrice: confessa non confessa confessa (6,6) (0,7) non confessa (7,0) (1,1) Il risultato migliore per i due ("ottimo paretiano") è naturalmente di non confessare (1 anno di carcere invece di 6), ma questo non è un equilibrio. Supponiamo che i due si siano promessi di non confessare in caso di arresto. Sono ora rinchiusi in due celle diverse e si domandano se la promessa sarà mantenuta dall'altro; se un prigioniero non rispetta la promessa e l'altro sì, il primo è allora liberato. C'è dunque un dilemma: confessare o non confessare. La miglior strategia di questo gioco non cooperativo è (confessa, confessa) perché non sappiamo cosa sceglierà di fare l'altro. Per ognuno dei due lo scopo è infatti di minimizzare la propria condanna; e ogni prigioniero:  confessando rischia 0 o 6 anni  non confessando rischia 1 o 7 anni La strategia non confessa è strettamente dominata dalla strategia confessa. Eliminando le strategie strettamente dominate si arriva all'equilibrio di Nash, dove i due prigionieri confessano e hanno 6 anni di carcere. La teoria dei giochi ci dice che c'è un solo equilibrio (confessa, confessa). Si immaginino due armatori A e B che hanno un uguale numero di navi operanti su una certa rotta. Ognuno considera l'opportunità di costruire o non costruire un faro e, al tempo stesso, la possibilità che l'altro compia un'azione simile. Se entrambi decidessero di costruire – cooperando - il faro, potrebbero condividere i costi e godere di un elevato vantaggio netto. Ma questa soluzione non è di equilibrio in un regime privatistico, perché ognuno dei due si attende un guadagno maggiore da soluzioni non cooperative. A entrambi conviene scegliere l'alternativa di non costruire10, che è, però paretianamente inefficiente rispetto al risultato cooperativo. Questo non può essere raggiunto se non attraverso strategie cooperative, che possono essere facilitate dall'intervento di un terzo operatore, tendente a massimizzare il beneficio per l'intera società, ossia da un operatore di natura pubblica. Questo ragionamento fornisce quindi una giustificazione a favore della produzione di beni pubblici da parte di enti pubblici. Tale produzione sarà finanziata da proventi fiscali, anziché dal pagamento di un prezzo. Rimane il problema delle entità ottimale del bene pubblico da produrre, difficile da determinare per due ragioni: complessità dei meccanismi di rilevazione delle preferenze ed esistenza di problemi di congestione. Per quanto riguarda la rilevazione delle preferenze, se non è possibile ricorrere all'esclusione, non c'è alcun modo per conoscere il valore attribuito dai singoli al bene pubblico attraverso il prezzo che essi dichiarano di essere disposti a pagare. Esistono meccanismi alternativi di rilevazione delle preferenze ma sono molto complessi. Quanto ai problemi di congestione, essi non esistono per quei beni per i quali la caratteristica di non rivalità è assoluta. Esistono invece per i beni il cui godimento da parte di alcuni non impedisce l'uso 10 Nel gergo tecnico della teoria dei giochi si direbbe che la strategia non cooperativa, ossia di non costruire, e dominante per entrambi i giocatori. in altri termini, ognuno dei due costruire, perché il vantaggio che così egli si procura è maggiore, Qualunque sia la decisione dell'altro. da parte di altri, ma soltanto fino a un certo punto, oltre il quale può determinarsi una riduzione del godimento dei primi utilizzatori, per esempio a causa di uno scadimento della qualità. Quando questi problemi sono particolarmente accentuati, vi sono economie di scala limitate e può esservi la convenienza a produrre il bene pubblico attraverso un processo di scelte decentrate, da parte di comunità relativamente circoscritte, come enti locali o addirittura circoli, da cui la denominazione di beni da Club data a tali beni: tennis, piscine, ecc. L'esistenza di problemi di congestione nella produzione di beni pubblici costituisce uno dei fondamenti del federalismo. Informazione perfetta. Il dilemma del prigioniero potrebbe essere risolto fornendo ai due giocatori la possibilità di comunicare tra loro. Così facendo, i due giocatori sarebbero in grado di controllare la decisione dell'altro. Autorità centrale. Un altro modo per risolvere il dilemma del prigioniero è l'istituzione di un'autorità centrale, in grado di controllare e di imporre il rispetto dell'accordo tra le parti (accordo vincolante). Concorrenza tra imprese. In ambito economico il dilemma del prigioniero è una situazione simile a quella di due o più imprese che tentano di aumentare la propria quota di mercato attraverso una riduzione dei prezzi. In assenza di un accordo vincolante, ogni impresa riduce i prezzi di vendita per aumentare la propria quota di mercato a scapito dell'altra. Così facendo, entrambe le imprese riducono i prezzi senza aumentare la propria quota di mercato e ciò potrebbe peggiorare la situazione economica di entrambe le imprese. Alle due imprese converrebbe stipulare un accordo vincolante, limitare la concorrenza e mantenere i prezzi alti. Equilibrio di Nash. Il dilemma del prigioniero è la dimostrazione che le strategie dominanti non implicano sempre un equilibrio ottimale (ottimo paretiano). Secondo Nash, ogni giocatore sceglie la propria strategia dominante sulla base delle aspettative di scelta del giocatore avversario. Anche in questo caso, il dilemma del prigioniero dimostra come le strategie dominate non è detto che conducano sempre verso equilibri ottimali. Il giocatore 1 si aspetta che il giocatore confessi e, quindi, a sua volta confessa. Il giocatore 2 si aspetta che il giocatore 1 confessi e, a sua volta, confessa. Il risultato finale è un equilibrio stabile (equilibrio di Nash) ma sub-ottimale sia dal punto di vista individuale che sociale. In conclusione, l'equilibrio di Nash e l'ottimo paretiano corrispondono a due situazioni differenti e distinte tra loro. 2.10 Costi di transazione e asimmetria informativa I costi di transazione, ossia i costi per l'organizzazione e il funzionamento dei mercati interessano sia i mercati a pronti (quelli nei quali il bene viene scambiato contro il prezzo nel periodo considerato) sia, con particolare rilievo, i mercati a termine (quelli nei quali il prezzo viene fissato nel presente ma descrizione (signal) delle caratteristiche della merce con la disponibilità ad accettare contratti condizionali che prevedano la restituzione del prezzo in caso di cattivo funzionamento. Tuttavia queste istituzioni di tipo privatistico difficilmente riescono sistematicamente a superare l'incompletezza dei mercati derivante da asimmetria informativa. La soluzione è, pertanto, quella dell'intervento pubblico sotto forme diverse, che vanno dalla regolamentazione alla creazione di aziende pubbliche. 2.11 Concorrenza perfetta e approssimarsi alla concorrenza: il teorema del secondo ottimo. L'idea centrale rappresentata nel primo teorema dell'economia del benessere è che l'equilibrio di concorrenza perfetta assicura una situazione di ottimo paretiano. Si potrebbe allora pensare che piccoli scostamenti dalla concorrenza perfetta non allontanino sostanzialmente dall’ottimo paretiano e che ciò avvenga tanto meno quanto più contenuti siano gli scostamenti stessi. Il teorema del secondo ottimo (second best) afferma esattamente il contrario: non è vero che una situazione nella quale un numero maggiore di condizioni di ottimo paretiano, ma non tutte, sono soddisfatte è necessariamente superiore ad una situazione in cui il numero un numero minore di esse siano soddisfatte. Le condizioni richieste perché si realizzi l’efficienza paretiana di first best sono numerose e piuttosto stringenti, ed è pertanto elevata la possibilità che una o più di esse non siano soddisfatte. In un articolo del 1956, gli economisti R.G. Lispey e K. Lancaster si sono posti il problema di cosa sia desiderabile fare quando anche una soltanto di queste condizioni venga violata. Si tratta, in altri termini, di stabilire quale sia l’alternativa migliore quando il benessere sociale è limitato non soltanto dai vincoli di disponibilità delle risorse e tecnologici, di cui si tiene conto definendo il first best, ma anche da ulteriori vincoli che ostacolano l’efficiente allocazione delle risorse. La questione cruciale è se, avendo come obiettivo il benessere sociale, sia preferibile cercare di soddisfare tutte le altre condizioni necessarie per il first best oppure convenga allontanarsi complessivamente da esse. La conclusione di Lipsey e Lancaster è che, anche se possibile, il soddisfacimento delle altre condizioni non è, in generale, desiderabile. Nel caso in cui vi sia un ineliminabile allontanamento dalla concorrenza perfetta in un settore (ad es. monopolio nella produzione di servizi di trasporto) sarà impossibile conseguire la posizione di primo ottimo, ma si potrebbe pensare che il modo migliore per ottenere quella posizione di secondo ottimo della quale ci si deve accontentare, sia di garantire che in tutti gli altri settori ci si comporti soddisfacendo esattamente le condizioni di allocazione delle risorse valide per l'ottimo paretiano. Il teorema del secondo ottimo ci dice che questo non è vero. Prendiamo la produzione di pane. Se la quantità prodotta di questo bene venisse stabilita rispettando la condizione di uguaglianza tra prezzo e costo marginale, potrebbe accadere che le risorse dedicate alla produzione di pane risultino troppo ridotte: infatti, il costo dei servizi di trasporto in essa utilizzati risulta elevato, non per la scarsità naturale dei servizi stessi (ossia delle risorse necessarie per produrli), ma per l'esistenza di potere di mercato da parte dei produttori di tali servizi. Produrre meno pane significherebbe allora far pesare in questo settore la distorsione esistente in un altro settore; nel caso ipotizzato, in assenza di altre condizioni, l'ottimo sociale richiederebbe che la produzione di pane venisse fissata ad un livello tale che il costo marginale fosse convenientemente superiore al prezzo, cosa che si può ottenere con sussidi pubblici alla produzione di questo bene. L'esempio può far capire perché l'allontanamento da una condizione necessaria per l'efficienza richiede l'allontanamento da tutte le altre condizioni necessarie per l'efficienza. Quindi, quando il first best è impedito dalla mancata realizzazione di una condizione, il second best, consiste, almeno in generale, nella violazione anche di altre. Questa conclusione è resa possibile dal fatto che, in presenza di una distorsione nell’allocazione delle risorse, introdurne ulteriori può mitigare gli effetti negativi della prima. Quanto si è appena detto chiarisce anche perché Lipsey e Lancaster affermino che la loro conclusione vale in generale, e non sempre: i fattori di cui tenere conto sono troppi e questa indeterminatezza è stata considerata un elemento di debolezza della teoria del second best. In conclusione, la politica migliore da adottare quando il first best è irraggiungibile non si può individuare a priori, quello che occorre è un attento e non sempre facile esame degli aspetti rilevanti in ciascun caso. 2.12 La distribuzione del reddito e l'equità Al termine equità possono essere attribuiti numerosi significati, ad esempio Bobbio distingue fra criterio delle capacità (che invoca l'uguaglianza delle opportunità o uguaglianza dei punti di partenza) e criterio del bisogno (dal quale discende l'uguaglianza dei risultati). La dottrina liberale insiste sul criterio delle capacità evidenziando la necessità che siano comuni le regole del gioco procedure e che chiunque sia messo nella condizione di poter partecipare al gioco, che può concludersi, però, con risultati diversi per i partecipanti. La dottrina socialista evidenzia il criterio del bisogno, sottolineando l'opportunità che si assicuri un livellamento delle soddisfazioni delle varie persone o comunque di certi risultati da esse ottenuti, indipendentemente dalle abilità e dalle procedure. Queste due visioni estreme influenzano in varia misura le posizioni assunte in concreto dai movimenti e partiti politici, dai governi nell’ambito delle moderne democrazie. Il punto centrale che differenzia le due concezioni è quello del ruolo che debba assumere la responsabilità individuale. Infatti l'assenza di risultati positivi da parte di una persona può derivare dalla scarsa opportunità che essa ha avuto quando ha iniziato la sua attività oppure dallo scarso impegno esercitato. La difficoltà può giustificare l'esistenza di una rete di protezione offerta dallo stato sociale. Un indicatore dell'uguaglianza economica è la distribuzione del reddito. L'accettazione anche parziale del punto di vista del bisogno, sul piano economico, implica, dunque, che si presti attenzione alla distribuzione del reddito. L'equità è una causa di fallimento di mercato che giustifica l'intervento pubblico anche in situazioni di efficienza paretiana; una situazione di ottimo paretiano può sussistere anche quando le allocazioni finali dei beni non consentano la sopravvivenza di alcuni individui, in una situazione quindi di evidente sperequazione della distribuzione di risorse. Si tratta di casi limite che però evidenziano la possibilità che situazioni efficienti nel senso di Pareto siano caratterizzate da distribuzione del reddito giudicate inique dalla gran parte della collettività. In base ai due teoremi dell’economia del benessere, emerge l’esistenza di una netta separazione tra i due concetti di efficienza ed equità. Si tratta di due obiettivi raggiungibili separatamente l’uno dal mercato e l’altro dallo Stato. Una prima critica alla separazione di efficienza ed equità è connessa con impossibilità di operare una redistribuzione dell’allocazione delle risorse non distorsiva. Sia il prelievo fiscale infatti, sia la concessione di trasferimenti possono influire sull'incentivo ad offrire lavoro e a risparmiare. Inoltre la redistribuzione implica il sostenimento di costi di amministrazione che di per sé ne riducono l'efficienza. Per questi motivi alcuni economisti sostengono l’esistenza di un trade off tra efficienza ed equità, nel senso che l'equità può essere raggiunta soltanto a scapito dell’efficienza. La tesi del trade-off è spiegata dalla parabola del secchio bucato di Okun secondo cui le politiche di redistribuzione, a vantaggio dei poveri, possono compromettere l’efficienza. Il secchio, in cui idealmente è posto il reddito sottratto al ricco, ha una perdita, così che il povero riceverà una quantità inferiore a quella che è stata sottratta al ricco. Tuttavia molteplici considerazioni possono portare ad affermazioni di contenuto opposto: un miglioramento dell'equità può infatti accrescere l'efficienza per varie ragioni. Anzitutto, l'eliminazione della malnutrizione o di altri generi di privazione che limitano la capacità di formazione del capitale umano accresce il prodotto sociale e il tasso di crescita dell'economia. Ma la violazione di alcuni presupposti della convivenza civile causerà indignazione morale da parte della maggioranza della collettività; inoltre l'adeguata distribuzione dei consumi associata a tale sperequazione provocherà diseconomie esterne che possono trovare espressione in una ridotta produttività, in agitazioni sociali (vedi F. Caffè) o in altri momenti di disgregazione sociale. L'equità può quindi costituire una condizione necessaria per la stessa vitalità di un sistema economico. 2.13 I bisogni meritori Il bene meritorio (merit goods) è un bene meritevole di tutela pubblica indipendentemente dalla richiesta che ne fanno i potenziali utenti. Il concetto è stato introdotto, nella letteratura economica, da 3. Tale corrispondenza è espressa dai due teoremi fondamentali dell’economia del benessere. Il primo di essi afferma che un equilibrio di concorrenza perfetta con un insieme completo di mercati, se esiste, è un ottimo paretiano. Il secondo stabilisce che in certe condizioni ogni ottimo paretiano può essere realizzato come equilibrio di concorrenza perfetta, quando sia stata operata una appropriata redistribuzione. 4. I due teoremi rappresentano una precisazione della concezione smithiana della mano invisibile, tendente a sottolineare le virtù del mercato nel raggiungimento del pubblico bene. Tuttavia il realismo delle ipotesi sulle quali essi si reggono (insieme completo di mercati di concorrenza perfetta e, per il secondo teorema, convessità degli insiemi di preferenze di produzione), la debolezza del criterio dell’efficienza paretiana impiegato per valutare la bontà dei risultati (primo teorema) e il debole contenuto prescrittivo (secondo teorema) sono indicativi dei limiti di questa concezione e dell’esistenza di casi di fallimento del mercato. 5. L’esistenza nella realtà di regimi non concorrenziali è imputabile all’ insussistenza dei presupposti della concorrenza perfetta. Due di essi sono di particolare rilevanza: il ridotto numero di operatori presenti dal lato dell’offerta, per la presenza di economie di scala e gli ostacoli all’entrata e/o all’uscita. L’esistenza di monopolio implica l’impossibilità, in un regime privatistico, di applicare un prezzo pari al costo marginale, impedendo così di soddisfare le condizioni dell’ottimo paretiano. L’esistenza di monopolio implica l’impossibilità, in un regime privatistico, di applicare un prezzo pari al costo marginale, impedendo così di soddisfare le condizioni dell’ottimo paretiano. La libertà di entrata e uscita, che secondo la teoria dei mercati contendibili, sarebbe il presupposto più importante al fine di garantire esiti quasi concorrenziali, è ostacolata dalla presenza di costi sia di entrata sia in uscita che impediscono all’entrante potenziale di colpire e fuggire, assicurando l'efficienza (non comunque quella paretiana). 6. L’ incompletezza dei mercati va posta in relazione alle esternalità, ai beni pubblici, ai costi di transazione e alla simmetria informativa. Le esternalità introducono una divergenza fra costi e vantaggi privati e costi e vantaggi sociali. Le condizioni analitiche che devono essere soddisfatte per conseguire l’efficienza paretiana in presenza di esternalità sono diverse rispetto al caso di assenza di esternalità e il loro soddisfacimento richiede l'intervento pubblico. caso di assenza di esternalità e il loro soddisfacimento richiede l’intervento pubblico. Questo viene posto in discussione da Coase, secondo cui il mercato può consentire di raggiungere l’efficienza tramite accordi mutuamente vantaggiosi fra i singoli operatori in assenza di costi di transazione. È soltanto in presenza di tali costi che l’assegnazione da parte dello stato può garantire il raggiungimento della posizione più efficiente. Ma l’analisi di Coase è stata oggetto di critiche. I beni pubblici costituiscono una categoria particolare di esternalità e sono beni non rivali e, Secondo alcuni anche non escludibili. La non rivalità fa sorgere problemi di parassitismo, che portano al fallimento del mercato o al e all’intervento pubblico per la loro produzione o finanziamento o regolamentazione. Un gioco del tipo il dilemma del prigioniero può illustrare il caso dei beni pubblici. L’inesistenza nella realtà di alcuni mercati, a pronti o a termine, è imputabile anche alla presenza di costi di transazione e di informazione asimmetrica, Ciò dà luogo a problemi di delega (agenzia) che implicano una allocazione inefficiente delle risorse, i problemi di delega si presentano sotto forma di selezione avversa e rischio morale e possono essere risolti attraverso l’intervento pubblico. 7. Scarti anche contenuti fra realtà e ipotesi utilizzate nei teoremi fondamentali dell’economia del benessere possono avere effetti di vasta portata sulle condizioni da soddisfare per l’ottimo e in particolare sulla auspicabilità della concorrenza perfetta. 8. Il libero operare del mercato non garantisce l’esistenza di accettabili situazione distributive. Inoltre, efficienza ed equità non possono essere separate, ma interagiscono in vario modo: vi sono ragioni per credere sia, per certi versi, all’esistenza di un trade-off tra le due, sia all’opposto, all’esistenza di relazioni di complementarietà. In particolare, l’ineguaglianza può avere riflessi materiali e ideologici negativi sull’efficienza. 9. La mancata accettazione dell’assunto secondo il quale la valutazione del pubblico bene debba fondarsi sulle preferenze individuali introduce l’ultimo caso di fallimento microeconomico del mercato: si può ritenere infatti, necessario tutelare gli individui anche rispetto alle stesse preferenze che essi esprimono (vedi beni meritori) 10. Le valutazioni tratte in precedenza circa l’ottimalità della concorrenza perfetta sono legate al criterio di successo prescelto, ossia l’efficienza paretiana (statica). Secondo alcuni economisti, la performance di un mercato in regime di monopolio è, invece, superiore a quella di un mercato in concorrenza perfetta dal punto di vista della capacità innovativa. Capitolo 3 I fallimenti del mercato: aspetti macroeconomici della realtà 3.1 L’instabilità di un’economia (capitalistica) di mercato: i fallimenti macroeconomici Sulla capacità dei mercati reali di svolgere il ruolo di “mano invisibile” non si possono trascurare alcuni fenomeni non spiegabili con i fallimenti microeconomici, come disoccupazione, inflazione, squilibri di bilancia dei pagamenti e sottosviluppo. Queste sono manifestazioni della instabilità delle economie di mercato capitalistiche. I fallimenti macroeconomici sono quelli connessi con l’instabilità delle economie di mercato. Essi sono fallimenti perché denotano la presenza di inefficienze e/o iniquità; sono macroeconomici perché la teoria che meglio li spiega è quella macroeconomica. I sostenitori delle virtù della mano invisibile hanno tentato di spiegare alcuni di questi aspetti della realtà, ad esempio la disoccupazione, alla luce della teoria dell’equilibrio economico generale, introducendo ipotesi che spiegano il cattivo funzionamento dei prezzi (rigidità), fra queste ipotesi un ruolo privilegiato ha avuto quella secondo cui l’intervento pubblico contribuirebbe a determinare tale rigidità e quindi gli indicati fenomeni di crisi. Altri in maniera più convincente hanno sostenuto che la causa dell’instabilità risiede in aspetti strutturali dei mercati che impediscono a questi ultimi di funzionare nel modo e con i risultati previsti dalla teoria dell’equilibrio economico generale. Aderendo a questa impostazione, chiamiamo macroeconomici fallimenti connessi con l’instabilità dell’economia di mercato. 3.2 La disoccupazione Con questo termine ci riferiamo essenzialmente alla disoccupazione involontaria connessa con il livello di domanda, questa sorge quando vi sono lavoratori potenziali disposti a occuparsi al tasso di salario reale vigente o anche uno leggermente inferiore, ma la domanda di lavoro è insufficiente per occuparli. Nel secondo dopoguerra le economie di mercato hanno sperimentato situazioni di occupazione e disoccupazione molto diverse nelle due fasi che possono grossomodo individuarsi: prima del 1973 (data della prima crisi petrolifera) e dopo il 1973. Nella fase anteriore al 1973 la disoccupazione è risultata in continua diminuzione in vari paesi, nella fase successiva, al contrario, essa ha subito un consistente aumento fino alla metà degli anni 90. Da allora si è sempre ridotta, fino al 2007 anno nel quale hanno cominciato a manifestarsi consistenti effetti reali negativi di una rilevante crisi di origine finanziaria. Nei Paesi presi in considerazione (Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Svezia e Regno Unito) si è certamente lontani dagli ordini di grandezza con i quali la disoccupazione si era manifestata durante la grande depressione degli anni 30, quando si raggiunse un tasso di disoccupazione del 24% negli Stati Uniti e del 20% in Gran Bretagna. Tuttavia il ritorno a valori a due cifre del tasso stesso è significativo della attualità del problema. L’esistenza di disoccupazione involontaria configura una perdita di efficienza statica e dinamica per il sistema economico. Dal punto di vista statico essa implica la possibilità di migliorare la posizione di alcuni individui, i disoccupati, senza peggiorare quella di altri. Inoltre, il prolungato mancato utilizzo delle risorse umane ne implica il deperimento: infatti le probabilità del disoccupato di trovare un’occupazione si riducono all’aumentare della durata della disoccupazione. Oltre a causare una perdita di efficienza, la disoccupazione accresce l’ineguaglianza della distribuzione del reddito. Le conseguenze economiche e sociali della disoccupazione possono essere temperate sul piano personale da interventi pubblici di redistribuzione del reddito come l’indennità di disoccupazione. L’indennità di disoccupazione, pur essendo stata introdotta in tutti i paesi sviluppati, è di misura e durata variabili. La misura è minore in Italia, più consistente in altri paesi. In Italia esiste l’istituto della cassa integrazione guadagni (CIG) introdotto nel 1945, per integrare il salario dei lavoratori che vengono occupati a orario ridotto (anche a zero ore) per effetto di una flessione della domanda o per ristrutturazioni e riorganizzazioni. L'esistenza di indennità di disoccupazione o integrazione dei guadagni, se di misura consistente, facilita i licenziamenti o le sospensioni dal lavoro (lay off) con il ridurne il costo per le imprese che, pur sostenendo parte del costo stesso, si ritrovano però di fronte a ridotte resistenze da parte dei lavoratori. Le misure indicate costituiscono al tempo stesso strumenti di integrazione dei redditi personali e di flessibilità del sistema produttivo e delle relazioni industriali11. Alcuni economisti sono contrari all’indennità di disoccupazione per il disincentivo all’offerta di lavoro che ne scaturirebbe. Tuttavia l’evidenza empirica disponibile sembra mostrare che soltanto la durata massima dell’indennità ha un effetto sull’offerta di lavoro e pertanto sulla durata della disoccupazione. Indennità di disoccupazione e integrazione dei guadagni costituiscono pur sempre un costo economico per la società nel suo complesso. Questo costo si aggiunge ai costi sociali della disoccupazione che possono essere ricondotti alla frustrazione, all’emarginazione, nonché la possibilità di rivolgimenti sociali e all’aumento della criminalità. L’esistenza di tutti questi costi può spiegare l’impegno a perseguire la piena occupazione che fu assunto nel dopoguerra dai governi di molti paesi a economia di mercato. Tuttavia si trattava di un impegno condizionato da almeno due punti di vista: 1. Anzitutto il termine piena occupazione non era inteso in senso letterale, l’impegno riguardava essenzialmente la disoccupazione involontaria al di sopra di quella frizionale12 ritenendosi che quest’ultima sia normale in presenza di imperfezioni del funzionamento del mercato. 11 termine che indica i rapporti che intercorrono tra datori di lavoro e lavoratori. 12 La disoccupazione frizionale è una forma di disoccupazione temporanea, generata dalle imperfezioni del mercato del lavoro. Questo tipo di disoccupazione è detta "frizionale" in quanto ha origine dal normale turn over dei lavoratori Una pressione inflazionistica sorge ogni volta che chi percepisce i vari redditi monetari (salari, profitti, rendite) cerchi di accrescere la propria quota nella distribuzione del reddito reale prodotto, a scapito degli altri (ovvero dei consumatori). Dalle resistenze degli altri scaturisce l'aumento dei prezzi (Caffè 1990). Questa definizione di inflazione copre le tipologie base di inflazione, quella da costi e da domanda, e mostra che l'inflazione è sintomo di una lotta sociale e talvolta, nelle sue manifestazioni più esasperate e incontrollate, di una disgregazione della società. In aggiunta ad una redistribuzione del reddito, l'inflazione di norma implica anche una redistribuzione della ricchezza, infatti, il valore di un'obbligazione che sia fissa in termini nominali si riduce in termini reali: se ne avvantaggiano i debitori (tipicamente le imprese, spesso gli enti pubblici) mentre risultano svantaggiati i creditori (tipicamente le famiglie). Ovviamente la misura della redistribuzione del reddito e della ricchezza dipende da numerose circostanze, fra le quali il grado in cui l'inflazione sia stata prevista dai singoli operatori, nonché il loro potere negoziale e quindi la capacità che ognuno di essi ha di adeguare il prezzo del bene offerto. Al fine di essere tutelati nei confronti di imprevisti aumenti del livello generale dei prezzi, alcuni operatori riescono a introdurre meccanismi di indicizzazione, che legano il loro compenso alle variazioni del livello generale dei prezzi. Il caso più noto in Italia era quello della scala mobile, in vigore nel dopoguerra fino al 1991: con essa periodicamente il salario monetario veniva parzialmente adeguato alle variazioni dei prezzi di un predeterminato paniere di beni di consumo. A parte i meccanismi di indicizzazione, l'inflazione prevista, assistita da sufficiente capacità negoziale, tende a mantenere invariata la distribuzione del reddito e della ricchezza. I costi provocati dalla redistribuzione del reddito e della ricchezza per alcuni individui, si cancellano per la società nel suo complesso, perché ad essi fanno riscontro guadagni per altri. L'inflazione ha, invece, costi netti per la società nel suo complesso, in quanto fa sorgere oneri specifici per l'adeguamento dei listini o delle apparecchiature automatiche per il pagamento (detti menù costs o slot machine costs). A parte ciò, i costi per la società dell’inflazione strisciante o moderata sono relativamente modesti, in particolare rispetto a quelli connessi con la disoccupazione, con la quale può esservi una relazione di sostituibilità o trade off. D'altro canto la riduzione dell'inflazione può diventare un obiettivo di politica economica per due motivi essenziali:  l'affievolimento dei conflitti sociali ad essa legati  il timore che possa innescarsi un fenomeno incontrollabile di iperinflazione. I costi sociali dell'inflazione galoppante dell'iperinflazione sono, infatti, certamente più rilevanti. 3.4 Disoccupazione e inflazione nella teoria economica: l’insufficiente capacità riequilibratrice del mercato 3.4.1La teoria keynesiana Per la visione della macroeconomia classica i fenomeni economici appaiono come manifestazioni di leggi naturali e non come il prodotto del contesto istituzionale esistente; il sistema economico ha un ordine naturale che gli conferisce carattere di stabilità, in particolare nel senso di assicurare la piena occupazione delle risorse. I classici considerano come unica istituzione il mercato. Anche se non ignorano l'esistenza della moneta, pensano che l'essenza del funzionamento del sistema economico dal punto di vista reale possa essere rappresentata prescindendo dalla considerazione della moneta. La legge di Say: egli sosteneva che in regime di libero scambio non sono possibili le crisi prolungate, poiché l'offerta crea la domanda. Difatti, in una economia di libero mercato ciascun soggetto sceglie di essere compratore o venditore ai prezzi di mercato. Se in un dato momento si ha un eccesso di offerta, i prezzi tenderanno a scendere. La discesa dei prezzi renderà conveniente nuova domanda. È in tal senso che l'offerta è sempre in grado di creare la propria domanda. In caso di crisi da sovrapproduzione il rimedio non doveva, secondo Say, ricercarsi in un intervento dello Stato ma in una capacità autoregolatoria del mercato. In ogni caso, poi, il libero scambio fungerebbe di per sé da rimedio, portando alla formazione di un nuovo equilibrio economico. Questa legge è detta pure legge degli sbocchi, poiché ogni produzione troverebbe sempre un naturale sbocco sul mercato. Say era convinto che il mercato lasciato a sé stesso tende a raggiungere l'equilibrio di piena occupazione. La legge di Say fu criticata aspramente sia da K. Marx sia da Keynes, che videro nella sua accettazione il motivo per cui l’economia classica non riusciva a spiegare il manifestarsi di crisi economiche. La critica di Keynes: John Maynard Keynes, nella sua Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, ha criticato la legge sostenendo che il detentore di moneta può essere motivato a trattenerla invece che a spenderla; il venditore, quindi, può non diventare consumatore, circostanza questa che causa una domanda aggregata insufficiente. Secondo Keynes, l'inflazione dei prezzi si verifica solo quando l'economia raggiunge la sua piena capacità produttiva. Prima di allora, l'aumento della domanda richiede un aumento dell'offerta: se un numero maggiore di lavoratori viene assunto per produrre quantità maggiori di ‘beni e servizi', allora la domanda e l'offerta si alzeranno insieme. Keynes in tutta la sua opera critica l'impostazione classica e mostra l'inesistenza della mano invisibile in termini macroeconomici. Rispetto alla pretesa dei classici secondo i quali le variazioni dei prezzi relativi sarebbero sempre in grado di garantire un livello di domanda globale corrispondente al pieno impiego, il punto di vista keynesiano è che i movimenti dei prezzi sono lenti rispetto alle variazioni delle quantità (vischiosità dei prezzi). Anche dove fosse assicurata la flessibilità dei prezzi non si avrebbero effetti favorevoli sulle capacità riequilibratrice del sistema. Considerando ad esempio la rigidità del salario monetario, secondo i classici la flessibilità del salario reale, ottenuta attraverso una riduzione del salario monetario e una riduzione dei prezzi, consentirebbe il raggiungimento di un reddito di piena occupazione, secondo Keynes invece una riduzione del salario monetario e reale può far crescere l'occupazione soltanto a condizione che non ne resti negativamente influenzata la domanda globale, bisogna quindi tener conto dell'effetto della riduzione del salario sulle variabili dalle quali la domanda stessa dipende: propensione al consumo, efficienza marginale del capitale, tasso di interesse. Gli effetti di variazione del salario monetario e reale su queste tre variabili sono molteplici, ricordiamo quelli più rilevanti: 1) la caduta del salario reale induce una redistribuzione del reddito a danno dei lavoratori a favore delle altre classi, fra le quali i rentiers, che hanno una più bassa propensione al consumo; 2) la riduzione del salario di un paese migliora la competitività delle merci del paese stesso, nelle ipotesi che i salari restino invariati all'estero; 3) la riduzione dei prezzi connessa con la caduta del salario monetario provoca un aumento del valore reale dei debiti, con possibilità di fallimenti di imprese o comunque con una riduzione della propensione ad investire. In linea generale, la molteplicità degli effetti prodotti da variazioni del salario reale induce a dubitare del fatto che essi possano assicurare l'equilibrio del mercato del lavoro. A questo si aggiunge il fatto che in un'economia monetaria l'acquisizione dei redditi è separata dalle decisioni di spendere, in sostanza abbiamo l'esistenza di due distinte classi di operatori, i risparmiatori e gli investitori e se gli imprenditori non hanno aspettative ottimistiche sul rendimento futuro dell'investimento, non investiranno i profitti realizzati e la domanda globale tenderà a cadere. La preferenza per la liquidità è un'espressione utilizzata da J.M. Keynes per indicare i diversi motivi che spingono gli individui a conservare scorte monetarie, ed in seguito impiegata in riferimento all'intera teoria keynesiana della moneta. Per i neoclassici l'unica funzione della moneta è quella di fungere da intermediario negli scambi; per Keynes invece la moneta ha anche un'altra funzione che gli economisti neoclassici sottovalutano. La moneta in un sistema di mercato è anche ricchezza, è una riserva di valore. Chi possiede moneta può farla valere in ogni momento, può convertirla come vuole in questa o in quella merce. Il possesso della moneta procura il vantaggio della liquidità, poiché essa gode della proprietà di convertirsi all'istante in qualsiasi altro bene. Secondo gli economisti neoclassici il bisogno di moneta, la domanda di scorte liquide che gli operatori trattengono presso di loro, è giustificato esclusivamente dal motivo delle transazioni: poiché gli incassi ed i pagamenti non si verificano per tutti gli operatori nel medesimo istante, nel sistema economico vi sarà sempre una La trappola della liquidità è una situazione in cui la politica monetaria non riesce più ad esercitare alcuna influenza sulla domanda, e dunque sull'economia. In condizioni normali, la politica monetaria ha la possibilità di agevolare la crescita economica sia aumentando l'offerta di moneta in circolazione sia abbassando i tassi di interesse; le imprese sono così incentivate ad indebitarsi e quindi ad investire e, nel contempo, si riduce la propensione delle famiglie al risparmio, aumentandone la propensione al consumo. Come si cade nella trappola: la spiegazione tipica delle cause della trappola della liquidità indica le aspettative da parte degli operatori economici di eventi negativi (come deflazione, guerra civile o conflitti internazionali, caduta della domanda aggregata) che li inducono ad una maggiore preferenza per la liquidità. Il segno distintivo della trappola è la caduta dei tassi di interesse a breve vicino a zero e il verificarsi della circostanza che variazioni della base monetaria non si riflettono in corrispondenti variazioni nell'indice generale dei prezzi. In questa situazione, con i tassi d’interesse nominali ormai a zero o vicini a zero, le banche centrali non possono farli scendere ulteriormente, e gli strumenti a disposizione della politica monetaria si esauriscono. Il vero motore dei consumi, infatti, come aveva intuito Keynes, risiede nella fiducia prima ancora che nei tassi. Se la fiducia viene meno, nemmeno tassi di interesse nulli o un aumento della base monetaria possono far ripartire i consumi. Quando le aspettative negative si diffondono all'intera economia, esse tendono ad autoalimentarsi in un circolo vizioso. Accumulando liquidità anziché spendere, gli operatori economici inconsapevolmente realizzano le loro peggiori aspettative: senza domanda di beni, si innesca la recessione, che conduce ad un aumento della disoccupazione, a minori redditi, e dunque a minori consumi e investimenti, e così via, in una spirale che si autoalimenta. 3.4.2 La disoccupazione naturale e le limitazioni dell'intervento pubblico secondo Friedman A differenza di Keynes, Friedman e i monetaristi percepiscono il sistema economico di mercato come intrinsecamente stabile. Essi non negano l'instabilità che si presenti in molteplici casi reali, ma la attribuiscono all'azione pubblica piuttosto che al comportamento del settore privato. Nel ventesimo secolo si sono scontrate due teorie essenziali. L'una, elaborata da Keynes, porta ad un più ampio intervento dello Stato nell'economia; l'altra, rivitalizzata dalla scuola monetarista di Milton Friedman, prende le mosse dagli economisti classici dell'800 e contiene una difesa della libertà d'intrapresa privata. Keynes è spesso visto come uno statalista e le sue implicazioni vanno indubbiamente in tal senso15. Egli contesta principalmente l'estrema fiducia nel modo in cui si formano i prezzi nel "libero scambio", nutrita da tutti gli economisti che lo avevano preceduto e che chiama "classici"16. Keynes fa piazza pulita dei presupposti smithiani a cominciare dalla "mano 15 Da lui trassero giustificazioni teoriche, le socialdemocrazie nordiche, ma anche molti governi italiani durante l'arco di tutto il dopoguerra: si pensi all’esperienza del centro-sinistra (dal 1963) che prese avvio con la nazionalizzazione dell’ENEL. 16 Tra loro è da annoverare anche Marx, che partì da una concezione smithiana del capitalismo. invisibile" che guiderebbe le scelte degli agenti (consumatori e produttori), sostenendo che una simile situazione può crearsi solo con un'effettiva "perfetta conoscenza" di tutti i parametri: questa, nel modello classico del mercato, è garantita dalla presenza di un banditore che, come succede nelle aste, fornisce ogni informazione a chi poi scambierà merci con denaro o viceversa. Il banditore17 è un'invenzione teorica, ma Keynes sostiene che senza di lui il modello classico non può funzionare: senza di lui entrano in gioco l'incertezza, le aspettative e le previsioni; la moneta assume un ruolo di sicurezza, soprattutto per i consumatori finali. Questi, di fronte all'incertezza sui prezzi di mercato dovuta all'assenza del coordinamento, mostrano preferenza per la detenzione di una certa quantità di moneta liquida, in modo da garantirsi da sbalzi futuri e imprevedibili. Preferiscono quindi risparmiare piuttosto che spendere almeno una parte del proprio denaro. Così facendo, si creano nei mercati le crisi da insufficienza di domanda di beni di consumo, a causa delle quali le imprese vendono meno, non vedono affluire capitali e non dispongono di risorse per investimenti. La ricetta keynesiana contro la disoccupazione, riassunta nel motto "sostenere la domanda", parte proprio da qui. Keynes fu il primo economista ad accorgersi dell'esistenza, nei cicli economici, di crisi di breve periodo, cioè inferiori ad un anno. In una simile situazione, con salari e prezzi fissi, affermò che la disoccupazione dipende dall'insufficiente domanda di beni da parte dei consumatori: essa infatti determina scarsi ricavi per le imprese che non hanno propensione ad investire e ad assumere. "Sostenendo la domanda", cioè invogliando i consumatori ad acquistare beni, si farebbero arrivare gettiti "freschi" di capitali alle imprese ed esse potrebbero poi, per produrre di più, reinvestirli ed assumere nuova forza lavoro, portando il sistema ad uscire dalla crisi occupazionale. Ma come fare per aumentare la base di consumatori? Keynes consiglia di aumentare la quantità di moneta circolante e ciò può essere raggiunto sostanzialmente in due modi: o aumentando la spesa pubblica a parità d'imposte18 o diminuendo le imposte per lasciare ai cittadini una più ampia disponibilità del loro denaro. Il secondo metodo è però sconsigliabile perché i consumatori potrebbero decidere di non destinare al consumo il denaro risparmiato con la diminuzione delle imposte. Il fatto che l'analisi di Keynes sia concentrata nel breve periodo non è comunque l'unico suo limite, Milton Friedman, nel suo tentativo di ridefinire le teorie liberiste rifondando la scuola monetarista, ne indica un altro. Friedman non ripone fiducia nel sostegno della domanda: egli ritiene che il sistema economico spesso non riuscirebbe a soddisfare una domanda crescente poiché già presenta un livello di produzione di equilibrio e poiché non v'è ragione per le imprese di modificare una produzione già in equilibrio, maggiore domanda si tradurrebbe in un puro aumento dei prezzi. 17 Teoria formulata dall'inglese Edgeworth 18 Keynes arrivò a sostenere che se il Governo assumesse disoccupati per impiegarli in lavori improduttivi (come scavare buche e poi riempirle nuovamente), ciò, per quanto assurdo, sortirebbe comunque l'effetto positivo di dare disponibilità di denaro e di spesa a persone che prima non l'avevano. La scuola monetarista ha analizzato il concetto di disoccupazione, trovando che essa dipende sovente da imperfezioni del mercato del lavoro, in altre parole da eterogeneità di qualifiche o di territorio o da scarsità d’informazioni. Questo fa sì che esistano contemporaneamente posti da occupare e disoccupati. Ad esempio possono esistere posti vacanti da operaio e disoccupati che aspirano a un posto da impiegato (eterogeneità di qualifiche), oppure posti vacanti in Veneto e disoccupati in Campania (eterogeneità di territorio), o infine non esistono informazioni sufficienti circa i posti vacanti (scarsa trasparenza del mercato). Questa disoccupazione, ignorata da Keynes, è detta "volontaria" e le è associato un "tasso naturale di disoccupazione" definito come un numero di disoccupati pari al numero di posti vacanti: è ad essa che corrisponde l'equilibrio "naturale19". Friedman sostiene che gli effetti della politica monetaria sul reddito sono di norma temporanei e associati a inflazione; più precisamente la politica monetaria non può controllare durevolmente né il tasso di interesse di mercato, né il tasso di disoccupazione corrente, mantenendoli al di sotto dei valori rispettivamente del tasso di interesse naturale e del saggio di disoccupazione naturale, a meno di non causare crescente inflazione. Curva di Phillips Nel 1958 l'economista inglese A. W. Phillips pubblicò un ampio studio dedicato all'osservazione del livello dei salari nel Regno Unito nel corso di quasi cento anni (1861-1957). Phillips notò l'esistenza di una correlazione negativa fra il tasso di cambiamento dei salari ed il tasso di disoccupazione: i salari, cioè, aumentavano tanto più rapidamente quanto minore era il tasso di disoccupazione. Ciò è spiegabile dalla circostanza che per livelli bassi di disoccupazione, le imprese hanno difficoltà a trovare la forza lavoro di cui necessitano; di conseguenza, esse sono disposte ad offrire salari più alti che determinano un aumento dei prezzi e, quindi, dell'inflazione. Se, invece, si è in presenza di un alto tasso di disoccupazione, la concorrenza fra i lavoratori terrà bassi i salari. Graficamente, ponendo sull'asse delle ordinate il tasso di variazione percentuale dei salari, sull'asse delle ascisse il tasso di disoccupazione, la relazione trovata dà origine ad una curva che presenta alcune interessanti caratteristiche. Innanzitutto, è inclinata negativamente: a minori tassi di disoccupazione corrispondono tassi di variazione dei salari più alti. Inoltre, nel punto in cui la curva incontra l'asse orizzontale, il tasso di variazione dei salari è nullo (Tasso naturale di disoccupazione). Oltre questo punto, quando cioè il tasso di disoccupazione è maggiore del tasso naturale, il tasso di variazione dei salari è negativo. 19 L'aggettivo naturale associato alla disoccupazione non implica costanza nel tempo o impossibilità per la politica economica di influenzarlo, ma semplicemente che l'azione pubblica potrà influire soltanto sui fattori strutturali dai quali scaturisce. di ottenere determinati effetti sulla domanda globale, le autorità monetarie dovrebbero dare un ritmo costante all'incremento annuo dei mezzi monetari per adeguarlo nel tempo alle esigenze connesse con la crescita del reddito nazionale. Riguardo alla politica fiscale, i monetaristi, partendo dal presupposto secondo cui la spesa pubblica dovrebbe aumentare allo stesso ritmo del gettito tributario, sono favorevoli a tagli fiscali come mezzo di riduzione della spesa pubblica, pur affermando che la manovra fiscale non ha alcuna incidenza sull'andamento del prodotto interno lordo. Il pensiero monetarista ha largamente influenzato numerosi interventi di politica economica. In particolare, il controllo dell'offerta di moneta è diventato uno degli strumenti più importanti di politica monetaria di vari Stati, tra cui gli USA che nel 1979 adottarono una nuova strategia volta a controllare la quantità di moneta in circolazione. Le politiche monetariste con l'obiettivo di ridurre il tasso di inflazione trovarono poi una sistematica applicazione anche in Inghilterra durante il periodo dei diversi governi Thatcher. Le ricette monetariste sono state accolte anche dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) che ha spesso imposto a vari paesi, attraverso gli accordi di stand-by: un maggiore controllo della propria politica monetaria e fiscale, per ridurre l'indebitamento estero ed il tasso di inflazione interno. 3.4.3 L'inefficacia dell'intervento pubblico nella nuova macroeconomia classica La Nuova Macroeconomia Classica (NMC) sviluppatasi intorno agli anni '80, riprende le tematiche fondamentali del pensiero economico classico inserendole in un contesto macroeconomico; i maggiori esponenti di questa scuola sono Lucas e Sargent negli USA e Minford in UK. Gli economisti che appartengono a questa scuola portano alle estreme conseguenze le idee dei monetaristi concentrando la loro attenzione su due aspetti particolari del sistema economico: la flessibilità dei salari e dei prezzi ed il ruolo delle aspettative razionali nell'influenzare l'operato dei soggetti economici. Nell'analisi dei monetaristi uno dei presupposti principali era la flessibilità dei prezzi e dei salari nel lungo periodo: essi ammettevano che nel breve periodo è possibile avere una situazione di squilibrio temporaneo, pur precisando che il mercato avrebbe colmato tale squilibrio nel lungo periodo. I principali esponenti della nuova macroeconomia classica, invece, negano la possibilità che il sistema economico possa essere in squilibrio anche nel breve periodo; ogni livello di disoccupazione che si realizza nel sistema economico rappresenta un tasso di disoccupazione di equilibrio, o, secondo la terminologia di questi autori, disoccupazione volontaria. Ogni aumento della disoccupazione rappresenta il risultato di una scelta volontaria da parte dei lavoratori, i quali decidono di non lavorare perché non sostenuti da adeguati incentivi; ciò è vero, secondo questi economisti, soprattutto in presenza di sussidi alla disoccupazione. Le aspettative razionali, invece, sono delle previsioni compiute dagli operatori economici sulla base delle informazioni di cui dispongono: saranno proprio queste aspettative, formulate razionalmente in base all'analisi dei dati disponibili, a condizionare l'operato di tutti i soggetti economici, siano essi consumatori che produttori. Tuttavia, poiché queste aspettative sono formulate sulla base di informazioni imperfette, molto probabilmente non saranno corrette. Nondimeno, questi errori saranno casuali in quanto le previsioni potranno essere approssimate sia per difetto che per eccesso. Sommando gli errori positivi e negativi si può affermare, come fanno gli economisti della nuova macroeconomia classica, che, in media, le previsioni degli operatori saranno corrette. 3.5 La crescita e lo sviluppo La crescita consiste nell'aumento del reddito e della ricchezza materiale di un paese. Lo sviluppo è un concetto più generale, che comprende quello di crescita, ma in aggiunta, considera altre cause del mutamento economico e sociale; si ha sviluppo se si assiste a un miglioramento delle condizioni di vita. Nel 1990 le nazioni unite definirono l'idea che gli ordinamenti sociali vanno giudicati dalla misura con cui promuovono il bene dell'uomo. Lo sviluppo umano è definito quindi come un processo di ampliamento delle possibilità di scelta della gente, che corrispondono alle capacità delle persone di dar forma a obiettivi, impegni, valori (Amartya Sen 1967). Le nazioni unite sottolineano le ragioni per le quali il reddito non può essere considerato un buon criterio di misura delle opzioni umane, ossia delle possibilità di scelta delle persone. Il reddito è un mezzo, non un fine, può essere usato tanto per farmaci essenziali quanto per beni superflui o anche nocivi come le droghe. L'esperienza mostra casi di elevati livelli di sviluppo umano associati a bassi livelli di reddito e viceversa. Il reddito corrente di un paese può essere scarsamente indicativo delle sue prospettive di crescita futura, che dipendono largamente da quanto si sia investito nel cosiddetto capitale umano, ossia nelle conoscenze e nella formazione professionale delle persone. Le misure del reddito pro capite correntemente usate anche a fini di comparazione nel tempo e nello spazio nascondono spesso problemi rilevanti, anzitutto, trattandosi di medie, non tengono conto delle disuguaglianze nella distribuzione; in secondo luogo, esprimendo il reddito pro capite in termini di una moneta comune, ad esempio i dollari, trascurano la considerazione del diverso potere d'acquisto nei vari paesi, che non viene riflesso nel cambio corrente ufficiale. La misurazione dell'indicatore di sviluppo umano (ISU) si concentra su tre elementi essenziali della vita umana: longevità, grado di conoscenza e standard di vita. La longevità viene indicata nella speranza di vita alla nascita; la conoscenza dalla alfabetizzazione degli adulti e dalla media degli anni di scolarità; gli standard di vita sostanzialmente dal reddito pro capite in dollari alla parità dei poteri d'acquisto. Il grado di sviluppo dei vari paesi secondo l'ISU appare notevolmente diverso da quello secondo l'indicatore tradizionale del PIL. 3.6 I fallimenti del mercato nelle teorie della crescita 3.6.1 La teoria della crescita esogena di Harrod-Domar La teoria della crescita economica, oggetto di studio degli economisti classici e di Marx, ha riacceso nuovi interessi negli anni più vicini a noi. Teoria classica. Secondo gli economisti classici, segnatamente Ricardo, l'aumento di ricchezza generato dall'economia di un paese in un determinato periodo di tempo è funzione diretta del reimpiego dei profitti. Ne deriva che lo studio della crescita economica non può prescindere dalla definizione delle leggi che governano la distribuzione del reddito (salari, rendite, profitti) tra le classi che partecipano al processo produttivo. I lavoratori percepiscono un reddito appena sufficiente a garantire il livello di sussistenza e, con esso, il perpetuarsi, nel tempo della forza lavoro20. I proprietari terrieri godono della rendita. I capitalisti, invece, beneficiano di profitti, configurabili come sovrappiù, che vengono, in buona parte, reinvestiti nella produzione. Questo reimpiego determina un'espansione che, tuttavia, ha un limite esterno: tende ad arrestarsi quando la crescente ricchezza provoca un aumento della popolazione che, a sua volta, determina una pressione dei mezzi di sussistenza. A quel punto, infatti, si impone il massimo sfruttamento delle terre già utilizzate e la messa a coltura di nuove, ancorché meno fertili. Tuttavia, la produttività decrescente del suolo genera l'impoverimento di chi lo lavora (caduta dei salari) e l'arricchimento di chi possiede le terre migliori, in misura direttamente proporzionali alla pressione demografica sulla disponibilità globale di terra. Effetti immediati dell'aumento della rendita sono la contrazione della domanda e l'aumento dei prezzi dei beni legati al fattore terra (risorse naturali in genere); in altre parole: abbassamento del saggio di profitto, quindi, degli investimenti. Teoria marxiana. L'approccio di Marx, che, a differenza degli economisti classici, considera l'economia capitalistica quale causa dei suoi stessi limiti, si fonda sull'instabilità del processo di accumulazione e sulle ragioni che la producono. Queste possono essere sintetizzate come segue:  individualismo, legato alle diverse attese di profitto, che caratterizza le decisioni degli imprenditori e che determina un'allocazione delle risorse, tra produzione di beni strumentali e di consumo, non idonea a far crescere l'economia in modo regolare e continuo nel tempo;  subordinazione del processo di accumulazione al fattore che lo alimenta: vale a dire al plusvalore e alla sua incerta realizzazione (vendita dei beni prodotti); 20 secondo quella che Lassalle definirà legge bronzea dei salari problema che era la base della dell'analisi keynesiana (ossia quello dell'autonomia delle decisioni di investimento) e che nella versione dinamica della teoria dava luogo all'instabilità di Harrod. Un importante risultato di questo filone, che contrasta con quanto sostenuto dagli economisti classici, è che il tasso di crescita dell'economia è stabilito dal progresso tecnico e il saggio di risparmio determina esclusivamente il livello di reddito ma non il tasso di crescita. Questa conclusione implica però una convergenza nei tassi di crescita dei diversi paesi e contrasta quindi fortemente con l'evidenza empirica. Da qui nasce la ricerca di un più soddisfacente modello di crescita, in cui il progresso tecnico non sia più assunto come esogeno, ma possa essere spiegato all'interno del modello stesso (crescita endogena). Il modello neokeynesiano. Critiche al modello Harrod-Domar vengono anche dal versante neokeynesiano e concernono la scarsa influenza attribuita alla distribuzione del reddito. I neokeynesiani asseriscono che la propensione al risparmio è correlata alla suddivisione del reddito tra salari e profitti e alle caratteristiche della spesa di capitalisti e lavoratori. Ne consegue che, data per scontata una propensione al risparmio dei lavoratori minore di quella dei capitalisti, il saggio di crescita è funzione dell'incidenza salariale sul reddito nazionale. Tuttavia, l'analisi post keynesiana, non introduce come fa la teoria neoclassica, ipotesi che negano l'esistenza di un problema di domanda effettiva. L'accumulazione del capitale è l'elemento trainante dell'economia capitalistica, in quanto consente di creare occupazione e profitti, tuttavia il suo carattere mutevole, ben evidenziato da Keynes, costituisce il principale limite del capitalismo di mercato. 3.6.3 Teoria della crescita endogena. Le teorie discusse nei due paragrafi precedenti hanno una comune impostazione, esse concordano nel ritenere che il tasso di crescita di lungo periodo di un sistema economico sia pari a quello naturale e rinunciano ad indagare sulle forze del lungo periodo che determinano la crescita, assumendole come note e date (crescita esogena). Questa caratteristica rappresenta un primo limite delle teorie stesse. Una seconda limitazione deriva dal realismo delle conseguenze di questa impostazione teorica, alludiamo al fatto che la teoria neoclassica della crescita implica, in evidente contrasto con la realtà, la convergenza nel lungo periodo delle varie economie allo stesso tasso di crescita e, nel caso di uguale propensione al risparmio, allo stesso livello di reddito pro capite. I contributi più importanti alla teoria della crescita economica da parte dalla dottrina contemporanea riguardano i cosiddetti cambiamenti strutturali; più precisamente, le influenze del progresso tecnico sui meccanismi di accumulazione. Correlando le innovazioni tecnologiche a due variabili primarie come l'attività di ricerca e l'investimento in capitale umano, le teorie sul progresso tecnico muovono dalla critica alle argomentazioni dell'economista statunitense Solow, che assunta l'innovazione tecnologica come variabile esogena, la inserisce nella funzione di produzione e la considera come l'unico elemento capace di mitigare il rendimento decrescente dei fattori produttivi. La nuova corrente di pensiero che fa capo ad Arrow invece, introduce il concetto di crescita endogena. Partendo dalla nozione learning by doing21, Arrow sottolinea come un atto produttivo, se ripetuto, generi economie di scala e determini una crescita nella produttività del lavoro che diventa funzione del capitale disponibile e, quindi, indipendente da cause esterne. Per l'economista Romer, invece, la quantità di lavoro è un aggregato di conoscenze a disposizione degli operatori economici. Ed è assimilabile ad un bene pubblico fruibile, una volta sul mercato, da tutti; l'innovazione tecnologica è un patrimonio a disposizione dell'economia (esternalità). Tuttavia, laddove esistono forme di tutela (ad es. brevetti) che impediscano un utilizzo generalizzato dei risultati dell'attività di ricerca, possono configurarsi ipotesi monopolistiche attenuabili solo in presenza di meccanismi imitativi. Secondo le teorizzazioni di Lucas l'accumulazione di capitale umano dipende dalla gestione del tempo ascrivibile al singolo soggetto: vale a dire, alla suddivisione tra lavoro, tempo libero e apprendimento di nuove tecniche operative. Le conclusioni cui giunge lo studioso dimostrano che l'aumento di produttività è direttamente proporzionale al grado di preparazione raggiunto sia a livello di singola azienda che dell'economia nel suo complesso. Proprio quest'effetto esterno, alla stregua di quanto postulato da Romer, genera economie di scala e influenza la crescita. Il tasso di crescita sarà tanto più alto quanto maggiore è il capitale umano a disposizione e migliore il grado di preparazione di questo. 3.7 Gli squilibri di bilancia dei pagamenti La bilancia dei pagamenti (BdP) è: «uno schema contabile che registra le transazioni tra i residenti in un’economia e i non residenti, in un dato periodo di tempo. Una transazione è un’interazione tra due entità istituzionali che avviene per mutuo consenso o per legge e comporta, tipicamente, uno scambio di valori (beni, servizi, diritti, attività finanziarie) o, in alcuni casi, il loro trasferimento senza contropartita.» In Italia la bilancia dei pagamenti è redatta dalla Banca d'Italia, secondo specifiche regole dettate dal Fondo monetario internazionale, che sono a loro volta coerenti con le convenzioni internazionali in materia di contabilità nazionale. Viene registrata a debito ogni transazione che comporti l'esborso di valute (importazioni di merci e servizi, trasferimenti unilaterali all'estero, deflussi di capitale); è registrata a credito ogni transazione che comporti un afflusso di valute (esportazioni di merci e servizi, trasferimenti unilaterali dall'estero, afflussi di capitale). 21 nella teoria economica della produzione, espressione che indica il progresso tecnico, e quindi il miglioramento dell’efficienza, come risultato della familiarità con la tecnica acquisita nel corso del tempo. La bilancia dei pagamenti è articolata in tre sezioni:  Conto corrente  Conto capitale,  Conto finanziario. Il Conto corrente (detto anche Conto delle partite correnti) registra le transazioni internazionali in merci e servizi, redditi e trasferimenti unilaterali correnti. I crediti riportano le entrate derivanti da esportazioni di beni e servizi, nonché da prestazioni dei fattori produttivi (lavoro di residenti, capitale di proprietà di residenti) utilizzate da altri paesi. I debiti riportano le uscite per importazioni di beni e servizi e per prestazioni di fattori produttivi non residenti. I trasferimenti unilaterali correnti sono entrate o uscite senza contropartita che, modificando il reddito disponibile, hanno un impatto sui consumi. Più in dettaglio: • merci: qualsiasi bene mobile che non rappresenti un'attività finanziaria; • servizi: vi sono apposite sottosezioni per: • trasporti di merci e di passeggeri; • viaggi all'estero: soggiorni in Italia di non residenti, all'estero di residenti, per turismo o per lavoro; • comunicazioni: servizi postali e di corriere, servizi di telecomunicazione; • costruzioni; • assicurazioni: servizi assicurativi; • servizi finanziari: i servizi di intermediazione finanziaria; • servizi informatici e di informazione; • royalties e licenze: sfruttamento di brevetti, di marchi di fabbrica, modelli, disegni e know-how; diritti d'autore su opere musicali e letterarie; diritti d'immagine; • altri servizi alle imprese: servizi legati al commercio, • redditi: • redditi da lavoro: le retribuzioni lorde (salari e stipendi al lordo delle imposte sul reddito, contributi sociali a carico del lavoratore trattenuti alla fonte dal datore di lavoro) di coloro che prestano un'attività di lavoro dipendente in un paese diverso da quello di residenza; • redditi da capitale: interessi, dividendi e utili reinvestiti, con distinzione tra redditi da investimenti diretti e da investimenti di portafoglio. Il Conto capitale Comprende le operazioni commerciali e i trasferimenti relativi ad attività di investimento: cessioni e acquisizioni di attività intangibili, quali i brevetti, i diritti d'autore, il valore dell'avviamento commerciale, i trasferimenti finalizzati o condizionati a transazioni su beni capitali (ad esempio, contributi per l'acquisto di attrezzature industriali). I due conti insieme rilevano dunque movimenti di beni merci e servizi, a parte i trasferimenti unilaterali. Nel Conto finanziario vengono registrati: Capitolo 4 La teoria normativa della politica economica 4.1 Lo Stato come operatore razionale Per superare i fallimenti del mercato sul piano sia microeconomico che macroeconomico c'è l'esigenza dell'intervento di un operatore che, avendo motivazioni e obiettivi di natura collettiva anziché individuale, sia capace di intervenire. La teoria normativa dell’intervento pubblico fornisce l’apparato concettuale per l’adozione di decisioni coordinate e coerenti di politica economica (programmazione). Teoria della politica economica: La formulazione di una teoria sia normativa sia positiva dell’intervento pubblico fornisce indicazioni sul ruolo da assegnare alle istituzioni Stato e mercato nella regolazione delle attività economiche.  Normativa: cosa dovrebbe fare l’operatore pubblico agendo razionalmente  Positiva: comportamento reale dell’operatore pubblico (fallimenti del “non mercato”) 4.2 La programmazione 4.2.1 Significato e fondamento Programmare significa adottare decisioni coordinate coerenti di politica economica. Nell’azione pubblica ciò implica non procedere a interventi slegati gli uni dagli altri, ma considerare per ogni problema il complesso delle finalità di politica ossia gli obiettivi e l'insieme delle azioni possibili ossia gli strumenti. La necessità di interventi coordinati deriva da tre ordini di considerazioni: 1. Per conseguire i diversi possibili obiettivi sono disponibili vari strumenti, la scelta di quelli adatti per ogni obiettivo può essere effettuata considerando l'efficacia relativa di ognuno, il tempo richiesto perché ognuno esplichi i suoi effetti, la presenza di vincoli nel loro uso. 2. L'esistenza di una molteplicità di obiettivi e il fatto che ogni strumento può influenzarne contemporaneamente più d'uno fanno sì che non esistano in generale problemi di politica separabili gli uni dagli altri. La soluzione dei vari problemi dovrà essere, pertanto, in linea generale simultanea. 3. I problemi di politica hanno natura intertemporale. La soluzione di un problema al presente è legata alla soluzione dello stesso problema in periodi successivi. Un aspetto di particolare rilievo della programmazione è quello della coerenza temporale delle decisioni pubbliche. 4.2.2 Elementi costitutivi del programma Gli elementi costitutivi del programma sono: 1. gli obiettivi, sono un traguardo di politica economica che si misura in termini di una grandezza (reddito, occupazione). 2. gli strumenti, sono una “leva” di cui dispongono i responsabili delle decisioni di politica economica per raggiungere un obiettivo, ossia per influenzare il valore di una variabile- obiettivo. L’analisi economica definisce la capacità degli strumenti di influire sugli obiettivi, indica le relazioni tra le varie variabili economiche e suggerisce la possibilità che la manovra di alcuna di esse consenta di influire su altre. Le relazioni fra le variabili economiche possono essere espresse da un modello matematico che descriva il funzionamento del sistema economico a livello aggregato (macro) o disaggregato (micro). In conclusione un programma è costituito da 3 elementi: obiettivi, strumenti, modello di analisi. 4.3 Gli obiettivi di politica economica Gli obiettivi di politica economica che i policy makers si propongono di raggiungere possono essere coerenti fra loro (stessa manovra porta al raggiungimento di vari obiettivi simultaneamente) o sostituti l’uno dell’altro (la manovra che implica il raggiungimento di un obiettivo rende più difficile il raggiungimento di un altro obiettivo; trade-off). È possibile individuare 4 modi di esprimere gli obiettivi: 1. metodo degli obiettivi fissi. 2. metodo della priorità. 3. metodo degli obiettivi flessibili con SMS variabile. 4. metodo degli obiettivi flessibili con SMS costante. 4.3.1 Obiettivi fissi (approccio mezzi fissi) Il primo metodo di espressione degli obiettivi è quello sviluppato da Timbergen e consiste nell'attribuzione di valori prefissati alle variabili che costituiscono gli obiettivi di politica economica. 4.3.2 Metodo delle Priorità L’indicazione di obiettivi fissi può non risultare conveniente se non si conosce bene la relazione che lega un obiettivo all’altro. In questo caso, che è quello più vicino alla realtà, in cui l’autorità si pone troppi obiettivi rispetto a quelli che può raggiungere, si possono seguire 3 linee di condotta: – Lasciar perdere alcuni obiettivi stabilendo delle priorità: si indicano priorità nel raggiungimento degli obiettivi (si assicura il raggiungimento di un obiettivo massimizzando il raggiungimento dell’altro). – Cercare di costruire nuovi strumenti – Abbandonare gli obiettivi fissi e perseguirne uno flessibile. 4.3.3 Obiettivi flessibili: funzione del benessere sociale con SMS variabile: Si indicano in termini flessibili gli obiettivi esprimendo le preferenze. Le preferenze rappresentate con una mappa di curve di indifferenza (che riflettono i desideri della collettività; Funzione del Benessere Sociale), si confrontano con il vincolo di bilancio determinando le scelte nel punto di tangenza, ossia le quantità di beni e servizi che bisogna procurarsi per essere soddisfatti nella misura massima possibile. Se gli argomenti della FBS non fossero dei beni ma dei mali (inflazione e disoccupazione) le curve sarebbero concave con SMS crescenti e curve più vicino all’origine degli assi rappresentano soddisfazioni più elevate. Si parla di approccio ottimizzante perché il valore degli obiettivi non è prefissato, ma definito dal processo di ottimizzazione con il vincolo dato dal modello di funzionamento dell’economia (curva di trasformazione). 4.3.4 Obiettivi flessibili: funzione del benessere sociale con SMS costante: In questo caso si ha una funzione del benessere sociale che è stata resa lineare negli argomenti e ha un SMS costante. La funzione di benessere sociale potrebbe avere la forma W=aYn+bYs dove a e b sono i pesi assegnati al reddito nelle due circoscrizioni (il SMS è costante, dato da b/a). Se gli argomenti della FBS con SMS costante sono p e u la funzione si presenta nella forma W=ap+bu dove a e b sono costanti negative. Nel caso in cui a=b=1 si ha l’indice di malessere di Okun che è pari alla somma del tasso di disoccupazione e di inflazione. L’indice di malessere L’indice di malessere è dato dalla somma del tasso di inflazione e del tasso di disoccupazione ed è stato sviluppato dall’economista americano Okun durante la crisi energetica degli anni Settanta. Okun ha suggerito di utilizzare come funzione di perdita22 la somma del tasso d’inflazione e del tasso di disoccupazione, funzione nota come l’indice di malessere di Okun, e che, seppur con alcuni limiti, si presta a un’analisi piuttosto intuitiva della “temperatura” all’interno di un paese. L’indice è utilizzato anche come termine di paragone tra i diversi Governi americani. Risultati positivi in termini di indice di malessere, si sono avuti con Eisenhower, Johnson e Kennedy, mentre, in negativo, si segnala in particolare l’amministrazione Carter, sotto la quale raggiunse livelli record: oltre 16 punti di media, con punte superiori ai 21. Truman è stato il presidente che ha visto registrare durante il proprio mandato il calo dell’indice più consistente nella storia americana (10 punti), l’esatto contrario di Nixon (+9). Barack Obama, infine, che aveva ereditato un indice di 7,8, arrivato nel corso della crisi economica anche oltre i dodici punti, si è trovato a gestire un valore non lontano dai dieci. Questo indicatore è oggetto di varie critiche: 1. l’indice di malessere indica preferenze che possono non essere condivise in quanto disoccupazione e inflazione hanno lo stesso peso (a=b=1); cioè 1% in più di inflazione e uguale a 1% in più di disoccupazione. 2. La diminuzione del benessere causata da un punto in più di disoccupazione è compensata da una diminuzione di un punto dell’inflazione e viceversa. Se cambiano in misura notevole le posizioni di partenza in materia di disoccupazione e inflazione, mutano i termini del rapporto 22 Da un punto di vista statistico prevedere significa determinare con il minore errore possibile la realizzazione di una variabile casuale per mezzo della realizzazione di altre variabili casuali. Pertanto per potere risolvere il problema è necessario scegliere una funzione di perdita o di costo e determinare il previsore ottimo, cioè la funzione (misurabile) delle variabili osservabili, che minimizza la perdita attesa. Quando un modello economico è espresso come un sistema di equazioni, queste possono essere: a) equazioni di definizione: servono per definire una grandezza, per es. la domanda aggregata; b) equazioni di comportamento: descrivono il comportamento degli individui, per es. le funzioni di domanda o di offerta di mercato oppure la funzione di consumo aggregato; c) equazioni tecniche: descrivono la tecnologia o le preferenze degli individui, per es. la funzione di produzione o la funzione di utilità; d) equazioni di equilibrio: come l'imposizione dell'eguaglianza tra quantità domandata e quantità offerta di un certo bene; e) equazioni istituzionali; sono una sotto-categoria delle relazioni di definizione relative a grandezze istituzionali, per es. il saldo del bilancio dello Stato dato dalla differenza tra entrate e uscite. Le variabili economiche Un modello economico è espresso come un insieme di relazioni fra variabili economiche che possono essere endogene o esogene. Sono endogene quando il loro valore è attribuito attraverso il modello macroeconomico che le prende in considerazione, mentre sono esogene quelle variabili che pur identificandone la loro importanza il modello non ne attribuisce il valore, bensì il valore è attribuito dall'esterno; è noto in anticipo (è un dato). Le variabili endogene si distinguono in:  variabili obiettivo: quelle di cui, attraverso il modello, ci interessa conoscere il valore, es.: il livello dell'occupazione o del reddito, la stabilità dei prezzi, il tasso d'inflazione, l'equilibrio nella bilancia dei pagamenti  variabili irrilevanti, sono quelle che hanno importanza per lo sviluppo del modello e per pervenire alla risoluzione delle equazioni del modello ma di cui non ci interessa il valore. Le variabili esogene si distinguono in:  variabili strumentali: controllabili dagli agenti della politica economica, rappresentano i mezzi di cui essi dispongono per raggiungere i fini prefissati, ossia certi livelli delle variabili obiettivo, es.: la spesa pubblica, la base monetaria o l'offerta di moneta, ecc. Non sempre, tuttavia, le autorità di politica economica hanno il pieno controllo variabili strumentali. Solo una parte della spesa pubblica è effettivamente controllabile nel breve periodo dal governo; una certa parte di essa invece varia sulla base di leggi precedenti o dei contratti del pubblico impiego. Si parla in questi casi di endogenizzazione della politica monetaria.  variabili date non controllabili, quelle su cui non è possibile attuare una modificazione. Risolvere il modello significa ricavare il valore delle variabili endogene ma in particolare del sottoinsieme delle variabili obiettivo. 4.5.2 il modello in forma ridotta La soluzione di un problema di politica economica espresso in termini di obiettivi fissi richiede che dalla forma strutturale si passi prima alla forma ridotta e poi alla forma ridotta invertita. Il modello in forma ridotta è un modello economico in cui tutte le variabili endogene sono espresse solo in funzione delle variabili esogene e dei parametri del modello. La trasformazione di un modello in forma strutturale in quello di forma ridotta è essenziale ogni volta che si voglia passare da un modello d'analisi ad uno di strategia: la forma ridotta permette, infatti, di calcolare immediatamente i valori delle variabili endogene in corrispondenza di ogni livello delle variabili esogene. Le equazioni della forma ridotta saranno, perciò, tante quanti sono gli obiettivi. L'equazione rappresenta la forma ridotta del modello in forma strutturale. Poiché in quel caso uno solo è l'obiettivo, la forma ridotta presenta una sola equazione. se l'obiettivo viene genericamente denominato con y e lo strumento con x l'equazione e del tipo y = f(x). Avendo due obiettivi, y1 e y2 e due strumenti x1 e x2; il modello in forma ridotta sarà: y1 = f1 (x1, x2) y2 = f2 (x1, x2) Un sistema di equazioni per essere risolto richiede che il numero delle incognite sia almeno pari al numero delle equazioni. In un problema di politica economica le incognite sono gli strumenti e il numero delle equazioni è pari al numero degli obiettivi, si può quindi derivare la regola aurea della politica economica, dovuta a Tinbergen: nel caso di obiettivi fissi, la soluzione di un problema di politica economica richiede la disponibilità di un numero di strumenti almeno pari al numero degli obiettivi. Se il numero degli strumenti è esattamente pari al numero degli obiettivi, il sistema è determinato. Se esso è superiore al numero degli obiettivi, il sistema è sottodeterminato ossia esistono molteplici soluzioni. 4.6 Limiti ed estensioni dell’impostazione classica L’importanza della moderna politica economica sta nella visione di insieme dei problemi di politica e nella considerazione degli effetti diffusi che derivano dalla manovra di ogni strumento, effetti che si esplicano non su un singolo obiettivo ma su una molteplicità di obiettivi. L’apparato concettuale descritto consente di impostare i problemi concreti e calcolare numericamente le soluzioni “esatte”. L’impostazione presenta un insieme di limitazioni di natura statica e certa (le soluzioni individuate in un modello statico e certo non valgono in un modello dinamico che preveda il raggiungimento di più obbiettivi fissi nel futuro), di carattere logico che risultano vitali (critica di Lucas) e di realismo della rappresentazione della posizione dei policy makers come rappresentanti di indistinti cittadini. Critica di Lucas Valutazione critica, esposta da Lucas in un suo famoso articolo del 1976, circa la possibilità di utilizzare modelli econometrici nella politica economica. I parametri del modello economico, infatti, non sarebbero indipendenti dalle politiche economiche adottate dalle autorità. Secondo l'economista statunitense, se gli individui formulano aspettative razionali, il loro comportamento sarà necessariamente influenzato dalle misure di politica economica preannunciate dal Governo nel tempo t. Nel tempo t+1 l'autorità pubblica baserà le proprie scelte su un determinato modello economico composto da equazioni in cui le diverse variabili obiettivo e strumentali sono collegate da parametri. Questi ultimi esprimono modelli di comportamento degli agenti economici e sono in genere considerati relativamente stabili. Nell'equazione del consumo, ad esempio, avremo: C = c Y dove la propensione marginale al consumo è, appunto, considerata un parametro. Il valore di tali parametri viene di solito stimato a partire dai comportamenti tenuti nel passato dagli agenti economici: nel caso della propensione marginale al consumo il parametro è stato stimato ricorrendo ai dati sul consumo e sul reddito degli anni precedenti. Il problema sollevato da Lucas riguarda proprio questa assunzione sulla stabilità dei parametri strutturali: se il comportamento degli individui è influenzato dalle scelte degli operatori pubblici, un modello di strategia basato su parametri «vecchi» non potrà essere utilizzato per prevedere le conseguenze delle misure di politica economica che si ha intenzione di adottare poiché proprio la nuova politica comporterà un mutamento dei parametri strutturali. La critica di Lucas è ormai universalmente accettata, e trova consenso anche fra quanti non sottoscrivono la tesi monetarista della completa inutilità di manovre di politica economica. I sostenitori dell'intervento pubblico, infatti, ribattono che se è fondato presumere che il comportamento dei privati è influenzato dalle decisioni del policy maker, la politica economica potrà comunque avvalersi di modelli che tengono conto di questa interazione strategica. La sostanza della critica è che le scelte pubbliche possono influenzare i parametri delle funzioni di comportamento privato, ossia la reattività degli operatori privati alle decisioni pubbliche, ovvero la stessa forma funzionale dei comportamenti privati. Se i parametri del modello cambiano, riflettendo un mutamento del comportamento del sistema, e nel modello di decisione pubblica viene preso come vincolo il “vecchio” modello, le politiche che ne derivano non saranno affatto ottimali: lo sarebbero soltanto nel caso in cui il comportamento non mutasse; ma esso muta proprio a seguito dell’intervento pubblico. Il vincolo preso a base per la definizione dell’intervento pubblico non è un vincolo vero, ma muta al mutare dell’intervento pubblico stesso. La critica di Lucas è indubbiamente fondata e pone problemi dal punto di vista sia pratico sia teorico. Dal primo punto di vista è rilevante la misura in cui parametri mutano al variare delle politiche 4. Un programma di politica economica include gli obiettivi, un modello di analisi e gli strumenti. 5. In una impostazione razionale della politica economica gli obiettivi sono indicati dai responsabili della politica economica e rispecchiano le preferenze dei cittadini. Essi possono essere espressi come obiettivi fissi con il metodo delle priorità, come obiettivi flessibili con saggio marginale di sostituzione costante o variabile. Nel caso di obiettivi flessibili i policy-makers formulano una funzione del Benessere sociale FBS i cui argomenti costituiscono gli obiettivi. 6. Uno strumento è una variabile controllabile, efficace e separabile. 7. Si possono distinguere strumenti di politica quantitativa, qualitativa e di riforma, misure di controllo diretto e indiretto, misure discrezionali e regole automatiche. 8. Il modello in forma strutturale presenta le connessioni fra le grandezze come esse vengono suggerite dall'analisi economica. Esso si compone di equazioni tecniche, di definizione, di comportamento, di equilibrio, istituzionali. Le variabili incluse nel modello sono esogene (dati, strumenti) ed endogene (obiettivi, variabili irrilevanti). 9. Il modello in forma ridotta ottenuto dal modello e forma strutturale esprime gli obiettivi in funzione delle sole variabili esogene. 10. Nel caso di obiettivi fissi la soluzione del problema di programmazione può ottenersi attraverso la forma ridotta inversa (ricavato dalla forma ridotta), assegnando il valore prefissato agli obiettivi e risolvendo rispetto alle variabili strumentali. La soluzione sarà possibile se è soddisfatta la regola aurea della politica economica: numero degli strumenti almeno pari al numero degli obiettivi. Il mancato soddisfacimento di questa regola induce: a) ad aumentare il numero degli strumenti b) a ridurre il numero degli obiettivi c) a mutare l'impostazione del problema di politica economica, esprimendo gli obiettivi come obiettivi flessibili 11. Un problema di obiettivi flessibili dà luogo alla massimizzazione di una FBS, con il vincolo dato dalle relazioni del modello. 12. L'impostazione classica della politica economica razionale presenta numerose limitazioni. Fra esse assume rilevanza la critica di Lucas, secondo la quale nella determinazione delle scelte pubbliche viene ignorato l'effetto di ritorno delle scelte pubbliche stesse sulle funzioni di comportamento dei privati, assunte come invariabili. 13. La scelta tra regole automatiche e decisioni discrezionali solleva problemi rilevanti. Nel lungo periodo le decisioni discrezionali sono temporaneamente incoerenti. Secondo Kydland e Prescott, in presenza di aspettative razionali la politica ottimale non è quella incoerente temporalmente ossia scelta discrezionalmente periodo per periodo, ma quella fissata a priori con una regola che obblighi l'azione pubblica nei periodi successivi al rispetto della scelta iniziale. Tuttavia, il carattere generale delle questioni sollevate dall’incoerenza temporale può essere dibattuto e il vincolo che una simile regola introdurrebbe può rivelarsi pesante nel caso di eventi negativi inattesi. Capitolo 5 5.1 La rappresentazione dei soggetti sociali La teoria normativa della politica economica è una teoria dell'interesse pubblico e non si pone il problema del grado di realismo delle ipotesi sulle quali si basa o del comportamento delle autorità pubbliche che ne discende. Soffre quindi delle stesse limitazioni tipiche dell'apparato concettuale della teoria neoclassica, del quale essa si serve. La teoria normativa della politica economica ipotizza l'esistenza di un operatore che si faccia carico degli interessi dei singoli soggetti economici, riflettendo in una funzione del benessere sociale la volontà del popolo. Questa impostazione trascura in notevole misura i seguenti aspetti della realtà: a) il sistema economico non è composto di operatori indistinti del genere ipotizzato; b) i responsabili delle decisioni di politica non sono anonimi. La teoria assume l'esistenza di individui anonimi, anche se caratterizzati da specifiche preferenze e diverse dotazioni iniziali, che suggeriscono le loro preferenze ai responsabili della politica economica, i quali le recepiscono nella FBS. Il popolo, però, in realtà non è un'entità composta da individui indistinti. Gli individui possono essere aggregati in classi o gruppi con caratteristiche comuni di potere, interessi, ecc. e che tendono a operare unitariamente (attraverso organizzazioni, gruppi di interesse, sindacati, partiti) per far prevalere le proprie preferenze su quelle degli altri. Tra le caratteristiche di queste classi o gruppi vi è quella del loro diverso potere che si esprime nei rapporti economici reciproci e nell'influenza che essi possono esercitare sulla formazione della funzione del benessere sociale, ovvero sui pesi attribuiti ai diversi obiettivi. La teoria economica neoclassica non offre le categorie concettuali adatte per affrontare alcuni dei problemi individuati, in essa mancano o hanno un ruolo limitato i concetti di potere e classe o gruppo e le istituzioni private diverse dal mercato sono praticamente assenti. Al contrario, i concetti di potere, classe, istituzioni sono al centro di altre scienze sociali (Scienza della politica). La macroeconomia di ispirazione keynesiana, riprendendo in parte l'impostazione classica di Smith, Ricardo, Marx e altri classici, ha innovato rispetto alla tradizionale impostazione neoclassica, introducendo differenze sistematiche nelle posizioni dei vari individui, tali da configurare l'esistenza di diverse classi (capitalisti/salariati; risparmiatori/investitori). Tuttavia, le implicazioni di politica economica keynesiana rimangono in larga misura valide per la collettività come un tutto: in un modello a prezzi fissi, il raggiungimento della piena occupazione può migliorare la posizione della società nel suo complesso, dei salariati come dei capitalisti, dei risparmiatori come degli investitori. Particolare rilievo assume in questo ambito la teoria dei gruppi di interesse (o teoria della cattura), che riconosce l'esistenza di gruppi di individui con interessi comuni e vede il governo in larga misura come un riflesso della pressione di tali gruppi. Ha qualche radice l'idea marxiana secondo la quale i capitalisti controllano le istituzioni sociali. La teoria è stata formulata dopo la Seconda Guerra Mondiale dalla Scuola delle scelte pubbliche che aveva un chiaro orientamento liberista. Emergono nel ruolo di operatori sociali le figure tradizionali dei capitalisti e dei lavoratori, non più come individui, ma come istituzioni che li rappresentano (i sindacati e i partiti). Anche i consumatori, particolari categorie di imprese (ad esempio finanziarie e non finanziarie) e i lavoratori (ad esempio occupati, non occupati, qualificati e non qualificati) assumono un nuovo significato, come portatori di interessi più o meno differenziati e tendenti a sollecitare interventi pubblici a loro favore. Ognuno dei gruppi sociali può cercare di indirizzare l'azione dell'ente pubblico più in generale come tramite l’adozione di politiche espansive e restrittive, la scelta di uno strumento di politica, o in atteggiamenti più specifici, come diverse aliquote fiscali, incentivi settoriali, protezione di specifici settori. I modi attraverso i quali gruppi esercitano la loro influenza sui pubblici poteri sono numerosi e includono il voto, le relazioni personali, le campagne di opinione, la corruzione, la promessa a politici e burocrati di lucrose future occupazioni. Questa teoria arricchisce certamente l'idea di società che poteva derivare dalla pura considerazione di un insieme di individui indistinti. Ma si sente il bisogno di una teoria macroeconomica che contenga ipotesi sul comportamento dei gruppi sociali e sulle loro interazioni. 5.2 I problemi di delega: gli obiettivi delle autorità di politica economica e il ciclo politico- economico L'identità dei policy makers è completamente trascurata dalla teoria classica della politica economica. Essi non hanno identità e non viene riconosciuta la loro natura di rappresentanti degli individui indistinti che dovrebbero rappresentare o dei soggetti sociali organizzati in gruppi. È come se essi non avessero idee personali sulla preferibilità delle varie soluzioni, interessi propri o interessi altrui da perseguire, al di là del generico interesse pubblico. In realtà questo indistinto soggetto pubblico è costituito da due categorie di persone:  politici: che hanno origine elettiva, definiscono gli obiettivi dell'azione pubblica  burocrati: veri e propri lavoratori dipendenti, traducono in realtà le linee di azione individuate dai politici. Per entrambi sorge un problema di delega, e perciò di incentivi. A parte l'ovvia distinzione fra chi decide le politiche chi le attua, è facile pensare che uno dei responsabili delle decisioni pubbliche sia portatore di specifici valori e interessi e che, inoltre, interagisca in differenti modi con gli altri attori sociali. In riferimento ai politici, ossia agli eletti responsabili delle decisioni pubbliche, è stata formulata verso la metà degli anni settanta la teoria del ciclo politico-economico, inizialmente da Nordhaus e poi da altri. In una sua prima formulazione, Kalecki sosteneva l’impossibilità per un sistema capitalistico di perseguire il pieno impiego nel lungo periodo: l’eliminazione del ciclo economico rispetto alle normali attività produttive ma anche alle difficoltà di misurare i risultati, all’ambiguità delle tecnologie, e alla molteplicità degli obiettivi (che sono caratteristiche tipiche dell'attività pubblica). A parte le precisazioni che modificano i vari aspetti della burocrazia pubblica, il vero problema consiste negli aspetti differenziali con l’analogo comportamento della burocrazia privata. I problemi fondamentali relativi all’attività dei burocrati pubblici sono: 1) Specificare i compiti individuali in modi coerenti con le capacità di elaborazione dell’informazione di ogni burocrate. 2) Fare in modo che il burocrate esegua i compiti affidatigli. In riferimento al secondo punto, l’obiettivo dei politici è di evitare l’elusione dei compiti, la corruzione dei funzionari da parte di individui che potrebbero trarre vantaggio da un loro specifico comportamento e la formazione di oligarchie burocratiche tali da sostituire le peculiari preferenze dei pubblici dipendenti a quelle espresse attraverso il processo democratico. Questo obiettivo lo si può conseguire in due modi: 1) Fissazione di procedure amministrative rigide: individuati gli interessi, si indirizzano le decisioni dell’esecutivo verso il loro soddisfacimento, specificando le procedure da seguire. 2) Introduzione di incentivi espliciti e positivi, come quelli legati alla produzione, svolgimento di compiti specifici etc… La scelta del modo migliore per ottenere il comportamento desiderato dai burocrati dipende da numerose circostanze; in linea generale è riconosciuto che il controllo della burocrazia rientra nell’ambito più vasto dei problemi di delega e non esistono soluzioni ottime di primo ordine. In linea generale, l'intero processo di formazione ed esecuzione delle decisioni pubbliche è stato modellato in termini di rapporti di agenzia con l'ausilio della teoria dei giochi. I modelli di agenzia sono stati utilizzati non soltanto per analizzare l'attività burocratica, ma anche per suggerire le soluzioni più efficienti. Questa seconda linea di ricerca è ancora allo stadio iniziale, ma sembra promettere interessanti applicazioni. 5.4 Riflessioni sui rapporti tra istituzioni e politica economica Una volta entrati nell'analisi del funzionamento effettivo dell'operatore pubblico, la rappresentazione del processo di decisione muta rispetto al modello ideale ipotizzato nella teoria normativa; va riconosciuto che tale processo non opera necessariamente nell'interesse generale, ma può servire per il perseguimento di interessi specifici, a partire da quelli dei politici e dei burocrati. L’azione dei politici riflette quella delle classi e dei gruppi sociali più numerosi e/o potenti, quindi va rivista l’idea del governo come di una rappresentanza indistinta della volontà del popolo. Possiamo derivarne la conclusione dell'inutilità della teoria normativa della politica economica? In definitiva, ciò che sembra cadere della teoria classica telefonica economica è essenzialmente l'idea secondo la quale l'azione pubblica debba e possa tendere sempre a un generale miglioramento. Va invece accettata l'idea, molto più coerente, che ogni azione pubblica abbia effetti diversificati sui vari gruppi sociali, ad esempio che una politica per l’occupazione abbia effetti diversi da una politica antinflazionistica su obiettivi come la distribuzione del reddito nei suoi molteplici aspetti. In definitiva, il governo è un’istituzione di una società e tende a sancirne la conservazione o plasmarne il mutamento. Ciò avviene con la spinta delle forze sociali e con la possibilità di indirizzare il processo di formazione e esecuzione delle scelte pubbliche attraverso un sistema di controlli e incentivi ai politici e ai burocrati. A seconda del grado di coesione esistente fra i vari gruppi sociali la politica pubblica potrà avere un maggiore o minore carattere di generalità: ossia, in una società molto coesa i vari gruppi agiranno in senso cooperativo e le politiche statali saranno rivolte veramente all'interesse generale; in una società in cui operino gruppi in forte contrasto fra loro, le politiche pubbliche saranno piuttosto dirette a favorire l'uno o l'altro di essi nella lotta contro i rimanenti e ogni provvedimento sarà oggetto di contesa. Dobbiamo quindi capire se gli obiettivi di efficienza ed equità possono essere meglio perseguiti attraverso l'opera di istituzioni pubbliche, ossia lo Stato, o private, ossia il mercato e le imprese. 5.5 Fallimenti del mercato e fallimenti dello Stato Negli anni 80 e nei primi anni Novanta in quasi tutto il mondo si sono manifestati movimenti di opinione contraria all'intervento pubblico nell'economia e favorevoli, invece, a una sua drastica riduzione, o costrizione in limiti e modalità da sancire in sede costituzionale. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna tali movimenti hanno manifestato maggiore consistenza, trovando espressione politica nella elezione di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher. In termini pratici si è ridotto, talvolta drasticamente, l'intervento pubblico, nel campo sia allocativo che distributivo. I movimenti di opinione liberisti possono essere fatti risalire sia ai mutamenti intervenuti nel funzionamento dell'economia negli anni 70 sia a taluni influenti contributi sul piano dottrinale. Dal mutato funzionamento dell'economia scaturiscono problemi che risulta difficile gestire e che non di rado danno origine a interventi pubblici numerosi, poco efficaci. Ci sono contributi dottrinali quali quello della Scuola di Public choice che evidenziano le inefficienze ed iniquità che si associano all’azione pubblica come conseguenza dell’ipotesi che burocrati e politici perseguano il proprio interesse. Sprechi, calcoli errati, difficoltà a reagire a problemi nuovi si sono verificati e giustificano se non la riduzione dell’intervento pubblico, una sua riforma. Sono così emersi nella realtà e nella letteratura economica fallimenti dello Stato ossia, fallimenti del governo o del non mercato. Sorge il problema se questi fallimenti possano essere valutati alla stessa stregua dei fallimenti del mercato e inoltre se essi siano superabili o meno. Vi sono alcuni problemi connessi con il rapporto di delega che provocano fallimenti sia del mercato sia del non mercato e che sono tipici di tutte le organizzazioni gerarchi, private e pubbliche. La letteratura economica individua 3 punti rilevanti per l’analisi dell’importanza relativa del rischio morale nelle istituzioni pubbliche e private: 1. Misurabilità degli obiettivi. Non è vero che il controllo degli organi esecutivi nelle organizzazioni private è più agevole però è vero che gli indicatori di successo dell’azione pubblica sono molto differenziati, e vanno dal grado di alfabetizzazione alla durata della vita media, al tasso di disoccupazione. Inoltre la molteplicità degli obiettivi pubblici implica difficoltà di controllo anche se tutti gli obiettivi fossero misurabili, semplicemente per la varietà degli aspetti rilevanti per l'azione pubblica. 2. Estensione e natura delle situazioni nelle quali si presentano problemi di agenzia. Nel pubblico sono normali situazioni nelle quali si presentano molteplici rapporti di agenzia (fra elettorato, politici e burocrati etc…) e spesso sono simultanei, come quando i politici e i burocrati sono sensibili a molteplici gruppi di interesse. 3. Effetto delle istituzioni complementari nella soluzione dei problemi di agenzia. Si asserisce che i problemi di incentivo con i managers privati possono essere risolti più agevolmente, in quanto sono sottoposti oltre che al controllo dei proprietari, alla disciplina del mercato, che può portare l'impresa fallimento e imporre la loro sostituzione a seguito di un takeover, nel caso in cui l'impresa sia mal gestita. Esiste, peraltro un'ampia letteratura che mostra i limiti del controllo che può essere esercitato dal mercato azionario. Stiglitz per esempio sostiene che l'ondata di acquisizioni di controllo che ha avuto luogo negli anni 80 è in realtà servita ai managers che hanno sfruttato informazioni riservate per accumulare notevoli guadagni, piuttosto che agli azionisti. D'altro canto un efficace controllo dei managers privati dipende dalle istituzioni concepite a livello pubblico. In sintesi il rischio morale è un problema comune alle strutture di governo pubbliche e private. Due sono le argomentazioni della maggiore gravità dei problemi di incentivo per le istituzioni pubbliche sono: il maggiore numero di strati nel rapporto di delega e la molteplicità degli obiettivi e degli indicatori di successo nel caso dello Stato. Ci sono numerosi modi per affrontare i problemi di rischio morale nell'ambito pubblico. L'esistenza di regole può certamente limitare l'arbitrio dei politici e dei burocrati. Ad esempio specifiche norme di una Costituzione fiscale possono prevedere limiti al deficit del bilancio pubblico. Simili norme, peraltro, possono limitare anche la capacità discrezionale di intervento dei politici per contrastare, ad esempio eventi che provochino effetti depressivi. In definitiva, le decisioni di politica economica devono essere viste come il risultato di un processo dinamico che tenta di sviluppare regole e strutture organizzative per far fronte a vari limiti nell'informazione o nelle azioni dei vari operatori. Infine, la partecipazione dei cittadini e dei gruppi sociali sia alla vita politica che all'attività amministrativa e la collaborazione che essi possono offrire e il controllo che possono esercitare si rivelano elementi difficilmente sostituibili da regole scritte. A partire dalla seconda metà degli anni 90 vi è stato un intenso dibattito sull'opportunità di modificare la Costituzione in senso federalista. Dopo un tentativo fallito nel 1997-98, con due distinte leggi, nel 2005 è stata attuata una riforma della Costituzione che accentua il decentramento di funzioni dallo stato agli enti sub statali: regioni, province, città metropolitane, comuni. 5.8 Le autorità indipendenti Dalla seconda metà degli anni 80 in tutta Europa, e in particolare in Italia, si è assistito al sorgere e rapido diffondersi di autorità amministrative indipendenti, istituzioni che, pur essendo parte della pubblica amministrazione, presentano caratteristiche specifiche e margini di autonomia decisamente più elevati di quelli tradizionalmente attribuiti agli organi amministrativi. Lo sviluppo delle AAI va messo in relazione alle tendenze di ridimensionamento e riqualificazione della presenza pubblica nell’economia, configurandosi come un processo di esternalizzazione e di decentramento dell’apparato pubblico tradizionale. Negli Stati Uniti sin dalla fine del secolo diciannovesimo funzionavano autorità indipendenti, il loro numero è aumentato nel secolo successivo. Nel Regno Unito esistono due gruppi diversi di istituzioni assimilabili. Da un lato i cosiddetti Quangos, organismi quasi governativi che hanno un elevato grado di autonomia; dall'altro un insieme di agenzie con il compito di gestire il controllo pubblico sulle imprese privatizzate nei servizi di pubblica utilità. Molto più limitata l'esperienza francese per quel che concerne gli organismi volti a favorire la privatizzazione e la liberalizzazione dei servizi di pubblica utilità. L'unica istituzione di questo tipo che è stata creata è infatti l’autorità per le telecomunicazioni, la cui autonomia dal governo risulta peraltro molto ristretta. Nel nostro paese il fenomeno delle AAI ha assunto dimensioni di particolare rilievo negli anni novanta. Si individuano 3 gruppi di AAI: 1. Autorità garanti, come l’autorità garante della concorrenza e del mercato e il garante per la privacy, hanno come obiettivo la tutela di interessi di rilievo costituzionale. I loro poteri sono di natura quasi giurisdizionale. 2. Autorità che svolgono funzioni di vigilanza: CONSOB e la Banca d’Italia. Gli interessi sono di rilievo costituzionale (stabilità moneta, funzionamento del mercato borsistico etc). Le funzioni sono normative. 3. Le autorità di regolamentazione, fanno parte quegli organismi creati per favorire il processo di liberalizzazione e di privatizzazione dei servizi pubblici (autorità per l’energia), determinano tariffe, standard qualitativi, di sicurezza etc.. Le AAI sono idonee a garantire elevati livelli di efficienza e di flessibilità amministrativa, e derivano da un ripensamento della stessa ampiezza e modalità dell’intervento pubblico e dalla crisi di fiducia verso le forme di rappresentanza politica. Alcuni hanno visto l’erompere delle AAI come l'espressione del processo di riorganizzazione attraverso il quale lo Stato tenta di dare una risposta istituzionale a fenomeni di decentramento in atto nel sistema economico e sociale. Una risposta istituzionale che implica un'articolazione del processo decisionale, uno sforzo di policentrismo che può realizzarsi solo attraverso il raggiungimento di nuovi equilibri tra Stato centrale, amministrazioni locali, imprese, mercati, associazioni di categoria. L'intervento pubblico fondato su questo tipo di nuovi organismi rimarrebbe discrezionale e finalistico, ma nel contempo si articolerebbe, diventando decentrato, caratterizzato da una pluralità di voci. Non vanno, però, ignorati i rischi connessi con un'eccessiva proliferazione di centri di decisione indipendenti. Le decisioni di natura politica potrebbero, infatti, sempre più ambire alla certificazione di terzietà tipica di una scelta tecnica. Le stesse AAI potrebbero diventare in questo caso i luoghi di mediazione e contrattazione di decisioni che la loro costituzione intendeva sottrarre al potere politico. L'esperienza degli anni più recenti ci mostra come questo rischio sia tutt'altro che ipotetico. Riepilogo 1. La teoria normativa della politica economica è una teoria dell'interesse pubblico, che non si pone il problema del grado di realismo delle ipotesi di base o del comportamento delle autorità pubbliche che da essa discende. 2. In realtà, il sistema economico non è composto da operatori quasi anonimi, ma da classi o gruppi di individui aventi carattere o esigenze comuni. Questi si organizzano in gruppi di interessi, cartelli, sindacati, partiti, ecc., al fine di far prevalere le proprie preferenze su quelle degli altri, come viene messo in rilievo dell'indirizzo della Political economy. 3. I responsabili della politica economica sono in realtà i politici e burocrati. Per entrambi sorge un problema di delega e, perciò, di incentivi. 4. In riferimento al comportamento dei responsabili elettivi delle decisioni pubbliche sono state suggerite varie teorie tendenti a spiegare l'esistenza di fasi espansive e restrittive in connessione con le scadenze elettorali o con l'alternanza al potere di diversi partiti e la crescita della spesa governativa e dei deficit pubblici. 5. I problemi della burocrazia pubblica sono stati ricondotti alla esistenza di interessi personali. Essi sono, peraltro, largamente simili a quelli della burocrazia delle imprese e degli enti privati. Nel caso della burocrazia pubblica le soluzioni possono consistere sia nell'introduzione di incentivi espliciti e positivi, come per i burocrati privati, sia nella specificazione delle procedure da seguire, compresa la pubblicità di taluni atti, oltre alle sanzioni in caso di deviazione dalle procedure indicate. 6. La teoria positiva della politica economica fa cadere l'idea secondo la quale l'azione pubblica debba e possa tendere sempre ad un generale miglioramento. Essa ha in parte ispirato i movimenti politici concreti tesi ad individuare l'esistenza di fallimenti nell'azione pubblica e, quindi, la necessità di ridurre il campo di influenza dello Stato o di rivederne la modalità di intervento. Tali fallimenti sono, peraltro, di natura diversa da gran parte dei fallimenti del mercato e condividono con questi sono i problemi che nascono dal rapporto di delega, pur se in forma e misura diverse. 7. Nella costruzione di una teoria normativa dell'intervento pubblico consapevole delle alternative esistenti e dei molteplici effetti che ne scaturiscono in una realtà sociale variegata, specifica attenzione va posta sull'analisi: a) degli interessi in gioco delle ragioni a favore dell'intervento, in particolare quanto all'esistenza o meno di un fallimento del mercato; b) della superiorità dell'intervento pubblico rispetto a quello di altre istituzioni c) della scelta fra tipi alternativi di intervento con riguardo alla loro fattibilità e ai risultati attesi. 8. Al fine di aumentare l'efficienza dell'intervento pubblico e l'articolazione del processo decisionale negli ultimi anni si sono accresciute le proposte tendenti all'adozione di una forma di Stato di tipo federale, il federalismo fiscale, e/o alla creazione di autorità indipendenti (authorities). Queste istituzioni, spesso apprezzabili per il contributo all'efficienza e in taluni casi, alla diffusione del potere economico, presentano peraltro, rischi che non possono essere sottaciuti. CAPITOLO 6 Obiettivi, strumenti e modelli della politica microeconomica 6.1 introduzione La politica microeconomica consiste nell'insieme di misure tendenti: 1) ad assicurare l'esistenza e il funzionamento del mercato, quando questo è capace di garantire l’ottimo desiderato: sono le politiche che configurano lo Stato minimale, ossia le funzioni minime che dovrebbero essere svolte dall'operatore pubblico 2) a correggere le molte carenze derivanti dal reale funzionamento del mercato e a mettere in rilievo i concetti di efficienza statica e dinamica. Sono le politiche riconducibili all'esistenza di esternalità, beni pubblici, costi di transazione e asimmetria informativa anche in presenza di un ipotetico mercato di concorrenza perfetta. Gli scostamenti della configurazione reale del mercato da quella di concorrenza perfetta, in particolare per effetto di economie di scala, accordi e intese, barriere all'entrata e all'uscita, danno luogo a politiche diverse a seconda che il criterio di riferimento sia quello dell'efficienza statica o dell'efficienza dinamica. 3) ad assicurare un’equa distribuzione del reddito e della ricchezza e a garantire la presenza di beni meritori. Le politiche di redistribuzione sono sia quelle riguardanti la distribuzione personale o familiare del reddito, sia quelle che concernono la distribuzione regionale o la distribuzione settoriale del reddito. Interventi microeconomici:  Imposte e sussidi (disincentivi/incentivi)  Regolamentazione  Legislazione antimonopolistica  Controllo dei prezzi  Produzione pubblica (impresa pubblica) 6.2 La funzione di garanzia del mercato: lo Stato minimale Gli strumenti sono diversi a seconda dell'atteggiamento prescelto nei confronti del mercato. Si parla di Stato minimale per sottolineare la caratteristica dello Stato liberale di porsi come unico obiettivo la tutela dei diritti fondamentali, prediligendo, al contrario dello Stato sociale, il rispetto e la salvaguardia dell'iniziativa privata in opposizione ad ogni tentativo di dirigismo statale. Il compito fondamentale non è quello di perseguire forme di eguaglianza sostanziale, ma di limitarsi unicamente a quelle di eguaglianza formale. Ne consegue l'idea di un apparato "alleggerito", incentrato sulla tutela di pochi diritti essenziali ed in grado di lasciare la massima libertà all'iniziativa dei singoli. Lo Stato minimo dovrebbe, quindi, garantire i servizi relativi alla giustizia, al diritto e alla protezione. Tra gli economisti vi sono pareri contrastanti sulla necessità dell’intervento dello Stato nelle decisioni private. Alcuni sottolineano che esso è necessario per assicurare o correggere l'operare del mercato, soggetto controllante proprietario o non proprietario, come nel caso del manager, deve essere incentivato ad amministrare l'impresa nell'interesse di tutti i proprietari e tendere a perseguire il massimo profitto, anziché interessi personali; dall'altro, i proprietari non controllanti devono essere incentivati a fornire il capitale necessario all'impresa e perciò tutelati nei confronti di possibili abusi dei controllanti. Esiste dunque un trade-off tra i diversi interessi coinvolti, che richiede di essere disciplinato attraverso un insieme di istituzioni complementari rispetto a quella dei diritti di proprietà. Queste istituzioni sono date da:  strumenti di natura contrattuale (norme statutarie o disposizioni che limitino la trasferibilità dei titoli di proprietà o i diritti di voto dei proprietari non controllanti);  patti di sindacato o altri accordi di voto;  l'azione di fiducia connesse con rapporti di famiglia o di altro genere;  disciplina del mercato del controllo societario. Per quanto riguarda l'ultimo punto il proprietario può modificare l'assetto di controllo dell'impresa quando il soggetto controllante si riveli inefficiente, liberandosi della proprietà a favore di un altro soggetto proprietario che acquisisca il controllo dell'impresa (takeover). Questa possibilità tende a scoraggiare il soggetto controllante dall'abuso del potere. Affinché ciò avvenga peraltro, è necessario che il proprietario non controllante disponga di una quota largamente maggioritaria della società. Inoltre i proprietari non controllanti devono poter cogliere in tempo i segnali di cattiva gestione e di abuso di controllo per poter intervenire. Infine è necessario che il potenziale acquirente possa disporre dei mezzi finanziari per acquisire il controllo. Tutto ciò richiede l'esistenza di:  un efficiente sistema di regole che disciplinano il mercato del controllo societario in termini di disponibilità e circolazione di informazioni e dimodalità di compravendita dei titoli;  efficienti istituzioni finanziarie capaci di valutare l'affidabilità di chi intende subentrare nella proprietà e nel controllo di attività produttive, pur non disponendo di capitali sufficienti. 6.4 Incentivi e disincentivi Servono ad alterare i comportamenti per favorire la realizzazione dell’efficienza (o dell'equità). La concessione di incentivi da parte di enti pubblici può avvenire con diverse modalità. Può trattarsi di incentivi monetari, mediante imposte negative o sussidi o creazione di infrastrutture, incentivi derivanti da regolamentazione o protezione non tariffaria. Gli incentivi favoriscono i soggetti che li ricevono. L'introduzione di disincentivi, monetari, come le imposte positive, o non monetari, come il tollerare di varie situazioni che operano come disincentivi, al pari della scarsa efficienza della burocrazia, penalizza i soggetti verso i quali è diretta. La sussidiazione, che si risolve sempre in un esborso per lo Stato in un introito per l'operatore privato, può assumere varie forme: credito d'imposta, contributo in conto interessi, contributo in conto capitale, possibile traslazione, ad esempio nel caso delle imposte: differenza tra soggetto “percosso” e “inciso. La traslazione delle imposte è il fenomeno che si verifica quando il contribuente (cosiddetto contribuente di diritto o percosso), riversa parte o l'intera quota del tributo dovuto su un altro contribuente (cosiddetto contribuente di fatto o inciso), in genere l'acquirente di un bene o di un servizio, attraverso la formazione del prezzo. È uno degli usuali comportamenti che un soggetto colpito da imposta o da tassa può tenere nel caso esso decida di ridurre il gravame dei tributi a suo carico. La traslazione dell'imposta può avvenire lungo il processo produttivo di un bene, nel caso di cessione di materia prima o di un prodotto semilavorato, o al termine del processo di produzione, per la cessione al consumatore finale. Per effetto della traslazione, un'imposta originariamente gravante sulla produzione, può di fatto comportarsi come un'imposta sul consumo. Si pensi, ad esempio, alle imposte sui carburanti, che necessariamente vengono imputate al prezzo. Lo stesso può avvenire per una tassa corrisposta all'erario a fronte di un servizio reso dalla Pubblica Amministrazione. L'introduzione di imposte personali o reali può servire molteplici obiettivi di politica microeconomica, che vanno dalla redistribuzione del reddito (ad esempio, nel caso di sussidi per il consumo di beni di particolare rilevanza nel paniere dei soggetti meno abbienti), all'ottenimento dell’efficienza allocativa (in una situazione di second best o in presenza di esternalità) o dell'efficienza dinamica (politica industriale, politica regionale, protezione dell'Industria nascente). Gli obiettivi indicati potranno essere in alcuni casi coerenti fra loro o sostituti l'uno dell'altro, nel caso in cui ci sia un trade-off tra gli obiettivi di efficienza e di equità. 6.5 Politiche della domanda pubblica In Italia, Stato, Regioni, Province e Comuni realizzano spese correnti o in conto capitale per l'acquisto di beni e servizi in misura pari a centinaia di miliardi di euro. Si tratta di un ammontare di spesa imponente, gestito da soggetti diversi ed autonomi. La domanda pubblica di beni e servizi può essere amministrata per raggiungere varie finalità: 1) garantire il funzionamento dell'apparato amministrativo e la produzione di servizi pubblici; 2) sostenere determinate branche dell'attività produttiva, la cosiddetta politica industriale; 3) regolare la domanda globale, la cosiddetta politica anticiclica. La prima delle finalità indicate è connaturata con l'esistenza stessa dell'ente pubblico, le altre si sono aggiunte successivamente. Se il Parlamento ha la responsabilità di individuare, quantificare il distribuire nel tempo i bisogni della collettività, sono Governo e Pubblica Amministrazione che devono affrontare concretamente servizi pubblici, utilizzando, con criteri di efficienza, le risorse umane e fisiche disponibili e quelle che via via si rende necessario acquisire. L’efficienza implica la scelta dell'alternativa meno costosa, a parità di risultato, o di quella che comporta il risultato migliore, a parità di costo. Gli obiettivi di politica industriale richiedono che la domanda pubblica sia indirizzata verso alcuni beni, particolarmente verso quelli aventi contenuto innovativo. Quando ciò sia consentito, la domanda potrà anche essere orientata verso certe categorie di imprese, ad esempio i produttori nazionali o quelli localizzati nelle regioni che si intendono sviluppare, oppure le piccole e medie imprese. Una politica degli acquisti pubblici rivolta finalità di politica industriale postula l'esistenza di: un elevato rapporto fra domanda pubblica e produzione; un'esaltazione di criteri discrezionali di decisione; una capacità della pubblica amministrazione di valutazione tecnica ed economica delle condizioni e dei riflessi degli acquisti pubblici, nonché della persistenza nel tempo delle ragioni del sostegno; una riduzione degli interventi temporali di programmazione, scelta, regolamento finanziario; l'esistenza di un continuo scambio di informazioni fra utenti e produttori. Il perseguimento di obiettivi di politica industriale può richiedere una deviazione dei principi di efficienza che vanno osservati per la produzione di servizi pubblici, ciò avviene ad esempio, se il sostegno ad alcune imprese implica il pagamento di un prezzo più elevato per l'acquisto di un bene. Contrariamente ai compiti di politica industriale, quelli di regolazione della domanda globale sono stati recepiti in ritardo, soltanto alla fine degli anni 60, dai pubblici poteri nel nostro paese. La consueta vischiosità delle nostre istituzioni ha fatto sì che le esigenze di rinnovare le procedure amministrative ai fini di regolazione della domanda trovasse lo scarso soddisfacimento. Un’efficace ed efficiente politica della domanda pubblica necessita di appropriate regole per la selezione del contraente e la specificazione del tipo di contratto, ma ha bisogno soprattutto di opportune procedure di selezione dell'impresa, ad esempio attraverso asta o trattativa privata. Tali procedure dovrebbero introdurre un sistema di incentivi e sanzioni efficace, tale da scoraggiare dalla adozione di comportamenti strategici, ad esempio, per aggiudicarsi l'asta con ribassi eccessivi, salvo poi richiedere la rinegoziazione delle condizioni e l'aumento del prezzo in fase di realizzazione dell'opera. 6.7 La regolamentazione delle entrate e della concorrenza effettiva I responsabili delle decisioni di politica economica (policy-maker) possono adottare delle restrizioni all’entrata in un mercato al fine di sostenere il reddito di certi operatori (incumbents), ad esempio richiedendo requisiti minimi di titoli di studio o abilitazioni (regolamentazione delle entrate). Dal punto di vista dell’efficienza allocativa i policy-maker possono anche favorire l’entrata in un determinato mercato, limitando o eliminando le barriere all’entrata, per incentivare la concorrenza potenziale. La contendibilità, infatti, contribuisce a migliorare l’efficienza del mercato. Infine la regolamentazione può porsi l’obiettivo di favorire la concorrenza effettiva: imponendo al monopolista di suddividersi in tante imprese indipendenti, riducendo così lo sfruttamento di potere di 2. la possibilità che la condotta scorretta di una singola banca o di altri intermediari finanziari crei delle diseconomie esterne tali da portare ad instabilità del sistema (instabilità finanziaria), ciò conferisce alla regolamentazione rilevanza per gli esiti in termini reali (particolarmente per la caduta del livello di reddito e dell'occupazione), determinando così fallimenti macroeconomici. Il primo fondamento dell'intervento pubblico nel settore finanziario è costituito dall'esistenza di non perfetta informazione e soprattutto di asimmetria informativa tra le parti coinvolte nelle operazioni finanziarie. L'asimmetria può condurre: a) ad attività fraudolente o che, comunque, tendono a ledere gli interessi della controparte, alla quale vengono celate delle informazioni ad es. in relazione alle reali condizioni del contratto; b) a fallimenti nell'individuazione della portata dei rischi, che sono tanto più gravi quanto più gli effetti di tali fallimenti possono essere adottati ad altri operatori. In genere il soggetto meno informato è il creditore ed è quello che deve essere protetto, in qualche misura nei confronti del debitore. Nel caso delle banche chi va salvaguardato è il risparmiatore, dal punto di vista sia delle operazioni fraudolente compiute dalle stesse sia della oculata valutazione dei rischi da essere assunti. La necessità di mantenere una reputazione è non di rado un buon antidoto agli abusi alle distorsioni che potrebbero derivare dall’asimmetria informativa. La reputazione dovrebbe essere particolarmente importante in presenza di attività di rating (valutazione) da parte di apposite agenzie come Standard & Poor's e Moody, ma l'esperienza della crisi finanziaria, iniziata nel 2007, dimostra come questa attività sia insufficiente per la prevenzione dei rischi, soprattutto per la dipendenza dalle agenzie dai soggetti che devono essere oggetto di valutazione, che sostengono il costo della valutazione stessa. Nell'ambito finanziario sono particolarmente importanti i codici di autoregolamentazione del tipo del cosiddetto codice Preda, dal nome del presidente della commissione dal quale è nato. Anche se la portata degli effetti positivi della autoregolamentazione è necessariamente limitata. L'applicazione delle norme di autoregolamentazione infatti è volontaria, inoltre, la tentazione di agire da free riders rispetto ai codici di autoregolamentazione è elevata, specialmente nelle fasi nelle quali la concorrenza appare più forte, da parte di chi si trovi in posizione particolarmente precaria o abbia forte preferenza per guadagni ravvicinati nel tempo o semplicemente persegua il guadagno con mezzi disonesti, come dimostrano numerosi esempi, a partire dal caso Enron. Infine, rispetto alla tutela delle minoranze, codici di autoregolamentazione sottoscritti da società governate da patti di sindacato o da azionisti di controllo sopra il 50% tenderanno ad avere un contenuto molto blando o illusoriamente protettivo. Tutto ciò giustifica dunque l'intervento pubblico nel mercato finanziario e questa esigenza è rafforzata dalla considerazione che i fallimenti microeconomici possono evolversi in fallimenti macroeconomici. Lo Stato può intervenire per eliminare o ridurre i fallimenti del mercato finanziario attraverso la regolamentazione o l'intervento di imprese pubbliche nello svolgimento di alcune attività come quella bancaria e assicurativa. La regolamentazione finanziaria è specificamente rivolta ad assicurare: a) la trasparenza della posizione, sia delle imprese che attingono per le loro esigenze di investimento al mercato finanziario, sia degli intermediari finanziari; b) il buon funzionamento delle banche e degli altri intermediari finanziari. Il primo punto è essenziale per il funzionamento del mercato per il controllo societario. È necessario infatti che l’allocazione del risparmio fra i vari possibili impieghi sia guidata da informazioni non distorte e disponibili al pubblico in generale, e ciò ha come presupposto la trasparenza e l'affidabilità della contabilità di tutte le imprese che ricevono crediti diretti o indiretti. L'esigenza di una maggiore trasparenza si è resa manifesta negli anni più recenti negli Stati uniti, a partire dallo scandalo già citato della Enron e specialmente con la crisi finanziaria iniziata nel 2007. In riferimento al punto b è necessario che banche, società di assicurazione altri intermediari finanziari siano gestiti in modo da:  favorire l'impiego del credito nei settori più produttivi senza distorsioni monopolistiche;  evitare l'assunzione di rischi eccessivi e garantire la restituzione dei finanziamenti ricevuti;  evitare l'uso degli intermediari a fini illeciti, ad esempio, con finalità di riciclaggio,  assicurare la stabilità del sistema finanziario. Per raggiungere questi obiettivi di efficienza allocativa, legalità e stabilità macroeconomica vengono imposti agli intermediari vari obblighi, in particolare in merito al rapporto tra capitale proprio e attività e fra riserve e depositi. È inoltre necessario provvedere a regolamentare il funzionamento di alcuni mercati, come quello borsistico, nei quali opera un'ampia molteplicità di operatori, spesso scarsamente informati, che possono essere danneggiati da operazioni speculative e talvolta truffaldine. 6.10 Il controllo dei prezzi Il controllo dei prezzi costituisce, in generale, una forma di regolamentazione con cui vengono fissati, in funzione di determinate finalità, prezzi minimi o massimi. Se sono perseguiti obiettivi di politica antimonopolistica verrà fissato un prezzo massimo24. 24 Il controllo dei prezzi può riguardare non solo la fissazione di prezzi massimi ma anche la fissazione dei prezzi minimi. In quest’ultimo caso la finalità conseguite di tipo redistributivo, garantendo un certo reddito all’offerente di un bene o servizio. Ad esempio, la politica agricola europea, prima della riforma del 2005, tendeva a garantire prezzi minimi a sostegno dei redditi derivanti da attività agricole. Il controllo dei prezzi può essere diretto o indiretto Si ha controllo dei prezzi diretto quando si fissa:  un margine di profitto massimo, attraverso il quale si impone un limite al prezzo. Tuttavia l’autorità che sovrintende alla regolamentazione, non controllando il costo unitario, non può controllare in realtà il prezzo. Anzi, le imprese per rispettare il margine fissato tendono a gonfiare il costo unitario anziché diminuire il prezzo;  un tasso di massimo rendimento del capitale investito, dati il capitale e i costi. Il prezzo deve essere determinato compatibilmente con tale tasso. In questo caso, però, si incorre nell’effetto noto come effetto Averch-Johnson: le imprese tenderanno a una sovracapitalizzazione, cioè a dotarsi di capitale in misura superiore alle necessità, al fine di aumentare l’ammontare dei profitti, con la conseguenza di distorcere anche il prezzo;  La fissazione di un prezzo massimo price cap, dati i costi, implica un certo margine di profitto e dato il capitale investito e il volume della domanda, un determinato tasso di rendimento di profitto. Con una simile formula di fissazione dei prezzi si vuole indurre l'impresa a rispettare l'efficienza allocativa (in quanto è fissato il prezzo massimo) e quella interna statica e dinamica (in quanto, dato il prezzo, l'impresa ha interesse a ridurre i costi). Il price cap costituisce la base della regolazione di prezzo dei servizi pubblici in Italia, sulla base della delibera del CIPE del 24 aprile 1996. Esso è stato introdotto per supplire ai limiti del modello rate of return25, in particolare per introdurre incentivi all’efficienza. Con il price cap il regolatore stabilisce anticipatamente l’evoluzione futura dei prezzi che l’impresa potrà praticare nel corso di un periodo pluriennale (periodo regolatorio), solitamente della durata di 4-5 anni; 25 Si ricorderà infatti che il modello rate of return consiste nella determinazione, anno per anno, di prezzi basati sui costi consuntivati dall’impresa regolamentata; in sostanza una sorta di ripianamento a piè di lista. •= costo medio + margine unitario di profitto Prezzo •= tasso di rendimento х capitale investito Margine profitto •a) Il margine di profitto •b) Il tasso di rendimento sul capitale (profitto/capitale) •c) Il prezzo massimo (price cap) si può fissare •Con a) le imprese possono gonfiare i costi medi •Con b) sovracapitalizzazione (effetto Averch-Johnson) •Con c) occorrono informazioni molto attendibili sui costi. Problemi c) l’appesantimento dei costi derivante dai punti precedenti si riflette in prezzi più alti, quando non funzionino gli strumenti di controllo relativi o se il potere politico consente di praticare prezzi superiori in cambio di opportuni comportamenti dell'impresa pubblica o in maggiori perdite dell'impresa pubblica che saranno prima o poi ripianate venendo poste a carico della fiscalità generale e quindi, in definitiva dei cittadini; d) le scelte dell'impresa pubblica per le ragioni esposte in precedenza non sono sottoposte alla disciplina derivante da un vincolo di bilancio, questo fatto, insieme alla doppia intercapedine che separa la gestione dell'impresa dai cittadini azionisti e l'assenza della disciplina esercitata dal mercato finanziario nel controllo della gestione dell'impresa tendono a minare il conseguimento dell'efficienza interna dell'impresa pubblica; e) la molteplicità dei fini assegnati alle imprese pubbliche crea oneri impropri non contabilizzati e ne rende poco trasparente e controllabile la gestione; f) l'impresa pubblica da un lato tende a non innovare a sufficienza, e dall'altro, effettua talvolta eccessivi investimenti e mantiene capacità inutilizzata. Alcuni di questi problemi certamente presenti nell'impresa pubblica sono presenti anche nell’impresa privata; in particolare nel nostro paese, la presenza di questi problemi nell’impresa privata è stato spesso dissimulata proprio dall'applicazione di prezzi monopolistici: lo sfruttamento del potere di monopolio ha spesso consentito di compensare con elevati ricavi gli elevati costi di una gestione inefficiente e anche di ottenere un profitto netto. La relativa maggiore efficienza dell'impresa privata rispetto a quella pubblica è spesso un mito che non regge alla prova dei fatti. Non di rado i confronti tra due tipi di imprese sono effettuati con riferimento ai costi e ai risultati di gestione. Confronti basati sui risultati di gestione sono unilaterali, poiché prendono in considerazione il profitto, che per l'impresa privata costituisce l'obiettivo, mentre è una variabile irrilevante o di importanza secondaria per l'impresa pubblica. Per ragioni simili confronti basati sui costi possono essere anch'essi unilaterali. Da questa analisi comparata non emergono conclusioni univoche, talvolta è confermata l'idea prevalente dell'inefficienza gestionale dell'impresa pubblica, in altri casi ancora, l'organizzazione pubblica è chiaramente più efficiente di quella privata. In molte circostanze poi, le critiche rivolte alle imprese pubbliche riflettono specificità storico/geografiche che non possono essere generalizzate: l'impresa pubblica ha funzionato male in Italia dalla fine degli anni 70 in poi, ma in molti altri paesi ha assicurato una performance accettabile. Esistono poi forme miste di imprese pubbliche o private: l'impresa mista o a partecipazione statale, che ha avuto ampio spazio in Italia fino agli anni 90 ed è ora presente in misura ridotta, in essa la partecipazione dello Stato aveva luogo attraverso gli enti di gestione. Un ulteriore esempio è offerto dalle nuove forme di partenariato pubblico privato, come gli accordi contrattuali di cooperazione tra soggetti pubblici e privati per il finanziamento, la costruzione e la gestione di una infrastruttura per l'offerta di un servizio pubblico. Riepilogo 1. La politica microeconomica tende:  ad assicurare il funzionamento ottimale del mercato;  a correggere i fallimenti del mercato messi in rilievo dalla teoria microeconomica, che danno luogo inefficienze e ineguaglianze. 2. La funzione di garanzia del mercato è ottenuta con l’affidare allo stato i compiti di attribuzione, amministrazione e difesa dei diritti. Dallo svolgimento di tali compiti derivano ulteriori funzioni, come il prelievo dei tributi. Di particolare importanza è l'attribuzione dei diritti di proprietà che può perseguire finalità distributive e di efficienza. Il governo societario è l'insieme delle norme concernenti il diritto di proprietà e di altre istituzioni complementari che disciplinano i rapporti tra proprietà e controllo dell'impresa societaria. 3. L'imposizione (positiva e negativa) è un importante strumento di politica microeconomica e può correggere le inefficienze derivanti dalle esternalità o servire obiettivi di politica industriale e redistributiva, 4. La politica della domanda pubblica può essere volta a garantire il funzionamento dell'apparato amministrativo e la produzione di servizi pubblici, la regolazione della domanda globale, il sostegno a particolari settori. 5. La regolamentazione consiste nell'introduzione di obblighi di fare o non fare che disciplinano il comportamento degli operatori privati. Tra le varie forme di regolamentazione assumono particolare rilievo quelle concernenti l'entrata e la concorrenza effettiva sul mercato, la legislazione antimonopolistica, la politica di controllo dei prezzi. 6. La riduzione delle barriere all'entrata o all'uscita favorisce la concorrenza potenziale. L’accrescimento della concorrenza effettiva può essere ottenuto con il frazionamento dell'impresa monopolista e l'introduzione di norme tendenti ad aumentare la concorrenza per il mercato. 7. La legislazione antimonopolistica tende a tutelare la libertà economica e a controllare il potere economico e politico connesso con le concentrazioni. Inoltre mira ad accrescere l'efficienza allocativa, sanzionando gli accordi restrittivi della concorrenza, la formazione di posizioni dominanti e o l'abuso di esse; 8. La regolamentazione finanziaria è specificamente rivolta a garantire:  la trasparenza della posizione sia delle imprese che attingono, per le loro esigenze di investimento al mercato finanziario, sia degli intermediari finanziari;  il funzionamento delle banche e degli altri intermediari finanziari per evitare la creazione di diseconomie esterne tali da portare a instabilità sistemica. 9. La politica dei prezzi è una forma di regolamentazione che può essere attuata attraverso:  la fissazione di un margine di profitto;  la determinazione di un tasso di rendimento sul capitale investito;  la fissazione diretta del prezzo. 10. L'impresa pubblica è uno strumento tradizionalmente considerato efficace per molti obiettivi specifici nonché per una generica maggiore coerenza delle scelte aziendali con gli obiettivi pubblici. I problemi di incentivo che si pongono per i manager dell'impresa pubblica tendono essere simili a quelli dell'impresa privata, ma sono accentuati dalla molteplicità degli obiettivi. La valutazione della performance dell'impresa pubblica non mostra differenze sistematiche con l'impresa privata. Tuttavia negli ultimi due decenni si è diffuso in tutto il mondo un vasto movimento favorevole a privatizzare larga parte del settore pubblico. Capitolo 7 La politica microeconomica in azione: le politiche antimonopolistiche, le politiche in presenza di esternalità e beni pubblici 7.1 Il fondamento delle politiche monopolistiche Il perfezionamento dell’efficienza paretiana costituisce uno dei fondamenti delle politiche antimonopolistiche. In realtà l’eliminazione delle imperfezioni che, in realtà sarà parziale, non può assicurare il conseguimento dell’efficienza paretiana, ma al massimo, sotto opportune condizioni, il raggiungimento di una posizione di second best. Quanti sostengono che attraverso l’accrescimento della concorrenza26 si persegue il duplice risultato di un aumento dell’efficienza statica e dinamica, di fatto dismettono l’approccio schumpeteriano, secondo il quale la condizione di monopolio, pur avendo risvolti negativi in termini di efficienza allocativa, costituisce un potente fattore di stimolo dell’innovazione e, perciò, di efficienza dinamica. Come si è detto, in verità l’evidenza empirica mostra casi a favore dell’ipotesi schumpeteriana e casi contrari ad essa. Pertanto, non può dirsi in generale se, promuovendo una maggiore concorrenza, si favorisca una maggiore efficienza dinamica. Questa constatazione è importante per i riflessi sugli strumenti da adottare, che non devono essere applicati in modo rigido (ad esempio, con l’introduzione di regole rigide di legislazione antimonopolistica). 7.2 Gli strumenti: la liberalizzazione dei mercati e l’apertura internazionale La politica antimonopolistica può essere attuata attraverso la liberalizzazione dei mercati e l’apertura internazionale, la legislazione antimonopolistica, il controllo dei prezzi, le politiche di regolamentazione per l’accrescimento della concorrenza potenziale ed effettiva, l’impresa pubblica. Alcuni paesi hanno fatto ricorso alla liberalizzazione e all’apertura internazionale come strumenti di politica antimonopolistica, anche se si è verificato con maggiore frequenza il caso opposto di protezione dalla concorrenza estera, per obiettivi di politica industriale o di redistribuzione a favore degli operatori di una determinata industria o delle imprese nazionali (e a danno, almeno pro tempore, dei consumatori nazionali). In Italia nel decennio 1950 la mancata adozione di una legislazione antimonopolistica ha trovato due apparenti giustificazioni: a) la legislazione antimonopolistica era resa inutile dall’apertura internazionale verso la quale si andava orientando il nostro paese, anche per effetto della adesione alle istituzioni europee; b) la seconda giustificazione poneva in rilievo l’inutilità di una legislazione nazionale, dal momento che il paese si trovava ad essere coperto da quella della Comunità economica europea. L’apertura internazionale può costituire un valido strumento di riduzione del potere di mercato delle imprese nei settori effettivamente esposti alla concorrenza internazionale e nel breve periodo. Non 26 1. La nozione di concorrenza normalmente usata, almeno implicitamente, è quella che corrisponde alla libertà di entrata e uscita dal mercato c) riguardino imprese che non abbiano potere di mercato sufficiente per ridurre in misura significativa la concorrenza sul mercato del prodotto. Al fine di garantire la certezza normativa, la Commissione europea ha introdotto la pratica di emanare regolamenti di esecuzione per categorie di intese e accordi (block exemptions). Comunque, gli accordi29, salvo quelli di scarsa rilevanza, devono essere notificati alla Commissione europea, che li approva o li vieta30. La Commissione può avviare un’istruttoria su denuncia di parte o se rilevi segni di comportamento collusivo in un dato settore. In caso di colpevolezza accertata, essa può sospendere l’accordo e infliggere sanzioni alle imprese colluse oppure può invitarle informalmente a recedere dall’accordo o a modificarlo in senso non lesivo della concorrenza. L’articolo 86, invece, stabilisce che: è incompatibile con il mercato comune e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra gli Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato comune o su una parte sostanziale di questo. Tre sono i passi necessari per sanzionare la condotta di una o più imprese sulla base dell’articolo 86: 1. va definito il mercato rilevante. 2. si individua una posizione dominante su tale mercato. 3. si precisa il concetto di abuso. 1. Il mercato rilevante o mercato di riferimento (relevant market, marché en cause) viene definito tenendo conto di numerosi elementi, merceologici, geografici ed economici. Anzitutto, un mercato è definito dalle caratteristiche merceologiche: ad esempio, il mercato degli aeromobili a corto raggio. Inoltre, esso è definito dall’estensione geografica, che nel caso degli aeromobili a corto raggio è quella mondiale, ma che in altri casi può essere europea o nazionale. Tuttavia, una posizione dominante (comunque definita) sul mercato degli aeromobili può non indurre distorsioni nella concorrenza, non soltanto quando non si abusi della posizione stessa, ma anche quando il prodotto in questione abbia sostituti molto stretti: ad esempio, questo potrebbe avvenire, nel caso in esame, per l’esistenza di mezzi di trasporto non aerei, ma terrestri e marittimi. La sostituibilità dal lato della domanda costituisce un elemento essenziale nella definizione del mercato rilevante. Pertanto, nel caso esaminato il mercato rilevante non può essere quello degli aeromobili a corto raggio, ma quello dei mezzi di trasporto a breve distanza. La posizione dominante di una o più imprese va valutata, dunque, con riferimento a questo secondo mercato. 29 Gli accordi non espliciti, consistenti, ad esempio, in una sequenza di modifiche nei prezzi nella stessa direzione e misura da parte di diverse imprese sono state considerati alla stregua di accordi espliciti. 30 Sono considerati di scarsa rilevanza quelli nei quali un’impresa controlli non più del 5% del mercato o il fatturato delle imprese coinvolte non superi i 15 milioni di euro. All’aprile 1999 sta per essere rivista la normativa che prevede l’obbligatorietà della notifica degli accordi. 2. La posizione dominante non deve essere valutata in relazione alla pura quota di mercato detenuta (a meno che essa non sia estremamente elevata), ma tenendo conto della capacità effettiva che un’impresa ha di seguire una condotta non concorrenziale, ciò che può essere fatto considerando anche numerosi elementi strutturali, quali il numero degli operatori attivi, le barriere all’entrata e all’uscita, il grado di integrazione verticale, ecc. 3. L’abuso di posizione dominante è la condotta di un operatore che lo mette in grado di ridurre significativamente il grado di concorrenza sul mercato, adottando metodi che esulano dalle forme normali di concorrenza. Secondo la Corte di giustizia anche ogni azione di crescita esterna tendente ad aumentare la quota di mercato da parte di imprese in posizione dominante costituisce abuso31. La materia è comunque diventata più chiara con l’adozione del regolamento 4064 del 1989. Le fusioni e le acquisizioni di controllo mediante strumenti azionari e non azionari (ad esempio, patti parasociali, gestione concertata di più società) che rientrano nell’ambito di applicazione del regolamento sono quelle che hanno una dimensione comunitaria, ossia coinvolgono aziende con un fatturato complessivo a livello mondiale superiore a 5 miliardi di euro e un fatturato a livello europeo superiore a 250 milioni di euro. Sono invece competenti le autorità nazionali per le altre operazioni o per quelle che coinvolgono imprese il cui fatturato è realizzato per almeno 2/3 in un solo Stato membro. La normativa della quale si è ora parlato si riferisce alle imprese. Invece, l’articolo 92 del Trattato sanziona come incompatibili con il mercato comune “gli aiuti concessi dagli Stati, in qualsiasi forma, che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”. Aiuti di tale genere sono quelli concessi alle esportazioni e agli investimenti. Sono, invece, considerati non distorsivi della concorrenza e, perciò, compatibili con il mercato comune le seguenti categorie: a) gli aiuti regionali, ossia quelli destinati allo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia anormalmente basso (sono considerate tali le regioni con un PIL pro capite non superiore al 75% di quello comunitario o con disoccupazione più elevata rispetto a quella comunitaria); b) gli aiuti orizzontali, ad esempio, gli aiuti per la Ricerca e Sviluppo, l’ambiente, il risparmio di energia, le piccole e medie imprese, la promozione delle esportazioni extracomunitarie; c) gli aiuti settoriali regolati dalla Commissione (in particolare nella siderurgia e nelle costruzioni navali, nelle fibre sintetiche e, più di recente, nell’industria automobilistica), o comunque le categorie di aiuti determinate con decisione del Consiglio. 7.3.3. La legislazione in Italia. Fino all’ottobre 1990 il nostro paese non ha adottato una legislazione antimonopolistica. I principali strumenti di politica antimonopolistica in Italia erano stati: l’apertura internazionale, il controllo dei prezzi e l’impresa pubblica. In seguito all’acquisita consapevolezza dei limiti di tali strumenti, fu 31 Al contrario, la crescita interna non costituisce abuso di potere dominante. introdotta una legislazione antimonopolistica che ricalca fedelmente quella europea, fondendo due progetti di legge, l’uno ispirato a principi di sostanziale deregolamentazione, l’altro tendente ad affermare un più attivo coinvolgimento dell’Esecutivo. La legge 287/1990 ha un ambito di applicazione residuale, riferendosi alle intese, agli abusi di posizione dominante e alle concentrazioni di impresa che non ricadano nella disciplina comunitaria. La legge si discosta dalla normativa europea soltanto in pochi casi, essenzialmente in quanto precisa alcuni concetti e ambiti di applicazione. Così, le deroghe al divieto di accordi possono essere concesse quando diano luogo a miglioramenti nelle condizioni di offerta con sostanziale beneficio per il consumatore o a miglioramenti nella concorrenzialità internazionale delle imprese; d’altra parte, l’esistenza di una posizione dominante deve essere valutata tenendo conto delle possibilità di scelta dei fornitori e degli utilizzatori, della posizione sul mercato delle imprese interessate, del loro accesso alle fonti di approvvigionamento o agli sbocchi di mercato, della struttura dei mercati, della situazione competitiva dell’industria nazionale, delle barriere all’entrata sul mercato di imprese concorrenti, nonché della domanda e dell’offerta dei prodotti o servizi in questione. La legge, che si applica sia alle imprese private sia a quelle pubbliche, istituisce l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, con sede in Roma. L’Autorità opera in condizioni di autonomia e indipendenza, è un organo collegiale composto dal Presidente e da quattro membri, che durano in carica per sette anni e non possono essere confermati. Essa ha poteri di indagine e procede a istruttoria per verificare l’esistenza di infrazioni. Può effettuare indagini conoscitive. L’Autorità è un ente amministrativo competente in tutti i campi, salvo quello del credito, demandato alla Banca d’Italia, ed ha natura simile per molti versi alla Federal Trade Commission statunitense. Trattandosi di un ente amministrativo, le sue decisioni sono soggette alla giurisdizione amministrativa. 7.4 Altri strumenti di politica antimonopolistica: il controllo dei prezzi e l’impresa pubblica L’attività di regolamentazione dei prezzi ha ricevuto un discreto sviluppo negli ultimi due decenni, spesso in relazione a programmi di privatizzazione 1432. Comunque, essa ha assunto spesso la forma di fissazione di un tasso massimo di rendimento sul capitale investito negli Stati Uniti, mentre il price cap nella sua versione dinamica, è stato utilizzato in Gran Bretagna, ad esempio in relazione alla privatizzazione di British Telecom; esso è stato impiegato, fra l’altro, in Italia. La disciplina pubblica dei prezzi in Italia è nata nell’ottobre 1944, riflettendo in qualche misura le esigenze straordinarie di quel periodo, in particolare quella di calmierare i prezzi in situazioni di carenze settoriali o generalizzate dell’offerta (o, specularmente, di eccessi di domanda). Furono istituiti il Comitato interministeriale dei prezzi (CIP), a livello nazionale, e i Comitati provinciali dei prezzi (CPP), a 32 Tuttavia, non tutti i casi di privatizzazione sono stati accompagnati da regolamentazione dei prezzi, o perché l’esistente legislazione antimonopolistica veniva giudicata sufficiente per la salvaguardia dell’efficienza allocativa e la riduzione degli extraprofitti o, addirittura, per l’apparente inesistenza di simili finalità.
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