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Pragmatica Cognitiva di Bruno Bara, Dispense di Psicologia della Comunicazione

Riassunto Pragmatica Cognitiva Di Bruno Bara

Tipologia: Dispense

2021/2022

In vendita dal 10/02/2022

alessia-carone
alessia-carone 🇮🇹

4.6

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Scarica Pragmatica Cognitiva di Bruno Bara e più Dispense in PDF di Psicologia della Comunicazione solo su Docsity! PRAGMATICA COGNITIVA Capitolo 1 – Non solo linguaggio: una tassonomia della comunicazione La comunicazione è un’attività sociale, che per realizzarsi necessita di più agenti. Il linguaggio è uno dei canali espressivi di cui ci serviamo per comunicare, altri canali sono: la scrittura, il disegno, le emozioni, qualunque azione effettuata con lo scopo di comunicare qualcosa. La pragmatica cognitiva è lo studio degli stati mentali delle persone impegnate in un’attività comunicativa . Fondare l’analisi delle interazioni comunicative sugli stati mentali significa innanzitutto parlare di motivazioni, credenze, obiettivi, desideri, intenzioni INDIVIDUALI. Successivamente, ci si deve preoccupare che gli stati suddetti siano espressi (comunicazione linguistica ed extralinguistica). Distingueremo:  l’attore, per chi è al momento attivo (per convenzione A e di genere femminile);  il partner, per chi è al momento passivo (per convenzione B e di genere maschile);  altri partecipanti saranno C, D, ecc… Devono essere presenti almeno un attore e un partner, sennò qualunque attività potenzialmente comunicativa in mancanza di partner che recepiscano i messaggi rimane privata e non si può parlare di atti comunicativi. La teoria di Bara non considera però ancora sufficiente che ci siano due persone, perché si possa parlare di comunicazione vanno aggiunte una serie di altre condizioni: • Primo Assunto : gioco comportamentale  il significato globale dell’interazione viene CONCORDATO fra i partecipanti, indipendentemente dai rispettivi ruoli di parlante e ascoltatore. Deve quindi esserci una rappresentazione mentale di ciò che sta accadendo, condivisa dagli interlocutori. • Secondo Assunto : intenzione comunicativa consapevole  tutti gli agenti devono esplicitare la propria INTENZIONE consapevole di partecipare all’interazione. Non è possibile che A comunichi qualcosa a B senza averne l’intenzione. Ci possono essere intenzioni inconsce ma NON intenzioni comunicative inconsce. • Terzo assunto : contrasto dell’entropia  può essere considerato messaggio solo qualcosa che contrasti l’entropia crescente nel mondo, cioè solo se tale messaggio produce un cambiamento nel mondo. Un messaggio è una variazione che spicca nella continuità (esempio: il silenzio, se ci si attende una parola, è comunicativo perché viola le aspettative). Wiener, l’inventore della cibernetica, ha evidenziato che un’informazione contrasta l’entropia crescente nel sistema del mondo, diminuendo il disordine naturale. Esempio: un alieno sviluppatosi in modo opposto al nostro che voglia comunicare con noi attraverso un messaggio che non provoca un cambiamento (consistente, per esempio, nel non muovere il libro sul tavolo) non riuscirà mai a comunicare con noi, perché ci starà inviando un messaggio che non contrasta l’entropia, che non provoca un cambiamento, che non va contro il nostro naturale ordine delle cose. 1.1 L’INTERAZIONE SOCIALE Parliamo di interazione sociale ogni volta che due o più persone entrano in una situazione di reciproco scambio da permettere che l’una venga influenzata dall’altra. La situazione può essere di: - comunanza spaziale e temporale (es. dialogo) - di comunanza spaziale ma non temporale (es. lettura di lettera inviata) - di comunanza temporale ma non spaziale (es. telefonata). Esistono diverse modalità di interazione sociale:  Estrazione di informazioni: filogeneticamente più antica, che abbiamo in comune con altri esseri viventi. Per spiegarla, riprendiamo una distinzione introdotta da Marc Hauser: o Un indicatore (cue) è un attributo sempre attivo che non può essere dimesso perché fa parte del fenotipo che un individuo esibisce e da cui gli altri possono inferire qualcosa (es: corna di animale, colore della pelle umana, altezza) o Un segno è un parametro, separato dall’individuo, che può assumere diversi valori: è prodotto dall’individuo ma senza alcuna finalità comunicativa (per esempio, le tracce). Nell’uomo, il concetto di segno è intrinsecamente ambiguo perché qualunque traccia di attività può diventare comunicativa; facilmente nell’uomo un segno può diventare segnale (es: letto sfatto, tracce di colazione, giornale stropicciato, impronte digitali, ecc…) o Un segnale è un atto comunicativo che l’individuo rivolge ad altri animali, che può essere attivo o meno, comporta sempre un certo costo energetico per ciascuna emissione e può essere mostrato sia direttamente che separatamente dall’organismo (es: danza di corteggiamento, marcatura del territorio con urina) Altri casi di estrazione di informazioni, appartenenti alle scienze esatte, sono alcune teorie formulate nel corso degli anni: o teoria matematica della comunicazione di Shannon e Weaver. È la più influente teoria ingegneristica sulla comunicazione che va dalla telefonia alla robotica, ma non è applicabile alle scienze umane. Si concentra solo sulla quantità dell’informazione e non sulla qualità di quest’ultima; afferma che un messaggio è tanto più informativo quanto più è inatteso dal ricevente. Il primo problema che si posero i due teorici fu di misurare quantitativamente l’informazione. Inizialmente si provò col concetto di quantità massima dell’informazione trasmissibile attraverso un canale , tuttavia, fu subito chiaro come questa misura potesse essere facilmente distorta da disturbi del canale di comunicazione. Shannon e Weaver considerano un messaggio come un modello distribuito nel tempo, che contiene tanta più informazione quanto più è improbabile, nel senso di essere composto da notizie inattese dal ricevente  Il valore informativo varia non solo da messaggio a messaggio ma anche all’interno dello stesso messaggio: il valore di ciascun componente non è costante poiché legato alla novità, alle aspettative del ricevente (es: in una parola le iniziali sono più informative. Nella parola TORINO la T è più informativa di tutto il resto). Per calcolare il valore informativo del messaggio Shannon fece ricorso alla teoria della probabilità: il messaggio è un campione estratto da un insieme statistico di messaggi generabili da una sorgente e il suo contenuto di informazione è legato alla probabilità che venga emesso dalla sorgente stessa  il messaggio contiene tanta più informazione quanto più è improbabile (inatteso per il ricevente). I tentativi di spiegare la comunicazione umana attraverso questa teoria sono falliti per due ragioni principali:  l’informazione matematica è quantitativa. L’unità di misura dell’informazione è il bit (abbreviazione di binary unit) e consiste nella quantità di informazione necessaria a discriminare fra due alternative equiprobabili. Ogni bit riduce le alternative alla metà (da 4 a 2, da 8 a 4 e così via). La comunicazione umana è però intrinsecamente qualitativa poiché dipende dal significato che attribuisce la persona che la riceve non dalla quantità di informazioni. Inoltre, per cogliere l’importanza del messaggio non è sufficiente misurare la quantità di informazioni che veicola, ciò che conta è la significatività del messaggio (sono gli scopi soggettivi dei sistemi comunicanti che determinano l’importanza del messaggio, non la sua probabilità statistica).  Un ulteriore limite viene presentato dallo psicologo sociale Mantovani che rimprovera a questo modello di concepire la comunicazione come trasporto di messaggi lungo una conduttura senza che si tenga conto dei continui adattamenti reciproci tra gli interlocutori, come se l’informazione fosse un pacco che può essere spostato da un punto all’altro attraverso dei canali, un oggetto a sé stante, indipendente dai partecipanti all’interazione. o Gregory Bateson: si pone in un’ottica di ecologia globale, eliminando la parte specificamente umana della comunicazione, per cui qualunque modello di comunicazione deve potersi applicare indifferentemente a sistemi viventi e non viventi . Bateson per riuscire a formulare leggi che siano valide uniformemente per sistemi viventi e non viventi, è stato costretto a eliminare dalla sua analisi la parte specificatamente umana della comunicazione, vale a dire l’intenzione.  L’analisi avviene attraverso il concetto di comunicazione ostensiva: si intende il fatto che il significato di un termine può essere chiarito con mezzi extralinguistici (es: chiarire la differenza tra due pinze mostrando queste all’allievo), ma Bateson amplia questo concetto rendendolo equivalente a quello di comunicazione non intenzionale (es: indossare determinati abiti con un fine).  Nel caso di interazioni fra sistemi non viventi, parlare di comunicazione fra essi significa antropomorfizzare la loro interazione. Inoltre, quando egli parla di comunicazione fra sistemi viventi e non, sta attribuendo intenzionalità a questi ultimi; commette inoltre l’errore di usare una metafora in modo letterale: non comunicano autonomamente né le parole né le pinze, ma la persona che utilizza parole e pinze in un determinato contesto. Watzlawick, Beavin e Jackson, sostenitori e divulgatori delle ipotesi batesioniane, esprimono le teorie di Bateson in cinque assiomi generali della comunicazione. Ma già il primo “Non si può non comunicare” è definito in modo errato, proprio perché volevano comprendervi la comunicazione ostensiva (che comprende la comunicazione non intenzionale).  SOLO se si è in una situazione significativa dal punto di vista della relazione, si può dire che l’agire diventa comunicativo. Dando per buono questo assioma, ogni persona dovrebbe comunicare qualcosa anche quando non ne ha l’intenzione (es: persona che dorme in treno). Si potrebbe dedurre qualunque cosa dal suo comportamento, senza che questa persona abbia modo di agire sulla comunicazione in atto. Questo avrebbe senso solo nel contesto di una relazione, dove i partecipanti avrebbero gli elementi per comprendere il comportamento di ciascuno. L’interlocutore sarebbe insomma libero di interpretare come vuole ogni atto dell’altro. Parliamo di comunicazione quando è presente reciproca intenzionalità; parliamo di estrazione di informazione se uno degli attori non possiede intenzionalità di comunicare: linguaggi strutturati come quello dei segni. Bara  A questa distinzione se ne contrappone una basata sul modo di elaborare i dati: - la comunicazione linguistica consiste nell’uso comunicativo di un sistema di simboli (scomponibili in parole, unità autonome) - la comunicazione extralinguistica consiste nell’uso comunicativo di un insieme di simboli (non scomponibili, come un volto sorridente) La differenza essenziale sta nella scomponibilità del linguaggio in costituenti significativi autonomi (parole), mentre l’extralinguistico consiste di unità non scomponibili. 1.2.1 Sintassi, Semantica, Pragmatica È consuetudine, parlando di linguaggio, distinguere fra i suoi aspetti sintattici, semantici e pragmatici. Queste componenti sono attive parallelamente e collaborano alla comprensione totale della frase, nessuna è più importante delle altre e sono tra loro interdipendenti (nessuna funziona da sola): o sintassi: struttura grammaticale della frase. Si occupa dei principi con cui le singole parole sono ordinate per generare frasi riconoscibili. La conoscenza delle singole parole non è sufficiente a trasmettere il senso della frase o semantica: significato delle singole parole. Si occupa del significato che la frase veicola per mezzo sia dei significati delle singole parole e sia della combinazione dei significati delle diverse parole. La semantica permette di comprendere facilmente frasi ambigue dal punto di vista sintattico o pragmatica: stabilire lo scopo per cui un enunciato è stato emesso. Considera il contesto e lo scopo per cui la frase è stata emessa, analizza l’uso effettivo del linguaggio che fanno gli esseri umani per le loro finalità interattive, studiando i differenti contesti in cui le frasi vengono emesse e come i significati trasmessi siano influenzati dai contesti. Si occupa cioè di stabilire qual è lo scopo per cui un enunciato è stato emesso. La differenza sostanziale tra semantica e pragmatica è stata definita come quella che passa fra le domande (1) Cosa vuol dire x? in cui il significato della frase x dipende da come è espressa in un determinato linguaggio, indipendentemente dalle condizioni di emissione e dal contesto in cui viene enunciata; e (2) Cosa vuoi dire con x? in cui il significato della frase x dipende dalla relazione fra parlante e ascoltatore, mediata dallo specifico enunciato x. il significato pragmatico può essere collegato a quello semantico, come può non avervi nulla a che fare. Un’altra distinzione da fare è tra: Frase: entità teorica astratta definita all’interno di una teoria grammaticale, di pertinenza della sintassi. Mentre il significato è di pertinenza della semantica. Enunciato: proferimento di una frase in un determinato contesto, di pertinenza della pragmatica. Si collega all’effetto che quella frase ha avuto sul mondo, è quindi di pertinenza della pragmatica. 1.3 COMUNICAZIONE EXTRALINGUISTICA La modalità comunicativa extralinguistica è sia filogeneticamente più antica, sia quella che ontologicamente più precoce negli esseri umani. La sua particolare ricchezza espressiva è legata alla dimensione emozionale e comportamentale caratteristica dei mammiferi superiori. Non sempre il nostro agire verso altre persone acquista caratteristiche dell’intenzionalità comunicativa : il gesticolare, l’arrossire, per esempio, possono essere considerati comunicativi quando sono consapevolmente e apertamente utilizzati con lo scopo di modificare gli stati mentali altrui . In caso contrario, vanno considerati come casi di estrazione di informazione. Qualsiasi atto extralinguistico diventa comunicativo solo quando l’agente lo utilizza consapevolmente per tale scopo: in caso contrario si parla di estrazione di informazioni. Un caso particolare è quello dell’uso di un gesto come simbolo linguistico: si tratta di gesti iconici che stanno per una comunicazione prettamente linguistica e andranno quindi trattati come esempi di un discorso e non di un gesto. Due agenti possono concordare tra loro che un dato gesto abbia uno specifico significato; in questo caso il gesto iconico rappresenterà una comunicazione prettamente linguistica. In particolare, rientrano in questa categoria tutti quei gesti che hanno assunto un pieno e riconosciuto valore simbolico, come fare ciao con la mano. L’agire extralinguistico sfuma fra due polarità che non è sempre possibile separare in modo netto: 1) Segnale pienamente simbolico e convenzionale (es. mostrare indice e mignolo della mano tesi all’automobilista che non si lascia superare) 2) Riflesso cerebrale e comportamentale che assume valenza di segnale. - Segnale convenzionale: si tratta di un gesto culturalmente condiviso, riconoscibile da tutti i membri di quella cultura, portatore di un significato autonomo, comprensibile indipendentemente dal contesto in cui è generato. Il gesto specifico è simbolico nel senso che rimanda a qualcos’altro, come nella stretta di mano, usata per indicare conoscenza, amicizia. Un’espressione convenzionale ha un significato socialmente condiviso. Morris ha tentato di codificare questi segnali, individuando un sottoinsieme di segnali convenzionali che è costituito dalla classe dei gesti a significato fisso, a cui corrisponde un solo significato, non suscettibile di interpretazione alternativa (unire pollice e indice per indicare “okay”) o a significato aperto (es: comportamento di lutto, culturalmente dipendente).  I segnali convenzionali sono determinati culturalmente e modulano la comunicazione extralinguistica con la stessa precisione con cui regolano quella linguistica. - Segnale non convenzionale: un’azione completamente inscritta nei circuiti cerebrali per quanto riguarda modalità espressiva e possibilità di riconoscimento da parte degli altri. Spesso sono legati alle emozioni di base per cui sono interculturalmente riconoscibili: sono comunque influenzati dalla cultura (si abbraccia in modo diverso in Russia e in Inghilterra). Hanno una doppia componente, genetica e culturale. I segnali non convenzionali, essendo su base genetica, quindi direttamente inscritto nei circuiti cerebrali, attivano, quindi, una doppia reazione da parte di chi li riceve: 1) una prima reazione più automatica, quasi si trattasse di un riflesso insieme cerebrale e comportamentale 2) una seconda legata al significato simbolico del segnale, allora esso diventa simbolico, quindi comunicativo. N.B. questa doppia reazione vale solo per la comunicazione extralinguistica: si può provocare una reazione fisiologica con gli atti linguistici, però solo DOPO aver costruito il loro significato simbolico.  I segnali non convenzionali f a n n o c o m u n q u e p a r t e d e l l a s f e r a c o m u n i c a t i v a e vanno tenuti separati dai segni che le altre persone possono cogliere e interpretare, ma che non sono mai intenzionali in senso comunicativo.  Un caso interessante di transizione da non convenzionale e convenzionale è quello del pointing: già nel bambino, sicuramente capacità innata, può pian piano assumere, in base al contesto significati diversi (Guarda! Prendi! Dammi!). ESEMPIO: la carezza, in quanto gesto di sfioramento del corpo dell’altro con la mano, attiva automaticamente un sistema cerebrale; solo quando al gesto viene attribuito dagli attori il significato di “carezza” esso diventa simbolico e dunque comunicativo, nel senso che l’accarezzare sta esprimendo un’intenzione consapevole, che venga riconosciuta in quando tale dal destinatario come simbolo di affetto provato nei suoi confronti. La carezza attiva quindi un doppio percorso, sia cerebralmente automatico che di consapevole acquisizione di significati. Esistono diversi modi di realizzazione della comunicazione extralinguistica, sia convenzionale che non: o comunicazione permanente: i cui effetti permangono nel mondo con una certa stabilità, non consente di separare segnali convenzionali e non convenzionali. È rappresentata principalmente dall’arte, dal disegno, dalla scultura e l’urbanistica. È realizzata attraverso effetti stabili delle azioni sull’ambiente. o comunicazione impermanente: atti che non lasciano tracce evidenti, se non sugli stati mentali dei partecipanti. Il focus può essere: 1- azioni focalizzate sul corpo  focus sull’azione  è il corpo degli agenti a diventare il canale comunicativo (espressioni, atteggiamenti espressi tramite il corpo sia direttamente che espressi tramite elementi esterni come gli abiti) o convenzionali: inchino, applauso, sorriso. o Non convenzionali: postura, gesticolare, pianto, smorfie. 2- Azioni focalizzate sull’ambiente  sulla relazione fra azione e ambiente, dove il significato è veicolato dalla relazione  Il significato è dato dalla gestione degli oggetti (es: mezzo usato per comunicare), dello spazio (es: vicinanza con l’altro) e del tempo (es: ritardo consentito a seconda della cultura) usati per comunicare; o Convenzionali: donare anello di fidanzamento, puntualità/ritardo. o Non convenzionali: prendere del cibo, stare vicino/lontano. La comunicazione extralinguistica non convenzionale è la parte della comunicazione più distante dalla modalità di elaborazione linguistica ed anche la parte più difficile da contraffare. Cercando di sfruttare tale caratteristica, Paul Ekman ha proposto alcuni indicatori non verbali di menzogna per gli adulti e per i bambini (per esempio, se l’interlocutore non sostiene lo sguardo, aumenta la probabilità che non stia dicendo la verità). I gesti non convenzionali sono segnali tipicamente non coscienti, che in quanto tali non hanno finalità comunicative, anche se da essi gli interlocutori possono estrarre informazioni sull’agente. (es. il gesticolare che si accompagna al discorso parlato è tipicamente non intenzionale, anche se talvolta può essere direzionato al contenuto del discorso oppure alla relazione fra gli interlocutori). In qualunque momento, però, i segnali non convenzionali possono diventare consapevoli, entrando a far parte della sfera comunicativa, così come avviene con la comunicazione paralinguistica (es: alzare il tono della voce per trasmettere autorità, un’emozione, rimproverare). 1.4 DIFFERENZA TRA LINGUISTICO ED EXTRALINGUISTICO È UN PROCESSO NON UN DATO La comunicazione è un processo e comunicare linguisticamente o extralinguisticamente vuol dire usare due modi diversi di elaborare i dati. Lo stesso input si presta quindi a un’analisi sia linguistica che extralinguistica, sarà quindi elaborato in due modi diversi, paralleli fra loro, integrantisi a vicenda e che non si escludono reciprocamente. Mentre nell’ottica della comunicazione verbale e non verbale il dato in ingresso ammette una sola elaborazione, nella teoria di Bara, ciascun input viene contemporaneamente analizzato da due diversi processi, uno linguistico e uno extralinguistico. La tesi verificazionista porta con sé una serie di problemi logici irrisolvibili come l’impossibilità di verificare l’azione compiuta da un personaggio immaginario o l’azione metaforica di un personaggio storico. Eppure, anche nell’impossibilità di verificare tale genere di azioni, l’ascoltatore o il lettore sono comunque in grado di capire il senso della frase. Questi problemi indeboliscono l’approccio verificazionista a favore di un approccio meno rigido e più quotidiano, legato a ciò che le persone fanno davvero quando parlano. Anni dopo Wittgenstein introduce il concetto di gioco linguistico, identificando il significato del linguaggio nell’uso effettivo dello stesso da parte delle persone nella vita di tutti i giorni, spostando quindi l’attenzione dei filosofi. 1.5.1 il dire è il fare “Il dire è fare” diventa il motto della pragmatica, attenta a come si costruisce la cooperazione verbale fra le persone. Lo spirito dei filosofi del linguaggio era quello di abbandonare la ricerca astratta della linguistica, per concentrarsi sull’uso quotidiano che la gente fa del linguaggio. Concetto chiave alla base della pragmatica è l’atto linguistico: Austin nota che alcuni enunciati espressi in forma dichiarativa (gli atti performativi), modificano il mondo al pari delle azioni. Dunque, non ha senso analizzare il valore di verità di una frase per attribuirgli senso, ma la sua efficacia. Gli atti performativi possono avere successo (modificando il mondo nella direzione desiderata) a patto che sussistano quelle che Austin definisce condizioni di buona riuscita: Se le condizioni non sono quelle associate alla buona riuscita, il performativo fallisce (es. un giudice non può condannare nessuno se non si trova in un’aula di tribunale). A. Deve esistere una procedura convenzionale accettata che abbia un certo effetto convenzionale, procedura che deve includere l’atto di pronunciare determinate parole da parte di determinate persone in determinate circostanze. A2. La procedura specifica le circostanze e prescrive il comportamento delle persone. B. La procedura deve essere seguita da tutti i partecipanti, correttamente B2. e completamente. C. Una persona che partecipa alla procedura deve avere i pensieri o i sentimenti richiesti, e i partecipanti devono avere intenzione di comportarsi nel modo prescritto e C2 devono effettivamente comportarsi in tal modo. Gli atti performativi possono essere “infelici” in due modi: attraverso il fallimento (l’atto non viene eseguito, e azzerato, violazione principi A e B) oppure attraverso l’abuso della procedura (l’atto viene eseguito ma e vuoto, privo di significato, violazione principi C). Si evidenziò, in seguito, che non erano solo i performativi a modificare il mondo esterno, ma ogni atto comunicativo: ogni comunicazione comporta almeno la conseguenza che gli ascoltatori siano consapevoli che una comunicazione è stata fatta e quindi che la loro mente sia stata modificata, in forma sia pur minima (“A ha emesso un atto linguistico”). La conseguenza di considerare il linguaggio in termini di atti linguistici è che lo si fa rientrare nelle leggi generali che regolano le azioni, in particolare se ne evidenziano gli aspetti intenzionali. Austin scompone l’enunciato in 3 parti: 1. Atto Locutorio: rappresenta ciò che viene detto, con uno specifico significato e riferimento. È convenzionale perché agisce in uno spazio di conoscenza linguistica comune (quel che si dice). 2. Atto Illocutorio: corrisponde alle intenzioni comunicative che ha il partner. È convenzionale poiché agiscono in uno spazio di conoscenza comune. (Quello che si fa nel dire qualcosa). 3. Atto Perlocutorio: corrisponde agli effetti che il parlante si propone di raggiungere sulla mente del suo interlocutore ( Quel che si vuole ottenere dicendo qualcosa). I tre momenti degli atti linguistici possiedono diverse condizioni di buona riuscita, che determinano il successo o il fallimento di ciascuna frase; inoltre, il successo di una frase non implica che la fase successiva ottenga un risultato analogo (anche se la frase locutoria ha successo non è detto che quella illocutoria non possa fallire, così come a un successo illocutorio non ne corrisponde uno perlocutorio) I primi due sono essenzialmente conversazionali e vengono agiti in uno spazio di conoscenza linguistica comune; l’ultimo è strettamente privato e pertiene unicamente all’ascoltatore: avviene entro la sua mente e il parlante non ha alcun modo diretto di scoprire se il perlocutorio è stato felice o meno. La parte locutoria può fallire se l’interlocutore è sordo, straniero o se un rumore copre le parole. Quella illocutoria fallisce se l’interlocutore non dà la giusta importanza alla minaccia e crede che l’attore finga. Quella perlocutoria può fallire se il soggetto decide comunque di muoversi nel tentativo di scappare. 1.5.2 Tassonomia degli Atti Illocutori Austin fu il primo a classificarli (non distinguendo però tra atti e verbi performativi), ma la più nota tassonomia è quella di Searle, basata sulle condizioni di buona riuscita di un enunciato:  Assertivi: i verbi di questa categoria hanno la funzione di impegnare il parlante sull’effettivo stato delle cose, di esprimere una certa conoscenza, perciò, possono essere valutati in base alla loro veridicità o falsità. Sono le parole che devono adattarsi al mondo, adeguandosi allo stato di cose che descrivono. Esempi: affermare che p; giurare che p; formulare l’ipotesi che p; insistere che p.  Direttivi: la loro funzione è costituire un tentativo da parte del parlante di indurre l’ascoltatore a fare qualcosa. La direzione di adattamento implica che sia il mondo a doversi adeguare ai desideri espressi dalle parole. Il contenuto proposizionale è sempre che l’ascoltatore compia una determinata azione. Esempi: pregare, implorare, invitare, ordinare, chiedere, domandare.  Commissivi: hanno la funzione di impegnare il parlante ad assumere una certa condotta futura. La direzione di adattamento implica che sia il mondo a doversi adattare alle promesse fatte. Il contenuto proposizionale riguarda sempre qualche azione futura che il parlante si impegna a compiere. Esempi: impegnarsi a, promettere, verbi usati al futuro.  Espressivi: hanno lo scopo di esprimere lo stato psicologico specificato nel contenuto proposizionale. In questo caso, il parlante non cerca di adattare il mondo alle sue parole né le sue parole al mondo, anzi, la verità della proposizione espressa viene data per scontata, o comunque non è rilevante indagarla. Esempi: ringrazio, mi congratulo, chiedo scusa, benvenuto! complimenti!  Dichiarazioni: corrisponde ai performativi di Austin, per i quali si può direttamente affermare che il dire è fare. Sono casi in cui, date le opportune condizioni di felicità, lo stato di cose espresso si realizza grazie all’enunciazione fatta. La caratteristica essenziale di queste dichiarazioni è che la felice esecuzione di uno di questi atti, produce la corrispondenza fra contenuto proposizionale e realtà. Se una dichiarazione è eseguita felicemente, le parole e il mondo devono combaciare: la direzione di adattamento viaggi contemporaneamente nelle due direzioni, da parole a mondo, da mondo a parole. Inoltre, è indispensabile che, affinché abbiano successo, esista l’opportuna istituzione sociale che garantisce che il proferimento dell’enunciato sia sufficiente a generare un nuovo stato di cose. Esempi: battezzo questa nave Titanic! dichiaro aperta la riunione, lei è licenziato! 1.5.3 Massime di Cooperazione Il legame più importante fra linguaggio e comunicazione è il concetto di implicatura conversazionale: Grice ha evidenziato come nel linguaggio comune ci siano cose che non vengono dette direttamente durante un atto linguistico ma che vengono implicate da ciò che è detto e sono intenzionalmente comunicate dal parlante all’ascoltatore. ESEMPIO: A- Com’è il fidanzato di Graziella?/ B-Non capisco perché si butti via così --> B non ha risposto letteralmente alla domanda di A, ma sicuramente le ha dato motivo di credere che le ragioni che hanno attratto Graziella gli siano misteriose. Grice fa notare che ogni dialogo è frutto di un lavoro in evoluzione nato dalla cooperazione fra due persone con uno scopo comune e prevede mosse accettabili in ciascuno stadio della comunicazione e non in altri. Grice formula quindi il principio di cooperazione che afferma “Dai il tuo contributo alla conversazione in cui sei impegnato così come è richiesto dagli scopi e dall’orientamento del discorso e al momento opportuno”. Questo principio viene specificato attraverso quattro massime che possono essere applicate anche all’azione in generale, esse sono:  massima di quantità  o Dai un contributo informativo quanto richiesto in relazione agli scopi del discorso, o Non dare un contributo più informativo di quanto richiesto. Mi aspetto un contributo quantitativamente adeguato  massima di qualità  o fornisci solo informazioni che ritieni vere, o non fornire informazioni che ritieni false o informazioni per cui non hai prove; mi aspetto un contributo autentico  massima di relazione  o fornisci informazioni pertinenti all’argomento di conversazione; mi aspetto un contributo appropriato allo stadio della collaborazione  massima di modo (si riferisce a come qualcosa viene detto)  o Evita l’oscurità, o Evita l’ambiguità, o Sii breve, o Sii ordinato nell’esposizione. Mi aspetto che il partner chiarisca cosa sta facendo, e che lo faccia in modo rapido e ordinato. Lo scopo delle massime è di fornire i criteri di una buona conversazione che, a partire dall’enunciato del parlante, giunga fino alla comprensione del messaggio per l’ascoltatore e quindi alla creazione di significato. Tipi possibile di violazione delle massime:  Involontaria : Errore: è una violazione involontaria della massima di cooperazione (poiché manca l’intenzione del parlante di comunicare qualcosa di fuorviante). L’errore può essere colto dall’ascoltatore in generale soltanto se questo ha la qualità di conoscenza maggiore, in caso contrario non sarà riconosciuto da nessuno. Esempi di violazioni croniche e inconsapevoli sono quelle del logorroico, del superficiale, del disattento, ecc…;  Volontaria: o Non Comunicativa Inganno: è una violazione volontaria ma non comunicativa. il parlante cerca di trarre in inganno l’ascoltatore facendogli effettuare inferenze scorrette; l’ingannatore ha l’intenzione cosciente di ingannare e di evitare che l’ingannato se ne accorga. Solo le violazioni della massima di qualità [2] possono essere considerate esplicite menzogne, negli altri casi abbiamo un tentativo di far credere all’altro qualcosa che non si pensa essere vero, ma senza dire esplicitamente il falso. L’inganno non è soltanto fornire un’informazione non vera (violare la massima della qualità) ma anche tacere la verità (violazione della massima della quantità), sviare il discorso senza che l’altro se ne accorga (violazione della massima di relazione) o nascondersi dietro un linguaggio ambiguo come un medico nella comunicazione di brutte notizie (violazione della massima di modo). È possibile ovviamente che l’ascoltatore si accorga dell’inganno e, in tal caso, può smascherare l’inganno o realizzare un contro inganno, facendo fare inferenze sbagliate al suo partner volutamente; o Comunicativa Sfruttamento: è una violazione comunicativa di una massima in cui il parlante fa in modo che l’ascoltatore effettui una serie di inferenze basate sul fatto di accorgersi che il parlante intende violare la massima comunicando all’ascoltatore che la sta violando. A differenza dell’inganno, dove la violazione viene nascosta, nello sfruttamento la violazione viene qui ostentata a fini comunicativi. Ne sono un esempio le frasi tautologiche (violazione della massima di quantità), l’ironia, la metafora e le metafore ironiche (violazione della massima di qualità), le metafore e le presupposizioni.  approccio cooperativo: appartengono la psicoanalisi e la psicologia cognitiva. Si basa sul fatto che il paziente debba prima di tutto arrivare alla comprensione del suo funzionamento come tappa imprescindibile per il processo di guarigione. Affinché una persona guarisca, deve capire cosa gli è successo, solo introiettando quanto analizzato insieme al terapeuta e modificando gli stati mentali che determinano il suo comportamento, potrà abbandonare il suo habitat patologico e ristrutturare il suo modo di vivere in modo più felice. (il paziente compie autonomamente le proprie scelte). In queste psicoterapie i due partecipanti hanno un ruolo attivo, co-costruiscono i significati all’interno del setting e contribuiscono allo stesso modo alla buona riuscita della terapia;  approccio manipolatorio: appartengono le psicoterapie comportamentali in cui al terapeuta spetta un ruolo di primaria importanza. è lo psicoterapeuta che cerca di intervenire direttamente sul comportamento del paziente mentre è irrilevante il processo di comprensione dei problemi da parte del paziente. Il paziente può ancora non arrivare alla consapevolezza. L’obiettivo resta quello di una modificazione comportamentale ottenuta manipolando il paziente che riveste un ruolo passivo. Lo scambio dialogico non va ridotto ad una sequenza rigida di atti linguistici separati, per cui ciascun agente diventa ora attivo, ora passivo, ma va visto come un’interazione dinamica, in cui il contributo di ciascun agente è SEMPRE ATTIVO, sia che parli sia che ascolti, sia che scriva un messaggio sia che lo legga. Nel contesto comunicativo, tutti gli stati mentali di tutti i partecipanti sono attivi contemporaneamente. È quindi lecito scomporre un’attività comune (come la comunicazione), ma senza dimenticare che rappresenta comunque un’interazione, che va ricomposta e analizzata nella sua complessità e che non è riducibile all’azione dei singoli partecipanti. Anche quando la comunicazione non è rivolta ad un unico fine (es: due persone che litigano non hanno lo stesso fine, una vuole prevalere sull’altro), la struttura cooperativa viene mantenuta e rispetta determinate convenzioni (es: come in un duello), ma è naturalmente possibile che ogni cooperazione venga infranta (es: due automobilisti che litigano senza prestare attenzione a quanto si stanno dicendo). 2.1.1 Cooperazione Conversazionale e Comportamentale Nell’impostare il suo concetto di cooperazione, Grice ha considerato i casi estremi di successo e di fallimento: - successo, quando l’interlocutore comprende il desiderio del parlante e vi si adegua; - fallimento, quando l’interlocutore o non capisce o, non intendendo adeguarsi ai desideri del parlante, interrompe la conversazione. Questa posizione non tiene conto di altre possibilità intermedie, per trarre le quali abbiamo bisogno di scomporre la cooperazione in comportamentale e conversazionale. - cooperazione conversazionale: capacità, durante l’interazione, di rispettare i principi di Grice (qualità, quantità, pertinenza, modo). si trova in tutti i dialoghi il cui l’esito è felice dal punto di vista comunicativo (l’interlocutore comprende il desiderio del parlante ma non è detto che vi si adegui); - cooperazione comportamentale: capacità di ottenere un determinato effetto attraverso l’interazione. si trova in tutti i dialoghi il cui l’esito è felice e comporta un’applicazione comportamentale, a seguito dell’interazione comunicativa (l’interlocutore comprende il desiderio del parlante e vi si adegua). 1. Cooperazione conversazionale e comportamentale A: Puoi accompagnare i bambini a scuola domani? B: Si, sono libero 2. Cooperazione conversazionale e non comportamentale A: Puoi accompagnare i bambini a scuola domani? B: No, devo essere in ufficio alle 8.00 3. Cooperazione non conversazionale e non comportamentale A: Puoi accompagnare i bambini a scuola domani? B: Che bella luna, stasera Entrambi gli scambi verbali mostrano una cooperazione conversazionale sul piano linguistico (le risposte di B sono pertinenti alle domande di A), ma solo in [1A] troviamo una cooperazione comportamentale, poiché consona all’intenzione perlocutoria espressa da A, cioè l’adeguamento ai desideri attesi dal parlante. In un litigio non c’è interazione cooperativa: ciò che viene mantenuto è la cooperazione conversazionale, mentre cede quella comportamentale. 2.2 STATI MENTALI Gli esseri umani possiedono una serie di stati mentali, sia emotivi che cognitivi, che possono essere tanto consci quanto inconsci. 2.2.1 Attenzione Comune Perché sia possibile una comunicazione è indispensabile che tutti i partecipanti prestino consapevole attenzione su quanto sta accadendo. Non solo: ci deve anche essere un reciproco esser certi che anche l’interlocutore sta facendo la stessa cosa. Questo requisito è stato definito come condizioni di contatto: requisito iniziale perché si avvii una comunicazione, consiste nell’avere già stabilito un accordo sul fatto che si sta prestando attenzione a quanto sta avvenendo fra gli agenti. Clark ha insistito sullo sguardo come mezzo più importante per entrare in contatto con gli altri (stabilire un contatto visivo abbastanza lungo prepara il terreno per la comunicazione) o la via acustica. L’abilità di stabilire il contatto oculare è innata nei bambini ed è già attiva a un mese di vita. Gli esseri umani sono animali fortemente predisposti a comunicare, tanto è vero che tutti i prerequisiti sono già strutturalmente inseriti nel cervello, pronti all’uso. Una volta stabilite le condizioni di contratto, i partecipanti sanno che da adesso tutto ciò che accadrà andrà considerato come conoscenza condivisa. Una volta, infatti, che l’attenzione di entrambi sia esplicitamente attivata su quanto succede fra i due, ciascuno assume che l’altro tenga traccia di: 1. Quanto detto o fatto da A e B. 2. Quanto detto da C e D o altri, purché sia comunicativo nei confronti di A o B, o purché acquisisca particolare rilevanza mentre l’interazione fra A e B è in atto. 3. Quanto accaduto durante l’interazione, anche se non agito né da loro né da altre persone, purché A e B prestassero attenzione a ciò che succedeva intorno a loro. Nei casi 1 e 3, se uno degli interlocutori non è certo che l’altro abbia prestato attenzione a un fatto o a un evento, deve assicurarsi che ci sia stata attenzione comune, prima di poterlo considerare come appartenente alla conoscenza condivisa. Per quanto riguarda l’interazione fra A e B, l’attenzione comune sarà attiva fino a quando non sarà esplicitamente staccata da uno o da entrambi. 2.2.2 Credenza Condivisa Per comprendere come gli esseri umani generano e comprendono atti linguistici in un dialogo è necessario studiare le regole di inferenza specifiche della comunicazione: queste regole permettono all’interlocutore di inferire gli stati mentali del partner e decidere come continuare la conversazione. Le proprietà di base del concetto di credenza sono definite da una serie di assiomi derivanti dalla teoria del logico Jaakko Hintikka, che però presenta il problema dell’onniscenza logica: i soggetti devono credere a tutte le conseguenze logiche di ciascuna delle loro credenze. Hintikka distingue tra credenza (belief) come stato mentale primitivo e conoscenza (knowledge) o credenza vera (true belief) verso il mondo. Gli esseri umani sono bel lontani dai soggetti ideali di Hintikka, in quanto è per loro possibile credere in uno stato di cose, ma non derivarne le conseguenze logicamente necessarie, per due motivi: - Gli esseri umani non possiedono alcuna logica mentale in grado di derivare da una serie di credenze tutte le loro conseguenze senza errori ma ragionano a partire dalla rappresentazione delle situazioni sotto forma di modello mentale.  secondo questi ultimi gli esseri umani possiedono una competenza deduttiva basata sulla capacità di rappresentarsi le situazioni attraverso modelli mentali. Il pensiero consiste in una serie di procedure che costruiscono e modificano tali modelli, giungendo a risultati corretti ma talvolta anche a risultati sistematicamente sbagliati: la logica è un’invenzione umana che perfeziona e formalizza la capacità naturali di ragionare, non è una capacità innata, altrimenti non ci si spiegherebbe come mai si sbaglia con tanta facilità quando si devono risolvere problemi deduttivi; - i sistemi di credenze umani ammettono contraddizioni e quindi sono caratterizzati da incongruenze, talvolta consapevoli e più spesso totalmente ignorate (es: credere che tutti gli uomini siano uguali, ma mantenendo un comportamento razzista in uno specifico sottodominio). Nella nostra analisi, l’attenzione sarà focalizzata sulle regole di inferenza specifiche della comunicazione, in modo da spiegare come gli esseri umani generano e comprendono gli atti linguistici (contribuire al dialogo, prendere decisioni, riconoscere lo stato mentale del partner) sulla base delle proprie credenze e conoscenze. Per far ciò, partiamo dal concetto di Hintikka, che assume: - la credenza come uno stato mentale primitivo; - la conoscenza, invece, è un concetto derivato, vale a dire una sorta di abbreviazione per credenza vera rispetto al mondo. La comprensione degli stati mentali nella comunicazione è fondamentale, poiché aiuta il soggetto a comprendere come continuare a contribuire alla comunicazione. Abbiamo visto come le credenze siano uno stato mentale; a livello psicologico è ben differenziabile il grado di certezza che soggettivamente un soggetto ha per le proprie conoscenze e credenze, anche se esse possono o meno rispecchiare la verità del mondo.  È una conoscenza qualcosa di cui sono completamente certo (es. La capitale della Francia è Parigi);  sono credenze invece fatti con una sempre minore certezza (es. Poppea amava Nerone). Distinguiamo tre tipi di credenza: • Credenza Individuale: gli agenti credono una certa cosa o credono che altri agenti credano qualcosa, ma in modo totalmente autonomo e scollegato gli uni dagli altri. • Credenza Comune (o mutua): tutti gli agenti hanno la stessa credenza individuale, condividono in genere la conoscenza sull’ambiente in cui sono immersi o conoscenze culturalmente trasmesse. A tal proposito, Clark parla di terreno comune (common ground), inteso come la somma di credenze, conoscenze e supposizioni che due persone hanno in comune. In base al territorio comune, possiamo identificare comunità culturali, classificabili a seconda del tipo di credenze che condividono. Una comunità culturale è un insieme di persone che possiedono conoscenze approfondite che mancano in altre comunità culturali. Per comunicare è necessario che alla credenza comune si associ la consapevolezza che anche gli altri possiedono quella credenza comune; • Credenza Condivisa: gli agenti hanno una o più credenze in comune e ne sono entrambi consapevoli. In Intelligenza Artificiale, Schiffer vede la credenza mutua come una sequenza potenzialmente infinita di credenze individuali una incassata nell’altra. Clark ha evidenziato che la formula di Schiffer è implausibile: per raggiungere la certezza che una data credenza sia comune, ciascun interlocutore dovrebbe ogni volta impegnarsi a eseguire tale serie di inferenze, che richiede ampie risorse cognitive, non disponibili sotto una certa età. Una soluzione sarebbe quella di assumere che sia la credenza che la credenza comune siano due primitive correlate: ed è giustificato dal fatto che gli esseri umani, sin dai primissimi mesi di vita, hanno facilità a gestire le informazioni condivise. La connessione formale tra credenza e credenza condivisa è stabilita grazie al cosiddetto fixpoint axiom che cattura la circolarità della credenza mutua: SHxy p = BELₓ (p ^ SHyx p) SHxy p esprime che entrambi gli agenti x e y condividono reciprocamente la credenza che p; quando l’attrice A dà per condiviso fra lei e B, ciò significa che A crede che da un lato che p sia vero e, dall’altro, che B dia anche lui per condiviso fra loro p. La circolarità corrisponde al fatto che la condivisione è presente da entrambi i lati della formula. Da tale formula, distribuendo la credenza BELₓ sulla congiunzione, si possono derivare infinite implicazioni, evidenziando la possibilità di generare una sequenza teoricamente infinita di credenze individuali a partire dalla credenza condivisa (SHxy p): Dato che secondo A, lei e B condividono che p, ciò implica che: A crede che p A crede che B creda che p A crede che B creda che A creda che p (e così via potenzialmente all’infinito). La differenza tra credenza comune e credenza condivisa sta nel fatto che la prima è oggettivamente comune ad entrambi gli interlocutori (essendo culturalmente definita). Al contrario, la credenza condivisa assume un punto di vista soggettivo, dato che nessun agente può mai essere certo che anche gli altri possiedano la sua stessa credenza, ma può assumere che ce l’abbia ed essere convinto di condividerla. 2.2.3 Coscienza e Conoscenza Secondo la scienza cognitiva, la consapevolezza di qualcosa viene costruita. Non si può rendere conscio qualcosa che prima era inconscio, senza modificarlo in modo significativo. Si tratta piuttosto di un’interpretazione, di una trasformazione di qualcosa in qualcos’altro. Il passaggio da inconscio a conscio modifica il contenuto conoscitivo, forzando entro determinati schemi interpretativi qualcosa che prima era rappresentato in modo simile. Possiamo assumere che esistono due grandi modi di rappresentare e gestire conoscenza: tacito ed esplicito.  Conoscenza Esplicita: rappresenta ciò che una persona sa di sapere intorno a qualunque entità del mondo, è una conoscenza consapevole, esprimibile linguisticamente e su cui è possibile riflettere consapevolmente e racchiude tutto ciò che un soggetto sa intorno a qualunque entità del mondo. È conoscenza trasparente, nel senso che può essere letta da altre procedure del sistema e, se attivata intenzionalmente, può diventare consapevole. Un concetto equivalente è quello di conoscenza dichiarativa, che racchiude quel che è possibile dire intorno all’oggetto o allo stato di cose in questione (conoscenza linguistica). Legato alla conoscenza esplicita, vi è in psicanalisi il concetto di rimozione, in quanto corrisponde ad una conoscenza esplicita inconscia: in realtà, non si tratta di una transizione da uno stato all’altro, ma di un cambiamento significativo di struttura  Conoscenza Tacita: conoscenza che un sistema possiede e che gli permette di interagire efficacemente con il mondo, pur non essendo rappresentata in modo esplicito. È divisa in due parti: - La parte trasparente di tale conoscenza è data dalle immagini e alle produzioni che traducono in termini  Si definisce intenzione comunicativa l’intenzione di comunicare qualcosa più l’intenzione che la sua azione sia riconosciuta come comunicativa. Un agente intende comunicare qualcosa ad un altro quando desidera che egli dia per condiviso non solo il contenuto specifico della comunicazione, ma anche il fatto che l’agente voleva proprio comunicarglielo. Ad esempio, indossando una particolare cravatta di un college, un professore comunica di essere un insegnante di quella precisa università. Ma la sua non può essere definita una azione comunicativa poiché, pur essendoci l’intenzione a comunicare, manca l’intenzione al riconoscimento della sua azione come comunicativa da parte degli interlocutori. Nella comunicazione tra A e B devono essere soddisfatti i seguenti requisiti: - A comunica intenzionalmente a B che p; - A comunica a B l’intenzionalità a comunicare. Riproponendo lo schema precedente, applicando all’atto comunicativo intenzionalità, deliberazione e consapevolezza avremo: 1. Atto comunicativo Intenzionale, Deliberato e Conscio: comunicazione vera e propria, caratterizzata da intenzionalità e coscienza. È necessario che si verifichino due condizioni: - che sia riconosciuto dall’interlocutore il contenuto specifico dell’intenzione comunicativa (che p) - che sia riconosciuta l’intenzione di comunicare il suddetto contenuto Tutto ciò rende l’intenzione comunicativa uno stato mentale decisamente conscio; 2. Atto comunicativo intenzionale, non deliberato e conscio: a. Sequenza di parole in una frase o sequenza di gesti  si compongono spontaneamente, pur avendo ben chiaro l’obiettivo di cosa si vuole comunicare, Si tratta quindi di una sorta di intenzione in azione consapevole ma non deliberata; b. Effetti Intesi Apertamente  solo gli effetti che entrambi gli agenti considerano ovvi, evidenti e certi rispetto all’azione intorno a cui si sta deliberando insieme. Si considerano come intesi in modo non deliberato gli effetti immediati delle azioni o degli stati del mondo che costituiscono il contenuto proposizionale dell’intenzione comunicativa (es: se un attore A comunica a B di togliersi la camicetta l’effetto inteso apertamente sarà che B resti a petto nudo). Altri effetti, oltre ai primi, che possono considerarsi ovvi saranno determinati dal contesto (es: se un attore A comunica a B di togliersi la camicetta sotto la pioggia un altro effetto, oltre a B a petto nudo, sarà B bagnato). Un’ulteriore conseguenza sarà che l’ascoltatore non può interpretare a piacer suo quanto detto dal parlante; c. Effetti Intesi Non Apertamente  consiste in un contenuto proposizionale corrispondente ad uno stato mentale privato, in cui l’intenzionalità comunicativa non sia deliberata, veicolato attraverso un altro atto comunicativo avente un diverso contenuto proposizionale e piena intenzionalità comunicativa (quasi- comunicazione). Il concetto chiave è quello di effetto inteso: il suo significato viene costruito a partire dalla sua comprensione e solo in un secondo momento A potrebbe riconoscere di avere comunicato non deliberatamente uno stato mentale. Se le inferenze di B sono corrette queste diventano condivise tra A e B ed A è obbligato a concederlo (ammettere il suo stato mentale privato, come nell’esempio del caffè.); 3. Atto comunicativo Intenzionale, Deliberato e Inconscio: caso impossibile. Le intenzioni comunicative sono sempre necessariamente consce. 4. Atto comunicativo intenzionale, non deliberato e inconsapevole: - Lapsus: si tratta di intenzioni che si rendono evidenti solo quando modificano il comportamento in modo incongruo, come nel caso del lapsus linguae. Esistono due tipi di lapsus, uno provocato da un’interferenza di una parte precedente o seguente del discorso sull’enunciato effettivamente emesso, l’altro dovuto a pulsioni esterne al discorso (es: chiamare la partner “mamma”). In questo secondo caso il parlante è consapevole delle parole che ha pronunciato, l’ha fatto volontariamente e sa perché, ciononostante non intendeva farlo deliberatamente; - Effetti paralinguistici (prosodia, gesticolazione): gli agenti non sono consapevoli del tono di voce o del tipo di gestualità che stanno usando; quindi, questi elementi andrebbero inseriti in un livello intermedio tra coscienza e non-coscienza. Gli elementi paralinguistici possono diventare facilmente consapevoli (se questi vengono fatti notare) e potrebbero anche diventare deliberati (es: alzare il tono della voce volontariamente per far capire all’altro di essere arrabbiata) ed essere decisi in anticipo. Gli elementi paralinguistici sono pertanto intermedi rispetto al livello di coscienza; 5. Azioni e modi di essere Non Intenzionalmente comunicativi: estrazione di informazioni. Se non c’è intenzionalità di comunicare, non c’è comunicazione, ma estrazione di informazioni. Si tratta di attribuire un significato ad azioni altrui (abilità quasi diagnostica). In psicopatologia, è il caso del disturbo paranoideo: consiste nell’attribuire a qualunque azione degli altri il significato di una comunicazione diretta al soggetto e nel rispondervi di conseguenza. 2.3.2 Piani d’Azione Per Martha Pollack, un piano d’azione è una configurazione di credenze intorno all’eseguibilità delle azioni implicate e di intenzioni di eseguire le suddette azioni. Un piano è analizzabile a diversi livelli di dettaglio. È possibile: o costruire nuovi piani, anche se questo comporta un certo dispendio di tempo ed energia; o utilizzare piani già pronti, quindi già collaudati, che garantiscono una certa probabilità di successo e riducono sia la fatica che il tempo. I piani già pronti inoltre sono condivisi dagli altri e quindi socialmente accettati. Essi consentono di rendere immediatamente comprensibili le intenzioni dell’agente e di chiarire la sequenza di azioni che verrà messa in atto. Costruire un piano è cognitivamente faticoso e dispendioso. Conviene quando possibile utilizzare piani già pronti, al fine di risparmiare le proprie risorse.  Piano Individuale: riguarda esclusivamente il pianificatore.  Piano Interpersonale: comprende azioni che devono essere eseguite non solo dal pianificatore, ma anche da uno o più partner. Un genere di piano si può far risalire al concetto di script: una sequenza stereotipata di azioni che definisce una situazione ben nota, che comprende sia piani individuali che interpersonali. Lo script si basa a sua volta sul frame, una struttura di dati per la rappresentazione di conoscenza stereotipata.  Piano Condiviso: è un processo collaborativo fra due persone, dove ciascun agente crede mutualmente: o Farà la sua parte nell’azione congiunta; o Farà la sua parte se e solo se l’altro agente si comporterà allo stesso modo. Il piano condiviso è continuamente negoziato dagli agenti, essenzialmente per garantirsi di essere capiti dall’altra persona (es: persone in fila alla posta). Entrambi i partecipanti non hanno alcuna aspettativa riguardo al partner, al di là di quella che può derivare da principi generali di razionalità e di conoscenza universale sul mondo. Ogni volta che l’azione di un attore si incrocia con quelle degli altri, l’attore deve sia riconoscere il suo ruolo e fare in modo che venga riconosciuto dagli altri. Così facendo si segnala agli altri qual è il tipo di comportamento appropriato nei nostri confronti. Le azioni effettive e tutti gli altri modi di essere rendono un certo tipo di persona visibile e riconoscibile, ma elemento irrinunciabile è che anche negli altri si attivino le risposte che permettono a quella persona di esercitare il suo ruolo, che ne permettono l’agire (es: una persona può considerarsi un grande seduttore, ma se gli altri non lo considerano tale o nessuno si fa sedurre è impossibile mantenere il ruolo. Un uomo può considerarsi un medico, ma se non potrà esercitare, non avrà le conoscenze per farlo o il luogo, non sarà considerato tale). Possiamo introdurre la distinzione tra “fare il” (esibizione come-se) da “essere un”, dove tutto è compreso nel modo interiorizzato di agire. Il primo è frutto di esibizione ingannatrice, il secondo dell’esprimere attraverso comportamenti osservabili un modo effettivo di essere. Un piano comunicativo condiviso presuppone quindi che A e B si riconoscano reciprocamente nei loro ruoli e che modifichino congiuntamente il proprio comportamento. Capitolo 3 - Giochi comportamentali e conversazionali Wittgenstein propone la nozione di gioco linguistico, sostenendo l’idea che l’intero processo dell’uso delle parole fosse simile ad un gioco, questo perché l’uso del linguaggio corrisponde ad un’attività. Nasce così l’idea di preoccuparsi dell’uso del linguaggio e non del linguaggio stesso. Esempi di ciò che Wittgenstein considera giochi linguistici sono: comandare e agire secondo il comando; recitare a teatro; cantare in girotondo; chiedere, ringraziare, imprecare, salutare, pregare; mostrare a un bambino oggetti dicendone il nome. È necessario distinguere due concetti di gioco:  gioco comportamentale  gioco inteso come regolatore dell’interazione  gioco conversazionale  gioco come regolante la struttura del dialogo (linguaggio che regge il dialogo) Rispetto a quest’ultimo concetto Mann, Moore e Levine hanno introdotto il gioco dialogico con l’intento di spiegare le interazioni comunicative in termini di stati mentali degli agenti. Gioco dialogico  attività cooperativa di scambio di informazioni, specificando quando e quali mosse è necessario eseguire. Innanzi tutto, attraverso il gioco i piccoli di ogni specie (soprattutto i mammiferi sociali) imparano i rudimenti del comportamento adulto in un contesto piacevole e sicuro. Nel frattempo, apprendono le regole vigenti nel gruppo, mettono alla prova le abilita per sopravvivere. Inoltre, il gioco non e solo finalizzato all’apprendimento sociale: nei mammiferi superiori e un’attività che si perpetua anche nell’età adulta a scopo ludico. Esistono poi situazioni che non hanno né la struttura di giochi comportamentali né conversazionali: le situazioni non cooperative e le interazioni libere. 3.1 GIOCHI COMPORTAMENTALI I giochi comportamentali sono la struttura attraverso la quale sono coordinate le azioni interpersonali e che gli attori utilizzano per selezionare il significato effettivo di un enunciato fra i molti possibili. Per cooperare a livello conversazionale, entrambi gli agenti devono condividere il gioco comportamentale. Nella conversazione, dobbiamo tenere in conto due aspetti:  la competenza comunicativa  caratteristica generale della mente umana  gli schemi stereotipati di interazione  caratteristici di una specifica cultura o di un gruppo di persone. La competenza comunicativa può essere vista come un metalivello che controlla le inferenze che sono eseguite sulla base di schemi stereotipati di interazione. Questi aspetti rendono possibile il gioco comportamentale: quando un agente propone ad un partner un gioco comportamentale, la mutua conoscenza del gioco serve per instaurare una cooperazione conversazionale, non è detto che otterrà la cooperazione comportamentale. I giochi comportamentali definiscono la struttura attraverso cui sono mediate le azioni interpersonali. Es. A. Domani è giovedì. Vai tu a coordinare gli esami? B. Mi ha convocato il Rettore alle 9. N.B. es: “doveri didattici” come gioco comportamentale utilizzato per raggiungere cooperazione conversazione e comportamentale. Nell’esempio non si ha quest’ultima. L’espressione letterale rappresenta solo il punto di partenza per la comprensione di un enunciato: infatti, mentre il significato semantico della frase è immediatamente evidente, gli effetti che il parlante spera di attivare nell’ascoltatore devono essere dedotti e questo è possibile attraverso i giochi comportamentali. 3.1.1 Struttura del Gioco Comportamentale Perché due attori cooperino a livello comportamentale è necessario che operino sulla base di un piano almeno parzialmente condiviso. Airenti, Bara e Colombetti:  Chiameremo gioco comportamentale fra x e y un piano d’azione che è condiviso da x e y. Questo piano condiviso può essere esplicito a livello della consapevolezza, oppure tacito (non è necessaria la consapevolezza, mentre deve essere sempre necessariamente rappresentato). Oltre alle azioni, i giochi comportamentali includono le condizioni di validità, che specificano le condizioni in cui il gioco può essere giocato. Esse possono essere considerate un’estensione delle condizioni di buona riuscita di Austin, per garantire il successo degli atti performativi. attivare un gioco in un contesto fuori luogo, fallirà nel suo intento. Uno specifico enunciato (per esempio, “Sì, prendo questa donna come mia legittima sposa”) detto in un contesto diverso da quello convenzionale (per esempio, non durante la cerimonia nuziale in municipio o in chiesa, ma in spiaggia) fallisce nel suo intento. Un gioco che non corrisponda a una procedura performativa avrà vincoli meno rigidi di luogo. Un buon esempio è quello del setting psicoterapeutico, efficace per l’instaurazione della relazione terapeutica: fuori dal setting, la psicoterapia diventa più difficile, perché tale relazione non si può dare più per scontata. Spesso si trova la contemporanea presenza di vincoli spaziali e temporali (per esempio, un docente non può fare lezione dove e quando vuole: deve rispettare un orario delle lezioni che vincola docente e studenti ad essere in una data aula in uno specifico momento). III. Altre Condizioni: alcuni giochi possono richiedere altre condizioni di validità, legate ad aspetti particolari dei giochi stessi o della relazione fra i partecipanti. Per esempio, alcuni giochi pongono vincoli sul cliente (per noleggiare un’auto occorre possedere una patente e una carta di credito valide), sulla relazione fra i giocatori (gli ufficiali possono dare ordini ai subalterni) e sul prestatore dell’opera (un medico per esercitare deve essere iscritto all’Ordine della regione in cui lavora). Dato che comunque qualunque forma di interazione stereotipata si può costruire come gioco, non esistono in linea di principio limitazioni alle condizioni di validità che un gioco può richiedere. 3.1.4 Mosse di Gioco Garantite le condizioni di validità, un gioco deve essere contrattato: proposto e accettato, da tutti coloro che si impegnano a parteciparvi. Una volta aperto il gioco rimarrà attivo per i partecipanti per tutto il suo logico svolgimento fino alla naturale conclusione.  Apertura (bidding)  Può consistere in un atto espressivo, o nell’esecuzione di un atto comportamentale che equivale alla prima mossa significativa prevista dal gioco. L’atto espressivo consiste in un atto comunicativo che menzioni il gioco stesso, ma è anche possibile introdurre il gioco con un atto linguistico indiretto. Il gioco una volta aperto e accettato, resta attivo fino a quando i giocatori continuano a realizzarlo con il loro comportamento, oppure fino a quando avviene una chiusura formale. Non ogni mossa viene attribuita al gioco, ma per giochi che si prolungano per parecchio tempo i giocatori avranno cura di riconfermare il significato attribuito alle loro azioni (meno sottolineate di quelle di apertura). In alcune occasioni particolarmente ritualizzate (seduta di laurea), è possibile che ci sia un presidente o un cancelliere che dichiari ufficialmente aperta e chiusa la riunione, ma questa è più l’eccezione. In un gioco meno rigidamente formale, la chiusura del gioco è anch’essa oggetto di contrattazione: tutti i partecipanti dovrebbero concordare che gli obiettivi del gioco sono stati raggiunti o che le mosse previste sono state eseguite. Una seria contestazione sulla chiusura, implica che un giocatore non accetta quel gioco come terminato e che potrebbe denunciare come scorrettezza o rottura delle regole una sua sospensione a quel punto.  Mossa  le mosse che vengono attuate dipendono dalle finalità del gioco. Un gioco comportamentale specifica le mosse che lo costituiscono, nel modo più dettagliato possibile, in modo da vincolare il meno possibile gli attori a un’unica modalità obbligata di esecuzione. Si tratta di concordare far i partecipanti se la realizzazione di una mossa possa essere ritenuta valida, rispetto alle finalità dei giocatori e al contesto (es: per un’udienza dal Papa saranno specificate tutte le mosse, per un incontro con una persona importante ma non così tanto invece no). In alcuni casi il gioco non richiede mosse specifiche, ma vengono “improvvisate” dall’attore per ottenere uno scopo preciso; in altri casi, particolarmente istituzionali, possono invece richiedere l’esecuzione di una specifica mossa, descrivendo la procedura fino al minimo dettaglio. 3.1.5 Rottura di un Gioco Aver iniziato un gioco non significa obbligatoriamente portarlo a termine, ma l’attore che si ritira dal gioco è soggetto ad una sanzione sociale proporzionale all’importanza che il gioco ha per la comunità dei giocatori. Con “rottura di un gioco” si intende il fatto che un attore inizia un gioco ritirandosi però quando è il suo turno di effettuare una mossa. Talvolta, è la legge a garantire che un contratto venga rispettato (es: saldare dei debiti), talvolta è il gruppo sociale che penalizza l’individuo che non rispetta gli schemi, sottraendosi agli impegni assunti. - I contratti rigidi sono costrittivi e precisi, concedono poco all’interpretazione perché le mosse sono prescritte in dettaglio, le sanzioni sono altrettanto nette e inevitabili. - I giochi elastici sono flessibili e aperti, lasciando gli attori liberi di creare le proprie mosse, purché rispettino lo spirito del gioco; prima che ci sia sanzione ufficiale deve essere dimostrata una consapevole volontà di disattendere gli impegni assunti. Culture più rigide dal punto di vista delle norme di comportamento obbligano i propri membri a interagire in modo stereotipato, ma semplificano le relazioni. Sono le caratteristiche di personalità, unite alle esperienze, di ciascun essere vivente che lo portano a preferire un tipo di gioco a un altro: tuttavia, nulla rende un tipo di gioco migliore di un altro. Dove il gruppo non perdona è quando a rompere il gioco è il garante del gioco stesso (es: medico che uccide un paziente è peggio di un assassino qualunque), in tali casi alla normale penalizzazione si aggiunge quella della confraternita che non può tollerare debolezze al proprio interno. Non rispettare il gioco in cui ci si è impegnati è comunque un segno di non-cooperazione che rende più difficoltose le successive interazioni. Non essere considerati affidabili è l’essenza della penalizzazione sociale. Una diversa situazione è quella in cui un attore di cui si presume la conoscenza di un gioco, non è invece capace di eseguirlo. Si parla in questo caso di fallimento, distinguendolo in:  Fallimento di conoscenza: quando l’attore non sa cosa ci si attende da lui ed esegue una mossa sbagliata o fuori luogo. In questo caso l’attore potrebbe non essere consapevole del comportamento inadeguato e i suoi partner potrebbero proteggerlo dalla consapevolezza del fallimento, per evitargli l’imbarazzo che ne seguirebbe.  Fallimento di esecuzione La distinzione tra fallimento e rottura può non essere semplice da cogliere per il partner, che si trova di fronte a una difficile scelta: può richiamare l’attenzione dell’attore sull’incongruità della mossa che ha eseguito (con il rischio di vederne ribadito il carattere di intenzionalità e subire una doppia offesa), oppure decidere di lasciar perdere con il rischio che la rottura passi per un involontario fallimento per il quale non si prevede alcuna penalità. 3.1.6 La Relazione fra i Giocatori Perché due persone possano giocare un gioco è necessario che la loro relazione lo permetta, a sua volta, la relazione tra i due, definisce quali tipi di giochi possono essere riconosciuti come giocabili.  I giochi culturali sono accessibili a tutti coloro che condividono l’appartenenza alla stessa cultura, che condividono semplicemente la lingua o che si trovano nelle stesse coordinate spazio-temporali.  Per i giochi di gruppo, bisogna riconoscersi vicendevolmente come appartenenti allo stesso gruppo. La parte iniziale di un incontro tra due sconosciuti è solitamente dedicata a stabilire se esistono gruppi di comune appartenenza. L’insieme dei gruppi di appartenenza definisce quali giochi sono mutualmente conosciuti, anche se non è detto che automaticamente un gioco debba essere giocato, se pur noto. Inoltre, la conoscenza di un gioco non implica che si voglia giocarlo con quel o quei partner se non si ha voglia di aderire al comportamento dello stesso (es: gruppo di connazionali che non si comporta in modo educato all’estero). La relazione definisce anche quelli che sono i giochi presumibilmente giocabili fra due individui che pure non li abbiano mai agiti in precedenza; la risposta certa (accetto o rifiuto) da parte del partner circa la sua volontà di giocare si può avere solo dopo la proposta d’apertura ma, al fine di evitare rifiuti ed umiliazioni, l’essere umano tende a prevedere ed anticipare la possibile risposta, interrogandosi sulla relazione che si ha con l’altra persona. Il concetto di relazione non è un concetto oggettivo ma soggettivo; non esiste una relazione unica ma come ciascun attore vede la relazione con l’altro (es: dubbio se invitare il direttore al matrimonio del figlio). La relazione tra i partner, quindi, stabilisce i vincoli e le possibilità dei giochi giocati, di quelli potenzialmente giocabili e di quelli che appartengono alla stessa cultura. Talvolta, quindi, per realizzare un gioco deve essere prima rivista la relazione fra i giocatori. In alcuni casi un agente può decidere di non giocare, anche se sarebbe motivato a farlo, proprio a causa della relazione (es: B decide di non chiudere la porta per non dimostrare di accettare ordini da A) oppure di giocare per modificarla (es: snob che si iscrive ad un club esclusivo). In alcuni casi, la relazione deve essere rinegoziata prima di iniziare un gioco. Paziente e terapeuta non possono frequentarsi socialmente; bisogna aspettare del tempo dalla fine della terapia ed eventualmente rinegoziare la relazione. Altre volte può accadere il percorso inverso: una persona può decidere di frequentare un circolo altolocato, non tanto perché ne condivide gli interessi ma solo per avere un rapporto paritetico con gli attori che già frequentavano quel luogo. 3.2 INTERAZIONI LIBERE Esistono situazioni che non possono essere ricondotte ad alcun gioco condiviso, come per esempio quelle in cui non c’è cooperazione (es: esilio nell’antica Grecia) o quelle caratterizzate da puro disinteresse delle persone (in questo caso esistono giochi comuni ma manca l’intenzione reciproca di attivarli): in questi casi parleremo di situazioni non cooperative, sono molto riduttive e non permettono sviluppi significativi della relazione. È esperienza comune di non riuscire a stabilire un contatto con altre persone, per puro disinteresse di queste ultime a instaurare anche la più superficiale delle relazioni. In questo caso esistono giochi comuni ma manca l’intenzione reciproca di attivarli. Una seconda possibilità è che gli attori, pur rimanendo in un ambito di reciproca cooperazione, non abbiamo alcuno schema comune di comportamento cui riferirsi; qui, non ci troviamo più all’interno dei giochi culturali, noti per affrontare una situazione nuova. Ma, anche rimanendo entro la propria tradizione culturale, è sufficiente cambiare l’ambiente sociale di riferimento, uscendo dai giochi sociali usuali. Infine, non ci si potrà rivolgere a nessun gioco specifico condiviso quando due si tenti il passaggio dai riti superficiali a una conoscenza più approfondita, fra due persone che pur abbiano interesse l’un l’altra. Nelle situazioni che non possono essere ricondotte ad alcun gioco condiviso in cui non esiste alcuno schema comune di comportamento cui riferirsi (spostamento da una cultura all’altra, da un paese all’altro, da un posto di lavoro ad un altro) e l’attore sia libero di procedere nell’interazione parliamo di interazioni libere: Si parla di interazioni libere quando in una relazione non ci siano schemi pre-condivisi e l’interazione stessa viene lasciata libera di costruirsi. Perché si dia un’interazione libera l’attività in cui sono impegnati gli attori deve non essere stereotipata e contenere significativi aspetti di novità. In mancanza di schemi reciprocamente noti di riferimento, assume un’importanza cruciale la pianificazione congiunta . Abbiamo essenzialmente 3 possibilità: 1. Situazioni Non Cooperative: gli agenti sono immersi nella stessa situazione, ma non cooperano e non comunicano. 2. Interazioni Libere: gli agenti cooperano e comunicano senza schemi prefissati di comportamento, sono liberi di inventarsi come procedere nell’interazione. 3. Giochi Comportamentali: gli agenti cooperano e comunicano affidandosi a schemi prefissati e stereotipati di comportamento. 3.2.1 Costituzione di un Gioco Alcuni giochi sono trasmessi culturalmente (come la cortesia) o possono essere insegnati esplicitamente (come quando un nuovo assunto viene introdotto ai compiti che dovrà svolgere). Altri giochi possono però essere inventati direttamente dagli attori attraverso una pianificazione integrata delle azioni da compiere (nelle situazioni in cui non vogliono rivolgersi ad alcuno stereotipo). Se tale pianificazione integrata si dimostra di buon successo o utile per un’evoluzione dell’interazione, può essere usata come base per un gioco comportamentale. I giochi di coppia, creati all’interno della relazione possono apparire strani ed incomprensibili all’osservatore esterno che non può far altro che razionalizzare il tutto ma solo dal suo punto di vista : l’obiettivo di ciascuna interazione è quello di ottenere un guadagno psicologico personale che può essere di varia natura e molto diverso da quello di un osservatore esterno. Da questo presupposto appare evidente come per uno psicoterapeuta familiare risulti molto difficile affrontare una terapia con una famiglia patologica, in quanto i giochi che si svolgono al loro interno appaiono a primo impatto incomprensibili, come incomprensibile risulta la sofferenza psicologica che ne deriva. I giochi si formano lentamente e sono resistenti al cambiamento: è più semplice cambiare gioco piuttosto che modificarlo. In ogni caso, solo gli attori possono intervenire sul gioco, un osservatore rimane comunque esterno. 3.2.2 Evoluzione del Gioco È il rapporto con la madre la prima occasione che il bambino ha di entrare in contatto con un altro essere umano. È all’interno di questa interazione che si andrà a cercare la struttura di base emotiva e cognitiva che diventerà la modalità standard di interazione affettiva e sociale del soggetto. A questo proposito, Bruner introduce il concetto di format (precursore del gioco comportamentale): strutture stereotipate di comportamento, idealizzate e strettamente definite che il bambino interiorizza nell’interazione materna. Capitolo 4 - Comprensione e generazione di atti comunicativi La conversazione è una costruzione comune agita contemporaneamente da tutti i partecipanti. Lo schema generale è il seguente: un attore produce un enunciato ricevuto e rappresentato dal partner. Questo comporta una modifica dello stato mentale del ricevente che a sua volta si prepara per rispondere all’interazione. Gli stati mentali del partner relativi al dominio del discorso possono essere modificati dalla comprensione; quindi, il partner pianifica la mossa successiva di dialogo che viene infine generata. Nei processi mentali degli agenti durante la conversazione, si possono distinguere cinque fasi logicamente concatenate nell’ascoltatore (agente B):  Fase 1. Riconoscimento dell’Atto espressivo: lo stato mentale espresso da A è ricostruito da B a partire dall’atto illocutorio letterale (ciò che egli ha detto).  Fase 2. Significato inteso dal parlante: B ricostruisce le intenzioni comunicative di A, compreso il caso di discorso indiretto.  Fase 3. Effetto comunicativo: consiste di due processi: o Attribuzione: B attribuisce ad A stati mentali privati (credenze e intenzioni) o Aggiustamento: gli stati mentali di B possono essere modificati in conseguenza dell’enunciato di A.  Fase 4. Reazione: B produce le intenzioni che comunicherà nella risposta ad A, ovvero si tratta di pianificare l’atto comunicativo partendo dalle intenzioni private scaturite dell’interazione.  Fase 5. Risposta: B realizza concretamente una risposta comunicativa. La concatenazione di questi 5 processi è controllata dal gioco conversazionale: ovvero un insieme di meta- regole che stabiliscono quale compito deve portare a termina ciascuna fase per passare alla successiva. Qualora il compito non venisse portato a termine, la catena è sospesa e il processo va direttamente alla fase di reazione. Ciò è dovuto al fatto che il gioco conversazionale stabilisce che il partner reagisca all’enunciato dell’attore anche se non lo capisce, per esempio, chiedendo chiarimenti. 4.1 FASE 1: RICONOSCIMENTO DELL’ATTO ESPRESSIVO Il riconoscimento dell’atto espressivo passa per la comprensione del significato letterale, del contenuto proposizionale e della forza illocutoria dell’atto.  La forza illocutoria  è l’intenzione comunicativa del parlante (come deve essere intesa la frase) e quindi che tipo di atto illocutorio stia compiendo nel pronunciare quella frase. Da un punto di vista linguistico: - atto espressivo  ci dice come deve essere inteso l’enunciato e quindi regola la vera e propria forza illocutoria. Ci permette di attribuire ad A uno stato mentale e serve per capire il significato inteso dal parlante. - atto illocutorio letterale  è un atto comunicativo non usato a fini espressivi perché non veicola alcuno stato mentale di A. Non si può prendere come punto di partenza per la costruzione del significato inteso dal parlante. Non è cooperativo (A chiude la finestra) e può essere linguistico oppure no (ad esempio “Fare ciao” oppure per esercitarmi in inglese ripeto i giorni della settimana  dal mio ripetere i giorni si può derivare solo che ripeto, probabilmente per ripassare, ma non mi si può attribuire uno stato mentale). Entrambi possono essere mosse di gioco comportamentale. Metaregola M1: il compito di questa fase è quello di riconoscere l’atto espressivo dell’attore , ovvero l’enunciato di gioco. Per enunciato di gioco si intende un atto illocutorio letterale considerato come mossa di gioco, può essere sia linguistico che extralinguistico, può non avere contenuto proposizionale (tipo frasi fatte - “Piacere di conoscerla”, non esprimono alcuno stato mentale, poiché l’attore non sta effettivamente dichiarando di provare piacere, ma sta partecipando con il partner ad un gioco comportamentale di presentazione reciproca). - B per attivare i processi per comprendere il significato inteso dal parlante (fase successiva) deve raggiungere uno stato in cui è condiviso fra gli attori il fatto che uno dei due ha prodotto un atto espressivo e ha pertanto eseguito una mossa del gioco comportamentale. - Poi, si passa all’analisi che l’interlocutore B fa dell’enunciato emesso dall’attore A, in termini corrispondenti all’atto illocutorio, al contenuto proposizionale e alla forza illocutoria. - Una volta riconosciuto, il gioco conversazionale attiva il processo di comprensione del significato inteso dal parlante: nel caso in cui l’atto espressivo non venga riconosciuto si passa alla fase di reazione, dove sarà pianificata una risposta adeguata. Regole: 1) R1  Assertiva. la forza illocutoria assertiva corrisponde all’espressione di una credenza. “Alfonso tu sei un sadico!” 2) R2  interrogativa. La forza illocutoria interrogativa corrisponde all’espressione dell’intenzione dell’attore di indurre il partner a farle sapere che è il caso che p. è limitato alle domande che ammettano come risposte si o no. “Alfonso, ma Leopoldo è masochista?” 3) R3  direttiva. La forza illocutoria direttiva corrisponde all’espressione dell’intenzione dell’attore di indurre il partner a eseguire un’azione. “rinuncia al tuo nome, Romeo!” Questi sono tutti atti performativi. Tali forze illocutorie possono essere comunicate attraverso l’intonazione e il comportamento non verbale. All’interno della tassonomia degli atti espressivi, occorre parlare di una categoria a parte, rappresentata da quegli enunciati che non sono prettamente linguistici ma che fanno parte di giochi comportamentali. 4) R4  regola standard che si applica agli enunciati di gioco. compiere un atto illocutorio letterale che è definito come mossa di gioco, conta come giocare quel gioco (enunciati di gioco) “Le chiedo scusa per averla offesa, non era mia intenzione”. 4.2 FASE 2: SIGNIFICATO INTESO DAL PARLANTE Meta-regola M2: il compito di questa fase è quello di ricostruire il significato inteso dal parlante a partire dal significato letterale ricavato nella fase precedente. Il processo in 4 passaggi: 1. Tutte le inferenze avvengono all’interno dello spazio delle credenze condivise. 2. Il punto di partenza è l’atto espressivo per riconoscere il significato letterale. 3. Il risultato dell’intero processo è il riconoscimento delle intenzioni comunicative dell’attore. 4. Si deve identificare il gioco comportamentale per capire il significato comunicativo che A intende. In questo contesto si apre un problema cruciale: con un enunciato A potrebbe voler comunicare un numero infinito di cose, come delimitiamo l’insieme delle intenzioni comunicative? Esistono due posizioni: • Minimale: assume che solo il significato letterale sia effettivamente comunicato e che ogni conseguenza che il partner ne derivi è considerata inferenza privata, non intesa apertamente dall’attore. Questa è una posizione troppo prudente, che impedisce di differenziare tra i diversi tipi di inferenza e che esclude una conoscenza condivisa. • Massimale: assume che ogni inferenza basata su conoscenze condivise dai due interlocutori, debba essere considerata come apertamente intesa dall’attore. Tuttavia, il punto debole di questa posizione sta nel fatto che le inferenze tratte dalla conoscenza condivisa possono essere infinite. Dunque, questa posizione non si adatta bene al modello cognitivo umano, per cui i soggetti possono trarre un numero finito di inferenze. La posizione di Bara, Arienti e Colombetti individuano il principio di pertinenza  l’attore comunica solo quello che può essere derivato dal significato letterale del suo enunciato, attraverso inferenze che siano conversazionalmente pertinenti e rilevanti. Pertinenza  un enunciato è pertinente quando manifesta l’intenzione di A di partecipare ad un gioco comportamentale insieme a B, nel caso in cui il gioco sia già in atto, l’interpretazione dell’enunciato deve essere coerente con il gioco. Una prima distinzione da fare è tra l’enunciato eseguito come mossa di gioco comportamentale e l’enunciato utilizzato come proposta/offerta di un gioco comportamentale: 1. Enunciato come mossa: il dialogo è interno al gioco in atto. l’attore può usare qualunque tipo di mossa che può essere sia espressiva, sia linguistica che extralinguistica; oppure enunciati specifici del gioco. 2. Enunciato come proposta/offerta: l’attore menziona un gioco, proponendolo prima di eseguirne una qualunque mossa. Anche qui, distinguendo tra modalità linguistiche ed extralinguistiche. L’attore esprime uno stato mentale che si riferisce al gioco tramite una menzione delle azioni del gioco o attraverso il riferimento a qualche caratteristica del gioco stesso. L’inferenza è pertinente in base al metalivello in cui ci troviamo, il quale guida il processo inferenziale. Questo vale: - quando l’attore vuole cominciare a giocare ad un determinato gioco comportamentale che determina un’apertura comportamentale. - Nel caso in cui il gioco è già in atto, all’apertura comportamentale si aggiunge la comune consapevolezza che entrambi gli interlocutori sono impegnati in uno stesso gioco. In ogni caso il metalivello deve selezionare una catena inferenziale che raggiunga infine la condizione in cui A comunica l’intenzione di giocare e che B condivide questa intenzione. Il punto cruciale è che il partner comprenda quali sono le intenzioni comunicative trasmesse, attraverso un atto espressivo o un enunciato del gioco. 4.2.1 Atti Linguistici Indiretti Come fanno gli interlocutori a fare inferenze pertinenti? Dipende dal tipo di atto illocutorio usato. Atto illocutorio indiretto  un atto illocutorio il cui significato viene trasmesso in modo mediato, attraverso l’esecuzione di un altro atto illocutorio. Nella stessa frase sono compresi: - un atto illocutorio primario  il significato che l’attore esprime indirettamente, eseguito dall’attore attraverso un atto illocutorio secondario. Quindi B capisce sia ciò che intende dire A letteralmente tramite l’atto illocutorio secondario, sia quel qualcos’altro che è stato significato indirettamente (atto illocutorio primario) - un atto illocutorio secondario (letterale)  ciò che il parlante dice letteralmente es: “hai il mio numero di telefono?” secondario  se hai il mio numero – primario “chiamami” Come fanno gli interlocutori ad intendersi, dal momento che gli atti indiretti sono più frequenti di quelli diretti? Ci sono 4 linee di spiegazione: 1. Atti linguistici indiretti come FORME IDIOMATICHE Gli atti illocutori indiretti sono da considerarsi come espressioni idiomatiche che equivalgono a forme dirette, apprese e utilizzate come tali da chi parla (es. catturare lo sguardo – non si intende catturare in senso letterale ma figurato). Due obiezioni: - Possiamo produrre un infinito numero di atti linguistici indiretti per indicare la stessa cosa; una forma idiomatica riconosciuta, invece, deve essere appresa e utilizzata in quanto tale con varianti minime, per essere condivisa da tutti; - gli atti linguistici indiretti possono essere talvolta utilizzati come diretti, mantenendo la forza letterale (es. “può scrivere il suo nome?” non solo per richiesta di scriverlo, ma come domanda di screening diagnostico). 2. Atti linguistici indiretti RISOLTI PER INFERENZA Gli atti linguistici indiretti possono essere risolti per inferenza. Due obiezioni: - è impensabile che la comprensione di un indiretto debba necessariamente passare attraverso il fallimento della comprensione letterale (“Puoi passarmi il sale?” non è solo una domanda ma una richiesta). - Problema evolutivo: i bambini padroneggiano le forme indirette già intorno ai 3 anni, prima di essere in grado di effettuare inferenze logiche; 3. Atti linguistici indiretti risolti con l’ANALISI DEL CONTESTO Questa teoria dice che l’ascoltare “salta” l’analisi letterale della frase, sfruttando il contesto per la comprensione. L’ascoltatore, attraverso l’analisi del contesto, riesce a risalire al significato intenso del parlante, senza passare per il significato della frase: Obiezione: - teoria difficilmente sostenibile: non è possibile slegare il significato letterale da quello contestuale perché le persone processano entrambi. Ipotizziamo che l’ascoltatore B sbagli ad intendere il significato della frase detta da A (Sai che ore sono? – interpretata come un segnare di ritardo); dopo la spiegazione, B si scusa dicendo scusami ma i ricevimenti mi mettono ansia. Le scuse non avrebbero senso se B non avesse estrapolato sia il significato letterale della frase che la sua inferenza. 4. Atti linguistici indiretti CONVENZIONALI E NON Gibbs partendo dalle teorie precedenti, mostra come, in una serie di casi, un indiretto idiomatico sia praticamente equivalente a un diretto. Egli preferisce parlare di: o atti indiretti idiomatici: sono equivalente a specifici atti diretti. o Indiretti Convenzionali: quando il contesto permette all’ascoltatore di comprendere immediatamente il significato inteso dal parlante. Si basano sull’ipotesi dell’ostacolo: il parlante tende a formulare un enunciato che riguardi il maggiore ostacolo potenziale che l’ascoltatore può incontrare a soddisfare la sua richiesta. Data una buona conoscenza condivisa del contesto, il fatto che il parlante menzioni il più saliente ostacolo potenziale, equivale per l’ascoltatore a un potente indicatore su quale richiesta gli è stata avanzata. o Indiretti Non Convenzionali: quando è necessario per l’ascoltatore effettuare una serie di inferenze logiche per raggiungere il significato del parlante. Obiezioni: - È difficile stabilire come ciascun contesto rimandi ad uno specifico ostacolo e quindi definire ciò che può essere considerato convenzionale. 5. Atti linguistici indiretti SEMPLICI E COMPLESSI  il compito è effettuare una comunicazione di ritorno all’attore in cui il partner lo informi sulle sue intenzioni comunicative, indipendentemente dal fatto che abbiano avuto successo o meno (la reazione deve essere rilevante, non necessariamente sincera).  M4 impone che la reazione sia pertinente e rilevante; questo implica che non è necessaria alcuna reazione quando il partner crede che l’attore assuma già che l’effetto comunicativo sia già condiviso. Il partner deve informare l’attore se aderisce o no a: - l’apertura comportamentale dell’attore; - le intenzioni comunicative dell’attore che il partner esegua un’azione; - l’intenzione comunicativa dell’attore di condividere un fatto con il partner. La violazione di M4 può creare un’implicatura conversazionale: il partner informa l’attore che non intende rendere apertamente condiviso l’effetto comunicativo. Ci sono casi particolari che non seguono tale Metaregola conversazionale, come nel setting di una seduta psicoterapeutica, in cui l’analista non è obbligato a rispondere a tutto ciò che dice il paziente. La fase di reazione fallisce quando il partner non è in grado di avere una reazione pertinente a quanto comunicato dall’attore. Questo fallimento porta all’impossibilità di procedere oltre nella conversazione. Nel caso in cui uno degli interlocutori produce un atto comunicativo indipendente (che non sia una risposta ad un enunciato precedente), il metalivello resta inattivo (quando un agente introduce un nuovo argomento l’interazione ricomincia). Vi sono diversi tipi di intenzione comunicativa che il partner può generare, in base all’intenzione che egli pensa che l’attore abbia: o Indurre l’attore a svolgere un’azione A è riuscito a indurre B a eseguire un’azione. Il tipo di risposta può essere linguistico o no: - se l’azione deve essere eseguita immediatamente, il partner può semplicemente compierla (per esempio, “dammi un bacio”). - Se invece l’azione richiesta deve essere eseguita in seguito, il partner deve confermare la propria intenzione di compierla, tramite una risposta di conferma (vai a prendere tu i bambini da scuola lunedì. – Va bene, uscirò prima da lavoro). - Per le risposte negative, il partner può rendere esplicita con una frase di rifiuto la propria intenzione di non eseguire l’azione richiesta (per esempio, nella versione non linguistica, questo si traduce nel compiere un’azione opposta a quella richiesta) oppure compiere un’azione in contrasto con la richiesta (non gridare! E il partner continua a tenere il tono di voce alto). o l’attore A cerca di convincere il partner B di qualcosa L’effetto atteso consiste in una modifica di stati mentali, ma dato che questi sono privati, il partner è tenuto a dichiarare se tale effetto comunicativo è stato raggiunto oppure no (per esempio, se l’attore afferma qualcosa, il partner deve comunicare la propria posizione riguardo a quanto detto). Nessuna regola obbliga il partner ad essere sincero riguardo i propri stati mentali; egli può perseguire i suoi scopi in modo ingannevole o non sincero; infatti, il gioco conversazionale impone solo di convincere l’altro che i propri stati mentali siano stati condivisi. Il gioco conversazionale non impone solo l’accettare/rifiutare ciò che è stato proposto dall’attore, ma la fase di reazione si caratterizza anche per la negoziazione:  Chiarificazione  Il partner può avviare un sottodialogo qualora non capisca il gioco comportamentale che l’attore gli sta proponendo, prima di comunicare se intende aderire oppure no.  Contrattazione  trasformare l’intenzione dell’attore in qualcosa più vicino ai propri stati mentali.  Scuse: giustificazioni per non aderire alle intenzioni comunicative dell’attore (es: mi dispiace ma non posso prestarti la macchina perché è guasta). Secondo la teoria di Bara, l’unico tratto distintivo del gioco conversazionale è l’ intenzione comunicativa : solo rompendo l’intenzionalità comunicativa si può uscire dal dialogo. 4.5 FASE 5: RISPOSTA La fase di risosta ha due componenti: - input  le intenzioni comunicative prodotte dalla fase di reazione - output  rappresentazione che deve essere tradotta nella risposta effettiva Così come la comprensione, anche la risposta si può considerare come costituita da 2 processi: 1. Pianificazione  delle espressioni di alcuni stati mentali in funzione delle intenzioni comunicative. Può essere diretta (generare una risposta cioè condividere una credenza semplicemente esprimendola all’altro) o più complessa, per esempio quando si deve pianificare uno specifico enunciato in una difficile situazione o si vuole strutturare un inganno efficace (tramite un’effettiva simulazione dei processi di comprensione dell’attore, tenendo conto degli stati emotivi e cognitivi della persona con cui sta interagendo). Vi sono diversi modi di rifiutare al gioco proposto dall’attore:  Risposta negativa alla domanda letterale: in modo diretto (“Non mi piace”) o indiretto (“Mi spiace, ma…”).  Rifiuto della proposta indiretta: in modo diretto (“Non se ne parla”) o indiretto (“Sarebbe bello, ma…”).  Controproposta: B può rilanciare contrattando parte della mossa specifica che A ha proposto. 2. Realizzazione  degli stati mentali attraverso la rappresentazione di comportamenti linguistici ed extralinguistici. Il secondo compito consiste nell’esprimere una reazione in termini compatibili con le regole della conversazione e darle un’adeguata forma linguistica. Per esempio, l’uso del “beh” che precede l’effettiva risposta, preannuncia il fatto che il partner sta rifiutando la proposta. Nei termini dell’analisi conversazionale, B sta dando una risposta meno preferenziale. La dicotomia preferenziale/non preferenziale si riferisce a quanto una data risposta sia socialmente preferibile, mentre quella non preferenziale viene socialmente riconosciuta e marcata come tale e si usano strategie per ridurne l’impatto. Le strategie conversazionali tese ad attutire l’impatto di tali risposte consistono in:  Ritardo: ritardare una risposta attraverso o sequenze introduttive con pause (“se devo proprio rispondere, allora…”) o sequenze alternative usate per tergiversare (“lasci che prime le spieghi una cosa che può chiarire la mia posizione…”).  Indicazione di azione meno preferita: l’azione viene introdotta marcandola come non preferita (“speravo di non doverlo dire, ma se mi costringi…”), attraverso pre-sequenze esplicite, segnali non verbali di minor preferenza (smorfie, gesti con le mani), indicazioni paralinguistiche e particelle pragmatiche specifiche (“oddio, beh, uhu, mah”).  Atti linguistici indiretti o equivalenti: l’azione meno preferita è, di solito, eseguita in modo indiretto o comunque ammorbidita, per evitare confronti espliciti o perdite di faccia a uno degli interlocutori (“non credo di poterlo fare”; “forse sarebbe meglio che ci riflettesse ancora un pochino...”).  Giustificazione: le ragioni che hanno portato alla scelta dell’azione meno preferita sono fornite all’interlocutore, dando spiegazioni (“purtroppo non possiamo accettare, perché…”), motivazioni (“non credere che non lo voglia anche io, ma…”), scuse (“non è possibile vedersi questa settimana: sarà fuori città”). 4.6 FASE 6: MOTIVAZIONE Possiamo considerare la motivazione come un generatore di intenzioni. È una struttura a soglia, cioè non è necessario che tutte le precondizioni siano presenti, è necessario che quelle presenti abbiano un’intensità tale da raggiungere la soglia minima di attivazione. La configurazione delle precondizioni presenti e la loro intensità determina l’urgenza dell’intenzione generata. Nel caso della comunicazione, la motivazione di almeno uno dei due interlocutori deve essere quella di giocare a un gioco. Successivamente, questa intenzione, dovrà vincere una competizione con le altre intenzioni attive nel sistema. Quindi, per attivare la motivazione del partner, un agente deve lavorare su una serie di condizioni:  la validità del gioco;  l’accettabilità della relaziona del gioco;  la capacità del partner di giocare quel gioco;  la compatibilità dello stato interno del partner con il gioco. Una volta che queste precondizioni sono state verificate, si attiva l’intenzione in B di partecipare al gioco. Ciò non significa però che il partner accetti sempre e comunque qualunque proposta, solo perché le precondizioni ci sono tutte. Questo accade solo per giochi estremamente superficiali. L’intenzione generata dalla motivazione non è collegata soltanto al tipo di gioco, ma anche al partner. Attore e partner insomma hanno lo stesso potere di contrattare un gioco, dato che questo apparterrà a entrambi e se il proponente aveva voglia, desiderio o necessità di giocare quel gioco, anche il partner dovrà avere una paragonabile voglia, desiderio o necessità. Capitolo 5 - Comunicazione non standard Nella comunicazione standard è il gioco conversazionale a regolare l’interazione, operando ad un metalivello e, usando le meta-regole, garantisce che tutte le inferenze standard possano succedersi senza blocchi. Il meta-livello stabilisce l’obiettivo che ogni fase deve raggiungere per poter passare alla successiva. Se si verifica un problema, il metalivello blocca le regole per default (metalivello standard), attivando un diverso processo inferenziale che non utilizza regole automatiche, ma ricorre ad inferenze non standard. Comunicazione Non Standard  processo comunicativo che ricorre ad inferenze di tipo classico, non potendo applicare le regole per default in quanto inadeguate al contesto. Un distacco dalla catena inferenziale standard può essere dovuto a due differenti ragioni: - è effettivamente voluto dall’attore (distacco intenzionale) e in questi casi si parla di sfruttamento o interazione non espressiva - oppure accade nella mente del partner senza che l’attore lo abbia inteso, come nel caso del fallimento perché il partner non segue la catena inferenziale quando avrebbe dovuto seguirla, o perché la segue quando non avrebbe dovuto. Nel caso in cui l’attore usi una falsa condivisione per raggiungere i propri obiettivi privati, ci troviamo di fronte a un tentativo di inganno. Così come avviene nella comunicazione standard, anche nella comunicazione non standard occorre distinguere, all’interno degli atti comunicativi indiretti: - Atto Comunicativo Semplice: il passaggio da un enunciato ad un gioco comportamentale è immediato e richiede un unico passaggio - Atto Comunicativo Complesso: il passaggio da un enunciato ad un gioco comportamentale richiede una catena inferenziale di lunghezza variabile. Ci sono una serie di casi interessanti che escono dalla normalità e che possiamo classificare in 4 categorie: • Interazione non espressiva: l’uso di un enunciato senza che ci sia intenzione di esprimere lo stato mentale associato. Ricade nella prima fase della comunicazione: comprensione dell’atto linguistico. Comunicazione standard  comprensione dell’atto linguistico comunicazione non standard  interazione non espressiva • Sfruttamento: l’uso particolare di una regola della comunicazione per ottenere un effetto comunicativo diverso da quello normalmente associato a quella regola (es. ironia). Ricade nella seconda fase: comprensione del significato inteso dal parlante. Comunicazione standard  comprensione del significato inteso dal parlante comunicazione non standard  sfruttamento In entrambi i casi, l’attore cerca di fa sì che il partner identifichi e segua la via non standard: al contrario, si avrebbe un fallimento della comunicazione. • Fallimento: mancato raggiungimento dell’effetto comunicativo desiderato. • Inganno: tentativo di comunicare uno stato mentale non effettivamente posseduto. Ricade nella terza fase: effetto comunicativo. Non può ricadere nelle prime fasi di comprensione dato che riguarda la discrepanza fra quel che l’attore comunica e i suoi stati mentali privati. Il partner cerca di ricostruire questa relazione nel processo di attribuzione dell’effetto comunicativo. Comunicazione standard  effetto comunicativo comunicazione non standard  inganno 5.1 INTERAZIONE NON ESPRESSIVA Nella fase di comprensione dell’atto espressivo della comunicazione standard, le regole di base permettono al partner di attribuire un determinato significato all’enunciato dell’attore. L’uso di regole per default è giustificato dall’assunzione che un atto comunicativo condiviso sarà considerato come espressivo, a meno che non ci sia esplicita evidenza del contrario. Per assumere che l’attore non stia esprimendo un proprio stato mentale, il partner deve essere convinto che l’interazione stia realizzandosi in un contesto non standard (es: una persona che sta leggendo ad alta voce un libro, o che sta recitando a teatro). Diverso è il caso in cui l’attore stia proferendo parole non sue, ma lo faccia assumendosene le responsabilità (es: trasparente e la scelta di cosa fare è consapevole. L’incomprensione è un caso di insuccesso trasparente nel senso che B è consapevole di non aver capito quel che ha detto A) 2. Fraintendimento B capisce la lettera o il significato di A in modo diverso rispetto alle intenzioni di A. La catena inferenziale segue una strada diversa rispetto a quella intesa da A. il fraintendimento è un caso di insuccesso opaco nel senso che B non è consapevole di non aver capito quanto detto da A 3. Rifiuto B capisce ciò che A dice, ma non vi si adegua. La catena inferenziale anche qui segue una strada diversa da quella prevista da A. Il rifiuto è un caso di insuccesso trasparente per B nel senso che B ha capito e ha deciso deliberatamente di non adeguarsi I possibili tipi di insuccesso comunicativo possono essere distinti per il livello a cui avvengono. Questi livelli sono: A. Fallimenti Letterali I possibili fallimenti riguardano la trasmissione di un messaggio o l’attribuzione del significato espressivo di un enunciato. Due casi: 1. Incomprensione dell’Atto Espressivo: B non capisce cosa A dice. o A gioco conversazionale inattivo : il gioco conversazionale non è neppure stato attivato, il messaggio trasmesso da A non arriva neppure a B (es. la voce di A soverchiata dal rumore; B non si accorge, è distratto). In tali casi B non è consapevole del messaggio di A e quindi non darà alcuna informazione di ritorno. A potrebbe erroneamente prendere l’assenza di messaggio come un’informazione di disinteresse (insuccesso opaco). o A gioco conversazionale attivo : B si accorge che A ha agito comunicativamente, ma non riesce a capire quale sia il messaggio (es. A dice qualcosa in una lingua incomprensibile). B ha il vantaggio di essere consapevole dell’insuccesso comunicativo di A e ha la possibilità di rendere condiviso il fallimento letterale (es. “non ho sentito”; “non ho capito cosa hai detto”; “non ho visto bene” ecc.). (insuccesso trasparente). 2. Fraintendimento dell’Atto Espressivo: B capisce altro da ciò che A ha detto. L’ascoltatore comprende l’atto linguistico in modo diverso da come il parlante intendeva. Non c’è consapevolezza da parte di B, il quale è convinto di aver compreso l’atto emesso da A (es: A dice qualcosa in una lingua che B non comprende, B non riceve una lettera che A aveva detto di aver spedito, B non si accorge di qualcosa che A voleva mostrargli)  insuccesso opaco. Le incomprensioni emergeranno durante l’interazione. I possibili fallimenti in questa fase possono riguardare anche l’attribuzione inconsapevole di un significato errato all’enunciato da parte dell’ascoltatore, che intende l’atto linguistico in modo diverso da come lo intende il parlante (fraintendimento). In questo caso abbiamo tre possibilità: o Errata applicazione di una regola per default : un enunciato che A intendeva come non espressivo viene compreso da B come espressivo (es. attrice che legge ad alta voce). o Errato blocco di una regola per default : speculare alla prima, B comprende come non espressivo un enunciato che A intendeva come espressivo (es. A sta riportando a B il discorso di C, aggiunge un commento proprio e B lo considera come detto da C). o Differente utilizzazione di conoscenza : la più frequente, B confonde un enunciato con un altro. B non capisce bene cosa ha detto A e completa il discorso usando la sua fantasia (es. quando B è leggermente sordo). B. Fallimenti di Significato Gli insuccessi comunicativi che avvengono in questa fase riguardano una errata comprensione delle intenzioni comunicative dell’attore. Possiamo distinguere 2 tipi di incomprensione: 1. Incomprensione del Significato del Parlante: B non capisce qual è l’intenzione comunicativa del parlante. Abbiamo un fallimento di questo tipo ogni qual volta B sente una frase e la interpreta letteralmente in modo corretto ma non riesce a capire cosa A volesse comunicargli. Dato che ci si trova nella seconda fase della comunicazione, l’interazione è attiva e B sarà consapevole del fallimento e attiverà direttamente la fase di reazione in cui B deciderà se esplicitare l’insuccesso chiedendo chiarificazioni o no (es: A che legge a voce alta un libro e B pensa che si stia rivolgendo a lui); 2. Fraintendimento del Significato del Parlante: B fraintende l’intenzione comunicativa di A. B capisce il significato letterale di ciò che A ha detto, ma interpreta il senso della frase in maniera diversa dalle aspettative di A. Sono 3 le modalità di questo fallimento: o Errata applicazione di una regola per default : l’ascoltatore non coglie uno sfruttamento che il parlante intendeva comunicare: B applica una regola che secondo A andava bloccata (es. incomprensione dell’ironia, B risponde come se quella frase fosse standard). o Errato blocco di una regola per default : speculare al primo, B non applica una regola per default che secondo A andava applicata (es. pensare che A sia ironico quando è serio). Un’ulteriore possibilità è che l’ascoltatore capisca che è in atto uno sfruttamento di una regola, ma non sa di quale si tratti; siamo quindi in un caso in cui l’errore di B consiste nell’interpretazione sbagliata delle ragioni per bloccare una regola per default, che pure viene correttamente sospesa (come non cogliere l’ironia ma cogliere una situazione come-se  “complimenti ottimo intervento!” - “grazie” poiché è inteso non in senso ironico ma come frase di circostanza). o Differente utilizzazione di conoscenza : il partner non applica le conoscenze che l’attore intendeva utilizzasse. Una mossa comunicativa è interpretata come mossa del gioco sbagliato (Cosa fai il prossimo Weekend? – Cosa proporresti tu? – No, intendevo se puoi tenermi il cane, dato che io vado in montagna) C. Fallimento nell’ Effetto Comunicativo Un insuccesso significa che l’attore non è riuscito o a convincere il partner di qualcosa o a indurlo a eseguire un’azione. L’apertura comportamentale è stata capita, ma non accettata. Il partner ne è consapevole dato che l’insuccesso dipende proprio da una sua decisione. Anche in questo caso le modalità sono tre:  Errata applicazione di una regola per default : comporta una discrepanza fra le intenzioni private e le intenzioni comunicate dell’attore. B assume erroneamente che le intenzioni comunicate da A siano realmente possedute, mentre, in effetti, non lo sono (es: Laura che dice a Giovanni di chiudere, Giovanni accetta, ma in realtà Laura voleva che lui riaffermasse il suo amore per lei);  Errato blocco di una regola per default : si verifica ogni volta che il partner non accetta di fare la sua parte nel gioco proposto dall’attore, anche se potrebbe benissimo farlo. Più che il termine “errato”, sarebbe più idoneo utilizzare “non desiderato dall’attore”: sono qui determinanti le motivazioni private dell’attore. Rientrano in questa categoria qualunque rifiuto motivato da obiettivi interni alternativi (es: A non vuole prestare la macchina a B perché serve a lui).  Differente utilizzazione di conoscenza : una delle credenze necessarie perché B si impegni a fare la sua parte nel gioco non si è verificata; di conseguenza il partner rifiuta di giocare. Le credenze necessarie in grado di rendere vano l’effetto comunicativo sono: o Gioco non ammesso dalla relazione tra gli attori: il partner considera il gioco proposto da A come non permesso dalla relazione (es. tra paziente e terapeuta non ci si può incontrare al di fuori dell’orario delle sedute). o Condizioni di validità del gioco non sussistenti: B non crede che sussistano le condizioni di validità del gioco proposto, considerando inaccettabile la proposta di A (es. “facciamo un’ultima partita a carte?” “no dai è già tardi devo tornare a casa”). o Assunto di incapacità del partner a svolgere il proprio ruolo: il partner non crede di essere in grado di eseguire le azioni previste dal gioco (es. “sposiamoci” “ma cosa dici, non HO ancora avuto il divorzio da tua moglie”) o Attribuzione di incapacità all’attore a svolgere il proprio ruolo: il partner non crede che l’attore sia in grado di eseguire le azioni previste dal gioco (es. “sposiamoci” “ma cosa dici, non HAI ancora avuto il divorzio da tua moglie”). o Attribuzione di non attendibilità all’attore: il partner non crede che l’attore sia adeguatamente informato rispetto allo stato di cose in discussione (es. mi ha detto il preside che la scadenza è il 31 dicembre” “e tu credi davvero che il preside abbia controllato?”). o Assunto di scorrettezza dell’attore: il partner crede che l’attore stia cercando di ingannarlo. o Assunto di insincerità dell’attore: il partner crede che l’attore gli stia mentendo. In tutti questi casi il partner utilizza conoscenze diverse da quelle che l’attore intendeva che lui utilizzasse, di conseguenza decide di non impegnarsi nel gioco proposto. 5.3.4 Recupero del Fallimento Lo scopo principale del recupero è ripristinare la conoscenza comune che all’interno della comunicazione è andata persa. Per quanto riguarda il recupero da un fallimento letterale o del significato occorre distinguere due modalità: la ripetizione (= migliorare le circostanze di emissione dell’enunciato, cercando di enfatizzare il messaggio, eliminando il rumore) o in una parafrasi (= utilizzare parole diverse più comprensibili per il partner). I casi più interessanti dal punto di vista della pragmatica sono i recuperi dai fallimenti dell’effetto comunicativo perché questi presuppongono una negoziazione tra gli attori. Dopo un insuccesso comunicativo a livello dell’effetto comunicativo, A può tentare un recupero, o proporre la condivisione del fallimento. Quando l’attore rinuncia a qualsiasi tentativo di recupero si parla di fallimento condiviso. Il recupero dal fallimento può avvenire in diversi modi:  Ristrutturare la relazione (se non si vuole giocare il gioco con quell’attore specifico)  Modificare lo stato interno di B (se B non vuole giocare)  Evidenziare le capacità di A o B se uno dei due è ritenuto incapace  Ribadire la sincerità (se B crede che A menta)  Dilazionare nel tempo (se c’è un problema temporale) 5.4 INGANNO L’inganno presuppone la capacità di raffigurarsi mentalmente il comportamento di un altro individuo, sulla base di una rappresentazione dei suoi stati mentali. Whiten e Byrne, sulla base delle loro osservazioni nei primati, hanno proposto una tassonomia degli inganni. Gli inganni tattici sono definiti come atti del normale repertorio comportamentale di un agente A, utilizzati in modo tale che un individuo B possa facilmente interpretare in modo erroneo il loro significato, con vantaggio dell’agente A. La classificazione è la seguente: 1. Nascondere qualcosa; 2. Distrarre l’attenzione di B da un luogo all’altro; 3. Creare una falsa immagine di A in modo che B interpreti erroneamente qualcosa (tipicamente umano). 4. Manipolare B attraverso un altro individuo C: comportandosi in un certo modo con C, l’agente A modifica il comportamento di B a proprio vantaggio; 5. Redirezionare il comportamento (essenzialmente aggressivo) di B: A agisce in modo tale che B sposti il suo comportamento aggressivo su un altro individuo C, invece che su A. L’inganno, evoluzionisticamente parlando, si è sviluppato per favorire la sopravvivenza e la riproduzione di geni diversi da quelli della pura forza fisica (es: l’elefante di mare che si finge una femmina per introdursi nell’harem del maschio dominante, troppo occupato a combattere contro i nemici sfidanti). Per la pragmatica cognitiva l’inganno è una consapevole violazione di un gioco comportamentale condiviso: A, sapendo che B dovrebbe agire in un certo modo, premeditamene effettua un comportamento comunicativo che sa che B considera come mossa del gioco, mentre A sta violando il gioco stesso. La difficoltà dell’inganno sta nel fatto che A deve, contemporaneamente, mantenere sempre attive sia la credenza privata non-p che quella data per condivisa p. Il fatto che A comunichi i suoi veri stati mentali a B o meno, non pregiudica il regolare svolgimento di un gioco conversazionale; le cose cambiano però nel caso di un gioco comportamentale. In questo caso i giochi si possono classificare in: ■ Giochi regolari  gli agenti si impegnano reciprocamente alla correttezza e alla sincerità. Qualunque atto non corretto o non sincero rompe il gioco e va considerato come un inganno (es. A può dire a B che farà una data cosa, ma ha già deciso di non farla). Se però la rottura non è pianificata, non ricade nella categoria degli inganni (Giulia sta per pagare alla cassa del supermercato, quando si accorge di non avere il portafogli che le è stato rubato – non c’è inganno e Giulia non è una truffatrice). ■ Giochi irregolari  gli agenti sono sinceri e corretti, tranne quando sono reciprocamente consapevoli che sincerità e correttezza sono sospese, perché si sta giocando un gioco irregolare. Gli stati mentali effettivi sono rilevanti, ma sono ammesse discrepanze locali fra gli stati mentali privati e quelli espressi: tali discrepanze non contano come veri e propri inganni. Tuttavia, gli agenti devono segnalare quando stanno entrando nel gioco irregolare, sospendendo la cooperazione, e quando ne stanno uscendo (per riprenderla). Esistono delle metaregole che limitano le discrepanze possibili (es: avvocati di parte avversa, giocatori di poker, contrattazione tra mercanti, ecc…) ■ Giochi di facciata  la concordanza tra stati mentali effettivi e stati mentali espressi è irrilevante per mutuo consenso (situazione come-se). Non si dà, quindi, nessun inganno in questi giochi (es. complimenti di cortesia). Sorge un problema quando uno degli interlocutori considera regolare un gioco, mentre l’altro lo ritiene di facciata (“complimenti bella casa!” sarà visto come un complimento a prescindere dal fatto che chi lo dice lo pensi o no). Dal punto di vista evolutivo Perner sostiene che l’inganno consiste nel tentativo di un attore di manipolare gli stati mentali del proprio partner; l’attore ha, cioè, lo scopo di indurre nel partner false credenze circa la realtà, spingendolo a compiere azioni favorevoli ai propri scopi. Egli esclude dagli inganni quelle che chiama bugie primitive (il classico “Io no!”): sono quelle intenzioni comunicative che si trovano già ad un anno di età, aventi capace di indicarne la localizzazione alle compagne, segnalando sia la direzione rispetto al sole sia la distanza dall’alveare. Va notato come l’intera struttura comunicativa sia geneticamente precostruita, senza che l’individuo abbia alcun grado di libertà. Un gruppo di mezza dozzina di individui può avere una struttura sociale molto più articolata di una società di alcune centinaia di membri: dipende da quanto è geneticamente rigida la reciproca interazione fra gli individui e da quanti possibili giochi essi siano in grado di giocare liberamente tra loro. Distinguiamo quindi:  Sistema Rigido di Interazione  Si trova in tutte le specie animali. Nel sistema rigido a ogni segnale corrisponde un unico significato (determinato geneticamente), senza possibilità di composizione, modifica o innovazione (fischio d’allarme della marmotta, canto usignolo per delimitare il territorio). Con queste capacità, tale sistema chiuso non può superare la decina di significati. Il livello successivo è quello dei mammiferi sociali che sono in grado di comunicare significati elementari come la reciproca presenza o il pericolo.  Sistema Semirigido di Interazione  Tipico dei mammiferi superiori. Questo sistema presenta la possibilità che un limitato numero di significati di base può essere montato per costruire un significato composto. Un branco di lupi sa organizzare una caccia di gruppo attribuendo funzioni specifiche a ciascun membro; ciò comporta che esistano significati elementari (preda, inseguitore, uccisore) associabili ad altri significati elementari (lupo alfa, lupo beta…) per comporre un discorso sensato alla fine del quale ciascun interlocutore abbia compreso qual è il suo ruolo nell’azione. I mammiferi superiori hanno anche la possibilità di usare un medesimo comportamento all’interno di contesti diversi, facendone così variare il significato. Un sistema come questo può raggiungere alcune decine di significati ma rimane il limite dei significati di base e dei connettivi utilizzati.  Sistema Aperto di Comunicazione  Rappresentati solo dagli esseri umani, sono quelli in cui il numero di significati elementari è potenzialmente infinito, come potenzialmente infinito è il numero delle frasi generabili attraverso la sintassi. Il linguaggio umano compone le parole sulla base di unità elementari (lettere alfabeto, segni, ideogrammi). 6.1.1 Comunicazione Comparata La comunicazione non si può ridurre esclusivamente a quella linguistica. Per parlare è necessario possedere: - un apparato fonatorio adeguato - un corrispondente sistema uditivo in grado di discriminare i suoni emessi - capacità cerebrale - area cerebrale specifica (Broca e Wernicke) Già i primi ominidi (da Homo habilis in avanti) possedevano la struttura fonatoria utile per generare consonanti associate a vocali. Una funzione di mantenimento della coesione del gruppo fra le scimmie è rappresentata dal social grooming, ovvero un’attività basate sul reciproco grattarsi, spulciarsi, pettinarsi il pelo. Il grooming serve per stabilire e mantenere i rapporti di amicizia e di coesione. A differenza del social grooming, il linguaggio è uno strumento di coesione che permette l’evoluzione e il mantenimento della coesione nel gruppo con una notevole riduzione di tempo. In questo senso una funzione essenziale del linguaggio è quella di stabilire legami sociali , tanto nell’uomo contemporaneo quanto in quello preistorico. 1. È l’Homo Habilis il primo ominide a mostrare la capacità cerebrale, con un particolare sviluppo delle aree frontali e parietali responsabili del controllo del linguaggio e delle mani. 2. con il tardo homo erectus osserviamo il protolinguaggio che nasce come strumento indispensabile in gruppi numerosi (più di cento individui) per la coordinazione di azioni di caccia di gruppo e come strumento di interazione sociale. 3. La capacità simbolica rappresenta la svolta successiva nell’evoluzione del linguaggio e può essere attribuita all’homo sapiens rendendo quindi il linguaggio, come lo conosciamo oggi, una sua prerogativa e quindi biologicamente recentissimo (Homo Sapiens moderno ). Donald ritiene che tutti i linguaggi conosciuti possano essere fatti risalire ad un antenato comune sviluppatosi circa 100000 anni fa e ciò significa che, nonostante il progresso tecnologico, lo strumento linguistico è rimasto presumibilmente lo stesso (come dimostrano evidenze antropologiche riguardo gruppi umani rimasti all’età della pietra che possiedono linguaggi con caratteristiche equivalenti a quelli parlati dalle comunità che hanno sconosciuto uno sviluppo tecnologico significativo). Sarebbe meglio far coincidere la comparsa di qualche forma di linguaggio circa 2 milioni di anni fa, quando, sono comparsi i primi manufatti. Se si accetta l’idea che la capacità comunicativa si sia evoluta progressivamente, allora già Homo habilis comunicava in senso proprio 2 milioni di anni fa. Sulla base di una capacità comunicativa ampiamente sviluppata, nel successivo milione e mezzo di anni si è evoluto il linguaggio e negli ultimi 200.000 anni è avvenuta la piena maturazione della comunicazione linguistica. La Scrittura Gli esseri umani sembrano invece dotati di un’innata competenza notazionale. L’invenzione della scrittura, proprio solo degli esseri umani, permette la stabilizzazione della cognizione esterna rendendo possibile lo sviluppo culturale transgenerazionale, cioè l’esistenza, la trasmissione e la continua generazione di sapere. Questo non sarebbe possibile senza una cognizione sia esterna che interna, presente negli esseri umani. Ma la consapevolezza più importante di tutte è che la cognizione è incarnata, realizzata, cioè, in un corpo specifico, dotato di particolari caratteristiche: in questo senso le nostre capacità intellettuali sono collegate anche all’abilità manuale. Altri animali cerebralmente molto dotati, ma privi di pollice opponibile non hanno alcuna possibilità di crescita culturale transgenerazionale. Gli ominidi possiedono sia il cervello (cognizione interna), sia le condizioni ambientali (cognizione esterna), sia le caratteristiche corporee (cognizione incarnata) che permettono di sviluppare al massimo grado le capacità comunicative. I nostri antenati, a partire dalla cognizione interna, incarnata ed esterna (possibilità di concretizzare la cognizione all’esterno, come la scrittura) hanno costruito gradualmente la cultura moderna che permette di lasciare delle eredità culturali. Il primo passo verso la scrittura è il momento in cui i primi artisti umani cominciano a dipingere e a incidere le pareti delle grotte, in un’evoluzione continua che dura almeno 30.000 anni. Il primo caso di protoscrittura risale al 10.000 a.C.: su un frammento di osso è incisa una notazione sia scritturale che aritmetica, una sorta di elementare calendario. Possiamo distinguere tra diversi tipi di scrittura, usando come criterio il numero di segni utilizzati: A. Pittogrammi (> 1000) B. Logogrammi (1000 – 100); C. Sillabica (100 – 40); D. Alfabeto (< 40); I pittogrammi possono essere considerati una rappresentazione permanente di comunicazione extralinguistica, in quanto mancano i nessi logici, i modi e i tempi che collegano i soggetti agli eventi. Nei pittogrammi ogni raffigurazione è immediatamente comprensibile poiché è rappresentazione della cosa stessa. L’efficacia del pittogramma è anche il suo limite: ciascuno può immediatamente comprendere il significato dei segni impressi sulle tavolette, viste come una sequenza di immagini. Per rendere più efficace la scrittura pittografica è necessario operare una stilizzazione che riduca il numero di segni utilizzabili: logogramma. Il passaggio cruciale consiste nell’introdurre una prima rudimentale sintassi che permetta di passare dalla proprietà di associabilità (l’extralinguistico) a quella di composizionalità (il linguistico) e, soprattutto, associare segni per nuovi significati (pane + bocca = mangiare, due simboli uguali per indicare il plurale). Il passo decisivo verso la scrittura come la utilizziamo oggi è la sostituzione degli ideogrammi (che rimandano direttamente al segno specifico) con i fonogrammi (sillabe, che indicano uno specifico suono), riducendo i segni utilizzabili a meno di 100. Il meccanismo principale è quello del rebus a trasferimento: per esprimere il concetto del ridere (riso) lo scrittore non stilizza più un volto sorridente, ma raffigura un chicco di riso; ciò che rimanda al significato è la pronuncia del segno e non il segno in sé. Tali scritture non si leggono, si decifrano. Uno dei primi esempi di applicazione di questo metodo è riscontrabile sulla Piastrella di Narmer (3.000-2.850 a.C.) che raffigura il re Narmer vittorioso. L’aumento di efficacia espressiva viene pagato con l’ambiguità di interpretazione del significato: per poter decifrare un testo è necessario conoscere la lingua e avere una buona informazione sul contesto generale. L’ultimo passaggio consiste nell’invenzione dell’alfabeto operata dai Fenici (1700 a.C.), la cui prima documentazione è il lineare A, dotato di una quarantina di caratteri. I Fenici utilizzano solo le consonanti lasciando al lettore il compito di introdurre le vocali, l’introduzione delle vocali nell’alfabeto è compiuta dai Greci intorno al 100 a.C. realizzando una totale corrispondenza fra comunicazione linguistica parlata e scritta e permettono quindi la transizione culturale, non solo da individuo a individuo ma anche da una generazione all’altra. La capacità di insegnare e apprendere non è tipica soltanto degli esseri umani, ma solo in questi è sistematica (negli scimpanzé, per esempio, la madre si limita a “mostrare come si fa” e il piccolo non è in genere disposto a imparare). Nei primati non umani, inoltre, manca una vera e propria capacità imitativa tale da rendere possibile l’apprendimento culturale. Ogni scimpanzé può inventare un nuovo segnale, ma nessun conspecifico lo riprodurrà, preferendo piuttosto produrne uno nuovo. Anche questo rende impossibile la trasmissione culturale all’interno del gruppo e ovviamente anche da una generazione all’altra. 6.1.2 Rapporto Encefalico Micro/Macro Jerison ha proposto il quoziente di encefalizzazione che si basa sulla relazione fra cervello e corpo e rappresenta la misura di quanto l’effettiva dimensione cerebrale di una specie supera quella che sarebbe prevedibile per animali di quella taglia. Gli uomini, infatti, hanno il triplo del cervello rispetto agli altri primati. Jerison sostiene che i primati hanno raggiunto una massa critica che ha poi portato allo sviluppo del linguaggio (600cc), capace quindi di supportare le loro capacità cognitive. Passingham pone l’attenzione sullo sviluppo della corteccia cerebrale, ritenendo questa responsabile delle maggiori capacità cognitive e attribuendo all’homo sapiens un quoziente di encefalizzazione pari a 7 (primati antropomorfi 1, australopiteco 2, homo abilis 4). Secondo Deacon, il quoziente di encefalizzazione non è una valida approssimazione per le comparazioni tra primati e le altre specie. Non si può confrontare una parte (la corteccia), con il tutto (volume complessivo cerebrale), tenendo conto che la corteccia è quella con maggiore sviluppo e quello che ne emerge è un confronto non corretto. È la macroarchitettura cerebrale a riorganizzare la struttura facendo compiere al cervello i salti qualitativi che osserviamo rispetto agli altri animali. In pratica, ogni volta che il cervello subisce un incremento, le nuove parti lo riorganizzano in modo più funzionale. L’obiettivo di Bara è creare una nuova teoria che renda giustizia alle differenze tra cervello umano e cervello dei primati non umani, tenendo conto della micro-macroarchitettura. La differenza sostanziale tra i primati e gli ominidi, se vogliamo dare una cifra a tale incremento e parlare di microarchitettura, sta nella porzione di cervello destinata al controllo corporeo e in quella destinata alla cognizione. In termini di macroarchitettura, cioè di organizzazione del sistema nervoso, va considerato che ogni quantitativo cerebrale che si aggiunge non va semplicemente sommato, perché fa funzionare tutto il cervello in modo diverso da prima. In sintesi, la specie umana non si è limitata ad aggiunger neuroni ma a dedicare un’ampia parte di questi a gestire altri neuroni, con un’efficienza mai vista prima. Lo Sviluppo Cerebrale Il cervello umano alla nascita è molto più immaturo di quello degli altri primati e rimane straordinariamente plastico per molti anni. I principali processi di sviluppo postnatale sono la specializzazione emisferica, la sinaptogenesi, la crescita dei dendriti, la mielinizzazione e la successiva morte neuronale e degenerazione sinaptica (potatura dell’eccesso, eliminazione selettiva). In particolare, intorno agli 8-9 mesi la maggior parte delle connessioni fra le aree corticali sono state stabilite; fra i 16 e i 24 mesi si verifica uno straordinario aumento delle sinapsi che raggiungono una quantità del 150% superiore a quelle di un adulto. L’aspetto più interessante dello sviluppo del cervello è che il rapido picco di neuroni, connessioni, sinapsi e attività metabolica cerebrale è seguito da un lento declino a partire dai 4 anni. Lo sviluppo cerebrale consiste quindi in una prima rapida fase di iperproduzione, seguita da una fase di eliminazione selettiva che si stabilizza nel periodo adolescenziale. Per spiegare questo fenomeno sono state avanzate due ipotesi:  quella della “potatura”  i neuroni tendono a produrre vari assoni che si connettono ad un gran numero impegnano ad effettuare una determinata azione. Perché un attore possa effettuare un commissivo, e perché il partner possa validarglielo, è necessario che sia disponibile una capacità comunicativa in grado di gestire il tempo presente, passato e futuro. Solo la comunicazione linguistica mette in grado un parlante di riferirsi a un tempo e un luogo differenti da quelli in cui si svolge l’interazione. Inoltre, affinché si costituisca un gioco comportamentale, è necessaria l’esistenza di un patto sociale, cui gli agenti possono far riferimento a garanzia che le promesse vengano rispettare. I patti sociali più antichi fanno riferimento a un limitato numero di aree: o alla sessualità  il maschio deve essere affidabile, ovvero garantire sussistenza alla madre e ai piccoli, e la femmina deve essere fedele, ovvero garantire che il padre si occuperà soltanto dei suoi piccoli e non di quelli di un altro. Entrambe devono durare almeno 10 anni, cioè fino a quando i piccoli non saranno indipendenti; o al procacciarsi il cibo  la caccia di gruppo sembra legata a impegni di breve durata, dell’ordine di qualche giorno; o alla protezione dei piccoli e del villaggio  deve essere gestita collettivamente e probabilmente è sufficiente un impegno di qualche giorno. La fiducia nei confronti degli altri è fondamentale per creare rapporti a lungo termine e quindi gruppi sociali stabili. 6.2 L’EMERGERE DELLA COMPETENZA COMUNICATIVA La distinzione tra competenza e prestazione diventa meno netta quando si ha a che fare con un sistema in sviluppo. Un deficit di prestazione non è indice di incapacità, ma di non raggiunta maturazione. La competenza deve quindi riferirsi non solo alle capacità astratte, ma anche alla potenzialità delle stesse. Un’ulteriore complicazione è data dal fatto che alcune abilità comunicative hanno bisogno che altre strutture di supporto siano già pienamente funzionanti. Per esempio, un bambino per riuscire a comprendere la dinamica di un inganno, deve aver sviluppato una teoria delle mente e deve avere una memoria di lavoro in grado di reggere stati mentali incassati. Non si può quindi parlare di “sviluppo” della competenza comunicativa (questa c’è o non c’è), ma, secondo Bara, più correttamente si dovrebbe parlare di “emergere” della competenza comunicativa; se questa c’è, si manifesterà a mano a mano che ciò viene reso possibile dalle strutture collegate. Si può affermare che i bambini già alla loro nascita presentino dei dispositivi pronti ad attivarsi selezionando le specifiche caratteristiche della lingua parlata nell’ambiente dove vivono; vi è quindi una componente genetica nell’acquisizione del linguaggio. Durante la crescita del bambino possiamo aspettarci di trovare una serie di cose: 1. I neonati, già alla nascita, attivano una competenza comunicativa che presenta essenzialmente due possibilità realizzative, con un binario linguistico e uno extralinguistico. Le risorse cerebrali di supporto di ciascuna prestazione risiedono in aree differenti e hanno una maturazione non contemporanea. Entrambi i binari utilizzano le stesse primitive della comunicazione, come l’intenzione comunicativa, e sfruttando risorse cognitive simili, come la memoria di lavoro. 2. La prima competenza a comparire è la comunicazione extralinguistica, richiedendo risorse cognitive già presenti alla nascita o di rapida maturazione. Possiamo distinguere 3 componenti della competenza extralinguistica che diventano disponibili in successione: o Quella comune ai mammiferi, responsabile delle prime interazioni piccolo/madre. o Quella comune ai primati, guida le interazioni di attaccamento/accudimento o Tipicamente umana, componente extralinguistica che necessita di strutture neocorticali. La osserviamo nei bambini oltre l’anno che hanno già una straordinaria complessità di relazioni cognitive ed emotive con gli altri. 3. Seppur già alla nascita ci sia un dispositivo che predispone il neonato ad apprendere la lingua madre, le risorse cognitive utili al linguaggio cominciano ad essere disponibili dopo il primo anno. Solo intorno al secondo anno la competenza linguistica appare fluida e piena. 4. Le prestazioni di entrambi i binari migliorano con l’esperienza. Più passa il tempo e più prevalgono le capacità linguistiche. Di conseguenza, nella comunicazione adulta, l’aspetto linguistico sarà dominante; alcuni tipi di comunicazione rimarranno, però, di pertinenza extralinguistica, mal prestandosi a essere tradotti verbalmente (es. la comunicazione delle emozioni). Non ci sono prove che le strutture linguistiche abbiano precursori motori o comunicativi extralinguistici (Piaget e Bruner), entrambi sono operativi prima che il linguaggio emerga pienamente ma questo non implica alcun rapporto causativo. Resta comunque poco credibile che una struttura che impiega tanta parte del cervello si sia evoluta senza alcuna spinta utilitaristica. Ciò che Chomsky trascura riguarda il fatto che, una volta che il linguaggio viene utilizzato come strumento per comunicare, anch’esso dovrà fare i conti con strutture cognitive e situazionali (cultura) che lo influenzano. Anche l’ipotesi di Bruner deve essere scartata. Egli ipotizza una continuità tra comunicazione prelinguistica e linguaggio: l’idea è che la pragmatica rappresenti il fattore determinante nell’acquisizione del linguaggio, nonché il suo precursore diretto. Pellegrino e Scopesi ammettono, però, che non esiste alcun dato sperimentale che confermi tale continuità strutturale. Bara sostiene che comunicazione prelinguistica e linguaggio sono due sistemi separati che condividono una serie di caratteristiche, le quali, però, non provano alcuna continuità; provano solo che queste due forme comunicative avvengono nello stesso contesto. Bara sostiene, inoltre, che Bruner cade nello stesso errore di interpretazione dell’evoluzione convergente: l’ambiente può influenzare l’evoluzione delle specie che in quell’ambiente devono sopravvivere, in modo tale che specie diverse possono presentare caratteristiche morfologiche simili, pur in assenza di parentela fra loro. Il fatto che un delfino ed un pescecane condividano delle caratteristiche (corpo allungato, pinne…) non è sinonimo del fatto che dall’uno si è evoluto l’altro ma semplicemente del fatto che le due specie, vivendo nello stesso ambiente (acqua) hanno sviluppato caratteristiche simili per adattarvisi. Come ha dimostrato Tirassa, le abilità linguistiche ripercorrono necessariamente strade già percorse dalle abilità extralinguistiche e, per forza di cose, ci saranno dei punti di contatto e, soprattutto, i due sistemi si influenzeranno tra di loro. Gli aspetti paralinguistici sono una prova dei punti di contatto dei due sistemi. 6.2.1 Le Primitive della Comunicazione Secondo Bara, il neonato possiede una competenza pragmatica innata, che si esprime prima attraverso la via extralinguistica e successivamente attraverso la via linguistica tramite le cosiddette primitive della comunicazione. Le primitive della comunicazione sono strutture basiche, essenziali per il funzionamento dei processi comunicativi: sono innate e permettono al bambino di sviluppare in tempi rapidissimi un fenomeno così articolato come la comunicazione. Queste sono:  Attenzione Comune Entrare in sintonia con il partner, rispondendo ai suoi tentativi di entrare in contatto o catturandone attivamente l’attenzione. Robson ha mostrano: - bambini di 1 mese entrano in contatto oculare con altre persone; - entro il secondo mese sono in grado di stabilire un contatto oculare prolungato. - Bruner situa a 3 mesi la fase di attenzione comune, indispensabile perché le singole mosse comunicative possano essere condivise da entrambi gli attori. - A 7 mesi sono in grado di cogliere segnali che indicano che la madre sta prestando attenzione a qualcosa che anche loro devono guardare, raggiungendo quella che Bruner chiama sensibilità per i deittici indifferenziati , ovvero la capacità di riconoscere segnali che indicano che il partner sta prestando attenzione a qualcosa che anche loro devono guardare - A 1 anno, inoltre, guardano lungo la linea dello sguardo, cercano l’oggetto e se non lo trovano ritornano al viso dell’adulto per un secondo sguardo, dopo di che guardano di nuovo l’oggetto.  Intenzionalità Comunicativa Qualunque sia il comportamento del bambino, la madre gli attribuisce l’intenzione di comunicare con lei, interpretando ogni azione in termini di intenzionalità propria. Sia extralinguisticamente che linguisticamente, le prime intenzionalità a comunicare del bambino sono delle richieste (indicando qualcosa o quando inizia a parlare dicendo ad esempio acqua per segnalare che ha sete). In una fase successiva, le parole singole possono essere utilizzate per esprimere assertivi (es. “bau”), distinguibili dai direttivi (es: dammi il cane!) per la diversa intonazione. L’olofrase, ovvero una parola per indicare una frase intera, è la prima mossa di un gioco comportamentale di un bambino. Dore parla, a questo proposito, di atti linguistici primitivi: questi constano di un enunciato di una sola parola, si trovano a partire dall’anni di vita e vanno considerati come diretti precursori dell’atto linguistico vero e proprio. La psicologa evolutiva Luigia Camaioni ha proposto tre fasi di sviluppo dell’intenzione comunicativa, che potrebbero rappresentare i passaggi che il bambino deve effettuare per padroneggiare l’intenzione comunicativa: o Il bambino usa l’adulto come mezzo per il suo scopo Ad esempio, tirando la mano dell’adulto che ha un gioco in mano o usando l’adulto per arrampicarsi e raggiungere oggetti distanti. Si può affermare che il bambino ha intenzioni: è, cioè, capace di formulare scopi e di selezionare mezzi adeguati a raggiungerli. o Il bambino usa l’adulto come agente per il suo scopo Il bambino tratta l’adulto come un agente autonomo capace di fargli raggiungere lo scopo desiderato (es: mettendo nelle mani dell’adulto un gioco meccanico per azionarlo e farlo funzionare). Possiamo dire che il bambino ha delle aspettative sull’efficacia di diversi strumenti e, in particolare, circa l’efficacia degli agenti umani che fungono da strumenti per raggiungere determinati fini. o Il bambino usa l’oggetto per attirare l’attenzione dell’adulto Il bambino usa come mezzo l’oggetto per ottenere attenzione/interesse/considerazione dell’adulto. La differenza con le precedenti riguarda lo spostamento dell’adulto dalla collocazione “mezzo” a quella “scopo” all’interno della sequenza. Solo in questa fase il bambino padroneggia l’intenzione comunicativa nella sua pienezza, dato che intende influenzare lo stato interno del partner (es. indicando la finestra finché l’adulto non si gira a guardarla).  Conoscenza Condivisa Anche questo stato mentale è da considerarsi innato: se il bambino non possedesse la conoscenza condivisa come primitiva e dovesse dedurla attraverso una catena logica, non sarebbe in grado di interagire comunicativamente prima dei 12-13 anni, quando le risorse cognitive (memoria di lavoro) sono abbastanza potenti da reggere una lunga serie di inferenze logiche che richiedono risorse cognitive e memoria di lavoro.  Teoria della Mente c’è generale accordo sul fatto che anche la TOM sia innata: ovvero la capacità di attribuire agli altri esseri umani stati mentali, credenze, desideri e intenzioni. I più importanti risultati sperimentali sono: - compito della falsa credenza (false belief task), ha l’obiettivo di stabilire a quale età i bambini sono in grado di discriminare fra ciò che loro stessi sanno e ciò che gli altri sanno intorno ad una certa questione. Al bambino viene mostrata una scena dove un ragazzino, Maxi, mette un pezzo di cioccolato in una tazza, per uscire subito dopo; mentre lui è fuori arriva un altro che sposta il cioccolato in un’altra tazza. Al bambino viene chiesto di dire dove Maxi cercherà il cioccolato quando tornerà. Fino ai 3 anni si osserva l’errore del realismo (Maxi cerca il cioccolato dove davvero è); dai 4 anni i bambini rispondono che Maxi cercherà il cioccolato dove lui crede che sia, anche se tutti gli osservatori sanno che non è più lì (i bambini capiscono che gli altri hanno credenze diverse dalle loro). - compito del cambio rappresentazionale (representational change task) dimostra, invece, che intorno a 4 anni i bambini riescono a mantenere separate due rappresentazioni (la propria da quella di un altro). Ai bambini viene chiesto cosa contiene una confezione di smarties, nella scatola c’è in realtà una matita. Dopo averla mostrata e richiusa, ai bambini viene chiesto cosa penserebbe un altro bambino sul contenuto e cosa pensava lui contenesse prima che fosse aperta. Fino ai 3 anni rispondono che sia il nuovo bambino che loro stessi pensavano contenesse una matita; dai 4 anni riescono a mantenere separate le due rappresentazioni, rispondendo che sia il nuovo bambino che loro stessi pensavano contenesse smarties. difficoltà a comprendere sia i diretti che gli indiretti convenzionali. A questa età, i bambini utilizzano queste diversi tipi di indiretti e sono anche consapevoli della desiderabilità sociale di queste forme quando lo status dell’interlocutore è superiore al loro. I bambini utilizzano di preferenza le forme indirette quando interagiscono con gli adulti piuttosto che con i loro pari. Per quanto concerne l’inganno, questo viene compreso per ultimo (come già provato da Bara, Bosco, Bucciarelli); gli inganni semplici (bugie) vengono compresi intorno ai 3 anni e mezzo, mentre a 7 anni i bambini diventano bravi ingannatori. Per quanto riguarda l’ironia, nessuno studioso si è occupato di ironia in età evolutiva. Per confermare che certi aspetti siano riferibili alla comunicazione in generale e non specificatamente al linguaggio, Bara, Geminiani e Bucciarelli, hanno portato i medesimi esperimenti sul piano extralinguistico: unica differenza trovata fu che, come ci si aspettava, l’ironia è di più difficile comprensione dell’inganno se portata sul piano extralinguistico (in quanto l’ironia fa principalmente riferimento a componenti linguistiche). 6.3 NEUROPRAGMATICA La neuropragmatica si occupa delle correlazioni fra processi mentali della comunicazione e aree cerebrali. Il linguaggio è normalmente situato nell’emisfero controlaterale alla mano dominante (sinistro per i destrimani), in entrambi gli emisferi però ci sono aree interessate al suo funzionamento. Per la pragmatica non sono state individuate aree specifiche, ma essendo la pragmatica l’uso del linguaggio in un determinato contesto, è da escludere che faccia riferimento ad una sola area, bensì a più aree collegate tra loro. Secondo Kasher, l’uso del linguaggio è sostenuto da due competenze pragmatiche (pragmatica  lo studio dell’uso del linguaggio in un contesto) differenti:  una capacità linguistica, dedicata alla conoscenza degli atti linguistici fondamentali, di tipo analitico, e rappresentata da un insieme di moduli (localizzata nell’emisfero sinistro). Rappresenta la conoscenza pragmatica di base. È quella che ci fa usare a seconda del contesto asserzioni, domande ed ordini.  una capacità non linguistica, detta “centrale”, relativa ai sistemi cognitivi più generali, come quello dell’azione intenzionale (localizzata nell’emisfero destro). Rende possibile gli indiretti, le metafore e il sarcasmo. I processi comunicativi sono essenzialmente divisibili in due parti:  Centrale  dove si svolgono le inferenze necessarie ad attribuire un atto comunicativo a un gioco, oppure, a generare da un gioco una mossa comunicativa. Questi processi sarebbero diffusi su larga parte della corteccia, dato che vi sono coinvolte diverse capacità. Non è ipotizzabile una lesione selettiva di tali processi.  Periferica  dove si svolgono i processi di entrata e uscita mediati dalle vie nervose, percettive afferenti e motorie efferenti. Questi potrebbero verosimilmente essere localizzati in aree specifiche legate ad aree cerebrali verbali o motorie, in quando dipendenti da precise vie di ingresso e uscita, e quindi una lesione non diminuirebbe la competenza pragmatica ma danneggerebbe la prestazione comunicativa. La competenza pragmatica (insieme delle capacità astratte) è di pertinenza dei processi centrali, diffusi su larga parte della corteccia; mentre la prestazione pragmatica (insieme delle capacità mostrate in azione) pertiene sia ai processi centrali che a quelli periferici. 6.3.1 Il Decadimento della Comunicazione Il decadimento delle prestazioni pragmatiche può essere:  fisiologico  come nel caso dell’anzianità. In realtà, vi sono evidenti prove del fatto che le persone fra 50 e 80 anni non hanno alcun problema a gestire gli atti comunicativi (ad eccezione dell’ironia) ma presentano un irrigidimento aspecifico delle funzioni cognitive;  degenerativo  come nelle demenze. Nel morbo di Alzheimer, i soggetti vedono decadere le loro abilità nel comprendere atti complessi, inganni e ironia;  traumatico  le lesioni prese in considerazione sono frontali, parietali destre e parietali sinistre. Dato che la competenza pragmatica non è localizzabile in un’area specifica, ci aspetteremo riduzioni legate alla prestazione e non una perdita funzionale. Il decadimento per fattori traumatici può avvenire a seguito di: o Traumi Cranici Frontali I lobi frontali sono responsabili dell’attenzione, memoria, apprendimento, giudizio e pianificazione. Un trauma cranico, anche chiuso, provoca uno sballottamento dell’encefalo ed un relativo stiramento assonale che ne pregiudica il pieno funzionamento. Una costellazione di deficit frontali si riflette sull’abilità comunicativa: confabulazioni, neologismi, uso di stereotipie linguistiche. Non c’è traccia di afasia e in genere i punteggi nei test linguistici sono normali (a meno che la lesione non sia focalizzata nelle aree sinistre del linguaggio). Il trauma cranico chiuso danneggia l’abilità metalinguistica: questi pazienti frontali, pur mantenendo un buon livello di prestazione linguistica, mostrano una prestazione comunicativa deteriorata: disinibizione, minor controllo comportamentale e scarsa capacità di astrazione. Tuttavia, questi pazienti presentano un discorso confuso, poco strutturato e disorganizzato, con facile perdita del focus attenzionale. Fanno fatica a stabilire e mantenere una relazione comunicativa significativa e socialmente accettata (disinibizione). Un’interpretazione del deficit comunicativo frontale in termini di pragmatica implica un danno a livello del gioco conversazionale. Tali pazienti dovrebbero quindi presentare delle difficoltà non tanto nella comunicazione standard (catena inferenziale base) quanto in quella non standard; la comunicazione standard, sia per quanto riguarda gli atti diretti che quelli indiretti dovrebbe essere preservata (a differenza di ciò che afferma Searle, secondo cui gli atti indiretti non sono comprensibili da questi pazienti). Quindi ci si aspetta una differenza di prestazione con i soggetti normali per quanto riguarda gli atti comunicativi non standard (ironia e inganno) e nessuna differenza di comprensione tra atti diretti e indiretti semplici. Negli studi di Bara, Tirassa, Zettin (linguistici) e Bara, Cutica, Tirassa (extralinguistici) viene confermata la pragmatica cognitiva;  Nei pazienti frontali non c’è difficoltà di comprensione fra atti comunicativi standard diretti e indiretti semplici;  I pazienti frontali mostrano deficit per gli atti linguistici non standard (ironia, inganno);  Questi pazienti sono più deficitari nelle prove equivalenti extralinguistiche, piuttosto che in quelle linguistiche, perché togliendo il canale linguistico, che in loro funziona bene, si appesantisce il carico inferenziale. o Lesioni Emisferiche Sinistre in questi pazienti il deficit è di basso livello, ovvero quello esecutivo di produzione delle parole. Afasia: disturbo della comunicazione linguistica che consegue a una lesione acquisita del cervello che interessa uno o più componenti del processo di comprensione e produzione di messaggi verbali. Gli autori sono concordi che loro sappiano cosa vogliono dire ma non ci riescono e che quindi la pragmatica sia preservata (abilità di alto livello). La pragmatica cognitiva ha portato a ideare processi riabilitativi: la riabilitazione dovrebbe consistere nel cercare canali alternativi a quello linguistico per la produzione di atti comunicativi, potenziando quindi le abilità residue. Ciò avviene tramite giochi di ruolo, i pazienti afasici sono stimolati a modificare il loro comportamento comunicativo. Più recentemente i terapisti della comunicazione si sono resi conto che in assenza del linguaggio l’abilità comunicativa risulta molto ridotta; tramite la riabilitazione cognitiva il linguaggio viene scomposto in sottocomponenti e si lavora si ciascuna di esse (es. rieducazione lessico fonologico). Dal momento che le competenze pragmatiche non sono toccate, la strada più promettente per un recupero dell’abilità dialogica è quella di permettere un pieno sviluppo della modalità extralinguistica (spesso perfettamente conservata). o Lesioni Emisferiche Destre Non ci sono dati, ma prendendo in considerazione le ipotesi di Kasher, queste dovrebbero trovarsi. Kasher situa nell’emisfero destro la competenza pragmatica centrale non puramente linguistica: si dovrebbero trovare pazienti capaci di gestire sintassi e semantica ma non la pragmatica. 6.3.2 Neuropragmatica Evolutiva La plasticità neuronale nei bambini è molto superiore a quella negli adulti, motivo per cui questi sono in grado di riprendersi prima e meglio da lesioni cerebrali che sarebbero permanenti nell’adulto. È dimostrato che bambini con un trauma focale che porta difficoltà nella comprensione e generazione di atti comunicativi, possono riprendersi da lesioni cerebrali (plasticità del cervello infantile). Per i bambini di circa un anno di età, la comprensione linguistica si basa su una soluzione multimodale di problemi che richiede l’integrazione di molte fonti di informazioni diverse (sintassi, semantica, pragmatica, gesti, espressioni facciali, ecc.). La Bates sostiene che l’acquisizione del linguaggio non viene disturbata solo da lesioni all’emisfero sinistro, ma anche a quello destro che intervengono nell’integrazione sensoriale di questi dati. Importanti studi dimostrano che le lesioni dell’emisfero sinistro possono non avere esiti sul linguaggio, purché avvengano prima dei 3 anni (quando la plasticità cerebrale è ancora al massimo), dato che il cervello plastico è capace di riorganizzarsi e di ricollocare le aree del linguaggio. Per quanto riguarda le abilità pragmatiche, le lesioni infantili possono manifestarsi sia come ritardi nella gestione di atti comunicativi, sia come perdita di capacità di padroneggiarle prima del trauma. Un’altra fonte di informazione sulla plasticità cerebrale proviene dagli studi su adulti ciechi e sordi. I sordi congeniti mostrano un’attivazione cerebrale particolare nella corteccia uditiva in risposta a stimoli visivi; i ciechi alla nascita mostrano segni di attività metabolica nella corteccia visiva. L’ipotesi di Neville è che le connessioni fra gli stimoli e la corteccia che vengono normalmente eliminate durante la crescita, sono invece mantenute in questi individui. È come se, in assenza di input visivi e/o uditivi, le rispettive cortecce venissero utilizzate per altre funzioni. Autismo È un disturbo pervasivo dello sviluppo, che coinvolge tutto l’arco della vita dell’individuo, indipendentemente dal periodo di insorgenza e dal variare dei sintomi. Si deve a Wing e Gould l’individuazione della triade di deficit: deficit sociali, limitata abilità d’immaginazione, ritardi o anomalie nella comunicazione linguistica ed extralinguistica. La varietà di quest’ultimo aspetto è estremamente ampia, andando da bambini autistici completamente muti a bambini con un linguaggio fluente, ma pragmaticamente bizzarro. È proprio la difficoltà nel dominio della pragmatica ad essere una caratteristica fondamentale della sindrome. Baron-Cohen fa notare che mentre i bambini autistici fanno uso del cosiddetto gesto strumentale o pointing (la cui finalità è ottenere qualcosa), non presentano una gestualità comunicativa (il cui fine è attrarre l’attenzione dell’ascoltatore su un terzo punto di interesse per modificare lo stato mentale dell’altra persona). Sembrerebbe essere assente l’attenzione condivisa che rallenta l’intero processo di sviluppo comunicativo: i bambini autistici gravi falliscono nel seguire lo sguardo di un'altra persona rivolto verso un oggetto terzo, falliscono cioè nell’inserimento di un argomento nella relazione tra madre e bambino che rimarrà diadica e non evolverà verso la triadica. Sarebbe quindi più appropriato parlare di un deficit comunicativo che non di un deficit linguistico. L’origine della patologia: - Baron-Cohen, Leslie e Frith rintracciano l’origine del disturbo in un deficit di teoria della Mente, che comporta l’incapacità di formulare teorie su credenze, desideri, intenzioni altrui e genera problemi nella socialità; comporta anche un deterioramento dell’attenzione condivisa (capacità di rappresentarsi l’altro come capace di essere interessato a qualcosa). - Secondo Ozonoff, l’autismo sarebbe caratterizzato da un deficit delle funzioni esecutive (pianificare i comportamenti finalizzati, tramite il lobo frontale). Tutti i comportamenti connessi alle funzioni esecutive devono andare a buon fine, devono farsi guidare da elementi interni e contesto-dipendenti. - Un’ipotesi alternativa è quella attenzionale dei neocomportamentisti. I bambini autistici non avrebbero un qualche deficit primario (tant’è che spesso hanno un buon QI), ma il deficit attenzionale gli impedirebbe di sfruttare le loro capacità. Gerrans pensa che gli autistici non riescano a rappresentarsi simultaneamente le varie parti dell’informazione; la comunicazione fallirebbe per la difficoltà a tenere a mente contemporaneamente vari stati mentali. Si è cercato di dimostrare come il deficit comunicativo degli autistici si situerebbe a livello di prestazione e non di competenza e di teoria della mente per carenze emotive ed attentive. In uno studio di Bara, Bucciarelli e Colle si è cercato di alleggerire il carico attenzionale di venti bambini autistici durante compiti linguistici. In ambiente familiare (per favorire la compliance), insieme ad un adulto di fiducia, sono state somministrate frasi per iscritto a dei bambini autistici, lasciando loro tutto il tempo di aumentare la consapevolezza di sé del paziente che si pone così nella posizione di chi può, avendole comprese, cambiare le regole di un gioco. 7.2.1 il sintomo come comunicazione Il sintomo è un comportamento stereotipato, con caratteristiche di rigidità (non si adatta ai vari contesti) e di non controllabilità ed è egodistonico (viene mantenuto nonostante la sofferenza che provoca). Il sintomo non può essere un atto comunicativo proprio perché manca l’intenzionalità d’azione. Definiamo attribuzione di significato la contrattazione del significato di un comportamento del paziente, per cui alla sua azione non deliberata viene attribuito un carattere di piena intenzionalità comunicativa. Un termine analogo è quello di interpretazione. L’interpretazione di significato ha diversi aspetti:  Il contesto (la relazione tra paziente e terapeuta) all’interno del setting terapeutico, il paziente consente al terapeuta di interpretare le proprie intenzioni e i propri comportamenti, andando a ricercarne le reali motivazioni effettive. L’uso che il terapeuta fa delle informazioni ricavate nella seduta sono a esclusivo beneficio del paziente. Tale processo permette che si costituisca fiducia crescente, che a sua volta renderà possibile l’acquisizione di nuove consapevolezze, in aree sempre più delicate per la persona.  Il contenuto (proposizionale e relazionale) Ciò che viene interpretato può essere fatto su due livelli: il livello proposizionale ed il livello relazionale. Ciò che viene detto o fatto dal paziente ha cioè un significato di per sé, letterale, ed un significato all’interno della specifica relazione con il terapeuta.  Il punto di partenza (l’intenzione non deliberata) il processo di interpretazione si può applicare ad azioni della cui intenzionalità l’agente può essere o meno conscio. Quando B inferisce che A possiede un determinato stato mentale e lo prospetta ad A, si possono dare due casi: o A è cosciente di possedere quello stato mentale e non lo considera rilevante per l’interazione (o non lo aveva consapevolmente attivato); o A non è cosciente di possedere quello stato mentale e non può coglierlo neanche se B glielo da notare. Se B glielo fa notare, A non attribuirò a se stesso quel determinato stato. Per fare questo è necessario che il terapeuta porti il paziente ad una consapevolezza propria, deve introdurre una discrepanza che possa interagire con il sistema di conoscenze e di valori del paziente rendendolo dubbioso dei suoi comportamenti automatici. Un elemento eccessivamente dissonante rischia di non poter essere preso neppure in considerazione;  Il punto d’arrivo (l’intenzione deliberata) Quando un sintomo si fa comunicazione, torna nella sfera dell’intenzionalità e della libera scelta: il paziente deve arrivare a spiegarsi che si è comportato in un determinato modo poiché ha scelto di giocare quello specifico gioco.  Il modo (attribuzione di intenzionalità come-se da parte del terapeuta) Il terapeuta interpreta il comportamento nevrotico del paziente come una comunicazione come-se, dotata di intenzionalità comunicativa se pur priva di consapevolezza. A tale comportamento, letto come se fosse intenzionale, viene attribuito un significato e ciò porta il paziente a rendersi conto del significato del suo agire nei confronti di sé stesso e degli altri, in primis proprio del terapeuta. Si tratta di far passare un’azione da intenzionale ma non deliberata a pienamente deliberata;  Gli effetti attesi (aumento dello spazio di libertà del paziente) La ragione per cui l’attribuzione di significato è così importante risiede nel fatto che ad una maggiore consapevolezza corrispondono gradi maggiori di libertà di scelta (comune a quasi tutte le psicoterapie). L’interpretazione dei Sogni L’interpretazione dei sogni consiste in una duplice attribuzione di intenzionalità comunicativa come-se: la prima dall’inconscio al conscio e, la seconda, dal paziente al terapeuta. È utile in psicoterapia utilizzare strategicamente i sogni dei pazienti come spunti di riflessione su argomenti che talvolta è difficile affrontare in piena lucidità. Non si tratta di scoprire il significato di un sogno e nemmeno di sapere se un sogno ha un senso oppure no, si tratta di attribuire un significato a un sogno e verificare se quel significato sia utilizzabile dal sognatore per capire i propri sogni, e dal terapeuta, se il sogno viene riportato durante una seduta. A ciascun sogno, di conseguenza, si può dare un primo significato, che dipende dalle condizioni del sognatore, e un secondo significato che dipende dalla relazione del sognatore col terapeuta. L’attribuzione di significato permette al paziente di esplorare nuovi orizzonti, sia nei confronti di sé stesso, sia della relazione che sta costruendo col terapeuta. 7.2.2 L’indice di condivisione Uno degli obiettivi di Bara è la creazione di uno strumento che consenta, attraverso la registrazione delle sedute, di individuare il momento in cui paziente e terapeuta raggiungono una conoscenza condivisa terapeutica. Dal punto di vista della pragmatica la psicoterapia è essenzialmente un processo duale in cui paziente e terapeuta costruiscono significati: la comunicazione è il mezzo attraverso il quale si svolge ogni psicoterapia. Un elemento essenziale affinché questo processo possa realizzarsi è l’instaurarsi dell’alleanza terapeutica. Quando si stabilisce una buona alleanza, il paziente inizia a costruire una modalità relazionale alternativa rispetto a quella solitamente usata e fonte di sofferenza. L’interazione tra paziente e terapeuta si può considerare come formata due flussi comunicativi distinti, aventi direzioni diverse: 1) il flusso di superficie rappresenta le informazioni riguardanti conoscenze, desideri e intenzioni del paziente, che questi metti a disposizione del terapeuta; 2) il flusso profondo è costituito da quella parte di informazioni alla quale il paziente ha fatto esplicitamente riferimento nel flusso di superficie, informazioni che il terapeuta considera particolarmente rilevanti e degne di indagine e che quindi restituisce al paziente. Il flusso di superficie contiene un numero quantitativamente maggiore di informazioni: il terapeuta sceglie alcuni elementi e li ripropone al paziente come temi di discussione (flusso profondo). Ciò che il paziente dimostra di acquisire partendo dal flusso profondo che proviene dal terapeuta, costituisce la condivisa terapeutica. Il metro di valutazione per capire se il paziente e il terapeuta condividano o no tale conoscenza è, infatti, l’esplicita conferma del paziente che esprime di condividere, immediatamente o in un momento successivo, quanto gli è stato restituito dal terapeuta. Una descrizione semplificata di quanto avviene in seduta è la seguente: 1. Il paziente esprime una serie di credenze circa sé stesso e il mondo (conoscenza condivisa); 2. Il terapeuta riprende alcuni elementi provenienti da questo flusso e li ripropone al paziente (candidati alla conoscenza condivisa terapeutica). 3. Il paziente condivide quanto discusso e analizzato con il terapeuta (conoscenza condivisa terapeutica). Queste tre fasi possono svolgersi in un immediato susseguirsi oppure essere dilatate nel tempo (più sedute) ma comunque in ogni caso la mossa di chiusura spetta al paziente (che deve acquisire il flusso profondo del terapeuta). Affinché una terapia abbia successo, è necessario che quanto detto dal terapeuta sia non solo compreso intellettualmente dal paziente, ma che diventi efficace, vale a dire che modifichi il sistema di costruzione di conoscenza. La difficoltà consiste nel fatto che il discorso del terapeuta può essere in contrasto con quanto il paziente dichiara, crede o ricorda. Il terapeuta, quindi, deve essere sicuro che il paziente abbia sia compreso che condiviso quanto egli ha detto durante la terapia. Inoltre, è necessario che il paziente abbia una base di conoscenze condivise con il terapeuta a cui poter fare riferimento per progredire nel percorso terapeutico. È inoltre importante anche la non-condivisione: il terapeuta deve sapere che il pz non ha ancora una certa credenza e che si potrà lavorare insieme ancora per poter condividere quello che ora è incondivisibile. Gli item dell’indice di condivisione sono: accordo, conclusione, correzione, metafora, neologismo, riassunto, riferimento, rilettura, non-condivisione. La presenza di un’alta conoscenza condivisa è un buon indicatore dell’efficacia della terapia. 7.3 COMUNICAZIONE EFFICACE L’efficacia della comunicazione, secondo la pragmatica cognitiva, consiste nella capacità di attivare le reciproche motivazioni a giocare un gioco. Si può migliorare la capacità comunicativa e una persona può imparare a comunicare meglio (per esempio, Mantovani si riferisce ad una scuola di comunicazione che applica la prospettiva della comunicazione come costruzione di significato condiviso alle nuove tecnologie dell’informazione). Non c’è un modo unico e valido per tutti di migliorare questa abilità; piuttosto ciascun individuo, diventando consapevole del proprio stile e delle proprie potenzialità, deve riuscire a esprimere meglio ciò che è già potenziale in lui. Tutte le scuole serie di comunicazione hanno in comune una serie di regole di base: • La pratica vale più della grammatica: prima far fare le cose agli allievi, e poi, se è il caso, spiegargliele. • Nessun modello: ciascun allievo è un individuo a sé che deve essere aiutato a sviluppare il proprio stile individuale. • Unione di linguistico ed extralinguistico: l’allievo può lavorare separatamente sugli aspetti verbali e gestuali, ma questi devono essere poi ricomposti armoniosamente per rendere la comunicazione efficace. È interessante analizzare come si sia sviluppata la retorica, cioè il modo di persuadere gli stati mentali. Lo scopo della retorica classica è di modificare gli stati mentali di 3 tipi di ascoltatori: i giudici; i senatori e gli spettatori. Da tale considerazione discende che i generi retorici sono 3: 1. Giudiziario  (uditorio: giudici; tempo: passato; atto: accusare/difendere; valori: giusto/ingiusto) 2. Deliberativo (o politico)  (uditorio: assemblea; tempo: futuro; atto: s/consigliare; valori: utile/dannoso) 3. Epidittico  (uditorio: spettatore; tempo: presente; atto: lodare/biasimare; valori: nobile/vile) Indipendentemente dal genere, ciascun discorso è scomponibile in 4 parti, che rappresentano le 4 fasi che deve attraversare chi compone il discorso:  Inventio  La ricerca inventiva da parte dell’oratore di tutti gli argomenti e degli altri mezzi di persuasione relativi al tema del suo discorso (ragionamenti, toni, ecc).  Dispositio  L’ordine dato dagli argomenti, da cui risulterà l’organizzazione interna del discorso, il suo schema. Nel classico modello tripartito, queste sono: l’esordio volto a conquistare benevolenza, l’esposizione narrativa di fatti e degli argomenti e il passionale epilogo.  Elocutio  Concerne la redazione del discorso in cui l’oratore riempie il discorso con uso di figure retoriche. È in quest’ambito che si collocano le figure di stile, come la metafora o l’ironia.  Actio  La recitazione effettiva del discorso, con tutto ciò che può implicare di effetti vocali, mimici e gestuali. La retorica ha tentato di codificare la capacità persuasiva della comunicazione ma non può funzionare perché è comunicazione solo ciò che due persone definiscono tale e tutto, in quest’ambito, può esser efficace. Il Silenzio 1. Silenzio Non Comunicativo: è il silenzio di chi non si è neppure accorto di essere entrato in un’interazione con un’altra persona e quindi non intende comunicare nulla a nessuno (per esempio, il silenzio distratto e indifferente). 2. Silenzio Non Deliberato e Consapevole: è il silenzio di chi non trova le parole per esprimersi, data una certa situazione (per esempio, il silenzio difficile e imbarazzato per temporanea incapacità psicologica, per timidezza, soggezione o subitaneo innamoramento). 3. Silenzio Intenzionalmente Comunicativo, Deliberato e Consapevole: è il silenzio attraverso il quale l’attore comunica qualcosa al proprio interlocutore in modo aperto e chiaro dato il contesto condiviso (per esempio, che equivale ad una confessione o ad un rifiuto di rispondere). Altro tipo di concezione del silenzio è quella che è marcata da elementi culturali. La cultura occidentale è particolarmente ostile ai silenzi: ogni pausa di non discorso tende ad essere ripetutamente ed ossessivamente riempita da parole, anche senza necessità (es. in ascensore). Altre culture, come quella dei Pellerossa, hanno una concezione del silenzio completamente diversa. In certe situazioni in silenzio non è consigliabile, ma addirittura richiesto (es. nel corteggiamento o quando si incontrano parenti dopo tanto tempo). In alcune situazioni sociali il silenzio non è solo permesso, ma è richiesto.
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