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Pragmatica Cognitiva - Bruno G. Bara, Sintesi del corso di Psicologia della Comunicazione

Riassunto del libro Pragmatica cognitiva dell'esame di Psicologia della Comunicazione - Università di Torino - Scienze del Corpo e della Mente

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 17/06/2019

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marcello-manfredonia 🇮🇹

4.7

(14)

7 documenti

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Scarica Pragmatica Cognitiva - Bruno G. Bara e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia della Comunicazione solo su Docsity! Pragmatica cognitiva 1. Tassonomia della comunicazione La comunicazione è un’attività sociale che ha bisogno di più agenti. Comunicazione e linguaggio non sono sinonimi: si può infatti comunicare senza parlare, ad esempio con il disegno, la scrittura, il mostrare le proprie emozioni o con i gesti, purchè rivelino all’interlocutore la nostra intenzione a comunicare (es. comprare un anello alla propria amata). La pragmatica cognitiva è la scienza che studia gli stati mentali delle persone mentre sono impegnati nella comunicazione. Sarebbe semplicistico parlare di ascoltatore e parlante, dato che all’interno della comunicazione i ruoli si interscambiano: parleremo di attori (A) e partner (B) indicando nei primi il ruolo attivo e negli altri il ruolo passivo, ovviamente in un dato momento e non in senso assoluto. Non basta che vi siano due persone per definire la comunicazione, ma devono essere soddisfatti altri assunti. • Vi deve essere un significato globale concordato tra le persone che interagiscono, ovvero tutti gli attori in causa devono avere chiaro il gioco comportamentale, ovvero il senso che viene dato all’intera sequenza di interazioni. In altre parole ci deve essere una rappresentazione mentale di quello che sta succedendo. • Tutti gli agenti devono partecipare all’interazione in maniera intenzionale. In altre parole A non può comunicare a B senza esserne consapevole; in questo caso è B che fa inferenze su A. È necessario sottolineare che la comunicazione si basa sul concetto che si considera messaggio solo qualcosa che ostacola l’entropia sempre crescente che c’è nel mondo. Sono le variazioni che spiccano e non la continuità; le aspettative violate sono cariche di informazioni: così anche il silenzio, se noi ci aspettiamo una parola, è comunicativo. Abituati a vivere in un mondo ad entropia crescente, è percepito come messaggio solo qualcosa che mette ordine. Non è comunicativo il non dire qualcosa. Interazione sociale Si parla di interazione sociale quando due o più individui si influenzano reciprocamente. Il concetto di interazione va al di là della comunicazione. 1. Estrazione d’informazione. Essa rappresenta la modalità di interazione sociale più filogeneticamente antica e per questo condivisa con gli altri animali. Possiamo distinguere l’indicatore, il segno e il segnale. L’indicatore è un attributo sempre on che l’individuo esibisce sempre poiché caratteristica del suo fenotipo. Ad esempio le corna di un cervo ne indicano il sesso, oppure altri attributi fisici indicano la pericolosità nell’affrontarlo in combattimento o la qualità del patrimonio genetico utile a decidere con chi accoppiarsi. Un segno è invece esterno all’individuo stesso ed è un suo prodotto ma senza la finalità a comunicare. Ad esempio, un elefante lascia le orme sul terreno quando si sposta: non lo fa con l’intenzione di comunicare ma comunque le altre specie possono inferire la sua posizione a partire proprio da queste orme. Nell’uomo il discorso può essere diverso poiché i segni possono essere stati lasciati lì intenzionalmente al fine di comunicare e quindi divengono segnali. Un criminale può incautamente lasciare le sue impronte digitali sulla scena del crimine (segno) ma potrebbe anche averle lasciate di proposito nella speranza di essere scoperto per espiare la propria colpa. I segnali infine sono atti comunicativi e possono essere sia interni che esterni. Gli uccelli comunicano con la propria danza (interni), i cani marchiando il territorio con l’urina (esterno). I tentativi di spiegare la comunicazione umana attraverso la teoria matematica della comunicazione (Shannon e Weaver) sono falliti per due principali ragioni. Prima di tutto l’informazione matematica (computer) è essenzialmente quantitativa. La più piccola unità di misura dell’informazione, il bit, è utile per discriminare tra due alternative equiprobabili; per esempio per sapere se chi scrive è maschio o femmina c’è bisogno di un bit di informazione. La comunicazione umana è però intrinsecamente qualitativa poiché dipende dal significato che attribuisce la persona che la riceve, non dalla quantità di informazioni. La teoria matematica della comunicazione si basa sul concetto che tanto più un messaggio è improbabile tanto più è informativo (probabilità statistica). Una cartolina di auguri a natale è poco informativa anche se vi sono scritte molte parole poiché il significato principale sono gli auguri di Natale. La comunicazione umana non si basa su una probabilità statistica ma sugli scopi soggettivi degli attori che partecipano all’interazione. Altro limite è rappresentato dal concettualizzare la conoscenza come un qualcosa di esterno all’individuo che la comunica, ovvero come un pacco postale così come la definisce lo psicologo sociale Mantovani. Il concetto che vuole esprimere il libro è invece che la comunicazione è co-costruita da tutti i partecipanti ed ha un significato unico solo al suo interno. L’antropologo Gregory Bateson ha provato ad applicare la teoria matematica alle scienze umane con una teoria basata sulla comunicazione in senso lato, comprendendo anche l’interazione tra organismi non viventi. Il suo esempio parla di comunicazione ostensiva in cui l’interazione linguistica può essere arricchita da mezzi non linguistici: un professore che per spiegare ai suoi allievi la differenza tra una pinza anatomica ed una pinza chirurgica, mostra i due oggetti. L’errore di Bateson sta nel fatto che, seppur i due oggetti siano mezzi extralinguistici che comunicano, colui che ha l’intenzione di comunicare è proprio il professore e non gli oggetti stessi. Il concetto di sempre un abbraccio nonostante venga fatto in modo diverso in inghilterra o in russia. Quindi provocherà anche due tipi di risposte, una immediata e inscritta nei nostri circuiti cerebrali ed una simbolica (es. una carezza ricevuta libera immediatamente endorfine. A livello cognitivo è poi interpretata come un segnale di affetto, amore, erotismo). Solo la componente extralinguistica è capace di percorrere due percorsi diversi (fisiologico e simbolico). Anche la componente linguistica può ovviamente suscitare una reazione automatica e fisiologica ma questo è solo successivo alla comprensione del significato delle parole dette. Vediamo ora i diversi modi di realizzare una comunicazione extralinguistica, partendo dalla distinzione tra permanenza e impermanenza. Comunicazione impermanente All’interno di questa comunicazione, Bara distingue due sotto-categorie: la prima costituita da atti comunicativi che hanno un significato riflessivo, di per sé ed a prescindere dal contesto; la seconda invece costituita da atti comunicativi che acquisiscono significato all’interno del contesto. 1. Quando il focus è sull’azione stessa è il corpo degli agenti ad essere canale comunicativo. Inchinarsi in segno di ringraziamento o applaudire per complimentarsi sono atti comunicativi che sfruttano il proprio corpo. Nel caso degli abiti indossati, si comunica anche attraverso oggetti esterni ma sempre facendo riferimento al proprio corpo. 2. Quando il focus è spostato all’esterno invece il canale comunicativo cambia. Regalare l’anello alla propria fidanzata è un atto comunicativo strettamente connesso al contesto. Altri canali possono essere lo spazio ed il tempo: a seconda della cultura lo spazio di interazione cambia (più vicino per i paesi dell’Europa del sud o del sud America, più lontano per i paesi del nord del mondo), come cambia anche il ritardo tollerato (dai 15 min dell’Italia ai 5 dell’Inghilterra fino a 1 minuto del Giappone o ai 60 dei paesi africani). SI parla di atti comunicativi permanenti parlando di opere d’arte ad esempio come scultura, pittura ed architettura. La differenza tra linguistico ed extra-linguistico è un processo Comunicare è un processo e comunicare linguisticamente o extralinguisticamente vuol dire usare due modi diversi di elaborare i dati. Verosimilmente, l’elaborazione di un input avviene parallelamente sia a livello linguistico che extralinguistico. 1. La comunicazione linguistica è composizionale, ovvero è l’uso di un sistema di simboli che sono unità componibili e non unità elementari. Tali unità sono scomponibili molecolarmente e atomicamente: la frase il leone guarda la gazzella è composta da il leone, guarda, la gazzella a livello molecolare e da il, leone, guarda, la, gazzella a livello atomico. Ma a parità di costituenti, la struttura globale della frase cambia a seconda del significato. La frase la gazzella guarda il leone è molecolarmente ed anatomicamente ugiale alla precedente, ma sintatticamente diversa. La comunicazione linguistica presenta una produttività potenzialmente illimitata. Le parole possono essere composte per formare frasi sempre diverse. Altra caratteristica della comunicazione linguistica è la possibilità di dislocazione: attraverso parole come ieri o domani, cambiano il tempo delle forme verbali o specificando un luogo, il discorso può far riferimento a tempi e luoghi lontani. La frase vediamoci domani alle 17 in piazza Statuto è facilmente comprensibile nonostante riguardi tempi e luoghi distanti dagli interlocutori. 2. La comunicazione extralinguistica è associativa nel senso che non è costituita da componenti scomponibili ma da parti non ulteriormente scomponibili e che hanno un significato intrinseco. Non si viene mai a creare una composizione di significati come nel linguaggio, ma solo una sequenza di parti per associazione. L’associabilità consente di invertire l’ordine della sequenza di simboli senza modificare il risultato. Se Enea durante la sua fuga da troia fa cenno ai suoi familiari di stare in silenzio per poi indicare i nemici vuole dire implicitamente non parlate, oppure gli achei riconosceranno che siamo troiani e ci uccideranno! Ma anche invertendo l’ordine (indicando prima i nemici e poi facendo cenno di stare in silenzio) il senso non sarebbe cambiato. In questo risiede la differenza tra associabilità e composizionalità. Caratteristica della comunicazione extralinguistica è la produttività limitata. Come detto i simboli utilizzati a livello extralinguistico acquisiscono significati man mano diversi nei qui e ora e sarebbe inutile costruirne di nuovi con un significato troppo specifico che non verrebbero mai più usati. In questo senso, la comunicazione extralinguistica non possiede alcuna sistematicità. Linguistico ed extralinguistico tendono a collaborare al fine della produzione di un significato all’interno di una relazione comunicativa. A questo va aggiunto il paralinguistico che è rappresentato dal tono della voce nel linguaggio parlato o dalla calligrafia e dal tipo di carta in quello scritto. Il fatto di parlare di due diverse modalità di linguaggio (linguistica ed extra- linguistica) ci riporta al concetto di modulo cognitivo di Fodor o, meglio, al concetto di sottosistema funzionale isolabile di Shallice che appare meno rigido e più funzionale alle neuroscienze. I due sottosistemi hanno origine filogenetica diversa e sono mediati da base neurali diverse ma a un certo punto i due tipi di informazione confluiscono in una visione integrata che dona il senso alla comunicazione. La percezione sensoriale precede sempre l’attribuzione del significato; sentire delle parole e vedere dei gesti coinvolgono canali sensoriali diverse ma le informazioni, una volta simbolizzate vengono trattate allo stesso modo. Il fatto però che i sottosistemi siano diversi può portare ad una discrepanza; in questo caso è il sistema centrale a risolvere il dilemma ed a dare maggiore affidabilità all’uno o all’altro sistema. Ad esempio, una dichiarazione di scuse non accompagnata da un adeguato comportamento di sottomissione risulterò ambiguo; l’interlocutore, a seconda che dia più importanza ad un sottosistema piuttosto che ad un altro sarà responsabile dell’interpretazione delle scuse. La comprensione degli atti comunicativi linguistici è comunque molto più facile (per la sua peculiare composizionalità) rispetto alla comprensione degli atti extralinguistici; per questo motivo la comunicazione si è evoluta in questo senso. Atti comunicativi Secondo la visione verificazionista nata negli anni ’30 all’inizio dello studio della pragmatica comunicativa, una frase ha senso solo se può essere verificata, può essere definita vera. Questa teoria affonda le radici nel positivismo logico ottocentesco ma ha col tempo perso potere. Come si fa a verificare la frase il preside si è innamorato della sua segretaria? Nonostante questo però la frase continua ad avere senso. Oppure come si fa a verificare una frase di un racconto i cui protagonisti sono personaggi immaginari? Per tutte queste lacune teoriche il verificazionismo è stato ampiamente superato a favore di un approccio meno rigido e astratto. La filosofia del linguaggio è andata dunque in una direzione diversa da quella presa originariamente interessandosi all’uso quotidiano che fa la gente delle parole. Austin nota che usate in situazioni ben determinate, le parole modificano il mondo allo stesso modo delle azioni. La domanda non è più quindi se questi enunciati sono veri o falsi, bensì se sono efficaci o meno. Ma oltre a modificare il mondo nella direzione desiderata, le parole possono anche semplicemente modificare lo stato mentale dell’ascoltatore. Dare un ordine che non verrà eseguito non modifica il mondo ma di certo ha modificato degli stati mentali. Austin scompone poi l’enunciato in tre parti: 1. Atto locutorio, che rappresenta ciò che viene detto, col suo significato e riferimento; 2. Atto illocutorio, ovvero le intenzioni comunicative che ha il parlante; 3. Atto perlocutorio, ovvero l’effetto che vuole produrre sul mondo il parlante. Loc – Stai fermo o ti sparo Illoc – minacciare la persona Perloc – far si che quella persona rimanga immobile Il successo dell’enunciato dipende dal successo di ciascuna parte di esso. La parte locutoria può fallire se l’interlocutore è sordo, straniero o se un rumore copre le parole. Quella illocutoria fallisce se l’interlocutore non da la giusta importanza alla 2. Strumenti per comunicare Cooperazione Per creare un atto comunicativo è necessario essere almeno in due ed è necessario che vi sia l’intenzione di entrambi di crearlo. La costruzione del significato avviene nel momento in cui entrambi mettono in comune la propria parte; in tal senso non è necessaria una co-presenza spazio-temporale (es. lettera o telefonata). Non esiste niente che possiamo considerare messaggio fin dall’inizio, se non nel momento in cui è ricevuto dal destinatario, proprio perché è attraverso l’interazione e la cooperazione che i significati si creano nella conversazione. Una lettera spedita ma mai recapitata rappresenta un tentativo di comunicazione fallito. La lontananza spazio temporale va quindi a interferire con il canale di trasmissione, non con il contenuto del messaggio e il suo significato. Al livello psicopatologico, l’intendere la comunicazione come una cooperazione o meno, sfocia in due approcci nettamente distinti tra di loro: l’approccio cooperativo e quello manipolatorio. Al primo appartengono la psicanalisi e la psicologia cognitiva che si basano sul fatto che il paziente debba prima di tutto arrivare alla comprensione del suo funzionamento come tappa imprescindibile per il processo di guarigione. In queste psicoterapie i due partecipanti hanno entrambi un ruolo attivo, co-costruiscono i significati all’interno del setting e contribuiscono allo stesso modo alla buona riuscita della terapia stessa. All’approccio manipolatorio appartengono invece le psicoterapia comportamentali in cui al terapeuta spetta un ruolo di primaria importanza. Il paziente può anche non arrivare alla consapevolezza, l’obiettivo resta quello di una modificazione comportamentale ottenuta manipolando, per l’appunto, il paziente, che riveste un ruolo passivo. La sorgente è attenta al feedback del destinatario solo per confermare che vi sia stata comprensione, ma non perché grazie a questo il significato non avrebbe senso. Nel suo concetto di cooperazione, Grice, non tiene conto delle posizioni intermedie tra successo della cooperazione e fallimento; si ha successo della cooperazione quando l’interlocutore comprende e si adegua ai desideri del parlante, mentre, contrariamente, vi è fallimento della cooperazione quando o non c’è comprensione o non c’è volontà di adeguarsi. Tuttavia esistono casi intermedi che meritano attenzione. è necessario infatti scomporre il piano conversazionale ed il piano della cooperazione comportamentale; non sempre infatti entrambe hanno successo, delle volte ha successo solo quella conversazionale (c’è comprensione) ma non quella comportamentale (non vi è desiderio di adeguarsi alle parole del parlante). Stati mentali nella comunicazione Attenzione condivisa Affinchè una comunicazione abbia successo, occorre che ci sia attenzione condivisa da parte di tutti i partecipanti; non bisogna semplicemente prestare attenzione ma ci si accerta che il partner stia facendo lo stesso. Le condizioni di contatto sono fondamentali affinché si avvii una conversazione; ad esempio una di queste è il contatto visivo, fondamentale per dimostrare la propria predisposizione a comunicare e per mantenere la conversazione. Nel momento in cui per un qualsiasi motivo non ci può essere contatto visivo, la condizione di contatto è rappresentata da stimoli uditivi e da formule come avviene nel contatto telefonico (Pronto?); tali formule sono fondamentali per stabilire l’attenzione condivisa da parte dei partecipanti alla comunicazione. Credenza condivisa Il concetto di credenza e uno dei concetti fondamentali in psicologia cognitiva. La credenza si usa come concetto primitivo e secondo la teoria di Hintikka gli esseri umani sono naturalmente portati ad effettuare tutte le inferenze logiche data una singola credenza. Questo concetto, chiamato concetto dell’onniscienza logica prende in considerazione esseri umani ideali molto lontani da quelli reali. È stato dimostrato che gli esseri umani non presentano una logica mentale tale da effettuare inferenze corrette a partire da una credenza ma ragionano a partire dalla rappresentazione delle situazioni sotto forma di modello mentale. La logica è un’invenzione, i soggetti umani costruiscono e modificano i propri modelli mentali in maniera tutt’altro che infallibile, piuttosto piena di errori. La fallibilità della nostra cognizione ci suggerisce che non esiste una logica attivata da modelli mentali innati ma dei modelli mentali via via costruiti e modificati. Oltre al modo logico di ragionare, un’altra grande differenza tra i soggetti ideali e quelli reali risiede nel fatto che quelli reali sono caratterizzati da incongruenze. Ad esempio una persona può fermamente credere che tutti gli uomini siano uguali pur mantenendo un pensiero razzista in un determinato sottodominio. La comprensione degli stati mentali nella comunicazione è fondamentale, poiché aiuta il soggetto a comprendere come continuare a contribuire alla comunicazione. Abbiamo visto come le credenze siano uno stato mentale; a livello psicologico è ben differenziabile il grado di certezza che soggettivamente un soggetto ha per le proprie conoscenze e credenze, anche se esse possono o meno rispecchiare la verità del mondo. È una conoscenza qualcosa di cui sono completamente certo (es. La capitale della Francia è Parigi); sono credenze invece fatti con una sempre minore certezza (es. Poppea amava Nerone). Esistono tuttavia vari tipi di credenze: credenze individuali, comuni e condivise. Se un individuo crede una certa cosa oppure crede che un atro individuo creda una certa cosa, un maniera totalmente autonoma siamo di fronte ad una credenza individuale. Frequentemente, in un dato contesto, più individui hanno una stessa credenza individuale; due pacifisti condividono la credenza che la bomba atomica andrebbe messa al bando o due persone qualunque condividono la credenza che sono nati da una madre e da un padre. Questo tipo di credenze sono dette credenze comuni o mutue. All’interno di una comunità (es. comunità di persone che assumono cocaina) fatti, credenze, procedure e norme, vengono date per scontate nell’interazione tra due o più membri. Ma per comunicare non è sufficiente una credenza comune, ma è necessario che vi sia anche consapevolezza che quella stessa credenza è condivisa dagli altri membri con i quali si sta interagendo. Un individuo non usa un gesto che ha significato solo per lui, ma nel momento che lo usa, da per scontato che il significato di quel gesto sia condiviso anche dalle altre persone. In questo senso si parla di credenza condivisa, ovvero una credenza che non solo sia comune ma la cui caratteristica dell’essere comune è nella consapevolezza di tutti i membri dell’interazione. Si è detto come la credenza sia uno stato mentale primitivo. Bara, Colombetti e Airenti assumono che anche la credenza condivisa lo sia poiché a disposizione anche dei bambini che hanno capacità cognitive limitate. Assumere che la credenza condivisa nasca da un processo inferenziale del tipo: A crede che p B crede che p A crede che B crede che p B crede che A crede che p … Non risulta plausibile dato che un ragionamento del genere renderebbe qualsiasi comunicazione cognitivamente impegnativa e sicuramente fuori dalla portata dei bambini. Chiedere a un bambino perché il criceto e nella vasca da bagno? non comporta che si spieghi lentamente e faticosamente il presupposto della domanda, ovvero che c’è un criceto nella vasca da bagno, ma questa credenza è condivisa e presa per buona automaticamente. La differenza tra credenza condivisa e credenza e comune risiede nel fatto che la credenza comune è oggettivamente data (essendo culturalmente definita), mentre la credenza condivisa è soggettivamente data in quanto io non posso dai sapere cosa davvero crede un’altra persona B. Coscienza e conoscenza Vi è un pregiudizio che accompagna, dai tempi di Freud, l’essenza della coscienza umana. Freud divideva la parte conscia da quella inconscia: l’inconscio non era altro che una stanza buia in cui era possibile, attraverso la psicanalisi soprattutto, accendere la luce. Sostanzialmente niente veniva modificato ma semplicemente spostato dall’inconscio al conscio. Secondo la psicologia cognitiva niente che viene spostato sotto la lente della consapevolezza rimane così com’è ma va automaticamente incontro ad una trasformazione. La realtà viene costruita e di Infine abbiamo i fenomeni non intenzionali e non coscienti che però non sono veri e propri stati mentali bensì stati neurali che realizzano il funzionamento cerebrale (6). Non possiamo modificare intenzionalmente il funzionamento neuronale, né abbiamo possibilità di capire consapevolmente come esso funzioni. 1, 2, 3 consci / 4, 5, 6 inconsci Intenzione comunicativa Rispetto all’azione, l’azione comunicativa presenta caratteristiche peculiari; mentre la prima, infatti, può essere svolta in completa autonomia, l’altra ha bisogno che vi siano almeno due persone. L’interazione avviene quindi tra l’attore A e il partner B, più, volendo, gli spettatori dell’azione comunicativa (C, D…). Nell’interazione comunicativa, A, non solo deve avere l’intenzione di comunicare a B, ma deve avere anche l’intenzione che la sua azione sia riconosciuta come comunicativa. Ad esempio, indossando una particolare cravatta di un college, un professore comunica di essere un insegnante di quella precisa università. Ma la sua non può essere definita una azione comunicativa poiché, pur essendoci l’intenzione a comunicare, manca l’intenzione al riconoscimento della sua azione come comunicativa da parte degli interlocutori. Nella comunicazione tra A e B devono essere soddisfatti i seguenti requisiti: • A comunica intenzionalmente a B che p; • A comunica a B l’intenzionalità a comunicare. Riproponendo lo schema precedente, applicando all’atto comunicativo intenzionalità, deliberazione e consapevolezza avremo: 1. Atto comunicativo intenzionale, deliberato e conscio. Da tutto ciò che abbiamo detto, affinché A non solo comunichi che p ma comunichi anche la sua intenzione a comunicare con B, c’è bisogno che l’atto comunicativo sia uno stato mentale, oltre che intenzionale, anche conscio. 2. Atto comunicativo intenzionale, non deliberato e conscio. Quando ci si pone l’obiettivo di comunicare qualcosa, raramente ci si prepara frasi preconfezionate. La serie di parole di un enunciato viene prodotta spontaneamente, pur avendo ben chiaro l’obiettivo di cosa si vuole comunicare. Si intende questa come un intenzione in azione (intention in action). Qui rientrano gli effetti intesi apertamente e quelli non intesi apertamente. I primi fanno riferimento a secondi significati di una frase (Togliti la camicia, a seconda del contesto, non significa solo spogliarsi, ma per esempio potrebbe avere un significato erotico), i secondi invece indicano degli stati mentali che non sono apertamente comunicati da A (seppur consciamente) ma che sono riscontrabili unicamente da B; in questo caso sta ad A, se smascherato, confermare l’ipotesi (mi faccia un caffe ristretto in tazza piccola – neanche a lei piace un bicchiere di acqua sporca tiepida?) 3. Atto comunicativo intenzionale, deliberato e inconscio. Come in precedenza, caso impossibile. 4. Atto comunicativo intenzionale, non deliberato e inconscio. uno dei casi più esemplificativi è il lapsus. Come in precedenza, solo in caso di incongruenza l’azione comunicativa inconscia può essere smascherata. Oltre al lapsus abbiamo gli elementi paralinguistici. A dirla tutta gli elementi paralinguistici fluttuano a metà tra coscienza e non coscienza; si può diventare consapevoli del tono alto di voce a momenti, o se ce lo fa notare il nostro partner comunicativo e se poniamo volontariamente attenzione a questi elementi. 5. Atto non intenzionalmente comunicativo. Se non c’è intenzionalità di comunicare non vi è comunicazione ma solo estrazione di informazioni da parte di chi osserva. Caso particolare di ambiguità tra comunicazione ed estrazione di informazioni: delirio paranoideo La caratteristica del disturbo paranoideo è quello di attribuire ad ogni azione, comunicativa e non, un indiretto riferimento a sé stessi Piani d’azione In psicologia, un piano d’azione, è un insieme di mete che guidano l’azione. In comunicazione è più corretto definirlo come l’insieme delle credenze, degli stati mentali e delle intenzioni che accompagnano l’atto comunicativo dato che quello che è più importante è la comprensione all’altro e la comprensione dell’altro. Comporre un piano d’azione è cognitivamente dispendioso, tanto che solitamente si tende ad usare piano già pronti, collaudati ed efficaci. In comunicazione usare piani d’azione già pronti vuol dire anche renderli più immediatamente comprensibili. Oltre a dividere piani già pronti e piani da costruire occorre dividere piani individuali ed interpersonali. Un piano personale è messo in pratica da una sola persona, anche se questa azione modifica il vissuto di altre persone (es. dante che scrive la Divina Commedia). Un piano interpersonale tiene conto degli intrecci e delle azioni di altre persone ed in comunicazione è il piano più usato. La definizione di piano condiviso necessita che ciascun attore sappia di dover ricoprire un ruolo nell’azione e che l’attore si aspetti che anche l’altro faccia lo stesso. Il piano condiviso poi non presenta uno schema d’azione fisso ma è continuamente negoziato dalle parti in causa. 3. Giochi comportamentali e conversazionali Reputare l’uso delle parole ai fini conversazionali è stato definito un gioco per la prima volta da Wittgenstein. Da questo concetto si comincerà a studiare non solo il linguaggio in sì ma anche il suo uso. Occorre dividere però il linguaggio che regola l’interazione, che chiameremo gioco comportamentale ed il linguaggio che regge il dialogo, che chiameremo gioco conversazionale. Giochi comportamentali Dobbiamo innanzi tutto separare quella che è la competenza comunicativa (abilità della mente umana) e quelli che sono gli schemi stereotipati di interazione che variano da cultura a cultura e possono addirittura essere propri di un gruppo di persone o di soli due individui. La competenza comunicativa è un metalivello che controlla le inferenze che vengono fatte sulla base degli schemi stereotipati di interazione. Per poter cooperare almeno a livello conversazionale, entrambi gli attori devono condividere un gioco comportamentale, altrimenti il discorso non sarà compreso. Anche se il significato di una frase appare evidente, sarà compito di chi ascolta dedurre gli effetti che il parlante vuole scatenare e la deduzione si basa sul gioco comportamentale che è in atto. Airenti, Bara e Colombetti, definiscono gioco comportamentale tra x e y un piano d’azione condiviso tra x e y. Oltre alle azioni poi, il gioco include le condizioni di validità, ovvero le regole affinchè il gioco possa essere giocato. Solitamente queste condizioni sono il tempo ed il luogo, altre volte però possono far riferimento anche agli stati mentali dei partecipanti. Altro elemento di fondamentale importanza è la relazione. Alcuni giochi sono giocabili con tutti (es. gioco comportamentale del chiedere l’ora), altri invece hanno bisogno di un certo grado di conoscenza o di intimità. La relazione è quindi l’insieme dei giochi comportamentali giocabili da due persone. Non è necessario che gli attori di un gioco siano consapevoli della struttura del gioco stesso; questa possibilità c’è solo nel momento in cui i due o più soggetti invischiati nel gioco abbiano una rappresentazione esplicita dei giochi da loro giocati. Tipi di gioco Uno dei criteri per classificare i giochi comportamentali è il criterio estensionale ovvero basato sul numero di persone che possono giocare. Abbiamo: • Giochi culturali, appartenenti ad un’intera cultura; • Giochi di gruppo, appartenenti ad un certo gruppo; • Giochi di coppia, giocabili da due sole persone. Per giochi culturali si intendono varie modalità di interazione: si può parlare di una cultura occidentale, europea o che varia da Stato a Stato. Anche gli elementi relazionale. Solitamente la parte non verbale del discorso è quella che definisce la relazione. La frase Chiudi la porta, per favore, a seconda del tono usato può indicare una relazione alla pari oppure una relazione in cui c’è uno al comando ed un subordinato. In alcuni casi, la relazione deve essere rinegoziata prima di iniziare un gioco. Paziente e terapeuta non possono frequentarsi socialmente; bisogna aspettare del tempo dalla fine della terapia ed eventualmente rinegoziare la relazione. Altre volte può accadere il percorso inverso: una persona può decidere di frequentare un circolo altolocato, non tanto perché ne condivide gli interessi ma solo per avere un rapporto paritetico con gli attori che già frequentavano quel luogo. Interazioni libere Cosa succede quando un’interazione non è riconducibile a nessun gioco condiviso? Nelle interazioni in cui nessuno conosce una parola della lingua dell’altro, bisogna applicare giochi talmente generali da essere condivisi pur le sostanziali differenze. Talvolta, anche all’interno della stessa cultura, ci si può trovare davanti a situazioni non usuali in cui non si possono applicare giochi precedentemente appresi e condivisi (es. si cambia posto di lavoro). Si parla di interazioni libere quando in una relazione non ci siano schemi pre-condivisi e l’interazione stessa viene lasciata libera di costruirsi. In situazioni non conosciute ci si può trovare davanti a situazioni non cooperative, interazioni libere e giochi comportamentali. Costruzione di un gioco Solitamente i giochi sono trasmessi culturalmente (es. giochi elementari di cortesia) oppure possono essere insegnati (es. nuova persona in un team di lavoro). Altre volte i giochi comportamentali sono costruiti ad hoc quando una persona vuole evitare di fare riferimento a comportamenti stereotipati. I giochi di coppia, creati all’interno della relazione possono apparire strani ed incomprensibili all’osservatore esterno che non può far altro che razionalizzare il tutto ma solo dal suo punto di vista. Il guadagno che i membri della diade hanno può anch’esso risultare incomprensibile: si tratta di guadagno psicologico. Da questo presupposto appare evidente come per uno psicoterapeuta familiare risulti molto difficile affrontare una terapia con una famiglia patologica, in quanto i giochi che si svolgono al loro interno appaiono a primo impatto incomprensibili, come incomprensibile risulta la sofferenza psicologica che ne deriva. La costruzione di un gioco è lenta e la sua modifica appare quasi impossibile; più facile che un gioco venga sostituito con un altro, mentre ancora più difficile risulta replicare un gioco con un altro partner. È comunque prerogativa dei giocatori porre modifiche in tal senso; l’osservatore esterno (psicoterapeuta) non può intervenire in tal senso. L’evoluzione del gioco La prima persona con cui il bambino appena nato instaura un rapporto è certamente la madre; bisogna ricercare quindi nel loro rapporto le basi emotive e cognitive che ci aiutano a comprendere come un gioco entra a far parte della vita dell’individuo e come l’individuo entra a far parte della cultura a cui si appresta a partecipare come protagonista. Bruner parla di format, nell’interazione tra madre e bambino; è dai format che poi si evolverà in gioco comportamentale. Per Bruner i format sono strutture stereotipe di comportamento idealizzate (il significato è proprio solo all’interno del format) e non naturali (sono composti da elementi totalmente inventati). Tali format sono composti da una struttura profonda (che da senso all’interazione) e una struttura di superficie (modificabile ad ogni replica). Ad esempio, nel format del gioco del cucù, la struttura profonda è la scomparsa e la ricomparsa di un oggetto o del volto. La struttura di superficie è rappresentata dalle formule comunicative e dai tempi (modificabili) che però non cambiano il senso del gioco. Nei format ci sono delle regole da rispettare come ad esempio l’alternanza dei turni: il bambino sa quando intervenire e quando invece lasciare l’iniziativa all’adulto. Inoltre il format può essere considerato come uno schema base di conversazione in quanto entrambi gli attori pongono attenzione condivisa ad una sequenza di eventi. Attraverso il format, il bambino impara quindi schemi generali di interazione con gli adulti e con i coetanei su cui poi si costruiranno tutti i giochi comportamentali che andrà ad apprendere nel corso della vita. Non è un caso che il format avvenga con la madre; per far sì che esso si sviluppi c’è bisogno di un rapporto stabile e di fiducia che il piccolo può avere solo con i familiari più stretti. Da questo, risulta importantissima la sfera affettiva del bambino ed il suo legame di attaccamento. Dagli studi della Ainsworth è stato messo a punto un test, chiamato strange situation in cui per mezz’ora bambino, madre ed un estraneo si ritrovano nella stessa stanza. In alcuni momenti la madre viene fatta uscire per un tempo massimo di interazione per andare a vedere l’interazione del bambino con l’estraneo, la sua risposta alla separazione e al successivo ricongiungimento. Seguendo la classificazione di Bowlby si delineano tre pattern di attaccamento: • Tipo A – evitante. Il bambino non protesta alla separazione con la madre e rimane indifferente al ricongiungimento. La madre rifiuta o ignora contatti con il figlio che da adulto tenderà a sviluppare un’organizzazione di personalità di tipo depressivo. • Tipo B – sicuro. Il bambino protesta alla separazione e cerca il contatto con la madre al ricongiungimento. La madre si mostra disponibile alle richieste affettive del bimbo che svilupperà un’organizzazione sana e non nevrotica. Le recenti revisioni della teoria dell’attaccamento rinunciano al concetto di attaccamento sicuro ricercando la ragione del sano sviluppo ad una maggiore elasticità ad adattarsi a contesti differenti (un’organizzazione troppo rigida è invece vicina alla nevrosi). • Tipo C – resistente ambivalente. In questo caso, il bambino protesta alla separazione della madre e continua a protestare anche al ricongiungimento. La madre non risulta sempre accessibile e disponibile, risultando imprevedibile agli occhi del bambino. Il caregiver inoltre risulta intrusivo ed ansioso nel naturale processo esplorativo del piccolo. Il bambino con madre soprattutto imprevedibile potrà sviluppare un’organizzazione ossessiva; quello con madre soprattutto controllante svilupperà un’organizzazione fobica; infine quello con la madre sia imprevedibile che intrusiva tenderà a sviluppare un’organizzazione psicosomatica. • Tipo D – disorientato disorganizzato. Il bambino appare disorientato, combinando goffamente atteggiamenti di attaccamento e di distacco. Ad esempio può avvicinarsi alla madre mentre distoglie da essa lo sguardo oppure mescolare espressioni di felicità e disgusto/rifiuto. La madre spesso presenta traumi irrisolti che le fanno avere un atteggiamento spaventato che condiziona il bambino (contagio emotivo). Il piccolo, da adulto, può presentare disturbi dissociativi o di personalità multiple. La tendenza a sviluppare questa o quell’organizzazione di personalità dipende anche dal pattern di attaccamento con il padre. Se l’attaccamento con la madre e con il padre (es. evitante) coincidono sarà più probabile che il bambino svilupperà la corrispondente organizzazione di personalità (es. depressiva). Gioco conversazionale Per gioco conversazionale intendiamo un insieme di compiti che i soggetti svolgono in un ordine preciso al fine di comunicare. Le regole di base caratteristiche di ciascuna fase modulano il comportamento dei partecipanti. L’intero gioco si può definire come l’insieme di metaregole che definisce i turni e le fasi successive. È il gioco conversazionale a reggere un dialogo; esso è composto da: • Struttura globale, che organizza il concatenarsi di frasi; • Struttura locale, di cui fa parte l’alternanza di turni e la relazione degli atti linguistici in uno stesso turno. Essa gestisce poi la gestione di turni consecutivi caratterizzati da coppie adiacenti (saluto/saluto, domanda/risposta). Tornando al format, esso è indispensabile per fornire al bambino concetti chiavi che ritroverà nei giochi comportamentali e conversazionali, ovvero attenzione condivisa ad una sequenza di oggetti, rispetto dei turni di azione e il concetto che i ruoli sono intercambiabili. 2. Il punto di partenza è il significato letterale (tranne che per gli enunciati di gioco) 3. Il risultato è il riconoscimento delle intenzioni comunicative dell’attore 4. È necessario individuare il gioco al quale implicitamente fa riferimento A Un problema cruciale, che questo modello condivide con tutti gli altri modelli è come delimitare le intenzioni comunicative del parlante. Una frase infatti può voler dire un’infinità di cose. Immaginiamo che A dica a B che si appresta ad uscire sta piovendo. Questo può voler dire prendi l’ombrello, vai piano quando guidi, non dovresti uscire, bagnarsi aumenta le possibilità di ammalarsi… I due tentativi di delimitare le intenzioni del parlante presenti in letteratura sono entrambi troppo estremizzati, e sono la prospettiva minimale e quella massimale. La prima presuppone che le inferenze appartengono solo all’ascoltatore ed ogni effetto comunicativo debba essere considerato come un’intenzione privata. Il limite è che in tal caso non possono essere considerate valide le inferenze fatte sull’enunciato che non presuppongono la conoscenza condivisa. Sul polo opposto si sposano le infinite possibilità di significato della frase. Ma l’obiettivo di una teoria non può essere quello di portare le possibilità all’infinito dato che le risorse cognitive non sono infinite. La soluzione è rappresentata da principio di pertinenza che deve guidare l’ascoltatore a partire dal significato letterale dell’enunciato. Per Bara, Arienti e Colombetti la pertinenza è definita dalle strutture cognitive specifiche della comunicazione. Partiamo dal presupposto che le inferenze che vengono fatte sugli enunciati avvengono a livello delle regole di base; come sappiamo è il metalivello a decidere quali sono le regole di base e per questo, il luogo dove capire se le inferenze sono corrette o meno è proprio il metalivello. Detto questo, un enunciato (o meglio la sua interpretazione) è pertinente quando manifesta la volontà di A di giocare ad un gioco G a B o, nel caso in cui il gioco G sia già in atto, l’interpretazione dell’enunciato deve essere coerente a G. A questo punto occorre distinguere i casi in cui l’enunciato è mossa del gioco (gioco già in atto) e i casi in cui l’enunciato è offerta di gioco (gioco da iniziare). Nel primo caso è possibile usare una qualsiasi mossa appartenente e pertinente al gioco che si sta giocando; nel secondo caso invece, l’attore menziona il gioco, proponendolo prima di realizzare una qualsiasi mossa. Atti linguistici indiretti La comprensione dell’atto comunicativo passa anche dalla comprensione dell’atto illocutorio indiretto, ovvero da ciò che è detto tramite un altro atto illocutorio non letteralmente corrispondente. L’atto illocutorio letterale è definito secondario mentre ciò che si vuole realmente dire è l’atto illocutorio primario. Ma in che modo gli interlocutori riescono a capirsi? Ci sono 4 spiegazioni più quella proposta dagli autori. ATTI INDIRETTI COME FORME IDIOMATICHE Questa prima teoria indica come gli atti illocutori indiretti siano da considerarsi forme idiomatiche per intendere qualcosa (es. catturare lo sguardo – non si intende catturare in senso letterale ma figurato). La falla di questa teoria sta nel fatto che esistono infiniti modi diversi per intendere qualcosa in maniera indiretta e non uno solo. Una vera forma idiomatica, invece, deve essere appresa e condivisa da una determinata cultura con piccolissime variazioni letterali. La seconda obiezione è che gli atti illocutori indiretti possono talvolta essere usati con il loro significato letterale. Sai che ore sono? – non mettermi fretta! – no, mi si è fermato l’orologio. Le normai forme idiomatiche non hanno senso nel loro significato letterale (es. non ha senso chiedere cove vengono conservati gli sguardi rubati. Questa teoria risulta inadeguata. ATTI LINGUISTICI INDIRETTI RISOLTI PER INFERENZA Questa teoria parte dal presupposto che la comprensione di un enunciato indiretto parta dal fallimento della comprensione letterale. Nella frase puoi passarmi il sale?, l’ascoltatore da per scontato che A sappia che lui è perfettamente in grado di passargli il sale (la comprensione letterale fallisce) e quindi inferisce che il suo era un modo cortese di comunicare la sua richiesta del sale. La falla della teoria è rappresentata dal fatto che i bambini siano in gradi di usare forme indirette già a 3 anni di età, molto prima quindi di riuscire a fare questo tipo di inferenze logiche (7-8 anni). ATTI LINGUISTICI INDIRETTI RISOLTI CON L’ANALISI DEL CONTESTO Questa teoria dice che l’ascoltatore salta l’analisi letterale della frase, sfruttando il contesto per la comprensione. Eliminare la forza letterale delle frasi pare però una mossa troppo assoluta. Ipotizziamo che l’ascoltatore B sbagli ad intendere il significato della frase detta da A (Sai che ore sono? – interpretata come un segnare di ritardo); dopo la spiegazione, B si scusa dicendo scusami ma i ricevimenti mi mettono ansia. Le scuse non avrebbero senso se B non avesse estrapolato sia il significato letterale della frase che la sua inferenza. ATTI LINGUISTICI INDIRETTI CONVENZIONALI E NON CONVENZIONALI In questa teoria, gli atti illocutori indiretti vengono divisi in convenzionali e non convenzionali. I primi, per essere intesi, si servono dell’analisi del contesto; per i secondi invece sono necessarie inferenze logiche. ATTI LINGUISTICI INDIRETTI SEMPLICI E COMPLESSI Per la pragmatica cognitiva il punto chiave per il partner B è quello di riconoscere l’apertura comportamentale di A, la sua intenzione a comunicare, in qualunque modo essa venga espressa. Per questo motivo non c’è differente difficoltà nell’intendere atti diretti o indiretti. Occorre operare una differenziazione tra atti indiretti semplici e complessi. I primi sono quelli che rimandano direttamente l’interlocutore al gioco che si sta giocando e di cui l’enunciato stesso rappresenta una mossa. I secondi sono quelli che, per essere compresi, necessitano di una serie di inferenze al fine di attribuire all’enunciato il valore di mossa del gioco. L’idea è che il significato letterale sia comunque il punto di partenza ma esso non è ovviamente mai sufficiente. Secondo molti autori, l’utilità di atti illocutori indiretti sarebbe uno dei modi per formulare enunciati di cortesia, evitando qualsiasi imposizione. Questa intuizione però risulta strettamente legata all’ambito culturale, dato che in cinese, ad esempio, l’enunciato di cortesia è composto da un’iniziale lode da parte dei parlante verso l’ascoltatore e l’esaltazione delle sue abilità tu che tutto puoi, passami il sale. Fase 3 – effetto comunicativo Sono considerati come pertinenti alla comunicazione, solo quegli aspetti apertamente intesi; in particolare B deve accettare di giocare al gioco proposto da A. Si dice effetto comunicativo l’insieme degli stati mentali acquisiti o modificati in seguito alla comunicazione e che possono essere associati alla comunicazione con rapporto causale. L’effetto però, a differenza della fase precedente, non si basa sulla conoscenza condivisa, bensì sulle intenzioni private di chi ascolta. Ipotizziamo che A chieda un prestito a B: B, tramite la conoscenza condivisa con A sa esattamente cosa A voleva comunicargli, ma sta solo a lui se avallare la richiesta. Di conseguenza, la richiesta dovrà essere formulata tenendo conto delle motivazioni dell’ascoltante: si può chiedere un prestito con aria di ricatto, sfida, ordine, gentilezza e sta al parlante scegliere la strategia che lui pensi sia più efficace con B. Occorre distinguere tra due processi in questa fase: • Attribuzione, ovvero gli stati mentali che il partner B attribuisce all’attore A • Aggiustamento, ovvero gli stati mentali di B che si modificano in base all’enunciato di A. Le modifiche avvengono in base alle intenzioni comunicative attribuite all’attore, in base agli stati mentali privati (credenze) e in base agli stati mentali attribuiti al parlante (sincero o no?). Prima che si attivi una reazione è necessario che vengano soddisfatte le tre sottocomponenti della metaregola: • I due agenti devono accettare di partecipare allo stesso gioco comportamentale. Questo si basa sia sull’attribuire stati mentali all’altro (attribuire al parlante l’intenzione di voler davvero giocare al gioco) e sia sulle credenze sul mondo (se il gioco e valido – se i due possono giocarci ricoprendo i rispettivi ruoli) • Che il partner esegua una particolare azione Per concludere non è la cortesia a rendere un dialogo tale e neanche il rispetto dei turni (abbiamo visto che anche se si infrange questa regola la comunicazione è in atto). L’ipotesi del libro è che l’unica prerogativa per rendere un dialogo tale è l’intenzionalità a comunicare. Per esempio in un litigio, che rappresenta una delle forme più discontinue di dialogo, anche il silenzio è comunicativo; la comunicazione è interrotta solo se uno dei due attori se ne va, riattacca il telefono o non risponde a una lettera, ovvero solo quando manca da parte di uno dei due l’intenzionalità a comunicare. Fase 5 – la risposta La fase di risposta ha in input le intenzioni comunicative intrinseche alla fase di reazione. Così come la comprensione è costituita da due fasi (comprensione dell’atto e comprensione del significato inteso dal parlante), anche la risposta è scindibile in due sotto-processi. Nella prima fase c’è la pianificazione delle espressioni degli stati mentali in relazione alle intenzioni comunicative, nella seconda c’è la realizzazione di tali stati mentali attraverso atti comportamentali linguistici ed extra linguistici. La risposta può essere preferenziale o meno preferenziale a seconda di quale risposta è socialmente preferibile. In linea di massima, accettazione e consenso sono le risposte più socialmente preferibili e il rifiuto è meno preferenziale. L’interlocutore sa quando sta per pronunciare una risposta meno preferenziale e può mettere in atto delle strategie per ammorbidire tale rifiuto: • Ritardo, ritardare la risposta attraverso sequenza introduttive (Se proprio devo rispondere – lascia prima che ti spieghi una cosa…); • Indicazione di azione meno preferita, l’zione viene introdotta marcandola come non preferita (speravo di non doverlo dire ma…) talvolta inserendo particelle pragmatiche specifiche (oddio, mah, bah) o accompagnando il tutto da smorfie facciali o gesti; • Uno di atti linguistici indiretti, per ammorbidire la risposta (non credo di poterlo fare, ci rifletta ancora un po’); • Giustificazione, il motivo della scelta della risposta meno preferenziale è spiegato all’attore (purtroppo non possiamo accettare, le bambine sono sole a casa) Motivazione La motivazione è un generatore di intenzioni, ovvero se attivato da determinate circostanze, provoca intenzioni adeguate. (es. motivazione ad alimentarsi -> in determinate condizioni di disequilibrio omeostatico genera l’intenzione adeguata -> comportamento di ricerca del cibo). il comportamento cambia se le condizioni sono vago desiderio di cibo oppure compulsione di mangiare che azzera le altre possibili attività da svolgere. Nel caso della comunicazione, la motivazione di almeno uno dei due interlocutori deve essere quella di giocare a un gioco. Per chiarire i meccanismi motivazionali abbiamo bisogno di una buona teoria dei desideri. Sono i desideri che determinano l’agire umano molto più delle credenze. Nel momento in cui A propone un gioco a B da giocare, deve tener conto di alcuni punti chiave: a. Il gioco G è valido b. B è in grado di giocare il gioco G c. B considera A come un partner valido per giocare a G d. Lo stato interno di B è compatibile col gioco G Solo a questo punto, soddisfando questi pre-requisiti, in B si attiverà la motivazione a giocare a G. Delle volte il gioco ricopre un ruolo primario nella motivazione (in un torneo di tennis, non importa chi sarà l’avversario), altre volte sarà la relazione primaria (per mia madre farei di tutto). 5. Comunicazione non standard Tutto ciò che è stato appena detto rientra in quella che può essere definita comunicazione standard che segue delle regole di default. Le comunicazioni non standard sono invece: • Interazione non espressiva, in cui l’uso di un enunciato non esprime lo stato mentale associato; • Sfruttamento, ottenere un effetto comunicativo diverso da quello che normalmente si ottiene con quella regola comunicativa (es. ironia) • Fallimento, ovvero il mancato raggiungimento dell’effetto desiderato; • Inganno, in tentativo di comunicare uno stato mentale non esperito. Il distacco dalla versione standard della comunicazione può avvenire per due eventi: perché lo vuole l’attore o perché il tutto avviene nella mente del partner. Dall’intenzionalità dell’attore nascono interazione non espressiva o sfruttamento. Il fallimento avviene perché l’attore non segue la catena inferenziale quando avrebbe dovuto o perché la segue quando non avrebbe dovuto, mentre quando l’attore finge i suoi stati mentali per il raggiungimento di obiettivi privati siamo di fronte all’inganno. Il concetto di comunicazione non standard dona inoltre validità all’intera pragmatica cognitiva in quando ciascun modello non standard non rispetta il senso di una fase della comunicazione standard. • Nell’interazione non espressiva, c’è violazione delle regole della comprensione dell’atto espressivo; • Nello sfruttamento, c’è violazione delle regole del significato inteso dal parlante; In questi primi due casi l’attore deve assicurarsi che il partner segua la via non standard, altrimenti ci sarebbe fallimento. • Nell’inganno, c’è violazione delle regole dell’effetto comunicativo. Non c’è nessun errore infatti per quanto riguarda la fase di comprensione, ma l’inganno è realizzato a livello della discrepanza della comunicazione e gli stati interni non corrispondenti dell’attore. In quest’ultimo caso il fallimento non è dovuto ad un errore del partner ma dal fatto che egli ha attribuito correttamente gli stati mentali all’attore, piuttosto che inferire gli stati mentali che egli voleva comunicare. Così come avviene nella comunicazione standard, anche nella comunicazione standar occorre distinguere, all’interno degli atti comunicativi indiretti, quelli semplici (in cui il passaggio da enunciato a gioco comportamentale si realizza in una sola mossa) simulazione di comunicazione si evita l’estremo traumatico di rifiutarsi di comunicare. Anche qui come nell’ironia non cambiano le regole del dialogo, bensì cambia l’uso che se ne fa; le similitudini però finiscono qui, perché nel come-se non interessa la relazione tra significato letterale ed espresso ma interessa semplicemente l’atto di comunicare. Le differenze con l’ironia sono ancora più evidenti quando avviene un fallimento comunicativo. Come detto l’ironia fallisce se ciò che viene dato per condiviso non lo è o non è prontamente recuperato; in questo caso basta esplicitare le proprie intenzioni anche se ormai il senso umoristico e divertente dell’enunciato risulta perduto. Nel caso delle situazioni come-se l’attore non può tornare sui suoi passi se l’interazione è intesa come reale dal partner; deve continuare a dare per scontato che le sue precedenti credenze fossero vere. 3. Fallimento Esistono due tipi di fallimento: • Il fallimento rispetto alla meta dell’agente • Il fallimento comunicativo A ha una meta M, raggiungibile con l’aiuto di B. Se M è raggiunta, possiamo supporre che A ha ricevuto l’aiuto di B. Se M non viene raggiunta possiamo supporre i due tipi di fallimento sopra elencati: il fallimento può essere indipendente dalla relazione tra A e B (A chiede a B di accendere la luce ma non c’è corrente), oppure si può trattare di fallimento comunicativo (A chiede a B di accendere la luce ma B si rifiuta). In questa sede ci occuperemo esclusivamente dei fallimenti comunicativi. Tra tutte le possibilità di fallimento, il rifiuto è dal punto di vista psicologico il più importante. Nel momento in cui avviene un rifiuto si aprono diversi scenari: A che ha proposto un gioco a B vede la sua proposta rifiutata, e a questo punto può rinegoziare la proposta per renderla più accettabile da B, può supportare in qualche modo la propria richiesta o ancora può accettare il fallimento e abbandonare il progetto. Quando il fallimento entra nella conoscenza condivisa di entrambi gli attori si parla di fallimento condiviso. Se uno dei due agenti non ritiene sia avvenuto un fallimento non si può parlare di fallimento condiviso, anche se è innegabile che c’è stato un insuccesso comunicativo. Il fallimento comunicativo è quindi il tentativo fallito di produrre un effetto sul partner comunicativo. Il fallimento può avvenire in ciascuna delle tre fasi comunicative, quindi sia nella fase 1 – significato letterale, sia nella fase 2 – significato inteso dal parlante e sia nella fase 3 – effetto comunicativo sul partner. Abbiamo vari tipi di fallimento: • Incomprensione, la catena inferenziale della comunicazione si interrompe subito in quanto B non ha capito ciò che A ha detto. Il fallimento è chiaro a B in quanto lui stesso andrà a chiedere chiarimenti all’attore A. • Fraintendimento, la catena inferenziale giunge alla seconda fase ma ciò che comprende B non è quello che intendeva dire A. In questo caso il fallimento non è chiaro, ma opaco per B che è inconsapevole di non aver capito cosa ha detto A. • Rifiuto, B capisce ciò che A aveva da dirgli ma non vi si adegua. In questo caso il fallimento è trasparente poiché la decisione di non giocare al gioco è presa da B in maniera consapevole. Supponendo che le regole vengano usate di default e correttamente tra i due attori, il motivo del fallimento andrà ricercato nella diversa rappresentazione che gli attori hanno di tali regole. Quando A e B decidono di giocare ad un certo gioco comportamentale partono dal presupposto che la rappresentazione degli eventi sia uguale per entrambi; può però succedere che non sia così e che quindi, cambiando il livello di rappresentazione emerga il disaccordo. Fraintendimento e rifiuto avvengono quindi secondo tre modalità: a. Una regola è applicata per default in contrasto con le intenzioni dell’attore; b. Una regola non è applicata per default in contrasto con le intenzioni dell’attore; c. A e B hanno rappresentazioni diverse rispetto a quelle che pensavano che il partner usasse. Fallimenti letterali A seconda del livello in cui avviene un fallimento se ne identificano vari tipi. Il primo è il fallimento letterale che avviene al primo livello della comunicazione. Possiamo avere due tipi di fallimento: uno in cui B non capisce ciò che A ha detto (incomprensione dell’atto espressivo), e un altro in cui B capisce altro rispetto a ciò che A ha detto (fraintendimento dell’atto espressivo). 1. Incomprensione dell’atto espressivo. Si divide in altre due tipologie. • Gioco conversazionale inattivo. Il messaggio che A vuole recapitare a B non è neppure ricevuto; tra i due la conversazione non inizia mai e B non se ne accorge (voce di A coperta da rumori, lettera con indirizzo sbagliato…). A potrebbe interpretare la mancata risposta di B come un’informazione di disinteresse. • Gioco conversazionale attivo. In questo caso il gioco conversazionale è attivato; B si accorge che A intende comunicargli qualcosa ma per un qualsiasi motivo non capisce cosa. Il vantaggio che B ha in questo caso è che può rendere A partecipe del fallimento comunicativo. 2. Fraintendimento dell’atto espressivo. In questo caso non c’è a parte di B consapevolezza di errore. Le incomprensioni emergeranno nel proseguo dell’interazione. • Errata applicazione di una regola di default. Avviene quando un atto non espressivo viene inteso come tale (magari perché il parlante sta leggendo ad alta voce un libro). • Errato blocco di una regola di default. Rappresenta il fallimento speculare a ciò che è stato detto prima. Un atto espressivo viene considerato come non espressivo (ad esempio quando A cita una frase di C e poi aggiunge un suo commento, erroneamente interpretato da B come prodotto da C e non da A). • Differenze utilizzazione di una conoscenza. Il fraintendimento maggiormente diffuso è quando B, non capisce bene ciò che ha detto A è completa ciò che non ha sentito con la sua fantasia. Fallimenti di significato Avvengono quando c’è un’errata comprensione delle intenzioni del parlante da parte di chi ascolta. 1. Incomprensione del significato del parlante. Pur capendo letteralmente l’enunciato, B non riesce a capire cosa ha voluto dirgli A usando proprio quell’enunciato. Abbiamo un fallimento di questo tipo ogni qual volta B sente una frase e la interpreta letteralmente in maniera corretta ma non riesce a capire di quale gioco sia la mossa. Dato che siamo già alla seconda fase della comunicazione, l’interazione è attiva e per B il fallimento sarà consapevole; starà a lui chiedere ad A chiarimenti (cosa volevi dirmi? Mi sfugge il senso della tua frase. Cosa vuoi che io faccia?). 2. Fraintendimento del significato del parlante. In questo caso, B capisce perfettamente il significato letterale di ciò che A ha detto, ma interpreta il senso della frase in maniera diversa dalle aspettative di A. Anche in questo caso come nel precedente abbiamo tre casi: • Errata applicazione di una regola di default. In questo caso B applica una regola base la dove non va applicata: non coglie uno sfruttamento. Ad esempio non coglie l’ironia di una frase e risponde come se quella frase fosse standard. • Errato blocco di una regola per default. In questo caso invece B blocca l’applicazione di una regola di default interpretandola come non standard. (bella partita! - Ma mi stai prendendo in giro? Ho perso al quinto set!). in un altro caso si può cogliere uno sfruttamento ma semplicemente sbagliarne il tipo, come non cogliere l’ironia ma al suo posto cogliere il come se Un gioco si definisce regolare quando entrambi gli agenti si impegnano alla correttezza e alla sincerità. In caso di scorrettezze varie, il gioco non sarà più regolamentare e si avrà una rottura. Può succedere però che la rottura non sia pianificata; in questo caso è inappropriato parlare di inganno (Giulia sta per pagare alla cassa del supermercato, quando si accorge di non avere il portafogli che le è stato appena rubato – non c’è inganno e Giulia non è una truffatrice). Giochi irregolari Sono giochi in cui è concordato che gli stati mentali privati ed espressi possano non coincidere. È il caso della negoziazione tra compratore e venditore o nella trattativa tra due avvocati divorzisti. Un’azione non sincera o non corretta è ammessa senza che vi sia rottura del gioco e inganno. Anche in questo caso però possono esserci delle violazioni; le scorrettezze sono ammesse solo nel caso in cui entrambi ne siano consapevoli. Giochi di facciata Sono i giochi comportamentali in cui semplicemente è irrilevante che lo stato mentale del parlante corrisponda a quello espresso. Frasi di cortesia che seguono il come-se rientrano in questa categoria (Complimenti bella casa! – sarà visto come un complimento a prescindere dal fatto che chi lo dice lo pensi o no). Secondo Perner l’inganno consiste nel modificare gli stati mentali del partner al fine di ottenere dei vantaggi personali. Egli però esclude dalla categoria inganni, quelle che definisce bugie primitive: sono quelle frasi che servono ad evitare conseguenze spiecevoli più che a modificare gli stati mentali dell’altro (Chi ha sporcato il muro? – Non sono stato io!). Le bugie primitive emergono già intorno al primo anno di età. Ritornando alla differenza tra atti linguistici semplici e complessi, anche gli inganni seguono la medesima differenziazione, sempre a seconda del numero di inferenze necessarie a risalire a p. Secondo Bara, Bosco e Bucciarelli, gli inganni hanno diversi gradi di complessità. Per inganni semplici si intendono quelli in cui si dichiara non p pur avendo una conoscenza privata p. comunemente questi inganni sono chiamati bugie. Per inganni complessi si intendono quegli inganni in cui si dichiara q che implica una credenza p, pur essendo lo stato mentale privato di A, non p. Nel momento in cui un inganno è scoperto, il partner ha due possibilità: denunciare o fare finta di niente, eventualmente per pianificare un contro-inganno. 6. Competenza comunicativa In questo capitolo si prenderà in considerazione il lato evoluzionistico della comunicazione, sia dal punto di vista darwiniano e sia per quanto riguarda l’emergere nell’età evolutiva di questa capacità e la sua decadenza, in età geriatrica o per via di traumi al SNC. Con il termine competenza si intendono le capacità di un sistema, indipendentemente da come queste capacità vengono utilizzate. La prestazione indica la performance comportamentale di quella competenza. All’interno di questo discorso occorre parlare della maturazione di un dato sistema. Un bambino appena nato non potrà mai avere una prestazione di corsa, ma sicuramente ne ha le competenze. In conclusione, solo la presenza di una prestazione da certezza di una competenza. La sua assenza invece non significa nulla: quella competenza potrebbe esserci come non esserci. La teoria della pragmatica cognitive, come qualsiasi teoria psicologica, deve: • Essere coerente con l’evoluzione dell’uomo; • Non deve solo spiegare i fenomeni sotto indagine ma deve anche spiegare la costruzione progressiva dei fenomeni stessi; • Partendo dal presupposto che le nostre sono menti biologiche, occorre correlare i processi mentali con le funzioni cerebrali. 1. Evoluzione della competenza comunicativa Secondo la psicologia evoluzionistica, ciascuna componente della mente è stata modellata dalla selezione naturale. Per lo studio evoluzionistico della mente, bisogna immaginare un Homo che viveva in un ambiente decisamente diverso da quello in cui vive ora. La società civilizzata ha avuto inizio da circa 4000 anni, da quando cioè abbiamo inventato la scrittura, ma l’attuale versione di Homo sapiens è in circolazione sul nostro pianeta da 200 000 anni; in principio quindi, la mente umana, si è sviluppata come dicevamo in un ambiente diverso, in un ambiente di cacciatori- raccoglitori fatto di gruppi sociali che andavano dalle 30 alle 200 persone massimo. La capacità sociale di una specie è predittiva della sua capacità comunicativa; ogni specie sessuata, per permettere la procreazione, ha bisogno di un qualche tipo di comunicazione. In assenza di una complicata società, una comunicazione complessa non fornisce nessun vantaggio rispetto ad una comunicazione semplice utile solo alla procreazione. Sistema rigido di interazione In questa tipologia di comunicazione, esistente in tutte le specie animali dai livelli più bassi fino ai mammiferi inferiori, ogni segnale comunicativo ha un solo significato. Ogni segnale è precostruito geneticamente senza possibilità di innovazione e cambiamento e senza possibilità di combinare segnali tra loro per dare vita a frasi sempre nuovi e diversi. In queto modo il sistema appare chiuso e rigido. Sistema semirigido di interazione Tipico dei mammiferi superiori, questo sistema presenta la possibilità che un numero, seppur limitato di significati, possa essere combinato rigidamente tra loro per creare un significato composto. Un branco di lupi ad esempio ha bisogno di lupi alfa (veloci e inseguitori) lupi beta (potenti ed uccisori) e quindi ha bisogno di una rappresentazione di predatore, uccisore unite ai concetti di uccisore e inseguitore al fine che ciascun elemento del branco sappia il proprio ed il ruolo degli altri. I primati antropomorfi realizzano il decisivo salto di qualità rispetto a tutti gli altri mammiferi in ambito comunicazionale. Ma il tutto non porta ancora alla comparsa del linguaggio. Sistema aperto di comunicazione È un sistema, proprio degli esseri umani, in cui i significati elementari sono infiniti, così come infinito è il numero possibile di combinazioni e quindi di messaggi significativi. Comunicazione comparata Per parlare, non è solo necessario un adeguato sistema fonetico, ma anche un adeguato sistema uditivo. Secondo la ricostruzione di Crelin, già l’Homo abilis possedeva le capacità fonetiche necessarie a produrre alcune vocali e per produrre suoni ben distinti tra di loro. L’apparato umano permette di produrre suoni poco nasalizzati, e di conseguenza più netti e meno fraintendibili percettivamente. Già questo è sufficiente agli ominidi per intraprendere la via del linguaggio preclusa a tutti gli altri primati; a questo si aggiunge il fatto che il peculiare apparato degli ominidi permette l’emissione di consonanti, utili per ampliare di gran lunga le possibili produzioni linguistiche (le produzioni foniche dei primati non umani si basa solo sulle vocali). Il modo in cui le scimmie mantengono i rapporti sociali è principalmente costituito dal social grooming – spulciarsi, grattarsi. Questo in gruppi sociali più ampi non sarebbe sufficiente, poiché impiegherebbe gran parte della giornata; è grazie al linguaggio che sono stati mantenuti i legami sociali in gruppi decisamente più ampi. Il linguaggio ha avuto dunque una funzione sociale importantissima, non solo per comunicare circa il mondo, ma anche circa gli individui e le relazioni tra individui. Ma il linguaggio non è semplicemente una questione fonologica, ciò che occorre è una competenza cerebrale ed un area specifica. È ancora l’Homo habilis a dimostrare uno sviluppo cerebrale adatto al linguaggio: 700cc contro i 450cc dei precedenti australopitechi. Lo sviluppo delle aree frontali e parietali fu probabilmente microarchitettura, dunque la quantità neuronale. Ma come detto aggiungere una parte di cervello non significa fare un’addizione ma una moltiplicazione in quanto il cervello si riorganizza. Secondo il nuovo calcolo, l’uomo moderno risulta avere una capacità intellettiva circa 200 volte superiore a quella di uno scimpanzè. Non solo abbiamo un cervello grande rispetto alla nostra taglia, ma abbiamo soprattutto siluppato la capacità di sfruttarlo al meglio; esso si è man mano riorganizzato in maniera sempre più efficace permettendo l’emergere della cognizione e della comunicazione. Lo sviluppo cerebrale Il cervello umano alla nascita del bambino è decisamente meno maturo in confronto agli altri primati ma rimani per qualche anno straordinariamente plastico. Tra i 16 e i 24 mesi si nota un incredibile aumento di sinapsi entro e tra le regioni corticali. Dai 4 anni in poi il processo si arresta ed anzi vi è una regressione con morte neuronale e restringimento assonale. La grande produzione (sovraproduzione) di assoni è funzionale alla plasticità cerebrale: essi connettono un grande numero di obiettivi potenziali durante le prime fasi della crescita ma solo quelle efficaci sopravviverà. Utile può essere la metafora della scultura: il cervello attraverso questo processo elimina le parti in eccesso per una sua maggiore funzionalità. Evoluzione del linguaggio Diverse ipotesi: • Ipotesi della continuità linguistica. Il primo fautore di questa teoria lo possiamo considerare Piaget (nonostante lui non ne parli dal punto di vista filogenetico ma ontogenetico). La capacità linguistica sarebbe l’evoluzione della capacità comunicativa extralinguistica. Per lui il precursore del linguaggio è il sistema motorio; le critiche di Chomsky furono aspre, in quanto lui fece giustamente notare che bambini tetraplegici non mostrano deficit selettivi del linguaggio. • Ipotesi della discontinuità linguistica. È Chomsky il più radicale sostenitore di questa teoria. Per lui al linguaggio non è applicabile la logica darwiniana; il linguaggio non si è affatto evoluto né sarebbe comparso in maniera finalizzata. La critica di Pinker risiede nel fatto che l’evoluzione non ha bisogno di grandi vantaggi, ma anche piccoli vantaggi sono utili a migliorare la possibilità di produzione individuale. Il protolinguaggio rappresenterebbe quell’anello di congiunzione negato da Chomsky: un esempio di esso è il pidgin, quel linguaggio più associativo che comunicativo possibile tra due persone che non parlano la stessa lingua. • Ipotesi della continuità extralinguistica e della discontinuità linguistica. Questa teoria preserva alcuni assunti di Chomsky senza però rinunciare al ruolo delle competenze extralinguistiche possedute dai primati non umani. Burling osserva come la comunicazione dei primati possiede molti punti in comune con la comunicazione extrainguistica degli umani: a. Gradualità del segnale, da un sorriso si passa a una smorfia con continuità, a differenza del linguaggio che è caratterizzato da contrasti; b. Scarso bisogno di apprendimento, si impara quando sorridere ma come si sorride è un’abilità innata; c. Capacità informativa, gli atti extralinguistici sono utilissimi a comunicare emozioni e volizione, scarsi a comunicare credenze sul mondo. Il linguaggio, all’opposto è scarsamente efficace nel comunicare emozioni e volizioni ma molto efficace ad esprimere credenze sul mondo. d. Controllo volontario incompleto, risulta difficile fingere un atto extralinguistico (fingere di sorrdere); e. Mancanza di produttività, non si può affermare che un sorriso sia stato prodotto per la prima volta, come un atto linguistico che invece può essere sempre nuovo e originale; f. Impossibilità di dislocazione, un atto extralinguistico non può riferirsi a eventi lontani nel tempo, ma solo a condizioni nel qui ed ora. In questa teoria si suppone la continuità tra comunicazione animale e comunicazione umana extralinguistica ma comunque si riferisce una discontinuità per quanto riguarda il linguaggio propriamente detto. • Ipotesi della discontinuità cognitiva, secondo Bara è la neocorteccia a decretare l’insanabile differenza cognitiva tra primati ed ominidi ed è qui che va ricercata la nascita del linguaggio. Ciò che sfugge a Burling è che gli ominidi hanno una tale capacità cognitiva per cui nulla è più lo stesso; non possono esserci legami di continuità neanche col più intelligente dei bonobo. Riguardo al linguaggio possiamo ipotizzare una qualche mutazione genetica grazie alla quale un ominide ha cominciato a sviluppare capacità linguistiche; ma mentre per Chomsky questa mutazione genetica non è finalizzata, secondo Bara la mutazione iniziale porta ad un protolinguaggio orientato principalmente, anche se non esclusivamente alla comunicazione. La finalità del linguaggio sarà poi quella di potenziare la memoria e soprattutto il pensiero (e viceversa). In sostanza dal punto di vista evolutivo è il potenziamento delle strutture cognitive a permettere l’emergere del linguaggio: da un lato lo sviluppo della neocorteccia permette di specializzare un’area nella comunicazione, dall’altro la plasticità cerebrale permette l’emergere delle capacità linguistiche bilanciandole con quelle preesistenti extralinguistiche, già di per sé interattive. In sintesi, l’emergere di un protolinguaggio negli ominidi si spiega con una mutazione genetica che rappresenta un salto evolutivo notevole. Il premio evolutivo rappresentato dalle migliori capacità interattive permette al linguaggio di inserirsi nel pool genetico. Si ha che la comunicazione, fino a quel momento solo extralinguistica, migliori con il protolinguaggio e che il protolinguaggio migliori per le esigenze comunicative degli ominidi. Il punto chiave dell’analisi di Bara è che le aree deputate al linguaggio nell’uomo non hanno nessuna corrispondenza nei primati: possiamo dire di condividere con loro e con altri mammiferi delle capacità di interazione sociale, ma la nostra potenzialità cognitiva ci ha permesso di sviluppare una capacità extralinguistica superiore ed una capacità linguistica, unica tra le specie. Un passo successivo è poi dato dalla cognizione esterna che permette il tramandarsi del sapere tra le generazioni. I tre step saranno quindi: a. Sviluppo cognitivo b. Compara del protolinguaggio c. Scrittura, con la sua natura di permanenza che da il via alla civiltà. Il gioco nell’evoluzione Quando possono essere emersi i giochi comportamentali così come li abbiamo definiti fino ad ora? I giochi si basano sugli atti illocutori commissivi per cui un agente si impegna ad effettuare una determinata azione. Per fare ciò bisogna avere chiaro il concetto di tempo presente, passato e futuro. Qualunque forma di baratto ha bisogno di dislocazioni temporali: A costruisce una lancia per B, e B promette un pezzo di carne ad A. per fare ciò è necessario che si sviluppi il linguaggio simbolico, ovvero dall’Homo sapiens in poi. Inoltre, affinchè si costituisca un gioco comportamentale sono necessari dei patti sociali che per i primi ominidi riguardavano esclusivamente sessualità, cibo e protezione dei piccoli. Il maschio A, promette sussistenza alla femmina B e ai figli, in cambio della fedeltà; A sarà disposto a crescere solo i suoi figli poiché il suo obiettivo è la trasmissione del corredo genetico. Questo tipo di patto sociale dovrà avere una lunga durata, almeno finché i bambini non siano capaci di badare da soli alla loro sussistenza. La fiducia nei confronti degli altri è fondamentale per creare rapporti a lungo termine e quindi gruppi sociali stabili. 2. L’emergere della competenza comunicativa Come precedentemente detto, la competenza si distingue dalla performance; questa differenza però risulta meno netta se prendiamo in considerazione un cervello in sviluppo dato che a un bambino di sei mesi, seppur non parli, non si può non • Il bambino usa l’adulto come mezzo per il suo scopo, ad esempio tirando la mano dell’adulto che ha un giocattolo in mano o usando l’adulto per arrampicarsi e raggiungere un oggetto distante- Il bambino ha intenzioni. • Il bambino usa l’adulto come agente per il suo scopo, lo tratta come una persona capace di fargli raggiungere i suoi scopi (ad esempio mettendogli nelle mani un giocattolo meccanico per azionarlo e farlo funzionare). In questo caso il bambino ha delle aspettative sull’efficacia degli strumenti e sull’efficacia degli altri esseri umani nel padroneggiarli. • Il bambino usa l’oggetto per attirare l’attenzione dell’adulto, il che presuppone la piena intenzione comunicativa, dato che intende modificare lo stato interno del partner comunicativo (ad esempio indicando la finestra finché l’adulto non si gira a guardarla. Conoscenza condivisa Anche la conoscenza condivisa va considerata innata in quanto se così non fosse il bambino non potrebbe padroneggiarla prima dei 12 anni, quando la memoria di lavoro è abbastanza potente da reggere la lunga serie di incassamenti (A crede che B crede che A crede… - vedi cap 2, credenza condivisa). Teoria della mente Molti psicologi evolutivi sono ormai concordi nel ritenere la capacità dei bambini di discriminare tra entità biologiche e non biologiche innata. Oltre questa abilità sarebbe innata anche la ToM, ovvero la capacità di attribuire agli altri emozioni, credenze e desideri. Attraverso il false belief task si nota come bambini sotto i tre anni attribuiscano agli altri la loro stessa credenza; verso i 4 anni i bambini capiscono che gli altri hanno credenze diverse da loro (dove cercherà Sally la pallina precedentemente nascosta nella scatola A, dopo che Ann l’ha spostata nella scatola B mentre Selly era via?). senza la ToM per un essere umano è impossibile capire ironia e inganno (mancata corrispondenza tra stati privati e stati condivisi) ma è impossibile intendere la comunicazione propriamente detta (modificare gli stati mentali degli altri). Per Bosco e Tirassa i bambini riescono a comunicare anche prima di possedere pienamente la ToM poiché prima di tale età sono convinti che gli stati mentali siano condivisi e non privati; la comunicazione è possibile grazie alla capacità innata di condividere con gli altri i propri stati mentali. Lo step successivo sarà appunto quello di attribuire agli altri stati mentali diversi dai propri. Cooperazione Alcuni elementi della cooperazione appaiono innati: per esempio il rispetto dei turni nel gioco del cucù, già all’età di 9 mesi. Come già detto i bambini attraversano due fasi di cooperazione, la prima in cui usano l’adulto come strumento, la seconda in cui usano l’adulto come partner. Dai 6 ai 18 mesi il bambino pone delle richieste all’adulto; dopo i 18 mesi lo comincia a considerare come agente volontario, motivando le sue richieste ed accettando i rifiuti (poiché può attribuire all’adulto stati mentali diversi dal suo). Dipendenza dal contesto I giochi comportamentali sono il modo in cui il bambino viene messo a conoscenza della cultura in cui è immerso. Già all’età di 18 mesi il bambino dimostra di essere capace di padroneggiare i vari contesti entro cui è immerso (es. bisbigliare per non farsi sentire). Fin dalla tenerissima età il bambino e le sue figure di accudimento realizzano delle protoconversazioni (es. bambino ride, mamma gli risponde, bambino sorride ancora). Trevarthen fa giustamente notare che queste prime conversazioni sono senza oggetto; dalle protoconversazioni si passa poi al baby talk ovvero il modo peculiare di parlare con i bambini, che presenta delle peculiari caratteristiche: • Modo di produzione, il baby talk è più lento e scandito; • Semplicità formale, il baby talk presenta frasi brevi e sintassi elementare; • Aspetti prosodici, intonazione enfatizzata; • Semplicità semantica e ridondanza, lessico ristretto e ripetizione di parole; • Funzione, presenza di molti direttivi (ordinare, chiedere) per controllare il comportamento del bimbo. Altra caratteristica è che i bambini piccoli (4 anni) mostrano un corretto uso del baby talk con i bambini più piccoli, con le dovute differenze individuali; nella comunicazione tra pari invece dimostrano una maggiore abilità nel dialogo, per certi versi sorprendente. Ciò dimostra una straordinaria adattabilità al contesto. È possibile affermare che i bambini non sono solo bambini, ma spesso entrano nel ruolo di bambini. Fasi di sviluppo La tesi generale di Bara della pragmatica, dice che un atto comunicativo può essere compreso solo nel momento in cui è interpretato come una mossa di un gioco comportamentale. Per questo, nell’analisi che stiamo facendo per quanto riguarda l’emergere della capacità comunicativa occorre parlare delle conoscenze disponibili per il bambino e del valore posseduto da una mossa di gioco. Conoscenze specifiche Se una mossa è utilizzata con termini sconosciuti al partner, la comunicazione fallirà. Comprendere prima ancora delle intenzioni, la semantica dell’enunciato è ovviamente di fondamentale importanza. Apprendimento di un gioco comportamentale L’ipotesi di partenza di Bara è che la comprensione di un atto comunicativo consista nel riuscire a ricondurlo ad un determinato gioco comportamentale; dunque prima di ogni altra cosa occorre apprendere un determinato gioco comportamentale e tutte le mosse che a quel gioco fanno riferimento. Valore di convenzionalità di una mossa Alcune mosse vengono utilizzate frequentemente in un gioco comportamentale e sono quindi facilmente associabili a quel gioco. Bara divide dunque mosse usuali per un gioco comportamentale (semplici, sia atti comunicativi diretti che indiretti) e mosse non usuali per un gioco comportamentale (complessi, che necessitano una serie di inferenze). Il neonato dunque non solo non conosce a livello lessicale e a livello di conoscenza del mondo, ma non conosce neanche i giochi comportamentali; farà dunque molta fatica nel comprendere gli enunciati, siano essi semplici che complessi. Una volta implementata la sua capacità linguistica e la sua conoscenza dei giochi comportamentali, il bambino assocerà sempre più facilmente una mossa ad un determinato gioco. D’ora in avanti un atto semplice sarà più semplice di uno complesso per quanto riguarda il risalire allo specifico gioco comportamentale. Conoscenza specifica, conoscenza del gioco e conoscenza della convenzionalità della mossa sono tutti elementi necessari alla comprensione linguistica. Sulla base di tutto questo, Bara, Bosco e Bucciarelli hanno formulato le seguenti ipotesi: 1. Differenti atti linguistici semplici hanno la medesima difficoltà di comprensione; 2. Gli atti comunicativi standard (sia semplici che complessi) sono più facili da comprendere rispetto ai non standard; 3. Esiste un gradiente di difficoltà che va dalla comprensione degli atti linguistici semplici, complessi (standard), ironia, inganno, pianificazione di inganno (non standard); 4. Esiste una correlazione tra svolgere compiti pragmatici e svolgere compiti di teoria della mente. Queste ipotesi sono state confermate da evidenze sperimentali. Studi rivelano come i bambini padroneggino gli inganni semplici (bugie) a tre anni; gli inganni complessi sono messi in atto a partire dai 7 anni. Per confermare che certi aspetti siano riferibili alla comunicazione in generale e non specificatamente al linguaggio, Bara, Geminiani e Bucciarelli, hanno portato i medesimi esperimenti sul piano extralinguistico: unica differenza trovata fu che, come ci si aspettava, l’ironia è di più difficile comprensione dell’inganno se portata sul piano extralinguistico (in sono più deficitari nelle prove equivalenti extralinguistiche, piuttosto che in quelle linguistiche. Lesioni emisferiche sinistre: afasia In questi pazienti il deficit è a basso livello, ovvero quello esecutivo di produzione delle parole. Gli autori sono concordi che loro sappiano cosa vogliono dire ma non ci riescono e che quindi la pragmatica sia preservata. La pragmatica dà poi una mano in ambito riabilitativo: secondo questa teoria infatti la riabilitazione dovrebbe consistere nel cercare canali alternativi a quello linguistico per la produzione di atti comunicativi (potenziamento delle abilità residue). Più recentemente però i terapisti della comunicazione si sono resi conto che in assenza del linguaggio l’abilità comunicativa risulta molto ridotta; trmite la riabilitazione cognitiva il linguaggio viene scomposto in sottocomponenti e si lavora si ciascuna di esse (es. rieducazione lessico fonologico). La al fine di migliorare l’intero percorso riabilitativo e far recuperare la stima di sé al paziente, è necessario potenziarne in primo luogo le abilità extralinguistiche, dato che come detto la pragmatica è conservata. Neuropragmatica evolutiva Per i bambini di circa un anno di età, la comprensione linguistica si basa su una soluzione multimodale che prevede non solo la sintassi e la semantica ma anche tono della voce, espressioni facciali, indizi situazionali; l’acquisizione del linguaggio satà dunque pregiudicata non solo da lesioni sinistre ma anche destre che intervengono nell’integrazione sensoriale di questi dati. Qualsiasi lesione entro i tre anni di età però, raramente pregiudica l’abilità linguistica dato che il cervello plastico è capace di riorganizzarsi e di ricollocare le aree del linguaggio. Autismo L’autismo è un disturbo pervasivo dello sviluppo che si diagnostica partendo da una triade di sintomi: • Deficit sociali • Decitit immaginativi • Decifit della comunicazione Le anomalie e i ritardi nello sviluppo della abilità linguistiche ed extralinguistiche sono varie: si va da bambini essenzialmente muti con limitate capacità extraloinguistici, a bambini ecolaliaci fino a bambini con competenze pragmatiche bizzarre. È proprio la difficoltà nel dominio della pragmatica ad essere una caratteristica fondamentale della sindrome. Dal punto di vista gestuale, i bambini autistici sembrano padroneggiare il gesto strumentale per indicare che vogliono qualcosa ma non padroneggiano il pointing, ovvero l’indicare qualcosa al fine di modificare lo stato mentale di un’altra persona. Tale difficoltà nasce dal neficit dell’attenzione condivisa che rallenta l’intero processo di sviluppo comunicativo: i bambini autistici gravi falliscono nel seguire lo sguardo di un'altra persona rivolto verso un oggetto terzo, falliscono cioè nell’inserimento di un argomento nella relazione tra madre e bambino che rimarrà diadica e non evolverà verso la triadica. Questo probabilmente frena lo sviluppo delle abilità comunicative. Baron-Cohen, Leslie e Frith ritengono che gran parte dei deficit dell’autismo facciano riferimento ad un’assenza della teoria della mente. Anche il non seguire lo sguardo della persona che hanno di fronte orientato verso un oggetto terzo sarebbe dovuto al fatto che non riescono ad attribuire uno stato mentale a quella persona. Secondo la teoria di Ozonoff, l’autismo Sarebbe caratterizzato da un deficit delle funzioni esecutive (pianificare i comportamenti finalizzati). Tutti i comportamenti connessi alle funzioni esecutive devono andare a buon fine, devono farsi guidare da elementi interni e contesto-dipendenti. Un ipotesi alternativa è quella attenzionale. I bambini autistici non avrebbero un qualche deficit primario (tant’è che spesso hanno un buon QI), ma il deficit attenzionale gli impedirebbe di sfruttare le loro capacità. Gerrans pensa che gli autistici non riescano a rappresentarsi simultaneamente le varie parti dell’informazione; la comunicazione fallirebbe per la difficoltà a tenere a mente contemporaneamente vari stati mentali. In uno studio di Bara, Bucciarelli e Colle si è cercato di alleggerire il carico attenzionale di bambini autistici durante compiti linguistici. In ambiente familiare (per favorire la compliance), sono stato somministrate frasi per iscritto a dei bambini autistici, lasciando loro tutto il tempo di cui avevano bisogno per decifrare gli enunciati. Le conclusioni sono sorprendenti in quanto tali soggetti non si distanziavano molto dai soggetti di controllo in questo particolare setting. La comprensione di atti linguistici diretti ed indiretti, comprese le forme non standard, risultava di ottimo livello ed in controtendenza con la letteratura. È stato dimostrato da questi studiosi come il deficit, più che a livello di competenze sia da ricercare a livello della prestazione, la quale è compromessa da altri elementi non puramente linguistico-pragmatici, come appunto, l’attenzione. 7. Pragmatica clinica Medicina – comunicazione terapeutica Si definisce comunicazione terapeutica quella comunicazione che accompagna interventi medici al fine di implementare l’efficacia di tali azioni. L’obiettivo del medico è quello di stabilire una cooperazione: non solo però una cooperazione conversazionale (quasi scontata) ma una cooperazione comportamentale. L’efficacia di qualsivoglia terapia non è data da quello che medico e paziente si dicono, ma dal fatto che entrambi giochino allo stesso gioco. Compliance terapeutica da un lato ed il meritarsi la fiducia del paziente dall’altro sono elementi fondamentali di un rapporto medico paziente che porti alla cooperazione per l’obiettivo comune: la guarigione. Se il paziente non si impegna a seguire la terapia (es. antibiotico per cinque giorni) e non debellerà per intero gli agenti batterici, il fallimento non sarà a livello di diagnosi o terapia, ma di comunicazione. Occorre poi concordare con il paziente i concetti di miglioramento e guarigione: il concetto di gamba guarita è diverso per un giocatore di calcio professionista ed una pensionata. Sono le ambizioni del paziente circa il suo miglioramento a definire il successo di una terapia e per questo vanno ben concordate. Esistono quattro diversi tipi di atteggiamento del medico nei confronti del paziente: • Stile comunicativo del modello paternalistico. L’interazione è caratterizzata da una presa di responsabilità totale del medico che definisce obiettivi e strategie. Il medico non tiene conto delle intenzioni del paziente e non è interessato a modificare la sua conoscenza. • Stile comunicativo del modello informativo. Qui il medico delega al paziente ed è quest’ultimo a stabilire le mete sulla base delle informazioni fornite dal medico, competente ma deresponsabilizzato. • Stile comunicativo del modello interpretativo. La meta e gli obiettivi sono concordati insieme da medico e paziente. Il medico mette in luce i valori del paziente che però non è detto che collabori; egli potrebbe semplicemente affidarsi al dottore. • Stile comunicativo del modello deliberativo. Medico e paziente cooperano a costruire il significato che la malattia ha per il paziente. L’intervento deve realizzare i valori del paziente che è membro attivo nell’esprimere e comprendere e il medico non esercita potere nell’interpretare i suoi valori. Il medico può persuadere ma mai imporre i suoi significati. Il limite di questa classificazione è che viene tenuto conto esclusivamente del punto di vista del medico, quando in realtà ogni paziente ha un modo diverso di impostare interpreta i primi vocalizzi comunicativi come messaggi rivolti a lei. L’obiettivo è quello di rendere comunicativi comportamenti che per il paziente erano totalmente privi di senso. • Effetti attesi. La ragione per cui l’attribuzione di significato è così importante risiede nel fatto che ad una maggiore consapevolezza corrispondano anche maggiori gradi di libertà. Va sottolineato che l’attribuzione del significato è diversa dall’estrazione di informazioni di cui abbiamo parlato all’inizio del libro; quest’ultima infatti non presenta una caratteristica fondamentale, ovvero la cooperazione. L’indice di condivisione Uno degli obiettivi di Bara è la creazione di uno strumento che consenta, attraverso la registrazione delle sedute, di individuare il momento in cui paziente e terapeuta raggiungono una conoscenza condivisa terapeutica. La psicoterapia è un processo duale in cui paziente e terapeuta costruiscono significati; la comunicazione, immergendosi nelle emozioni al fine di produrre un cambiamento profondo nel paziente, è il mezzo usato da tutte le psicoterapie. Attraverso la comunicazione poi si stabilisce quella che è l’alleanza terapeutica, imprescindibile per una buona riuscita dell’intervento. La psicoterapia è costituita da due flussi comunicativi che hanno direzioni inverse: il flusso di superficie (1) racchiude tutte le credenze, i desideri e le aspettative del paziente (i suoi significati), il flusso profondo (2) è invece formato da tutte quelle informazioni che il terapeuta ritiene degne si indagine e che rimanda al paziente. Ciò che il paziente dimostra di acquisire partendo dal flusso profondo che proviene dal terapeuta, costituisce la conoscenza condivisa terapeutica (3). Queste tre fasi possono svolgersi in un immediato susseguirsi oppure essere dilatate nel tempo (più sedute) ma comunque in ogni caso la mossa di chiusura spetta al paziente (che deve acquisire il flusso profondo del terapeuta). Comunicazione efficace L’efficacia della comunicazione, secondo la pragmatica cognitiva, consiste nella capacità di attivare le reciproche motivazioni a giocare un gioco. Nella comunicazione, infine, ricopre un’importanza non indifferente anche il silenzio. Ne esistono di vari tipi: • Silenzio non comunicativo, di chi non sa di essere entrato in comunicazione con un’altra persone: il suo obiettivo non è quello di comunicare qualcosa a qualcuno (es. A parla a B che immerso nei suoi pensieri continua a guardare fuori dal finestrino). • Silenzio non deliberato e consapevole, è il silenzio di chi non trova le parole per rispondere. Anche in questo caso però non c’è un significato apertamente comunicato. • Silenzio intenzionalmente comunicativo, deliberato e consapevole, in cui A comunica apertamente a B la sua intenzione a non parlare. Esempi ne sono il silenzio di chi ammette una sua colpa o di chi non ha intensione di continuare una comunicazione. Altro tipo di concezione del silenzio è quella che è marcata da elementi culturali. La cultura occidentale è tipicamente ostile ai silenzi; ogni pausa di non discorso tende ad essere ripetutamente ed ossessivamente riempita da parole, anche senza necessità (es. in ascensore). Altre culture, come quella dei Pellerossa, hanno una concezione del silenzio completamente diversa. In certe situazioni in silenzio non è consigliabile, ma addirittura richiesto (es. nel corteggiamento o quando si incontrano parenti dopo tanto tempo).
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