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"Politica economica e strategie aziendali", Acocella, Sintesi del corso di Politica Economica

Riassunto dettagliato del libro "Politica economica e strategie aziendali" di Acocella. Integrazione con appunti per facilitarne la comprensione. Se il contenuto è stato apprezzato potete lasciare una recensione

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 14/04/2020

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Scarica "Politica economica e strategie aziendali", Acocella e più Sintesi del corso in PDF di Politica Economica solo su Docsity! POLITICA ECONOMICA E FINANZIARIA Acocella N., Politica economica e strategie aziendali, Carocci, Roma 2. I CRITERI DI SCELTA DELLE ISTITUIZIONI: EFFICIENZA ED EQUITÀ. 2.1 IL RUOLO DEL MERCATO E DELLO STATO Le due principali istituzioni sono il mercato e lo Stato. In realtà esistono anche altre istituzioni economiche come ad esempio le imprese non profit diverse dalle famiglie e dallo Stato. 2.2 I CRITERI DI SCELTA DELLE ISTITUZIONI: EFFICIENZE ED EQUITÀ Consideriamo le due istituzioni: STATO e MERCATO. La loro preferibilità può essere giudicata sulla base dell’efficienza e dell’equità. Adam Smith fu convinto assertore della istituzione mercato (concorrenziale) con il concetto di “mano invisibile”. Efficienza: i concetti di efficienza sono numerosi, possiamo distinguere i concetti di EFFICIENZA STATICA (allocativa/paretiana) e quello di EFFICIENZA DINAMICA (adattiva). Efficienza Statica/Criterio Paretiano: una situazione è ottimo paretiano se, comunque ci si sposti da essa, non è possibile migliorare la soddisfazione di un individuo senza peggiorare quella di un altro membro della collettività. L’ottimo paretiano richiede: • un’efficiente allocazione nel consumo di beni che si realizza quando il saggio marginale di sostituzione SMS di ogni coppia di beni per i vari consumatori è uguale; • un’efficiente allocazione degli input produttivi che richiede SMST (sms tecnica) di ogni coppia di input tra le varie produzioni uguale; • un’efficienza generale che si ottiene quando il SMS di ogni coppia di beni per tutti i soggetti è uguale al SMT (saggio marginale di trasformazione) Efficienza “X”: consiste nella capacità di scegliere i programmi di produzione tecnicamente efficienti: dopo aver compiuto la scelta delle etcniche produttive efficienti si tratta di organizzare la produzione in modo da rendere la max quantità di output. Ciò richiede la specificazione degli obiettiva ai lavoratori per evitare scelte discrezionali di questi ultimi. Efficienza dinamica/adattiva: consiste nella capacità di apprendimento graduale dei problemi e delle risposte “corrette” ai problemi stessi. Un altro modo per intendere l’efficienza dinamica è quello di capacità innovativa, che consiste nella capacità di introdurre innovazioni di processo o di prodotto. Equità: anche i concetti di equità sono numerosi. In linea generale una distribuzione del reddito o della ricchezza viene giudicata equa se assicura uguaglianza tra le opportunità o delle posizioni finali per i membri di una collettività. 2.3 EFFICIENZA PARETIANA – EQ. IN CONCORRENZA PERFETTA. IL PRIMO TEOREMA DELL’ECONOMIA DEL BENESSERE “In un sistema economica di concorrenza perfetta nel quale vi sia un insieme completo di mercati, un equilibrio concorrenziale, se esiste, è un ottimo paretiano”. Concorrenza perfetta: • omogeneità dei beni • alta numerosità degli operatori Le esternalità possono essere dovute a: • inesistenza di diritti di proprietà • esistenza di attività di produzione o consumo congiunto • le esternallità possono essere positive o negative, e provocano che i SMS siano diversi tra i vari individui e che SMST siano diversi tra le varie industrie. In presenza di esternalità il COSTO PRIVATO diverso COSTO SOCIALE così come sono diversi i prodotti marginali. In presenza di economie CMpriv > CMsoc. In presenza di diseconomia CMpriv<CMsoc. L’intervento pubblico è necessario per rimuovere la divergenza tra costo privato e sociale, rendendolo interno. Ciò può essere effettuato attraverso “imposte pigouviane” (a carico dei creatori di diseconomie), o attraverso la regolamentazione per evitare le diseconomie. 2.8 ESTERNALITÀ E TEOREMA DI COASE L’esistenza di esternalità dipende da come sono assegnati i diritti di proprietà: il problema da risolvere è dunque quello della SCELTA delle ISTITUZIONI nell’ ASSEGNAZIONE DEI DIRITTI DI PROPRIETA’. In situazioni in cui vi sia assenza di costi di transazione si creano automaticamente degli accordi senza l’intervento pubblico e, se la posizione che massimizza la ricchezza è unica, si tenderà a raggiungere quella posizione. (Teorema di coase). In questo caso c’è bisogno di un’autorità che garantisca l’esecuzione dei contratti. In presenza di costi di transazione il raggiungimento della posizione efficiente può dipendere dall’assegnazione dei diritti di proprietà: anche in questo caso l’intervento pubblico è necessario. LA CRITICA DI COOTER AL TEOREMA DI COASE Cooter ritiene che l’esistenza di atteggiamenti cooperativi non dipenda solo dalla possibilità di avere ritorni economici, ma può dipendere anche dalla distribuzione complessiva dei guadagni (redditi) di una società. L’azione pubblica, che deve considerare sia efficienza che equità e non solo uno dei due aspetti, ha dunque rilievo anche per la distribuzione dei redditi. 2.9 I BENI PUBBLICI Sono quei beni per cui non vi è rivalità nel consumo ed il godimento di un individuo addizionale non comporta alcun aumento di costo. Il bene pubblico, inoltre è un bene per cui i costi di produzione sono tutti costi fissi. Dal loro utilizzo non è possibile escludere alcun individuo e ciò accentua i problemi di parassitismo rendendo poco conveniente per i privati la produzione di questi beni. È per questi motivi che lo Stato si incarica della produzione o dello stimolo alla produzione da parte di altri. 2.10 COSTI DI TRANSAZIONE ED ASIMMETRIE INFORMATIVE Tali costi sono pervasivi ed interessano sia i mercati a pronti che i mercati a termine ma è in questi ultimi che assumono maggiore rilevanza. Tali costi sono più elevati in presenza di asimmetrie informative. Si pensi al problema “principal-agent”, ai problemi di delega, cosiddetti problemi di agenzia. L’informazione asimmetrica può dar luogo a due diverse situazioni: • Selezione avversa (adverse selection) che si ha quando una delle parti non può osservare le importanti caratteristiche del delegato o del bene oggetto della transazione o delle situazioni in cui potrà trovarsi il delegato, • Rischio di comportamenti sleali (moral hazard) ossia i cosiddetti problemi di incentivo per cui il delegato è incentivano a non eseguire la prestazione nei termini e alle condizioni previste da contratto. 2.11 IL TEOREMA DEL SECONDO OTTIMO Se una delle condizioni dell’ottimo paretiano non è rispettata o soddisfatta si ha un risultato inferiore all’ottimo di primo ordine: il secondo ottimo. Se si ha un’ineliminabile allontanamento della concorrenza perfetta in un settore l’azione pubblica potrebbe eliminare questo allontanamento: se anche esso fosse dovuto a cause ineliminabili ad esempio un monopolio, essa potrebbe attraverso la regolamentazione o la nazionalizzazione garantire una condotta non monopolistica. La domanda che ci si pone è se essendoci due agenzie governative esse possano operare separatamente. Alla luce del second best la risposta è chiaramente negativa in linea generale. Sono state studiate le condizioni di “separabilità” affinché le distorsioni in un settore economico siano tali da non influenzare gli altri settori, ed esse sono particolarmente negative. 2.12 DISTRIBUZIONE DEL REDDITO ED EQUITA' La teoria liberale insiste sull'equità attraverso il criterio delle capacità (che insiste su uguaglianza delle opportunità o dei punti di partenza), mentre la teoria socialista e quella solidarista insistono sul criterio del bisogno (che prevede il livellamento della soddisfazione degli individui). Per quanto riguarda gli aspetti economici un indicatore di equità è il reddito. Le situazioni efficienti in senso paretiano non è detto che siano eque dal punto di vista della distribuzione del reddito. Nella realtà non è accettabile una separazione tra efficienza ed equità, esiste un trade off tra efficienza ed equità. Spesso un miglioramento dell'equità migliora l'efficienza: ad esempio l'eliminazione della malnutrizione porta ad un miglioramento fisico e psicologico che porta ad una maggior produttività e crescita. Inoltre una sperequazione del reddito è causa di indignazione morale; per ragioni materiali o psicologiche l'equità è dunque condizione necessaria per la stessa “vitalità” di un sistema economico. 2.14 EFFICIENZA DINAMICA E FORME DI MERCATO Schumpeter ritiene che la presenza di un monopolio potrebbe essere positiva se il criterio di valutazione fosse la capacità innovativa; infatti è in questo tipo di regimi che lo stimolo all'innovazione è alto poiché offerto dalla prospettiva di nuovi frutti. Questa posizione è stata criticata da numerosi studiosi, tuttavia essa è dimostrazione che criteri di ottimalità diversi possono portare a conclusioni diverse circa l'auspicabilità dei regimi di mercato. I regimi non concorrenziali sono paretamente inefficienti ma possono essere efficienti per latri motivi, ad esempio la minimizzazione del costo medio di produzione in presenza di rendimenti di scala crescenti. 3. I FALLIMENTI DEL MERCATO: ASPETTI MACROECONOMICI DELLA REALTÀ 3.1. L’INSTABILITÀ DI UN’ECONOMIA CAPITALISTICA DI MERCATO: I FALLIMENTI MACROECONOMICI I principali fallimenti economici del mercato concernono principalmente numerose situazioni di crisi, ossia di dinamiche caratterizzate da disoccupazione, inflazione, disequilibri nella bilancia dei pagamenti, sottosviluppo. Queste sono manifestazioni della instabilità delle economie di mercato capitalistiche, dove con il termine instabilità non si vuole semplicemente indicare la mancata convergenza del sistema economico verso un determinato equilibrio, ma anche la possibilità che l’economia evolva lungo sentieri non ottimali dal punto di vista dell’efficienza. Le teorie microeconomiche sono teorie dei prezzi relativi, non del livello assoluto dei prezzi; inoltre, esse non considerano mai un’economia propriamente monetaria: per queste ragioni non possono dar conto dell’inflazione. L’assenza di moneta impedisce di considerare la bilancia dei pagamenti e i problemi di squilibrio ad essa associati. I sostenitori delle virtù della “mano invisibile” hanno tentato di spiegare alcuni di tali aspetti della realtà introducendo ipotesi che spiegano il cattivo funzionamento dei prezzi (rigidità); fra queste ipotesi un ruolo privilegiato ha avuto quella secondo cui l’intervento pubblico contribuirebbe a determinare tale rigidità, e quindi gli indicati fenomeni di crisi. Altri hanno sostenuto che la causa dell’instabilità risiede in aspetti strutturali dei mercati che impediscono a questi ultimi di funzionare nel modo e con i risultati previsti dalla teoria dell’equilibrio economico generale. Secondo molti di questi autori, l’instabilità del capitalismo di mercato può essere dimostrata con l’impiego di una teoria che abbandoni l’ottica microeconomica dei singoli mercati e consideri le relazioni tra grandezze aggregate. Disoccupazione, inflazione, squilibri della bilancia dei pagamenti, sottosviluppo possono essere considerati fallimenti macroeconomici del mercato. 3.2 LA DISOCCUPAZIONE Con questo termine ci riferiamo essenzialmente alla disoccupazione involontaria connessa con il livello di domanda; questa sorge quando vi sono lavoratori (potenziali) disposti a occuparsi al saggio de salario (reale) vigente o anche a uno leggermente inferiore ma la domanda è insufficiente per occuparli; l’offerta di lavoro risulta allora razionata. L’esistenza di disoccupazione involontaria configura una perdita di efficienza statica e dinamica per il sistema economico. Dal punto di vista statico essa implica la possibilità di migliorare la posizione di alcuni individui (i disoccupati stessi), senza peggiorare quella di altri. Inoltre il mancato utilizzo delle risorse umane che si prolunghi per un certo periodo di tempo ne implica il deperimento: è questa una delle ragioni per le quali le probabilità del disoccupato di ritrovare un’occupazione si riduce all’aumentare della durata della disoccupazione. Oltre a causare una perdita di efficienza, la disoccupazione accresce l’ineguaglianza nella distribuzione del reddito. Le conseguenze economiche e sociali della disoccupazione possono essere temperate sul piano personale da interventi pubblici di redistribuzione del reddito che consentano il pagamento di indennità di disoccupazione o l’integrazione dei guadagni, o che garantiscano, comunque, il pagamento di un salario minimo. Secondo Keynes, invece, una riduzione del salario monetario e reale può far crescere l’occupazione soltanto a condizione che non ne resti negativamente influenzata la domanda globale. La molteplicità degli effetti prodotti dalle variazioni del salario reale induce a dubitare della capacità che esse possano assicurare l’equilibrio del mercato del lavoro. All’inadeguatezza del salario reale come prezzo capace di riequilibrare questo mercato si accompagna l’inesistenza di un prezzo che possa rendere coerenti le scelte di risparmio con quelle di investimento. In un’economia monetaria, la separazione dell’acquisizione del reddito dalle decisioni di spesa introduce un elemento di incertezza circa il probabile rendimento del nuovo capitale (investimento). Tale rendimento è legato alle aspettative su molteplici aspetti del futuro. Se gli imprenditori non hanno aspettative ottimistiche di rendimento futuro dell’investimento, essi non investiranno i profitti realizzati e la domanda globale tenderà a cadere. In un’economia monetaria esiste anche un’intrinseca instabilità del valore patrimoniale della ricchezza finanziaria. Essa introduce una ulteriore fonte di incertezza che può indurre gli individui a rifuggire dall’impiegare la ricchezza in forme che non garantiscono la conservazione del valore stesso, ossia a mantenersi liquidi. In questo ambito, sottolinea Keynes, il tasso di interesse è la ricompensa all’abbandono della liquidità per un certo periodo di tempo ed è quindi il prezzo che equilibra domanda e offerta di moneta. L’instabilità del valore patrimoniale della ricchezza finanziaria va ricondotta alle aspettative di possibili oscillazioni del tasso di interesse. Il tasso di interesse è il compenso che spetta a colui che rinuncia a detenere la sua ricchezza in forma liquida; esso sarà tanto più alto quanti più individui ci sono i quali pensano che in futuro il tasso di interesse sarà alto. Per tutte queste ragioni, in un sistema capitalistico la domanda globale e l’occupazione sono instabili e possono assestarsi su livelli lontani dal pieno impiego. Nel pensiero di Keynes l’intervento pubblico sottoforma di politica monetaria e soprattutto di politica fiscale è l’unica forza capace di riportare queste variabili ai livelli corrispondenti alla piena occupazione. 3.4.2 LA DISOCCUPAZIONE NATURALE E LE LIMITAZIONI DELL’INTERVENTO PUBBLICO SECONDO FRIEDMAN A differenza di Keynes e dei keynesiani , Friedman e i monetaristi concepiscono il sistema economico di mercato come intrinsecamente stabile. Essi non negano l’instabilità che si presenta in molteplici casi reali, ma l’attribuiscono all’azione pubblica piuttosto che al comportamento del settore privato. Friedman sostiene che le variazioni dell’offerta di moneta sono le principali determinanti sistematiche della crescita del reddito nominale. Friedman sostiene anche che gli effetti della politica monetaria sul reddito sono di norma temporanei e associati all’inflazione. Più precisamente, Friedman afferma che al politica monetaria non può controllare durevolmente né il tasso di interesse del mercato né il tasso di disoccupazione corrente (o di mercato), mantenendoli al di sotto dei valori, rispettivamente del tasso di interesse naturale e del saggio di disoccupazione naturale, ameno di non causare crescente inflazione. Tasso di interesse naturale è sostanzialmente il prezzo di equilibrio fra domanda di capitale (investimento) e offerta di capitale (risparmio). Il tasso naturale di disoccupazione è quello in corrispondenza del quale il numero di posti di lavoro disponibili è in una certa relazione di equilibrio con il numero dei lavoratori disoccupati; essendovi sostanziale equilibrio tra domanda e offerta di lavoro, il salario tende a rimanere costante. In conclusione: La politica monetaria secondo i neo-quantitativisti è efficace soltanto nel breve periodo; essa riesce a mantenere il tasso di disoccupazione di mercato ad un livello minore di quello naturale soltanto per breve tempo; la possibilità di farlo per un tempo più lungo implica che venga aumentata ulteriormente la quantità di moneta il che genera ulteriore inflazione inizialmente inattesa dai lavoratori e, quindi, la possibilità di un tasso di disoccupazione minore di quello naturale; pertanto soltanto una crescente inflazione può garantire un tasso di disoccupazione minore di quello naturale. Nel lungo periodo la curva di Phillips, sempre secondo i monetaristi, è verticale; ossia per qualunque tasso di inflazione la disoccupazione resta al tasso naturale; non v’è pertanto un trade-off tra disoccupazione e inflazione, se non nel breve periodo. Ruolo dell’azione monetaria per Friedman: secondo Friedman la moneta deve svolgere il ruolo di lubrificante dell’economia: la variazione della quantità di moneta deve essere pari alla variazione media della sua domanda, che, se non cambia la velocità di circolazione, corrisponde alla variazione del reddito reale, in un ambito di stabilità dei prezzi (c.d. regola semplice). Nei confronti della politica fiscale Friedman manifesta altrettanto scetticismo. Anzitutto, la variazione della spesa pubblica può rivelarsi inefficace già nel breve periodo, se essa viene percepita come transitoria. Infatti, in tal caso essa non intacca il reddito permanente e non influisce sul consumo. Comunque anche se fosse efficace nel breve periodo, essa non lo sarebbe nel lungo, in quanto un aumento della spesa pubblica finanziato in deficit senza emissione di moneta provocherebbe uno spiazzamento finanziario della spesa privata sensibile al tasso di interesse, ossia dell’investimento. La duplice idea di fondo dei monetaristi è dunque che: Il sistema economico privato è sostanzialmente stabile, obbedendo a forze capaci di riportarlo su un sentiero di piena occupazione, anche se turbato da shocks esogeni; in ciò svolgono un ruolo importante sia il carattere esogeno della moneta sia le decisioni di spesa per consumi fondate, su un concetto di lungo periodo come quello di reddito permanente, sia , ancora, la natura adattiva delle aspettative. L’azione pubblica è, al contrario, inefficace, se non nel breve periodo, e non incide sulle caratteristiche strutturali del sistema economico. 3.4.3 L’INEFFICACIA DELL’INTERVENTO PUBBLICO NELLA NUOVA MACROECONOMIA CLASSICA La NMC condivide, e, anzi, rafforza il punto di vista dei monetaristi sulle capacità riequilibratrici intrinseche al sistema economico privato e, al contrario, giungendo a conclusioni ancor più negative sull’efficacia dell’intervento pubblico. Due sono le ipotesi essenziali: Gli operatori formano le proprie aspettative in modo razionale; I mercati sono continuamente riportati in equilibrio dal movimento dei prezzi, che sono perfettamente flessibili. Prima ipotesi. Gli operatori hanno aspettative razionali nel senso che essi sfruttano tutte le informazioni disponibili, che non necessariamente sono complete. Questo tipo di aspettative è proiettato in avanti anziché indietro. L’introduzione di aspettative razionali (AR) equivale all’ipotesi secondo la quale gli operatori si comportano come se conoscessero la teoria sottostante il modello. Tuttavia non è chiaro il processo attraverso il quale gli operatori arrivano a formare AR, ossia come essi apprendono il funzionamento del sistema economico e, pertanto, del modello che lo rappresenta. La NMC postula l’esistenza di mercati che tendono rapidamente all’equilibrio o che sono continuamente in equilibrio. In particolare, il mercato del lavoro è sempre in equilibrio di piena occupazione. La disoccupazione è sempre volontaria. Essa può ridursi, se vi è un aumento imprevisto del livello generale dei prezzi avvertito dalle sole imprese e non dai lavoratori. Un aumento dell’offerta di moneta inatteso, ma transitorio, fa crescere l’occupazione e i prezzi, ma soltanto in via temporanea. Gli effetti positivi in termini reali di un aumento inatteso, ma permanente, dello stock di moneta saranno di breve durata, esaurendosi nel lungo periodo. Al contrario, un aumento previsto della domanda globale non può avere alcun effetto sulla quantità prodotta perché contemporaneamente esso genera aspettative di aumento dei prezzi degli altri prodotti e induce, quindi, ogni operatore (imprese e lavoratori) a proteggere il proprio reddito con l’accrescere il prezzo del proprio prodotto. Se ognuno accresce i prezzi, il livello generale di questi risulta aumentato e ciò convaliderà le aspettative in tal senso. Quest’ultimo risultato è di particolare interesse per la politica economica, in particolare al fine di individuare i possibili effetti di variazioni della domanda indotte dalla politica fiscale. Se la manovra fiscale è prevista – ad esempio, in quanto annunciata dai policy makers o semplicemente dedotta dalle informazioni disponibili - essa lascia inalterato l’equilibrio generale del sistema, scaricandosi immediatamente ed esclusivamente sui prezzi. La curva di Phillips è verticale anche nel breve periodo, e non soltanto nel lungo periodo. La politica fiscale è, dunque, del tutto inutile e, anzi, produce addirittura risultati negativi, per l’inflazione che ne scaturisce. Gli effetti della politica monetaria possono essere esaminati in termini simili, considerando che l’aumento dell’offerta di moneta provoca un incremento della domanda aggregata. Pertanto, ogni aumento previsto dell’offerta di moneta avrà l’unico effetto di far aumentare i prezzi. Le conseguenze della NMC sono particolarmente drastiche e negative: è esclusa ogni possibilità sistematica che le misure di politica economica modifichino il livello della produzione e dell’occupazione. Si tratta della conclusione nota come neutralità o invarianza della politica economica. 3.4.4 ALCUNE RECENTI TEORIE DELLA DISOCCUPAZIONE INVOLONTARIA Uno dei principali problemi a livello macroeconomico è costituito dalla presenza di disoccupazione involontaria. Gli economisti, i lavoratori e i cittadini sono interessati a comprendere perché qualcuno sia licenziato o non trovi lavoro contro la sua volontà, pur essendo disposto a lavorare al saggio corrente di salario. I principali temi indagati sono i seguenti: Il funzionamento di un’economia con prezzi sostanzialmente fissi. La spiegazione della fissità dei prezzi e dei salari. La spiegazione della elevatezza del salario reale, come possibile causa di disoccupazione involontaria. L’individuazione delle complementarità strategiche delle scelte individuali capaci di portare a un equilibrio di lungo periodo caratterizzato da disoccupazione (involontaria). azioni possibili (strumenti). La necessità di interventi coordinati nasce da una serie di considerazioni: • Per conseguire i diversi obiettivi sono disponibili vari strumenti, ognuno con efficacia, tempi e vincoli di utilizzo diversi. • L'utilizzo di uno strumento per risolvere un obiettivo, può avere effetto anche su altre questioni e non necessariamente nel senso desiderato. Si pone quindi il problema dell'inseparabilità dei vari problemi di politica economica. • I problemi di politica hanno natura intertemporale. La soluzione di un problema presente è legata alla soluzione dello stesso problema in periodi successivi. Si pone il problema della “coerenza temporale” delle decisioni pubbliche. 2. Elementi costitutivi del programma: due elementi sono già stati citati in precedenza. Per obiettivo si intende un traguardi di politica economica che può essere misurato in termini di una grandezza, ad esempio il reddito, l'occupazione. Per strumento si intende una “leva” -rappresentata da un'altra variabile- di cui dispongono i responsabili delle decisioni di politica economica (policy makers) per raggiungere un obiettivo. La capacità degli strumenti di influire sugli obiettivi si desume dall'analisi economica, ossia dalle relazioni tra le diverse variabili economiche. La “struttura informativa” sulle relazioni tra variabili economiche può essere espressa da un modello matematico che descriva il funzionamento del sistema economico a livello aggregato (macroeconomico) o disaggregato (microeconomico). Tale modello di analisi, costituisce il terzo elemento della programmazione. 3. Esemplificazione (semplificata nel caso di un unico obiettivo): supponiamo che i policy makers intendano incrementare il livello di occupazione (N) sino a raggiungere un valore prefissato N(N=Ň). Gli economisti avranno formulato un modello del tipo [4.1], che individua grandezze (ad esempio, secondo un'impostazione keynesiana, le componenti autonome della domanda, A), dalle quali dipende l'occupazione: Y = πN [4.1] Y = C + A C = cY Nel modello [4.1] Y è il reddito; π è la produttività media del lavoro; C ed A indicano, rispettivamente, consumi e spesa autonoma; c è la propensione marginale e media al consumo. Sostituendo la seconda e la terza equazione nella prima, il modello [4.1] può essere espresso ne l modo seguente, che esplicita la variabile N in funzione delle altre residue: [4.2] N = 1/π • 1/(1 – c) • A Il passo successivo sta nell'individuazione degli strumenti, ossia delle grandezze comprese nella [4.2] che possono essere manovrate dai responsabili di politica e economica e sono capaci di influenzare la variabile obiettivo. Ad esempio, A è composto, fra l'altro, dalla spesa per i consumi e investimenti pubblici (G), che è direttamente manovrabile, nonché dall'investimento privato (I), che è influenzabile indirettamente dall'azione pubblica attraverso le manovre della liquidità. Anche c può essere considerato come strumento di politica, in quanto riflette le operazioni di redistribuzione del reddito indotte dall'azione pubblica, che possono influire sulla propensione marginale al consumo dell'intera collettività. Nel caso esaminato, se si decide di utilizzare il solo strumento G, I e c saranno considerati dati e il problema di politica economica consiste nel trovare il valore di G che permette di rendere N=Ň. Per fare ciò si riscriva, anzitutto, la [4.2] come: [4.2'] N = 1/π • 1/(1 – c) • (I + G) Si esprima, poi, lo strumento, G, in funzione dell'obiettivo N: [4.3] G = [π (1 – c) N] – I La [4.3] ci dice come varia G al variare di N, essendo considerate date tutte le altre variabili. Assegnando, infine, a N il valore prefissato Ň, si ottiene: [4.4] G = [π (1 – c) Ň] – I Ciò consente di ottenere l'unico valore di G coerente con i dati e con l'obiettivo desiderato (N=Ň). 4.3 GLI OBIETTIVI DI POLITICA ECONOMICA Supponendo (in linea teorica) che gli obiettivi espressi dai policy makers rispecchino le preferenze dei cittadini e che non vi siano ostacoli o distorsioni burocratiche all'esecuzione delle politiche scaturenti da questi obiettivi, ci si può trovare dinnanzi a diverse situazioni: 1. i vari obiettivi che i policy makers si propongono di raggiungere in un dato periodo possono essere coerenti fra loro (la stessa manovra porta al raggiungimento dei diversi obiettivi); 2. i vari obiettivi possono essere sostituti l'uno dell'altro (la manovra attuata per raggiungere un obiettivo, preclude il raggiungimento di un altro obiettivo). In questo caso si dice che esiste trade-off tra i vari obiettivi. É possibile individuare 4 modi di esprimere gli obiettivi: a) metodo degli obiettivi fissi; b) metodo della priorità; c) metodo degli obiettivi flessibili con saldo marginale di sostituzione (s.m.s.) variabile; d) metodo degli obiettivi flessibili con s.m.s. costante. 4.3.1. OBIETTIVI FISSI (APPROCCIO MEZZI-FISSI) Questo metodo, elaborato da Tinbergen negli anni '50, consiste nell'attribuzione di valori prefissati alle variabili che costituiscono gli obiettivi di politica economica. Consideriamo due esempi, di cui il primo è tratto da Graziani (1979): 1. Gli obiettivi sono costituiti dal livello del reddito in due zone geografiche, Nord e Sud (Yn e Ys). Le possibilità di produrre reddito con le risorse esistenti nelle due aree sono espresse dalla relazione Yn = f(Ys), rappresentata graficamente dalla figura 4.1 come una curva di trasformazione. Esprimere gli obiettivi indicati come obiettivi fissi equivale a prendere un punto su tale curva, ad esempio come il punto A, nel quale Yn = Ŷn e Ys = Ŷs Figura 4.1 Se la coppia di valori desiderata dei due redditi si collocasse all'esterno della curva, il politico avrebbe a disposizione due alternative: o ridurre i valori di almeno uno dei suoi obiettivi o tentare di spostare verso l'alto la curva di trasformazione (la seconda soluzione richiede molto tempo). 2. Il secondo esempio è dato dall'obiettivo di occupazione (espresso in termini di u, tasso di disoccupazione) e da quello di stabilità monetaria (in termini di p, tasso di inflazione). Questi due obiettivi possono essere legati, empiricamente, dalla relazione rappresentata dalla figura 4.2. Figura 4.2 Esprimere i traguardi indicati come obiettivi fissi significa prendere un punto sulla curva di Philips derivata, ad esempio il punto B, nel quale p = p* e u = u*. 4.3.2 METODO DELLE PRIORITÁ Se non si conosce l'esatta relazione che collega un obiettivo a un altro, può essere opportuno indicare la priorità nel raggiungimento degli obiettivi. In questi casi si cerca di massimizzare (o minimizzare se si tratta di un male) il valore dell'obiettivo prioritario, subordinatamente al valore desiderato dell'obiettivo prioritario e al vincolo rappresentato dalla “curva di trasformazione” o, comunque, dal modello che rappresenta il funzionamento dell'economia. 4.3.3 OBIETTIVI FLESSIBILI: FUNZIONE DEL BENESSERE SOCIALE CON S.M.S. VARIABILE L'impostazione di un problema di politica in termini di obiettivi flessibili, è del tutto equivalente a quella del problema del consumatore della microeconomia. Infatti, come il consumatore indica in termini flessibili i suoi obiettivi esprimendo le sue preferenze, così si individua per il politico una mappa di curve di indifferenza che, intersecandosi con il vincolo di bilancio (curva di trasformazione), determinerà la scelta degli obiettivi [Fig 4.4]. La mappa di curve di indifferenza che riflette i desideri della collettività viene definita funzione del benessere sociale. Nel caso in cui gli argomenti della FBS non fossero dei “beni” ma dei “mali” (come nel caso rappresentato precedentemente riguardante la disoccupazione u e l'inflazione p), la rappresentazione grafica delle curve cambierebbe, e si avrebbe una funzione di perdita da minimizzare [Fig 4.6]. Nel caso di beni si avranno curve convesse con s.m.s. decrescenti, nel caso di mali, si avranno curve concave caratterizzate da s.m.s. crescenti. Il punto C e il punto D, rappresentano, nei due rispettivi grafici, i gradi di soddisfazione più elevati. Figura 4.4 Figura 4.6 influenza numerosi obiettivi di politica, il reddito, l’occupazione, la bilancia dei pagamenti, ecc. L’inesistenza di confini rigidi tra obiettivi e strumenti non costituisce eccessive difficoltà per l’impostazione di un problema di politica economica. Difficoltà invece possono esservi nell’esistenza di vincoli all’uso di uno strumento. Questi derivano da ragioni istituzionali: la Costituzione, le leggi o le norme, ecc. Ad esempio l’impossibilità di far ricorso ad alcuni strumenti o a combinazione di strumenti, imposizione di pareggio di bilancio, divieto di finanziamento monetario del deficit, ecc. Quando poi la catena casuale che lega alcuni strumenti agli obiettivi è complessa, può essere opportuno introdurre i concetti di indicatori di politica, obiettivi operativi e obiettivi intermedi. 4.4.2 I VARI TIPI DI STRUMENTI Svariate possono essere le classificazioni degli strumenti di politica. Una di esse è quella dovuta a Tinbergen (1956), che distingue fra politiche quantitative e di riforma. Le politiche quantitative rappresentano la modifica del valore di uno strumento esistente (per esempio variazione del livello della spesa pubblica); le politiche qualitative corrispondono all’introduzione di un nuovo strumento, o alla cancellazione di uno strumento esistente, senza che ciò comporti sostanziali mutamenti nel sistema economico (ad esempio introduzione di un nuovo limite al credito che può essere concesso alle banche; introduzione di una nuova imposta). Le politiche di riforma (o riforme), infine consiste nell’introduzione di un nuovo strumento o nella cancellazione di uno esistente, quando ciò comporti modifiche sostanziali nei caratteri e nelle regole del sistema economico. Hanno una forte connotazione istituzionale, possono assumere o meno rango costituzionale, definiscono per esempio: il regime di proprietà, l’assetto del sistema fin., regolamentazione della struttura produttiva (evitare situazioni di monopolio), ecc. Si possono distinguere inoltre, misure di controllo diretto, mirano a certi obiettivi imponendo un dato comportamento ad alcune categorie (per esempio: per ridurre il deficit commerciale, si impone un contingentamento delle importazioni; obbligo di far uso di depuratori; divieto di carne trattata con ormoni; legislazione antimonopolistica, ecc). Politiche di controllo indiretto, tendono a conseguire gli obiettivi non imponendo dati comportamenti, bensì inducendo gli operatori ad agire nel modo desiderato, influenzando le variabili dalle quali loro dipendono (per esempio per migliorare il deficit commerciale, aggiungendo un dazio all’importazione estera, se ne scoraggerebbe la stessa). Le tre principali misure di controllo indiretto sono: politica fiscale, politica monetaria, politica di cambio. Un’ulteriore distinzione importante è fra misure discrezionali e regole automatiche. Le misure discrezionali sono strumenti di politica che vengono manovrati a discrezione, caso per caso. Le regole automatiche sono strumenti di politica economica senza che vi sia bisogno di valutare di volta in volta la situazione e decidere di conseguenza le misure da adottare. Un insieme di regole automatiche può assurgere al ruolo di costituzione monetaria o fiscale, l’adozione di un certo regime monetario ad esempio, il gold standard. Una classe specifica di regole automatiche è data dagli stabilizzatori automatici se per ampiezza e portata tende a ridurre le oscillazioni cicliche dell’economia; ad esempio sussidi di disoccupazione e imposizione progressiva. Un vantaggio degli stabilizzatori automatici, introdotti in larga misura dopo la II G.M., è quello di rendere più celere l’intervento pubblico. 4.5 IL MODELLO E’ un modello di analisi, un insieme di relazione espresse in termini matematici che rappresentano in modo astratto e semplificano il modello economico. 4.5.1 IL MODELLO IN FORMA STRUTTURALE Un modello di analisi in forma strutturale, è quello che presenta le connessione fra le grandezze così come esse vengono suggerite dall’analisi economica. È un modello semplificato della realtà, ne coglie dunque solo alcuni tratti. Si dovranno costituire tanti modelli quanti sono gli aspetti che si vogliono sottolineare della realtà economica. Per gli scopi di politica economica il modello analitico deve essere specificato o modificato al fine di poter essere utilizzato come modello di decisione (o di strategia). Un modello in forma strutturale si compone di equazioni di vario tipo: a) Eq. di definizione; b) Eq. di comportamento; c) Eq. tecniche d) Eq. di equilibrio; e) Eq. istituzionali. Talvolta una stessa equazione può essere interpretata in modo diverso. La prima delle eq. viene normalmente intesa come eq. tecnica, in quanto rappresenta una caso particolare della funzione di produzione Y = f (K, N) (K mezzi di produzione disponibili, N quantità di lavoro) La seconda delle eq. è un’eq. di equilibrio fra prodotto (offerta) e componenti della domanda. Con altre specificazioni del modello potrebbe essere intesa come un’eq. di definizione della domanda aggregata. L’ultima è un’eq. di comportamento in quanto indica come i consumatori assumono le loro decisioni. Le eq. di tipo istituzionale assenti nel modello semplificato, esprimono vincoli derivanti da norme e consuetudini. Esempio divieto di finanziare il debito pubblico con base monetaria: ΔG = ΔT + ΔB Dove G, T e B sono rispettivamente, spesa pubblica, tributi, debito pubblico. Essa esprime la norma per cui l’incremento della spesa può essere finanziato solo con imposte o titoli del debito pubblico e non con base monetaria. Vi sono nel modello: variabili esogene, determinano altre variabili ma non ne sono influenzate; variabili endogene possono anche variare il valore di qualche variabile, ma il cui valore dipende, comunque, da altre variabili. Indicando con y le var. endogene e con x quelle esogene, la forma strutturale si presenta così: y = f(y, x) 4.5.2 IL MODELLO IN FORMA RIDOTTA IN CASO DI OBIETTIVI FISSI Il modello in forma ridotta si ottiene a partire da quello in forma strutturale, eliminando le var. irrilevanti ed esprimendo ogni var. endogena residua (ossia ogni obiettivo) in termini di sole var. esogene. Le equazioni della forma ridotta saranno pertanto tante quanti sono gli obiettivi. Dato obiettivo y e strumento x, allora y = f (x) La forma ridotta o invertita (o inversa) si ottiene con l’esprimere gli strumenti in funzione degli obiettivi. Riflettendo sul fatto che in un problema di politica economica le incognite sono gli strumenti e che il numero delle eq. della formula ridotta è pari al numero degli obiettivi, si può derivare LA REGOLA AUREA DELLA POLITICA ECONOMICA, dovuta a Tinbergen: nel caso di obiettivi fissi, la soluzione di un problema di politica economica richiede la disponibilità di un numero di strumenti almeno pari al numero degli obiettivi. Se così è il sistema è determinato, se esso è superiore/inferiore al numero degli obiettivi il sistema è sottodeterminato (sovradimensionato) , ossia esistono molteplici soluzioni (o non ne esiste alcuna). IN CASO DI OBIETTIVI FLESSIBILI Si imposta come sopra ma in termini di massimizzazione o minimizzazione. Questo problema può essere risolto anche quando gli strumenti siano di n. inferiore agli obiettivi. Più strumenti sono disponibili maggiore sarà la funzione del benessere. 5. I FALLIMENTI DEL “NON MERCATO”: ELEMENTI PER UNA TEORIA “POSITIVA” DELLA POLITICA ECONOMICA 5.1 LA RAPPRESENTAZIONE DEI SOGGETTI SOCIALI La teoria normativa della politica economica è una “teoria dell’interesse pubblico” e non si pone il problema del grado di realismo delle ipotesi sulle quali essa si basa o del comportamento delle autorità pubbliche che ne discende. La politica normativa ipotizza l’esistenza di un operatore che si faccia carico degli interessi dei singoli soggetti economici, riflettendo in una funzione del benessere sociale la “volontà del popolo”, una impostazione del genere trascura: il sistema economico non è composto di operatori indistinti i responsabili delle decisioni di politica non sono anonimi La teoria normativa della politica economica assume l’esistenza di individui quasi anonimi, pur se caratterizzati da specifiche preferenze e diverse dotazioni iniziali. Il “popolo” in realtà non è un’entità composta da individui più o meno indistinti, che possono essere aggregati in classi o gruppi aventi caratteristiche comuni di potere, interessi e che tendono a operare in maniera unitaria con proprie organizzazioni al fine di far prevalere le proprie preferenze su quelle degli altri; è importante quindi conoscere il modo in cui individui simili si organizzano per conseguire scopi comuni. Particolare rilievo la teoria dei gruppi di interesse (o teoria della cattura) che riconosce l’esistenza di gruppi di individui con interessi comuni con radice nella idea marxiana; teoria formulata dalla scuola delle scelte pubbliche con un chiaro orientamento liberista. Sono così emersi nel ruolo di operatori le figure dei capitalisti e dei lavoratori non come individui ma come istituzioni. Ogni gruppo desidera indirizzare l’azione dell’ente pubblico: negli atteggiamenti più generali, oggetto di interesse a gruppi più vasti in atteggiamenti più specifici con l’uso di interventi selettivi, sollecitati da gruppi più ristretti I modi attraverso i quali esercitano la loro influenza sui poteri pubblici sono molteplici e vanno dal voto, alle campagne di opinione ecc. 5.2 I PROBLEMI DI DELEGA: GLI OBIETTIVI DELLE AUTORITA’ DI POLITICA ECONOMICA E IL CICLO POLITICO-ECONOMICO L’identità dei policy makers è completamente trascurata nella teoria classica della politica economica. Essi non hanno identità e non viene riconosciuta la loro natura di agenti degli individui indistinti che essi dovrebbero rappresentare o dei soggetti sociali organizzati in gruppi; non hanno idee personali sulla preferibilità delle varie soluzioni, superiore alla concorrenza all’interno di ogni circoscrizione per ottenere il suffragio dei cittadini. 6. OBIETTIVI, STRUMENTI E MODELLI DELLA POLITICA MICROECONOMICA 6.1 INTRODUZIONE La politica microeconomica è l’insieme di misure tendenti: Ad assicurare l’esistenza e il funzionamento del mercato quando è capace di garantire l’ottimo desiderato; politiche che configurano lo Stato minimale cioè funzioni minime che dovrebbero essere svolte dall’operatore pubblico A correggere le molteplici carenze derivanti dal concreto funzionamento del mercato stesso; politiche riconducibili all’esistenza di esternalità, beni pubblici, costi di transizione e asimmetria informativa Ad assicurare una distribuzione del reddito o della ricchezza ritenuta equa e a garantire la presenza di beni meritori Le politiche di redistribuzione in ambito microeconomico sono quelle riguardanti la distribuzione personale o familiare del reddito sia quelle che concernono la distribuzione regionale e la distribuzione settoriale del reddito. Il modello economico di riferimento con i suoi vantaggi e limiti è quello dell’equilibrio economico generale in regime di perfetta concorrenza. Più di frequente il modello di riferimento non è concepito per riflettere l’azione economica pubblica e si tratta allora di adattarlo, con l’introduzione di ulteriori variabili o anche di nuove relazioni. In alcuni casi il modello di riferimento non è quello dell’equilibrio generale, ma descrive piuttosto l’equilibrio parziale di mercato; molto usato quando il criterio di riferimento dell’intervento pubblico sia quello dell’efficienza dinamica. 6.2 LA FUNZIONE DI “GARANZIA” DEL MERCATO: LO STATO MINIMALE Gli strumenti sono diversi a seconda dell’atteggiamento prescelto nei confronti del mercato. I compiti minimi che vanno affidati all’operatore pubblico sono l’attribuzione dei diritti, la giustizia e la difesa, che sono condizione stessa di esistenza e buon funzionamento del mercato; l’attribuzione dei diritti, in particolare dei diritti di proprietà, sono il fondamento stesso del mercato. Non è importante sono l’attribuzione ma anche la garanzia del loro rispetto. Lo svolgimento di queste funzioni ne richiede di ulteriori; infatti visto che legislazione, giustizia e difesa comportano costi vi è l’esigenza di effettuare qualche genere di prelievo dai cittadini attraverso l’imposizione di tributi. Chi crede nell’operare del mercato deve lasciarlo libero di operare eventualmente eliminando i vincoli di vario genere esistenti (liberalizzazione) 6.3 LA FUNZIONE DI “GARANZIA” DEL MERCATO: L’ATTRIBUZIONE DEI DIRITTI DI PROPRIETA’ Sono due i problemi che sorgono in relazione al compito dello Stato minimale di assegnare i diritti di proprietà: La necessità di attribuire comunque i diritti L’opportunità di attribuire i diritti in modo da risolvere i problemi di equità nonché i problemi di efficienza evidenziati da Coase. Il funzionamento del mercato richiede che sia individuato il titolare del diritto di proprietà, senza che ogni scambio sarebbe disincentivato. Nel modello decentralizzato in assenza di costi di transizione e con perfetta informazione ciò che conta non è la struttura proprietaria, ossia chi detiene la proprietà di cosa, ma la semplice esistenza di diritti privati di proprietà; la proprietà privata ha indubbiamente consentito notevoli incrementi di efficienza. Ciò che va incentivato è l’innovazione, fondamentale negli investimenti in capitale umano. La proprietà dovrebbe essere attribuita ai soggetti più “adatti” per talento, inclinazione, impegno, ad investire in capitale umano. Storicamente il problema dell’allocazione dei diritti di proprietà viene risolto dalla trasmissione di conoscenze e di mezzi finanziari dall’una all’altra generazione; quindi è necessario l’intervento pubblico sotto varia forma. Un secondo problema sorge nelle situazioni in cui un soggetto, dotato o no di capacità da valorizzare, voglia intraprendere una certa attività di impresa soltanto con il concorso della proprietà di altri soggetti o attingendo a capitale di debito; in questo caso sorge opposizione di interessi. Casi simili si verificano nella cosiddetta impresa manageriale ossia impresa amministrata da managers non proprietari; problema di riduzione del rischio morale. Due le esigenze da soddisfare: Soggetto controllante deve essere incentivato ad amministrare l’impresa nell’interesse di tutti i proprietari e tendere a perseguire il massimo profitto I proprietari non controllanti devono essere incentivati a fornire il capitale necessario all’impresa e tutelati nei confronti di possibili abusi dei controllanti. Questo trade-off tra i diversi interessi viene disciplinato attraverso un insieme di istituzioni complementari date da: Strumenti di natura contrattuale Patti di sindacato o altri accordi di voto Relazioni di fiducia Disciplina del mercato del controllo societario I proprietari non controllanti devono potere cogliere in tempo i segnali di cattiva gestione o di abuso di controllo, per poter intervenire; necessario inoltre che il potenziale acquirente possa disporre dei mezzi finanziari per acquisire il controllo; ciò richiede l’esistenza di: Un efficiente sistema di regole che disciplinano il mercato del controllo societario Efficienti istituzioni finanziarie, capaci di valutare l’affidabilità di chi intende subentrare nella proprietà e nel controllo di attività produttive, pur non disponendo di capitali sufficienti 6.4 INCENTIVI E DISINCENTIVI La concessione di incentivi o l’introduzione di disincentivi deriva pur sempre da un apprezzamento delle capacità del mercato di assicurare efficienza o equità. È necessario che le forze sottostanti il mercato debbano essere aiutate nello svolgimento delle loro funzioni; l’introduzione di imposte può servire molteplici obiettivi di politica microeconomica. Ovviamente saranno favorite le attività o le persone che pagano un’imposta negativa e saranno scoraggiate le attività o le persone su cui ricade un’imposta positiva; la sussidi azione che si risolve con un esborso per lo Stato e un introito per l’operatore privato può assumere varie forme. La traslazione delle imposte farà divergere il soggetto percosso da quello inciso. Al fine di valutare con precisione gli effetti di un’imposta sugli obiettivi sarà necessaria una preliminare analisi della misura della traslazione. Gli obiettivi indicati potranno essere in alcuni casi coerenti fra loro o sostituti l’uno dell’altro. 6.5 POLITICHE DELLA DOMANDA PUBBLICA In Italia Stato, Regioni, Provincie e Comuni realizzano spese correnti o in conto capitale per l’acquisto di beni e servizi. La domanda pubblica di beni e servizi può essere amministrata per raggiungere varie finalità: Garantire il funzionamento dell’apparato amministrativo e la produzione di servizi pubblici Sostenere determinate branche dell’attività produttiva (politica industriale) Regolare la domanda globale (politica anticiclica) Il primo obiettivo, se il Parlamento ha la responsabilità di individuare, quantificare e distribuire i bisogni della collettività, sono il governo e la pubblica amministrazione che devono approntare i servizi pubblici, utilizzando criteri di efficienza, le risorse umane e fisiche disponibili. L’efficienza implica la scelta dell’alternativa meno costosa a parità di risultato o quella con risultato migliore a parità di costo. Secondo obiettivo, la posizione di latecomer nello sviluppo industriale si stimolò la nascita e lo sviluppo dei settori strategici con strumenti vari, compreso l’utilizzo delle commesse pubbliche. Il perseguimento degli obiettivi di politica industriale richiede che la domanda pubblica sia indirizzata verso alcuni beni, soprattutto quelli con contenuto innovativo; può richiedere inoltre una deviazione dai principi di efficienza. Contrariamente ai compiti di politica industriale, quelli di regolazione della domanda globale sono stati recepiti in ritardo, fine anni 60. La consueta vischiosità delle nostre istituzioni ha fatto si che le esigenze di rinnovare le procedure amministrative a fini di regolazione della domanda trovassero scarso soddisfacimento. Questo è irrilevante, ma l’esigenza primaria dell’ente pubblico di fornire servizi pubblici, un’opportuna programmazione e progettazione degli acquisti pubblici può assicurare la coerenza fra i due obiettivi. 6.6 LA REGOLAMENTAZIONE NELLE SUE VARIE FORME La regolamentazione indica la misura di controllo diretto con la quale lo Stato o altro ente pubblico disciplina in astratto o in concreto il comportamento degli operatori privati in un determinato settore economico o in determinate circostanze. La regolamentazione può proporsi obiettivi molteplici; le forme sono numerose: Regolamentazione dei prodotti dell’ingegno, al fine di stimolare l’attività innovativa e l’efficienza dinamica Regolamentazione ambientale Regolamentazione dell’entrata e della concorrenza effettiva Regolamentazione di elementi strutturali del mercato o della condotta delle imprese (legislazione antimonopolista) Regolamentazione tariffaria e di prezzo con finalità di efficienza statica o dinamica e/o con finalità distributive Regolamentazione qualitativa e informativa al fine di garantire la posizione del consumatore quando sorgano problemi di sicurezza nell’uso di un prodotto e/o vi siano notevoli asimmetrie informative Regolamentazione delle quantità importate o esportate (contingentamento) La regolamentazione ha contenuti variegati e può introdurre limiti incisivi sul libero operare del mercato. Vi è il rischio che la regolamentazione venga adottata per L’apertura internazionale può costituire un valido strumento di riduzione del potere di mercato delle imprese nei settori effettivamente esposti alla concorrenza internazionale e nel breve periodo. Non tutti i settori sono, però, esposti alla concorrenza internazionale, anche quando non esistano barriere imposte dallo Stato. Mentre le materie prime agricole e non agricole e i manufatti sono normalmente oggetto di commercio internazionale (tradables), non lo sono gran parte dei servizi e la produzione edilizia (non tradables). Pertanto, l’apertura internazionale non può costituire un valido strumento di riduzione del potere di mercato in questi settori. Anche nei settori dei beni commerciati internazionalmente, tuttavia, la capacità dell’apertura internazionale di incidere sul potere di mercato è non di rado limitata al breve periodo. Spesso, infatti, col passare del tempo, possono sorgere formazioni oligopolistiche o veri e propri monopoli a livello internazionale. Un esempio di ciò si può avere nell’industria del trasporto aereo e nell’industria discografica. 7.4 ALTRI STRUMENTI DI POLITICA ANTIMONOPOLISTICA: IL CONTROLLO DEI PREZZI E L’IMPRESA PUBBLICA L’attività di regolamentazione dei prezzi ha ricevuto un discreto sviluppo negli ultimi due decenni, spesso in relazione a programmi di privatizzazione. La disciplina pubblica dei prezzi in Italia nacque nell’ottobre 1944, riflettendo in qualche misura le esigenze straordinarie di quel periodo, in particolare quella di calmierare i prezzi in situazioni di carenze settoriali o generalizzate dell’offerta (o, specularmente, di eccessi di domanda). Furono istituiti il Comitato interministeriale dei prezzi (CIP), a livello nazionale, e i Comitati provinciali dei prezzi (CPP) a livello locale. A questi organi furono affidati poteri di carattere molto ampio, prevedendosi la possibilità che il CIP fissasse “i prezzi di qualsiasi merce, in ogni fase di scambio, anche all’importazione e all’esportazione, nonché i prezzi dei servizi e delle prestazioni”. Il CIP è stato soppresso dal gennaio 1994 e le sue competenze sono ora attribuite al Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) o alle Autorità di regolamentazione settoriale che sono state nel frattempo costituite (Autorità per l’energia elettrica e il gas e Autorità di garanzia per le comunicazioni). L’asimmetria informativa ha significativamente condizionato l’attività del CIP. Dopo una breve e negativa esperienza di controllo generalizzato dei prezzi con finalità antinflazionistiche, erano state previste due categorie di beni, designati rispettivamente come beni amministrati e beni sorvegliati. Per i primi il CIP determinava i prezzi massimi. Per i secondi le imprese avevano un semplice obbligo di informazione e di specificazione delle cause degli aumenti intervenuti. Da gennaio 1994, con la soppressione del CIP, è stata abolita la categoria dei beni sorvegliati e i prezzi di tali beni sono stati completamente liberalizzati. L’impresa pubblica ha svolto concretamente il ruolo di strumento di politica antimonopolistica in numerose occasioni. Con specifico riferimento al caso italiano, vi è innanzitutto da ricordare l’importante azione monopolistica svolta negli anni ’50 e ’60 dall’ENI, che contribuì a ridurre il potere di mercato delle grandi compagnie petrolifere internazionali. Altri casi di utilizzazione dell’impresa pubblica italiana a fini antimonopolistici furono quelli della siderurgia e del cemento. Nei decenni più recenti il ruolo attivo dell’impresa pubblica si è progressivamente affievolito e sono invece aumentati i casi nei quali questa impresa ha assunto comportamenti di tipo collusivo (nei settori ad oligopolio misto, come quello del cemento o chimico) o imitativo (nei settori a prevalente o totale controllo pubblico, come al telefonia, il controllo energetico) di quelli delle imprese private, con palesi comportamenti “monopolistici”. Il processo di liberalizzazione e privatizzazione non ha finora modificato in modo sensibile tali comportamenti e, in qualche caso, li ha anche accentuati. In alcune situazioni la liberalizzazione forzata di certi settori, con lo scorporo di attività prima facenti capo alla stessa impresa, ha comportato, da un lato, aumenti di costo (per la perdita di economie di scala) e, dall’altro, la formazione di monopoli locali, con conseguenti effetti negativi sui prezzi. 8. LA POLITICA MICROECONOMICA IN AZIONE: LE POLITICHE INDUSTRIALI E REGIONALI. LE POLITICHE REDISTRIBUTIVE. 8.1 L’EFFICIENZA DINAMICA E LA POLITICA INDUSTRIALE E REGIONALE Vi sono importanti problemi microeconomici, che emergono quando l’obiettivo sia quello di accrescere l’efficienza dinamica. L’efficienza dinamica deriva dalla capacità di amministrare il cambiamento e/o di reagire al cambiamento introdotto da altri, consentendo in definitiva migliori risultati in termini di occupazione e tassi di crescita del reddito. Una tale capacità è legata a numerose circostanze, che esprimono aspetti rilevanti della struttura produttiva di un’economia. Essa include, oltre che taluni caratteri macroeconomici (dimensione del sistema economico, grado di apertura internazionale), caratteri microeconomici (composizione settoriale, ripartizione regionale della produzione, concentrazione tecnica, economica e finanziaria, tecniche di produzione impiegate e carattere innovativo dei prodotti, barriere all’entrata e all’uscita, organizzazione produttiva, rapporti di integrazione fra imprese). Le politiche tendenti a modificare la struttura produttiva e, quindi, ad accrescere l’efficienza allocativa e quella dinamica sono dette politiche industriali. Esse possono tendere alla riconversione produttiva, ossia al mutamento della composizione settoriale della produzione o nella posizione occupata all’interno della filiera produttiva (riposizionamento) e/o alla ristrutturazione, termine con il quale si designa invece ogni mutamento di tipo microeconomico nella struttura produttiva. La politica industriale può essere sostanzialmente di due tipi: • Politica industriale generale (od orizzontale); • Politica industriale selettiva. Con la politica industriale generale si cerca di influenzare le decisioni delle imprese in modo che risulti rafforzata la struttura produttiva, attraverso l’uso di strumenti che agiscono su tutto il sistema economico, e non su una parte specifica di esso (es. l’attribuzione di opportuni diritti di proprietà e la garanzia del loro rispetto, lo stimolo alla concorrenza e all’innovazione, alla creazione di economie esterne, allo sviluppo dell’imprenditorialità, dell’internazionalizzazione delle imprese). La politica industriale selettiva tende ad influenzare le decisioni delle imprese in certi settori produttivi o in certe regioni (politica regionale). La politica selettiva può avere finalità aggressive o difensive. Nel primo caso essa si propone di mutare la struttura industriale; nel secondo caso di mantenere quella esistente. Gli strumenti della politica industriale selettiva sono la tassazione (introduzione di dazi) e la sussidiazione, la regolamentazione, l’impresa pubblica, la manovra della domanda pubblica. 8.2 L’EVOLUZIONE DELLA POLITICA INDUSTRIALE NEL DOPOGUERRA Nella politica industriale del dopoguerra si possono individuare tre fasi: 1) Politica industriale selettiva. La prima fase va dal periodo della ricostruzione alla fine degli anni ’70. I vari paesi europei, il Giappone e gli stati Uniti cercarono di rafforzare la propria struttura produttiva, in particolare nei settori ritenuti strategici. Questo approccio ricorre a strumenti vari, quali la protezione doganale, la gestione della domanda pubblica (Giappone e USA), l’incentivazione fiscale e creditizia e l’impresa pubblica in Europa. Soprattutto l’impresa pubblica tende a costituire o rafforzare le cosiddette compagnie di bandiera nei settori ritenuti strategici dai vari Paesi europei. 2) Politica industriale generale tendente ad assecondare il mercato. Questa seconda fase dura dai primi anni ’80 ai primi anni ’90. In Europa è imposta dagli organismi sovranazionali (Comunità economica europea). Vengono approvati in Europa il regolamento comunitario per le concentrazioni, e in Italia la legislazioni antimonopolistica, l’incentivazione dell’imprenditorialità giovanile, le leggi per la ricerca scientifica e l’innovazione nonché numerosi provvedimenti di liberalizzazione. 3) Politica industriale generale tendente a fissare le regole del gioco. La terza fase inizia nel 1993, anno nel quale 3 eventi scandiscono a livello internazionale il mutamento di orientamento: l’inizio del Mercato unico europeo, la costituzione della North American Free Trade Area (NAFTA), e la conclusione dell’Uruguay Round. Tutti e tre questi avvenimenti tendono a mutare il quadro nel quale si pongono la politica industriale e quella commerciale, che assumono un carattere sempre meno discriminatorio nei confronti dei concorrenti esteri. Questi mutati atteggiamenti sono causa ed effetto della globalizzazione dei mercati e della produzione, ossia della tendenza ad una crescita su scala mondiale degli scambi e della produzione internazionale. Si è pensato allora che l’azione pubblica per il miglioramento della struttura produttiva del nostro paese avrebbe dovuto incentrarsi sulle cosiddette esternalità di sistema, ossia sulla definizione di regole del gioco e di diritti di proprietà capaci di accrescere la competitività dell’intero sistema economico in termini di prezzo e di qualità. Sul piano della politica sia industriale sia commerciale, tra le nuove regole del gioco, di chiara impronta liberista, si segnalano: la liberalizzazione della distribuzione commerciale, quella degli ordini professionali e quella dei servizi pubblici locali. Sul piano dei diritti di proprietà: la riforma dei mercati finanziari. avuto inizio nel 1950, con la riforma fondiaria e la costituzione della Cassa per il Mezzogiorno, avente il compito di realizzare in quell’area la progettazione e l’esecuzione di opere infrastrutturali. Negli anni Novanta la politica di incentivazione al mezzogiorno si è progressivamente affievolita per effetto degli interventi dell’UE, tendenti ad evitare una diversione degli insediamenti produttivi capaci di falsare la concorrenza. La consapevolezza che il sottosviluppo del Mezzogiorno deriva dall’addensarsi di numerose cause (diseconomie esterne, corruzione ed inefficienza della PA, assenza di capacità imprenditoriale, elevati costi del lavoro) ha portato negli anni più recenti ad un mutamento nelle forme di intervento, con l’introduzione della cosiddetta programmazione negoziata, in particolare con i patti territoriali, i contratti d’area, l’intesa di programma, il contratto di programma, l’accordo di programma e i contratti di localizzazione. Con questi strumenti si vuole favorire un coordinamento a livello locale fra amministrazioni pubbliche, imprese e sindacati per finanziare e realizzare investimenti produttivi e infrastrutture nonché per assicurare comportamenti dei soggetti negoziali a questo fine coerenti. 8.6 LE POLITICHE REDISTRIBUTIVE E LO STATO SOCIALE Le politiche redistributive si attuano attraverso tutte le politiche di politica economica, ad es. la legislazione antimonopolistica, la politica protezionistica, misure macroeconomiche come la politica monetaria, fiscale e dei redditi. Numerosi sono gli strumenti di politica redistributiva, ma quello principale è costituito dal bilancio pubblico. La redistribuzione attraverso il bilancio pubblico può avvenire, oltre che mediante imposte, anche con trasferimenti monetari e in natura. I trasferimenti monetari consistono nell’assegnazione da parte dello Stato di somme di denaro o di buoni spendibili liberamente dal cittadino. Con i trasferimenti in natura, invece, vengono attribuiti direttamente quei beni o servizi che lo stato vorrebbe fossero disponibili agli individui meno abbienti (servizi sanitari, di istruzione, di mensa) o vengono assegnati buoni con destinazione vincolata e non cedibili. Il complesso delle attività di trasferimento attuata dallo Stato, in particolare nel campo dell’educazione, della sanità, della previdenza e dell’assistenza, prende il nome di stato sociale o stato del benessere (welfare state). Le differenziazioni nelle realizzazioni dello stato sociale sono riconducibili a diversi sistemi di valori. Si possono individuare sostanzialmente 4 modelli o regimi di welfare state: a) Il modello conservatore- corporativo: attribuisce il diritto a beneficiare dello stato sociale a chi abbia avuto lo status di lavoratore occupato. Il ruolo sostanziale ai fini redistributivi viene svolto dalla solidarietà familiare e, comunque, privata ; lo Stato interviene soltanto in funzione residuale. b) Il modello liberale: l’assistenza può essere subordinata all’accertamento dell’effettivo stato di bisogno e, pertanto, i trasferimento possono non essere universali. c) Il modello socialdemocratico: tende a promuovere l’uguaglianza non dei soli lavoratori, ma di tutti i cittadini. Il mercato e la famiglia assumono rilevanza marginale. d) Il modello cattolico: lo Stato deve intervenire soltanto quando l’individuo prima, la famiglia poi, la comunità locale successivamente, abbiano fallito nel loro compito. 9. LE POLITICHE COMMERCIALI E IL FONDAMENTO DEL LIBERISMO 9.1. LE POLITICHE COMMERCIALI E IL FONDAMENTO DEL LIBERISMO La politica commerciale consiste nell’atteggiamento assunto dai responsabili della politica economica nei confronti del commercio con l’estero. La politica commerciale può essere di due tipi: • Liberista • Protezionista L’atteggiamento liberista consiste nel non ostacolare le esportazioni e le importazioni, mentre l’atteggiamento protezionista tende a difendere la produzione interna dalla concorrenza estera mirando a proteggere la produzione interna dal resto del mondo. Il liberismo si basa sui concetti di “vantaggi da specializzazione a livello internazionale” messi in rilievo da Ricardo con il principio dei costi comparati. Il concetto del principio dei costi comparati si basa sulla diversa abilità dei paesi nel produrre beni differenti, da ciò deriva il fatto che se un paese si specializza nella produzione di un determinato bene ne potrà derivare economie di scala e scopo, nonché di abbassamento dei costi. In questo modo ogni produttore/stato potrà poi commercializzare il suo prodotto acquistandone altri a prezzi comparati minori. Questo principio soffre comunque di alcune limitazioni: • Le condizioni di offerta dei diversi paesi • La piena occupazione Adam Smith, il fondatore della teoria protezionista, ha fondato proprio su queste limitazione le proprie teorie. 9.2. GLI STRUMENTI DELLA PROTEZIONE Esistono molteplici strumenti per far protezionismo: • Protezione tariffaria, si avvale di dazi, sono imposte indirette (entrate fiscali) che mirano ad aumentare il prezzo delle merci importate. • Protezione non tariffaria: 1. contingenti: fissano i limiti quantitativi alle importazioni, si avvalgono di licenze che vengono rilasciate solamente a determinati operatori. 2. limitazioni varie 3. regolamenti che hanno finalità protezionistiche ma che si “camuffano” di avere differenti scopi 4. limitazioni 5. sussidi o incentivi alle esportazioni Si hanno le “limitazioni volontarie alle esportazioni” (VER) quando il paese esportatore si auto-limita, gli “accordi per mercati ordinari” (OMA) sono restrizioni volontarie che vengono intraprese con accordi tra diversi stati. Il requisito di contenuto nazionale minimo della produzione prevede che per essere commercializzato un bene estero nel paese, esso deve contenere un minimo di valore/produzione derivante dal territorio nazionale importatore. Questo strumento è stato utilizzato specialmente nei paesi in via di sviluppo che tendono ad aumentare il valore della produzione locale e non un mero assemblaggio di parti. Il deposito previo all’importazione consiste nel depositare per un certo periodo di tempo in un conto infruttifero presso la banca centrale, una somma pari ad una quota del valore della merce importata. 9.3. GLI EFFETTI DELLA PROTEZIONE TARIFFARIA E NON TARIFFARIA Con l’introduzione di un dazio da parte di un paese si hanno le seguenti conseguenze: • effetto consumo: il dazio provoca un aumento del prezzo e una conseguente diminuzione della domanda e quindi del consumo • effetto produzione: diminuiscono le quantità importate e quindi aumenta la produzione interna per soddisfare la domanda e, nel caso aumenta anche l’occupazione • effetto importazione: le importazioni si riducono • effetto entrate fiscali: le entrate fiscali aumentano come conseguenza del dazio (che è un’imposta indiretta) • effetto redistribuzione: i consumatori pagano un maggior prezzo ai produttori nazionale e il dazio allo stato. La differenza che si ha dall’applicazione dei contingentamenti è che con questi lo stato non riceve entrate di natura fiscale (derivante dai dazi). Il contingentamento provoca una redistribuzione di reddito a danno dei consumatori e a favore degli importatori. I sussidi vanno ad integrare gli utili dell’impresa che esporta, questo può essere controproducente per il mercato interno in quanto le imprese potrebbero non essere disposte a realizzare profitti minori sul mkt nazionale che in quello estero e quindi potrebbero essere “incentivate” ad aumentare i prezzi sul mkt di origine. 9.4. LE GIUSTIFICAZIONI DEL PROTEZIONISMO: LA DIFESA DELLE “INDUSTRIE NASCENTI” Un paese può introdurre dei dazi al fine di agevolare l’industria interna e di ridurre il gap tecnico con le imprese estere che per vari motivi sono avvantaggiate. L’introduzione di dazi ha il fine di recuperare e di raggiungere il livello di produzione e di standard delle altre imprese presenti nel mondo al fine di poter competere alla pari, in questo modo viene agevolata la curva di apprendimento. Una delle problematiche che ne possono derivare da questo tipo di protezionismo è che le imprese si adagino nella protezione e che attuino comportamenti speculativi. 9.5. LE GIUSTIFICAZIONI DEL PROTEZIONISMO: LA PROTEZIONE COME STRUMENTO PER MIGLIORARE LA RAGIONE DI SCAMBIO L’applicazione di dazi sulle merci importate può portare a migliorare la ragione di scambio, infatti un’impresa estera potrebbe, per mantenere invariato il prezzo, diminuire i suoi profitti attesi dalle vendite grazie anche all’attuazione di economie di scala derivanti da una maggiore produzione (incorpora il dazio nel prezzo P che era l’incasso dell’impresa). Nel caso in cui il prezzo rimanga invariato e ad esso venga sommato il dazio che verrà pagato dal consumatore, si avrà una diminuzione delle importazioni. Nel caso in cui il paese che applica i dazi è un paese con un notevole “valore economico” e quindi che importa molto, il prezzo tenderà a scendere e quindi P1 sarà < di P e si raggiungeranno miglioramenti della ragione di scambio. 9.6. LE GIUSTIFICAZIONI DEL PROTEZIONISMO: LA DIFESA DAL “LAVORO STRANIERO A BUON MERCATO” (…formula 11.1) Così, una aumento del rapporto è indicativo di un aumento del prezzo dei beni europei espresso in dollari rispetto al prezzo dei beni del Resto del mondo (espresso sempre in dollari) ed indica una perdita di competitività delle merci europee . poiché un aumento del rapporto che indica il tasso di cambio reale ha lo stesso effetto di un aumento del tasso di cambio nominale (certo per incerto), nell’ipotesi in cui (p) e (p con w) siano dati, si parla anche in questo caso di apprezzamento (del cambio reale). Al contrario, una riduzione del rapporto stimola le esportazioni nette europee e prende il nome di deprezzamento del cambio reale. Ove si abbia una pluralità di paesi esteri e non un solo paese estero, e non sarà bilaterale ma effettivo. In tal caso (e con r) rappresenterà il tasso di cambio reale effettivo. Ciò che interessa nel cambio reale non è il valore da esso assunto in un certo istante, ma la sua variazione nel corso di un dato periodo, dal quale deriva la variazione della posizione competitiva del paese. La variazione del tasso di cambio bilaterale è approssimativamente (…formula 11.2) Dove i puntini sopra le variabili indicano, come di consueto, tassi di variazione nell’unità di tempo e il termine in parentesi è detto inflazione relativa. Se l’aumento dei prezzi interni, accresciuto della variazione del cambio, è maggiore dell’aumento dei prezzi esteri, vi sarà una perdita di competitività per le merci del paese considerato; in questo caso il cambio reale aumenterà. Le variazioni del cambio nominale non sono sempre possibili in misura illimitata: se lo sono, si dice che esistono cambi flessibili o fluttuanti; se il cambio può oscillare entro limiti ben definiti (e ristretti) intorno ad un valore detto parità o tasso centrale, si dice che esiste un regime di cambi fissi. La fissità può essere assicurata dall’autorità monetaria o da altri meccanismi. In regime di cambi flessibili, l’intervento delle autorità monetarie può contenere le fluttuazioni del cambio (fluttuazione sporca o amministrata). Un regime intermedio è quello delle zone obiettivo proposto da John Williamson che è un tentativo di combinare i vantaggi dei cambi fissi e di quelli flessibili. Si tratta di un regime nel quale vi sono margini di variazione piuttosto ampi rispetto ad un tasso di cambio di equilibrio fondamentale, che viene calcolato periodicamente. Consideriamo un regime di cambi fissi. - Se il cambio è quotato certo per incerto, anche la parità o il tasso centrale sono definiti in modo coerente (quantità di moneta estera per 1 unità di moneta nazionale). La parità o il tasso centrale sono di norma costanti per un periodo di tempo più o meno lungo, ma possono mutare. Quando aumentano, si parla di rivalutazione della moneta nazionale (o svalutazione della moneta estera); quando diminuiscono si parla di svalutazione della moneta nazionale (o rivalutazione della moneta estera. - se il cambio è quotato incerto per certo, anche la parità e il tasso centrale devono essere definiti in modo coerente. In tal caso una rivalutazione (svalutazione) della moneta nazionale indica una riduzione (aumento) della parità o tasso centrale. Vediamo ora la relazione esistente tra modifiche della parità (rivalutazione o svalutazione) e modifiche del cambio (apprezzamento o deprezzamento). Una rivalutazione implica normalmente un apprezzamento e una svalutazione implica normalmente un deprezzamento. - quotazione certo per incerto. Una rivalutazione implica un aumento della parità e, corrispondentemente, un aumento del cambio. Una svalutazione implica una diminuzione della parità e comporta una diminuzione del cambio. Quindi assoceremo svalutazione a deprezzamento e rivalutazione ad apprezzamento. - Quotazione incerto per certo. Anche qui vi sarà corrispondenza fra svalutazione e deprezzamento, rivalutazione e apprezzamento. L’unica differenza è che , con questo tipo di quotazione, una svalutazione (rivalutazione) implica un aumento (diminuzione) della parità o tasso centrale, corrispondentemente, un aumento (diminuzione) del cambio. 11.2.2 LE OPERAZIONI SUI MERCATI VALUTARI Sui mercati valutari sono presenti essenzialmente: - le imprese - i consumatori - le banche e gli altri intermediari finanziari - le banche centrali. I mercati nazionali sono oggi strettamente interdipendenti e non possono esprimere cambi diversi per la stessa valuta nello stesso momento. In tal caso si attiverebbero opportune operazioni di arbitraggio. I mercati dei cambi possono essere a pronti o a termine. Sui primi vengono contrattate disponibilità di valute da scambiarsi immediatamente al prezzo (cambio) che si forma sui mercati stessi. Sui secondi si negozia oggi il prezzo di una valuta che sarà disponibile in futuro. Le operazione a termine servono per la copertura dei rischi di cambio, ossia per la provvista di valuta ad un prezzo prefissato, oltre che a fini speculativi. Lo swap è un’operazione che consente di risparmiare sui costi di transazione, in quanto, invece di compiere separatamente due operazioni, una di acquisto a pronti e una di vendita a termine, si effettua una sola operazione.. può riguardare uno scambio di flussi di interessi. I contratti future sono dei contratti a termine standardizzati, ossia contenenti elementi (clausole) stilizzati. Le opzioni su cambi sono contratti a termine standardizzati con i quali una delle parti si riserva, dietro il pagamento di un premio, il diritto di acquistare o di vendere una certa quantità di una valuta estera ad un prezzo prefissato ad una certa data futura o entro un periodo prefissato. Oltre che a fini di arbitraggio e copertura, le opzioni e i contratti future possono essere utilizzati anche e soprattutto, a fini di speculazione. 11.3 LA TEORIA DELLA BILANCIA DEI PAGAMENTI La bilancia dei pagamenti è composta da tre conti: il conto corrente, il conto capitale e il conto finanziario. 11.3.1 CONTO CORRENTE E CONTO CAPITALE. I due conti si riducono ad esportazioni e importazioni di beni, ossia di merci e servizi. Consideriamo un mondo composto da due paesi, UE e Resto del mondo. Le importazioni vengono normalmente fatte dipendere dal livello della domanda (fattori di domanda), ossia si pone, mnella semplificazione più semplice: M = mY (M = importazioni; m = propensione ad importare; Y = livello del reddito interno). m viene in prima approssimazione considerato come dato, ma in realtà dipende da fattori strutturali, che non variano se non nel lungo periodo, nonché da fattori di competitività; questi ultimi a loro volta dipendono dalle caratteristiche di qualità e simili dei beni (fattori di competitività, non di prezzo) e dai prezzi dei beni nazionali, relativamente a quelli della produzione estera (competitività di prezzo). (…formule varie pag:338 – 339) 11.3.2 CONTO FINANZIARIO Il conto al netto della variazione delle riserve ufficiali, esprime i movimenti di capitale non imputabili all’autorità monetaria. Essi dipendono, anzitutto, dai differenziali nei tassi di interesse a lungo termine, dai differenziali dei tassi a breve, nonché da attese di variazione nel corso del cambio. Sugli investimenti diretti influiscono invece altre variabili e circostanze più difficili da rappresentare. Se, per semplicità, trascuriamo gli investimenti diretti e ipotizziamo che in ogni paese i tassi a lunga siano strettamente legati ai saggi a breve, il saldo dei movimenti di capitale MK, dipenderà semplicemente dai saggi di interesse (a breve o a lungo termine) nei due paesi nonché dalle variazioni attese nel cambio. 11.3.3 VARIAZIONI DELLE RISERVE UFFICIALI Al netto di errori e omissioni, la variazione delle riserve ufficiali è pari alla somma dei saldi del conto corrente, del conto capitale e delle altre voci del conto finanziario. (…formule pag: 341) 11.4 IL MODELLO MUNDELL-FLEMING Questo modello, che deriva dai lavori di Mundell e Fleming, supera l’ipotesi iniziale keynesiana di un sistema economico chiuso e generalizza l’apparato analitico IS – LM, introducendo: a- come ulteriore componente positiva della domanda globale le esportazioni nette (X – M); b- un ulteriore mercato, quello relativo ai pagamenti con l’estero, in aggiunta al mercato dei beni e della moneta. (…formule e grafici che spiegano il modello Mundell - Fleming pag: 341 – 348) 11.5 LE LIMITAZIONI DEL MODELLO MUNDELL - FLEMING Abbiamo limitazioni di 4 tipi: a- si assume che i prezzi siano dato all’interno e all’estero. b- Si considerano solo i flussi e non gli stocks di credito e debito nei confronti dell’estero. c- Si guarda all’equilibrio complessivo della bilancia dei pagamenti e non al suo equilibrio pieno. d- Non vengono introdotte le aspettative di variazione dei tassi di cambio 13. GLI OBIETTIVI MACROECONOMICI E LA POLITICA FISCALE 13.1. I SOGGETTI DELLA POLITICA FISCALE Con politica fiscale si designa la manovra del bilancio dello Stato e di altri enti pubblici con finalità di variazione del reddito e dell’occupazione nel breve periodo. Il settore statale comprende lo Stato, gli organi costituzionali, la Cassa depositi Il moltiplicatore della tassazione è minore di quello della spesa pubblica (G); cioè l’incremento di 1 euro di tassazione provoca un decremento di reddito minore dell’incremento di reddito prodotto dall’aumento di 1 euro di spesa pubblica. Il minor effetto è dovuto al fatto che la tassazione di 1 euro non entra direttamente nel circuito del reddito. Essa si traduce in minore domanda solo nella misura in cui influenza il consumo che è componente diretta della domanda globale (c euro) 13.4.2 - Proporzionale Se si suppone inoltre che T=tY, (con t costante) cioè se si ipotizza imposizione proporzionale si ha : L’effetto sul reddito di un aumento dell'aliquota di imposta è sempre negativo in quanto esso comporta un aumento del denominatore del moltiplicatore. 13.4.3 - Progressiva Se l’imposta è progressiva l’aliquota non è più costante ma è funzione crescente del reddito del contribuente. Se vi sono mutamenti della spesa autonoma che tendono a variare solo il numero dei percettori di reddito, rimanendo invariato il reddito pro capite, l’aliquota media non varierà. Al contrario, variazioni della spesa autonoma che si riflettono anche in variazioni del reddito pro capite tendono a far variare l’aliquota media t; quindi il moltiplicatore aumenterà o si ridurrà al ridursi o all’aumentare della spesa autonoma. Ne discende che l’imposizione progressiva costituisce un caso di stabilizzatore automatico: gli effetti sul reddito reale di oscillazioni nei valori delle componenti autonome della domanda aggregata vengono “smorzati” da variazioni in senso contrario del moltiplicatore dovute a variazioni dell’aliquota media, in presenza di imposizione progressiva. L’effetto stabilizzatore è amplificato con la considerazione dei movimenti di prezzo; l’aumento dell’imposizione in termini reali che deriva dalla compresenza di aumento dei prezzi e progressività della aliquote viene detto drenaggio fiscale. 13.5. L’EQUITA’ E LE IMPOSTE IN ITALIA Dato che le imposte in Italia sono quasi tutte progressive (es. IRPEF), ci si aspetterebbe che un loro aumento corrispondesse ad un aumento del reddito del contribuente. Questo invece non avviene per i seguenti motivi: - Erosione: Esenzione dalle imposte di determinate categorie di reddito, al fine di permettere il più agevole sviluppo di un settore industriale o di una determinata area geografica. Inutile dire che troppo spesso questo tipo di manovra viene utilizzata in modo improprio e per fini non nobili come quelli sopracitati. - Elusione: Adottare manovre “legali” sfruttando dei buchi normativi al fine di non pagare determinate imposte - Evasione: Si spiega da sé L’adozione di tali manovre ha portato ad una maggior concentrazione degli oneri fiscali sulla categoria dei lavoratori dipendenti e all’insorgere di seri problemi giuridici, politici ed economici, generando comportamenti imitativi o compensativi da parte di questa categoria di soggetti, creando situazioni disgreganti sul profilo socio-economico. 13.6. LA SPESA: L’EVOLUZIONE IN ITALIA (guardare tabella a pag. 408) Il contenuto della spesa pubblica può essere molto vario. Secondo la teoria keynesiana esso è comunque poco rilevante (anche se ciò non vuol dire che si possa assoggettarlo a sperperi, parassitismi o manipolarlo per fini politici). E’ utile avere un’ idea delle varie categorie di spesa incluse nel bilancio di Stato italiano (vedi tabella a pag. 408) e conoscere la loro dinamica. Negli anni ‘70-‘80 le voci più dinamiche sono state quelle relative a interessi e prestazioni sociali e i loro contributi alla produzione. L’aumento degli interessi è stato dovuto fondamentalmente a due ragioni: - Incremento dello stock di debito pubblico accumulato nei vari deficit di bilancio (a partire da metà anni ‘70) - Aumento del tasso di interesse nominale e di quello reale, quest ultimo, negativo dal ’70 al ’79, è tornato positivo negli anni ’80 grazie al mutamento della politica monetaria e del cambio attuato dalla Banca centrale (dovuto all’ adesione allo SME e alle cambiate condizioni socio- politiche del periodo) Tutto questo non è comunque bastato a risolvere i problemi del Bilancio Pubblico, che sono anzi sempre più peggiorati fino agli anni novanta. Un effetto rilevante di questo aumento degli interessi è stato l’accrescimento dei redditi dei ceti medio - alti e la creazione di una situazione di squilibrio. Da metà degli anni ’90 in poi invece abbiamo assistito a una sostanziale invarianza della corrente spesa primaria in rapporto al PIL (38% - 40%) e ad un crollo verso il basso degli interessi (da 11,17% a 4,58%). I fattori che hanno causato l’aumento di questa spesa pubblica sono stati: a fine anni ’70 motivi strettamente economici quali la prima crisi post bellica e l’utilizzo massiccio della spesa pubblica come strumento redistributivo e per ottenere consensi politici ( è dato statistico infatti che esso aumenta sempre in periodo di elezioni). Oggi come nel passato è inoltre sempre rilevante l’asimmetria della politica fiscale, che opta quasi sempre per assumere forme di politica espansiva ( - entrate + spese) piuttosto che restrittiva. 13.7. IL FINANZIAMENTO DELLA SPESA La spesa può essere finanziata attraverso tributi (pareggio del bilancio) o in deficit (emissione di titoli del debito pubblico, a parità di BM, o creazione di base monetaria). 13.7.1 - Pareggio del Bilancio Se il finanziamento avviene attraverso le imposte, l’aumento della spesa ha comunque effetti espansivi, in quanto agisce direttamente sul reddito nazionale, laddove l’incremento dell’imposta influisce soltanto sul reddito disponibile, quindi sul consumo e sul reddito nazionale; l’aumento di 1 euro della spesa pubblica comporta un pari aumento del reddito, l’aumento di 1 euro di imposte comporta una riduzione di c euro del consumo e del reddito. Poiché c è minore di 1 vi è un aumento netto del reddito. Quindi il moltiplicatore della spesa è maggiore di quello dei tributi: Se si ipotizza una variazione della spesa pubblica e dell’imposizione ne deriva Dunque un aumento di spesa pubblica pari a 1 euro finanziato da un pari incremento delle imposte accresce il reddito di 1 euro (teorema del bilancio in pareggio o di Haavelmo); indica la possibilità di conseguire un qualsivoglia obiettivo di reddito anche in assenza di deficit di bilancio, ma con un livello di spesa pubblica pari a quello del reddito e con la pubblicizzazione dell’intera economia. 13.7.2 - Finanziamento in deficit Se la spesa pubblica non viene finanziata con imposte, essa determina effetti più elevati sul reddito e sull’occupazione. Se il totale delle spese supera le entrate, ossia se si ha un deficit di bilancio (Bs<0), si ha un disavanzo che può essere finanziato in 2 modi, attraverso la creazione addizionale di base monetaria , , o l’emissione di nuovi titoli del debito pubblico, ; le modalità di finanziamento in deficit hanno effetti diversi. 13.7.3 - Finanziamento con Base Monetaria Il finanziamento con BM è niente affatto costoso se realizzato attraverso emissione di monete o biglietti del Tesoro; è in minima misura costoso se ottenuto nell’ambito di convenzioni fra Stato e Banca centrale o nell’obbligo della Bc di finanziare lo scoperto del Tesoro sul c/c della Tesoreria. La seconda differenza tra finanziamento monetario e finanziamento con titoli di del debito pubblico è da ricollegarsi agli effetti espansivi sul reddito. In termini dello schema IS-LM un finanziamento della spesa addizionale attuato con base monetaria comporterebbe uno spostamento verso destra delle curve (aumento reddito certo mentre non lo è quello di i ); una politica monetaria che assicuri l’invarianza del tasso di interesse è detta accomodante. Il finanziamento monetario può provocare aumenti di prezzi in presenza di pieno impiego o di strozzature settoriali. Se questi effetti fossero presenti i policy makers dovranno scegliere fra più elevati livelli di reddito e di occupazione associati a inflazione o a livelli di reddito e di occupazioni minori ai quali corrisponderebbe maggior stabilità monetaria. I Pmakers possono far abbassare la curva di trasformazione (u e π) con politiche di qualificazione professionale; politiche di mobilità e politiche di sviluppo della produttività e della produzione in alcuni settori. 13.7.4 -Indebitamento Se l’aumento della spesa pubblica finanziato da emissione di titoli del debito pubblico avesse luogo in presenza di una LM orizzontale (tasso di interesse invariabile) si avrebbe un incremento di reddito più alto che in un modello dove la LM non è orizzontale, perché il Altre soluzioni per abbassare il tasso di interesse reale sono connesse con i mercati finanziari mondiali 14. LA POLITICA DEI REDDITI E DEI PREZZI 14.1 INTRODUZIONE Nel cap. 3 l’inflazione è stata caratterizzata come il risultato di una gara competitiva nella quale ogni operatore tende ad accrescere la propria quota nella distribuzione del reddito con l’aumentare del prezzo del bene venduto. Risulta quindi chiara la connessione tra distribuzione del reddito e livello dei prezzi. L’obiettivo della politica dei redditi è di evitare l’aumento del livello generale dei prezzi, attraverso il controllo di variabili quali: salario e margine di profitto. Ad esempio, consideriamo il salario: esso costituisce un reddito per i lavoratori e un costo per le imprese. La politica dei redditi può proporsi di contenere l’aumento del salario, in modo da tenere basso il costo del lavoro, e ridurre così la possibilità di un aumento dei prezzi. 14.2 DISTRIBUZIONE DEL REDDITO, COSTO PIENO E POLITICA DEI REDDITI Consideriamo un sistema economico chiuso, viene prodotto un solo bene, non esiste capitale fisso e vi sono soltanto due categorie di percettori del reddito, i lavoratori e i capitalisti. Il valore complessivo del prodotto sarà pertanto: pY = W + R (dove p e Y sono il prezzo e la quantità, W è la massa salariale ed R la massa dei profitti). L’inflazione viene meno se la gara per accrescere la quota del reddito sociale cessa, e le varie classi di percettori di reddito mantengono (o sono indotte o costrette a mantenere) invariate le loro quote di reddito, ovvero se esse si accordano sul modo in cui le quote devono variare, facendo corrispondere all’aumento dell’una una pari riduzione dell’altra. Questo semplice schema ha molti limiti: considera l’esistenza di un solo bene, non vengono considerati altri costi variabili come le MP; l’economia è chiusa; nella realtà esiste anche un’altra categoria di percettori di reddito: si tratta dei percettori delle rendite; non viene contemplato il prelievo fiscale statale diretto e indiretto; tutti fattori questi ultimi che potrebbero dare luogo a variazioni di prezzo dei beni a parità di reddito percepito dai due principali attori economici. Devono essere soddisfatte numerose condizioni affinché i prezzi non varino. Le regole (o criteri guida) di politica dei redditi più frequentemente usate sono quelle che prevedono una crescita dei salari pari a quella della produttività media del lavoro e l’invarianza del margine di profitto. Ma queste non sono le uniche regole possibili, né garantiscono l’assenza di inflazione, se non sono soddisfatte altre condizioni come ad esempio la variazione della quota delle rendite sul reddito nazionale o la variazione del prezzo delle materie prime di importazione. 14.7 POLITICA DEI REDDITI E POLITICHE DELLA PRODUTTIVITA’ La politica dei redditi parte dall’accettazione della situazione esistente, da numerosi punti di vista, in particolare per ciò che concerne la variazione della produttività. È l’evoluzione di questa grandezza che in definitiva condiziona la coerenza delle variazioni dei redditi con la stabilità dei prezzi. Se ad esempio, la produttività cresce del 2%, una pari variazione dei salari e l’invarianza dei margini di profitto assicurano la costanza dei prezzi. Se invece, la produttività aumentasse del 4%, sarebbe possibile aumentare i salari in misura superiore al 2%, e/o il margine di profitto, senza che ne derivino effetti inflazionistici. Si può pensare, che il campo delle scelte di politica dei redditi si allarghi se si adottando misure volte ad aumentare il tasso di crescita della produttività. Per individuare tali misure è necessario discutere dei fattori dai quali dipende la produttività stessa. Questi possono essere distinti in due gruppi: a) Fattori interni all’impresa; sono compresi alcuni fattori controllati dai lavoratori e altri dall’impresa. I primi concludono i ritmi di lavoro, nonché preparazione e qualificazione professionale compiute per iniziativa propria. Fra i secondi, preparazione e qualificazione di iniziativa dell’azienda, organizzazione del lavoro, dotazione di capitale, tecnologia. Alcuni di questi fattori possono essere oggetto di intervento pubblico o delle parti sociali nei negoziati di politica dei redditi, in quanto da esse controllati. Ad esempio il sindacato può accettare un determinato tetto degli aumenti salariali, considerando dato l’aumento di produttività possibile nell’immediato, ma allo stesso tempo può chiedere alle imprese impegni sull’introduzione di innovazioni organizzative, tecnologiche, capaci nel futuro di spostare il vincolo agli aumenti salariali connesso con la variazione della produttività. b) Fattori esterni all’impresa; rapporti interaziendali e intersettoriali, la semplice disponibilità di beni che servono come input all’impresa, le condizioni (costo, qualità) delle forniture. Disponibilità di efficienti reti di trasporti e comunicazioni, istituzioni scolastiche e accademiche, centri di ricerca, servizi di informazione, servizi finanziari, ecc. poiché non è pensabile che il mercato riesca a garantire le condizioni per uno sviluppo ottimale di queste attività, nasce l’opportunità di interventi di politica industriale. Questo genere di interventi può assumere una funzione ancillare (propedeutico) rispetto alla politica dei redditi. 14.8 LE ESPERIENZE DI POLITICA DEI REDDITI Si sono avute situazioni nelle quali il governo ha formulato criteri guida non coercitivi, ma sostenuti da atteggiamenti di persuasione (moral suasion) nonché dalla minaccia di qualche tipo di ritorsione (si pensi al caso Cuba e USA). Vi sono state anche esperienze di negoziazione e scambi più o meno formali fra moderazione salariale e politiche espansive, come nel caso della GB negli anni 60 e 70 e della FR negli anni 60. Casi di controllo vincolante dei salari e/o dei prezzi si sono avuti in molti paesi fino ai primi anni 50 (in Olanda fino al 1959), nonché in GB con interventi di breve durata (all’incirca annuale) negli anni 60-70 , in Australia e in altri paesi. In Italia il concetto di politica dei redditi è stato introdotto per la prima volta nel 1963 in un documento ufficiale (la relazione annuale della banca d’Italia del 1962 presentata dal governatore Carli). Questa politica veniva considerata come lo strumento capace si superare l’inaccettabile dilemma fra disoccupazione e inflazione, e avrebbe dovuto riguardare tutti i prezzi, sia quelli di natura negoziale (salari) sia quelli fissati direttamente sul mercato. Al di là di molteplici discussioni non si ebbero azioni concrete fino al 1984, allorché il governo emanò un DL che predeterminava per quell’anno i punti di contingenza nel meccanismo della scala-mobile, in un tentativo si spezzare il circolo vizioso fra aumenti salariali e aumenti di prezzo, seguendo in ciò un suggerimento di Tarantelli. Allo stesso tempo venivano bloccati l’equo canone (una misura di regolamentazione degli affitti) e le tariffe pubbliche. Il tentativo sembrò avere un qualche successo, determinato anche da una congiuntura economica internazionale favorevole: l’incremento del costo del lavoro per unità di prodotto scese dal 12,3% del 1983 al 5,4% del 1984 (risalendo peraltro leggermente nel 1985), mentre quello dei prezzi al consumo decelerò più lentamente, passando dal 15% del 1983 all’11% del 1984, al 9% del 1985 e al 6% del 1986. Nel luglio del 1993 industriali, sindacati e governo conclusero un accordo che prevedeva i seguenti 4 punti (è tuttora in vigore): 1. Passaggio da 3 a 4 anni della durata della contrattazione nazionale del lavoro (CNL), per la parte normativa, da 3 a 2 anni per la parte retributiva. Gli aumenti di salario devono essere coerenti con i tassi di inflazione programmata, ma al termine dei 2 anni un’inflazione effettiva superiore a quella prevista può far adeguare i minimi contrattuali, per salvaguardare il potere d’acquisto della retribuzione. 2. Contrattazione aziendale –avente durata di 4 anni– riguarda materie e istituti diversi rispetto a quelli retributivi proprio del CNL. Integrazioni rispetto alle retribuzioni fissate a livello nazionale sono possibili solo per le imprese che producano utili, in relazione agli incrementi di produttività derivanti da programmi concordati fra le parti. 3. In caso di mancato rinnovo del CNL , dopo 3 mesi dalla sua scadenza, i lavoratori hanno diritto un elemento provvisorio di retribuzione pari al 30% del tasso di inflazione programmata, sale al 50% dopo 6 mesi, cessa una volta definito il CNL. 4. Sono previste due sessioni annuali di politica dei redditi, la prima maggio- giugno, che precede la presentazione del DPEF, la seconda in settembre prima della definizione della legge finanziaria. Gli accordi del 1993 enunciano inoltre le seguenti 3 linee di sviluppo: I. Estensione ammortizzatori sociali per gestire situazioni di crisi dell’occupazione; II. Introduzione di politiche per la flessibilità dei contratti di lavoro; III. Adozione di politiche di sostegno al sistema produttivo, ricerca e sviluppo, soprattutto nel Mezzogiorno. Alcune delle indicate linee di sviluppo si cono concretamente affermate, si pensi all’abolizione del monopolio del collocamento, introduzione del lavoro interinale, ampliamento della gamma dei contratti a tempo determinato. Il patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione concluso fra governo, imprenditori e sindacati il 22 dicembre 1998 ribadisce il contenuto dell’accordo di concertazione del 1993 e prevede sgravi fiscali e contributivi per gli imprenditori che effettuino investimenti nonché per i lavoratori. Ribadisce la struttura contrattuale su 2 livelli e lo svolgimento delle 2 sessioni annuali di politica dei redditi. Sottolinea l’eccessivo carico fiscale gravante sul lavoro e delinea la riduzione del cuneo fiscale (ossia, della differenza fra costo del lavoro e reddito da lavoro dovuta al prelievo fiscale). 14.9 RIEPILOGO 1. Obiettivo della politica dei redditi (e dei prezzi) è di evitare l’aumento generale dei prezzi attraverso il controllo delle variabili distributive, essenzialmente del salario e/o dei margini di profitto. 2. Le regole più frequentemente usate prevedono una crescita dei salari pari a quella della produttività media del lavoro e l’invarianza del margine di profitto. 16. I SISTEMI MONETARI 16.1. I SISTEMI MONETARI Per sistema monetario si può intendere in linea generale l’insieme di regole che disciplinano gli aspetti monetari del funzionamento di un singolo sistema economico e/o delle relazioni di questo con altri sistemi economici. Un sistema monetario deve essere formato da regole che lo “gestiscano” sia internamente che in ambito internazionale: • Deve definire l’unità monetaria utilizzata nel sistema • Deve regolare l’emissione di moneta • Deve definire i rapporti con le monete estere in termini di valore, circolazione e convertibilità 16.2. IL SISTEMA AUREO Il sistema aureo si è realizzato completamente per la prima volta in Gran Bretagna nel 1982, nel 1870 ha assunto il ruolo di sistema internazionale in quanto molti paesi lo adottarono, nel 1914 ebbe fine in quanto con la prima guerra mondiale ci fù l’emissione di molta moneta per il finanziamento del conflitto. Non fù più ripristinato in quanto sarebbe costato perdita di occupazione e di reddito, come prevedeva Keynes, ed in parte successe. Se il valore dell’unità monetaria viene riferito a quello di una merce o di un metallo prezioso, in questo caso l’oro posseduto da un paese nelle sue riserve, si ha il sistema aureo. Il sistema aureo è stato adottato al fine di assicurare la stabilità del valore della moneta e di sottrarre la creazione di questa all’arbitrio di una qualche autorità. Regole del sistema aureo: • Devono circolare biglietti emessi dalla banca centrale aventi potere liberatorio e che costituiscono la moneta del paese. • Viene definito il contenuto dell’unità monetaria del paese intermini di oro. • La banca centrale deve mantenere una riserva di oro in rapporto alla quantità emessa di moneta, a richiesta la moneta può essere convertita in oro e l’oro in moneta sulla base del contenuto aureo prefissato della moneta. • L’oro può essere liberamente importato ed esportato La parità monetaria indica il rapporto di valore tra le diverse monete dei diversi stati che hanno applicato tutti congiuntamente il sistema aureo. I prezzi (cambi nominali bilaterali) delle diverse monete potranno comunque discostarsi dalla parità monetaria in quanto sono influenzati dalla domanda e dall’offerta delle stesse. Il sistema aureo limita molto l’escursione dei cambi dalla parità monetaria in quanto se si deve effettuare un pagamento all’estero si potrà effettuare anche mediante spedizione di oro. Per questo motivo il cambio tra monete non potrà eccedere il punto dell’oro superiore (prezzo dell’oro equivalente alle monete da scambiare più le spese di spedizione) se no sarà più conveniente scambiare la moneta in oro e poi trasferirlo al posto di acquistare monete estere ad un cambio sfavorevole per poi effettuare il pagamento che risulterà più costoso. Al contrario, se il cambio scendesse al di sotto del punto dell’oro inferiore, uguale alla parità diminuita delle spese di spedizione dell’oro, anziché valuta sarà più conveniente farsi spedire l’equivalente in oro. Il sistema aureo (gold standard) è un sistema a cambi fissi. In assenza di variazioni del cambio nominale è la variazione dei prezzi nei due paesi che assicura la variazione del cambio reale che può essere necessaria per il riequilibrio. 16.3. IL SISTEMA A CAMBIO AUREO E IL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE Nei suoi tratti essenziali il sistema a cambio aureo (gold Exchange standard) è un sistema nel quale almeno un paese adotta il gold standard ed altri fissano il contenuto aureo della proprio moneta , adottano la moneta del primo paese (ma non l’oro) come riserva a fronte delle missione della propria moneta nazionale e consentono di convertire la propria moneta nella moneta da riserva a un valore prefissato e costante (rapporto tra i contenuti aurei delle monete). Il sistema a cambio aureo si presta a economizzare l’uso dell’oro in caso di scarsità, presenta il vantaggio di consentire ai paesi che lo adottino di avere riserve fruttifere. Si può essere in presenza di svalutazione nel caso in cui ci vogliano più monete nazionali per acquistare una moneta estera mentre, i parla di rivalutazione nel caso in cui per acquistare una moneta estera ci vogliano meno monete nazionali rispetto al tempo t-1. Il fondo monetario internazionale è stato istituito con il trattato i Bretton Woods nel 1944 al fine di favorire la cooperazione internazionale in campo economico, sociale e politico, si è concluso nel 1971. Per parteciparvi i paesi dovevano sottostare a determinate regole per garantire efficienza e trasparenza del sistema. Il fondo controllava che tutti i paesi si attenessero alle regole imposte e che non sforassero, in tal caso il paese fuorviante doveva aggiustare le sue performance con adeguati strumenti di politica economica o utilizzare dei prestiti a breve termine concessi dal fondo stesso. Il sistema di cambio aureo può entrare in crisi nel caso in cui entri in contraddizione la domanda di liquidità sempre più frequente con la necessità di mantenere il rapporto costante tra la moneta in circolazione e le quantità di oro detenute dalla banca centrale. Questo problema si presentò quando nel 1971 Nixon dichiarò la non convertibilità del dollaro in oro dichiarando di conseguenza la fine del gold Exchange standard nella forma del fondo monetario internazionale. Attualmente la FMI svolge funzioni di finanziamento e di sorveglianza delle politiche economiche degli stati membri, il regime di cambi vigente tra le grandi aree regionali è attualmente un regime a cambi flessibili. 16.4. LA CREAZIONE CENTRALIZZATA DI RISERVE L’ipotesi avanzata, ma mai entrata in uso, è la creazione di una banca centrale per il mondo che si applichi per determinati obiettivi, per esempio la crescita del reddito, e che venga “governata” dai paesi che la utilizzano. Questa ipotesi non si è mai trasformata in realtà in quanto gli stati tendono ad auto- governarsi e di auto-gestirsi la liquidità interna e di cambio. Una banca centrale internazionale non potrebbe creare altro che moneta internazionale, ad uso esclusivo delle banche nazionali, per il regolamento dei debiti che sorgono fra esse. I diritti speciali di prelievo, che sono stati creati nel 1967 a Rio de Janeiro, hanno natura vera e propria di moneta (internazionale) e consistono in accreditamenti contabili. I paesi in deficit possono cedere i DPS ad altri paesi in avanzo in cambio di valuta convertibile. L’utilizzo di moneta internazionale fù largamente contestato per la paura di tensioni inflazionistiche proprio nel periodo in cui la moneta più utilizzata per gli scambi a livello mondiale era il dollaro che è legato all’andamento della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti. 16.5. IL REGIME A CAMBI FLUTTUANTI E L’EVOLUZIONE DEL FMI Il regime a cambi fluttuanti è basato sul libero oscillare delle valute estere, senza l’utilizzo di politiche che riassestino il sistema, e lascia alle regole del mercato (domanda e offerta) il riequilibrio del mercato delle valute estere. Questo tipo di regime ha portato a fluttuazioni manovrate. Il regime a cambi flessibili è stato immesso per evitare speculazioni in quanto, il regime a cambi fissi, permetteva di acquistare la moneta desiderata ad un prezzo fisso e quindi di speculare sulla variazione dell’incerto. Solo la fluttuazione dei cambi renderebbe meno profittevole la speculazione. Anche il regime a cambi flessibili può portare a speculazione, infatti, mentre il cambio di una moneta si deprezza a causa di acquisti speculativi, la previsione iniziale del cambio futuro non si mantiene invariata ma viene influenzata determinando variazioni da cui si possa trarne vantaggio. La flessibilità dei cambi può rendere più rischiosi gli scambi di merci e movimenti di capitale a medio-lungo termine. I cambi fissi costituiscono un potente strumento di coordinamento internazionale implicito in quanto, sia a livello privato (imprese) che a livello pubblico, porta a non far aumentare i prezzi al di sopra di quelli dei concorrenti ma ad attuare strategie di miglioramento dell’efficienza dinamica e statica. Il regime a cambi flessibili invece garantisce maggior autonomia ai diversi stati. Un sistema a cambi flessibili si è instaurato a livello mondiale fra le grandi aree regionali a partire dalla prima metà degli anni 70 quando Nixon ha dichiarato l’inconvertibilità del dollaro e consentendo più ampi margini di oscillazione ad un regime di cambi fissi che oramai non lo era più. Dal 1978 il Fondo Monetario Internazionale ha modificato il proprio statuto e ogni paese può applicare il regime di tassi che preferisce. Con l’avvento della globalizzazione il FMI ha accresciuto notevolmente i suoi compiti in quanto: • Concede prestiti a medio lungo termine ai paesi in via di sviluppo • Sorveglia tutte le politiche macroeconomiche e non che diventano sempre più interdipendenti tra gli stati 16.6. IL SISTEMA MONETARIO EUROPEO 16.6.1. IL SISTEMA MONETARIO Le risorse della BANCA MONDIALE sono: sia il capitale proprio costituito da quote percentuali dei Paesi membri, sia in misura maggiore finanziamenti esterni, pubblici e privati. Gli orientamenti della BANCA MONDIALE ha cercato di appoggiare maggiormente quelli liberisti dei governi, cercando di accrescere il ruolo del mercato. I Paesi finanziati furono spinti a migliorare i loro bilanci, risolvendo alcune situazioni che in alcuni casi erano gravose. Secondo la maggior parte degli studiosi, però questa esposizione da parte di alcuni Paesi, considerati “colonne portanti” del sistema internazionale, ha portato, agli shocks di questi mercati, con situazioni di crisi pesanti e moltiplicando i costi. Le politiche di liberalizzazione e privatizzazione attualmente sono messe in discussione dagli stessi studiosi. Insieme a queste due organizzazioni(FMI e BANCA MONDIALE) si era pensato di costituire una terza organizzazione, la ITO(international trade organisation) ma nn fu possibile per la mancata adesione di alcuni Paesi tra cui gli USA. Al posto di quest’ultima organizzazione, fu sottoscritto nel ’47 a Ginevra, da tutti, l’accordo generale per i dazi e per il commercio(GATT-general agreement on Tariffs and trade). Il GATT mirava essenzialmente ad accrescere il benessere sociale dei Paesi aderenti, attraverso l’eliminazione delle discriminazioni commerciali, riduzione dei dazi, riduzione e restrizione nonché regolamentazione di barriere non tariffarie. Il GATT però incontrò delle difficoltà nel perseguimento dei suoi obiettivi e per la necessità di ottenere l’adesione unanime dei Paesi membri. In ogni caso però la sua azione può considerarsi positiva poiché consentì di tornare ai principi del multilateralismo. L’Uruguay round fu l’ultima sessione di negoziazioni multilaterali organizzata dal GATT; essa fu avviata nel ’86 sotto la pressione del Giappone e degli Usa; mirava a includere nuove materia tra quelle di competenza delle istituzioni internazionali che disciplinavano il commercio. Si definì inoltre la politica che configurava la sovvenzione(sussidi), furono introdotte misure anti-dumping e vennero pubblicate necessariamente delle regole di condotta. L’1/1/1995 iniziò ad operare il WTO, creata con l’accordo di Marrakech del ‘94, a conclusione dell’Uruguay round. L’OMC(organizzazione mondiale del commercio) ovvero il WTO, sostituì appunto il GATT, anche se ne copiava in parte i principi e le regole, ma aveva un carattere più istituzionale e una struttura in grado di risolvere i contrasti tra Paesi, quindi era molto più stabile. Tra le materie del GATT prima e dell’OMC poi, vi sono:le politiche ambientali, le politiche antimonopolistiche, e di protezione del lavoro che si ripercuotono a livello internazionale. L’importanza, di queste politiche è aumentata con il passare del tempo spesso in relazione alla pressione competitiva ma anche a causa di particolari condizioni di arretratezza che si trova ad affrontare un Paese. Alcune politiche permissive di alcuni governi di Paesi in via di sviluppo, ma anche arretrati portano ad acquisire effetti positivi(vantaggi) nel breve periodo, ma anche svantaggi nel lungo periodo. Le politiche di riduzione di alcuni governi di nazioni più avanzate(RACE TO BOTTOM), creerebbe problemi ai Paesi più arretrati ed è per questo che vi è un’esigenza di coordinamento internazionale che permette di evitare distorsioni e disuguaglianze tra reddito e ricchezza. 18. LE ISTITUZIONI PUBBLICHE SU BASE REGIONALE: L’UNIONE EUROPEA 18.1 L’INTEGRAZIONE EUROPEA L’integrazione europea avviene in diverse fasi: Piano Marshall (’47): aiuti statunitensi ai paesi europei per la ricostruzione post- bellica condizionavano i governi dell’ EU (Unione Europea) alla collaborazione. CECA (’51) Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio Trattato di Roma (’57): In cui si pongono le basi del MEC (Mercato Europeo Comune) e dell’euratom. I paesi coinvolti sono L’Italia, la Francia, la Germania, il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo. Gli accordi si basano su principi liberisti e trattano l’unione doganale, l’abbattimento dei dazi interni, una tariffa doganale unica, politiche comuni per l’agricoltura ed i trasporti, una legislazione antimonopolistica. SME (’79) Sistema Monetario Europeo Atto unico Europeo (’85) con il libro bianco si modifica il trattato di Roma. Eliminazione delle barriere non tariffarie. Nuovi obiettivi: Ambiente, Ricerca, Coesione economica e sociale, Sicurezza, Salute, Posti di lavoro. Maastricht (’92): Nascita della UE Strategia di Lisbona (2000) e UEM (Unione Europea Monetaria) Euro (‘02) Circolazione della moneta unica europea Oggi: Allargamento a 27 Paesi 18.2 L’UNIONE EUROPEA: GLI ORGANI Consiglio europeo: Insieme dei capi di stato o di governo dei paesi membri con il presidente della CE. Consiglio dei Ministri: Insieme dei Ministri degli Stati membri responsabili della materia iscritta all’ordine del giorno. Commissione Europea (CE): Organo collegiale con poteri esecutivi, di gestione e controllo. Parlamento Europeo: Eletto direttamente dai cittadini, approva il bilancio, vota la fiducia alla CE, controlla i lavori della CE. Corte di giustizia, Corte dei conti BCE (Banca Centrale Europea), Banca Europea degli investimenti 18.3 IL FUNZIONAMENTO DI UN’AREA MONETARIA (UEM) L’introduzione della moneta unica ha portato alcuni benefici: la diminuzione dell’incertezza dei prezzi dei beni o delle attività finanziarie (annullamento del rischio di cambio), la riduzione dei costi di transazione. Il maggior timore deriva dalla possibilità che degli shock asimmetrici (contrazione della domanda con possibilità di recessione) colpiscano certi paesi e che siano insufficienti sia le capacità di reazione dei mercati sia le politiche pubbliche di riequilibrio. Ulteriori difficoltà possono derivare dalla diversità dei tassi di crescita del reddito o dalle diverse preferenze dei policy makers per l’inflazione e la disoccupazione. 18.4 LA POLITICA MONETARIA La politica monetaria è responsabilità del Sistema Europeo di Banche Centrali (SEBC), costituito dalla BCE e dalle BCN (Banche Centrali Nazionali). L’eurosistema è formato dalla BCE e dalle BCN che hanno aderito all’euro. La SEBC opera ai sensi del trattato di Maastricht, le è garantita l’indipendenza politica ed operativa. I principali compiti sono: - Definire ed attuare la politica monetaria della UEM (La BCE ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione delle banconote da parte delle BCN - Svolgere operazioni sui cambi per influenzare il tasso di cambio dell’euro verso le altre monete - Detenere e gestire le riserve ufficiali degli Stati membri - Promuovere il regolare funzionamento dei pagamenti Gli obiettivi sono: - Il mantenimento della stabilità dei prezzi - Il mantenimento della stabilità monetaria (dottrina tedesca) - Decidere il tasso d’inflazione La BCE interviene sui mercati dei valutari per perseguire gli orientamenti generali di politica di cambio fissati dal Consiglio dei Ministri. 18.6 LA POLITICA FISCALE La politica fiscale è responsabilità dei Governi Nazionali con i limiti posti dal patto di stabilità e crescita. Ognuno dei paesi membri della UEM deve evitare il deficit e l’indebitamento eccessivo per evitare effetti negativi verso gli altri paesi. I paesi per mantenere l’equilibrio dovrebbero utilizzare gli stabilizzatori automatici (sussidi di disoccupazione, imposizione progressiva) al posto di politiche fiscali discrezionali. Ogni Stato membro deve presentare un programma di finanza pubblica di medio termine con gli obiettivi e le misure necessarie per raggiungerli. Se non si osservano i limiti di Maastricht (disavanzo/PIL >3%)si dà avvio alla procedura sui disavanzi eccessivi. In situazioni di crisi si chiede un diverso modo di calcolo. E’ necessario un maggiore coordinamento fra le autorità di politica fiscale dei diversi paesi per aumentare la domanda e l’occupazione. 18.7 LE POLITICHE REGIONALI E REDISTRIBUTIVE Redistribuzione a favore di regioni o di settori produttivi. Finalità - Sostegno dei redditi - Protezione sociale - L’aumento della competitività - L’innovazione - Modifiche alla struttura produttiva Mezzi - Fondo Europeo di Sviluppo regionale. Per le infrastrutture e la ricerca - Fondo sociale europeo. Per l’occupazione e la formazione
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