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Pragmatica cognitiva - Riassunto del Capitolo 1, Sintesi del corso di Psicologia della Comunicazione

Un riassunto del primo capitolo del libro Pragmatica cognitiva di Bara. Si parla di comunicazione e di come essa richieda la condivisione di un significato globale tra i partecipanti. Si analizzano le modalità di interazione sociale e di estrazione di informazione, distinguendo tra indicatore, segno e segnale. Si approfondisce la costruzione comune di significato e si presenta la nozione di comunicazione di Grice. utile per gli studenti di corsi di linguistica e comunicazione.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 27/11/2022

federica-achille
federica-achille 🇮🇹

4.6

(14)

38 documenti

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Scarica Pragmatica cognitiva - Riassunto del Capitolo 1 e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia della Comunicazione solo su Docsity! 1 Riassunto Pragmatica cognitiva – Bara CAPITOLO 1: NON SOLO LINGUAGGIO: UNA TASSONOMIA DELLA COMUNICAZIONE (10 pag.) La teoria non considera sufficiente che ci siano due persone, perché si possa parlare di comunicazione, vanno aggiunte altre condizioni: • Il primo assunto è che il significato globale dell’interazione viene concordato tra i partecipanti, deve essere una rappresentazione mentale di ciò che sta accadendo, condivisa dagli interlocutori: tale struttura è il gioco comportamentale. • Il secondo assunto è che gli agenti devono esplicitare la propria intenzione consapevole di partecipare all’interazione. Può essere preso in considerazione come messaggio solo qualcosa che va nella direzione di contrastare l’entropia che cresce nel mondo continuamente. Qualunque cosa possa essere considerata un cambiamento, quella può diventare un messaggio comunicativo da una persona ad un’altra. 1.1 L’interazione sociale L’interazione sociale prevede due o più persone che entrano in una situazione di reciproco scambio. 1.1.1 L’estrazione di informazione Una prima modalità di interagire è l’estrazione di informazioni (è quella filogeneticamente più antica e condivisa da tutti gli esseri viventi). Secondo una prospettiva etologica, Hauser differenzia fra indicatore, segno e segnale: A. Indicatore: è un attributo sempre attivo che un individuo esibisce, è a costo zero perché fa parte del fenotipo dell’individuo. B. Segno: è un parametro, separato dall’organismo stesso, che può assumere diversi valori: è prodotto dall’individuo, talvolta con un preciso obiettivo, ma senza finalità comunicativa. Nell’uomo il concetto di segno è ambiguo, perché qualunque traccia di un’attività può diventare comunicativa. Quindi, facilmente nell’uomo, il segno, purché lasciato intenzionalmente, può diventare un segnale. C. Segnale: è un atto comunicativo che l’individuo rivolge ad altri animali. Può essere attivo o meno, comporta sempre un certo costo e può essere sia mostrato direttamente che separato dall’organismo. Il secondo caso di estrazione di informazione appartiene al dominio delle scienze esatte: teoria della matematica della comunicazione di Shannon e Weaver. Però questa teoria è inapplicabile alle scienze dell’uomo perché si parla di quantità e non di qualità dell’informazione: il significato del messaggio, non misurabile, non appartiene al dominio di questa teoria. Il valore informativo non solo varia da messaggio a messaggio, ma anche all’interno dello stesso messaggio il valore di ciascun componente non è costante, perché è legato alla novità, a quanto cioè il ricevente se lo aspetta. Shannon e Weaver considerano un messaggio come un modello distribuito nel tempo, che contiene tanta più info quanto più è improbabile, nel senso di esser composto da notizie inattese per il ricevente. Questo non è applicabile all’uomo perché la comunicazione umana è qualitativa, si basa sul significato soggettivo che un messaggio ha per il ricevente. La seconda ragione di debolezza la sottolinea Mantovani, rimprovera di concepire la comunicazione come trasporto di messaggi lungo una conduttura, senza che si considerino adattamenti reciproci continui tra gli 2 interlocutori, necessari anche nella più semplice delle conversazioni. La comunicazione umana è generata insieme da tutti le persone che partecipano all’interazione, e non esiste significato al di fuori di quello costruito all’interno della loro relazione. Beateson si pone in ottica ecologica, parla di comunicazione ostensiva, con cui normalmente si intende il fatto che il significato si un termine può essere chiarito con mezzi extralinguistici. Egli però deforma questo concetto ampliandolo fino a renderlo equivalente a quello di comunicazione non intenzionale, facendo rientrare nella categoria generale di comunicazione anche quest’ultima. Il riunificare comunicazione intenzionale e non intenzionale permette di parlare di comunicazione anche quando l’uso di questo termine è improprio. Quando Beateson parla di comunicazione fra sistemi viventi e non viventi, sta attribuendo intenzionalità a questi ultimi, commette quindi l’errore di usare una metafora in modo letterale. Invece solo se si è in una situazione significativa a livello della relazione, si può dire che l’agire diventa comunicativo. All’interno di una relazione definita, il contesto permette ai partecipanti di comprendere quale sia il significato del comportamento di ognuno di loro. Parliamo quindi di comunicazione quando è presente reciproca intenzionalità. Parliamo di estrazione di informazione se uno degli attori non possiede intenzionalità di comunicare. Gli indicatori (esibizione di caratteristiche naturali) non hanno qualità piena di comunicazione; questo vale anche per i segni: nell’estrazione di info un agente influenza col proprio comportamento gli stati mentali di un altro agente, senza che ci sia da parte sua alcuna intenzione di farlo. Possiamo in tutti questi casi parlare di estrazione – o attribuzione – di informazione, ma non di significato, perché per costruire un significato bisogna essere in due, ed essere reciprocamente interessati a costruirlo. 1.1.2 La costruzione comune di significato La misura dell’efficacia di un’interpretazione comunicativa è data dal livello di soddisfazione che tutti i partecipanti hanno rispetto a quello che si condivide dopo l’interazione, paragonato a quanto si poteva considerare condiviso prima della stessa. Si tratta di costruire insieme un’interpretazione accettabile dei reciproci atti comunicativi. Grice do una nozione di comunicazione: “attraverso un dato comportamento qualcuno vuole dire che q se e solo se, attraverso quel comportamento, intende indurre in un ascoltatore la credenza che q”. A deve avere l’intenzione di ottenere un determinato effetto nel suo interlocutore. A vuole dire qualcosa mediante un enunciato x, se A intende: A. Enunciando X, provocare una certa reazione nell’ascoltatore B; B. Che B riconosca, almeno in parte dall’enunciazione di x, che A intendeva provocare questa reazione; C. Che il conformarsi all’intenzione menzionata in (B) sia almeno in parte la ragione per cui B si conforma all’intenzione menzionata in (A). Nella comunicazione usuale, linguistico paralinguistico ed extralinguistico sono costantemente mescolati, modulandosi a vicenda per raggiungere l’effetto desiderato. Un atto comunicativo è una qualunque azione, sia linguistica che extralinguistica, purché l’azione stessa sia intesa come comunicativa dall’attore e sia riconoscibile come comunicativa dal partner. Si definisce paralinguistico quell’aspetto della comunicazione che ne modifica il significato in modo emozionale, usualmente non consapevole, ma congruente ai fini dell’interazione. La più importante struttura paralinguistica è la prosodia: i qualificatori prosodici sono specifici per ciascun linguaggio, il linguaggio può 5 • Permanente: non concede di separare i segnali convenzionali da quelli non convenzionali perché i due aspetti sfumano, legandosi al contesto in cui l’impermanenza è fruita. Si parla di disegno e in generale si parla di arti figurative Quella extralinguistica non convenzionale è la parte di comunicazione più distante dalla modalità di elaborazione linguistica. I gesti non convenzionali sono segnali non coscienti, che non hanno finalità comunicativa, anche se da essi gli interlocutori possono estrarre informazioni dell’agente. In qualunque momento i segnali non convenzionali possono diventare consapevoli, entrando a far parte della sfera comunicativa. Lo stesso vale per la sfera paralinguistica: generalmente è inconscia e non intenzionale, ma può succedere che diventi conscia e intenzionale (quindi comunicativa). 1.4 La differenza fra linguistico ed extralinguistico è un processo, non un dato Si considerano i due tipi di comunicazione per il modo in cui elaborano i dati: la comunicazione è un processo e comunicare linguisticamente o extralinguisticamente significa usare due modi diversi di analizzare i dati. Comunicazione linguistica: composizionale La comunicazione linguistica viene definita come l’uso comunicativo di un sistema di simboli: il linguaggio è quindi composizionale. Alcune espressioni hanno una struttura atomica, altre invece molecolare (queste a loro volta hanno dei costituenti che possono essere atomici o molecolari a loro volta). Il contenuto semantico di un’espressione linguistica dipende sia dalla struttura globale sia dal contenuto semantico dei suoi costituenti. La composizionalità determina le seguenti caratteristiche del linguaggio che definiscono il modo linguistico di elaborare espressioni comunicative: • Sistematicità. Inerente al concetto di linguaggio è quello di struttura sintattica. La capacità di generare e comprendere determinate frasi è intrinsecamente collegata alla capacità di generare e comprendere altre frasi. • Produttività. La competenza linguistica permette di generare e comprendere un numero infinito di significati lessicali, che a loro volta permettono di generare e comprendere un numero infinito di frasi ben formate e significanti. • Possibilità di dislocazione (displacement). La referenza spaziale o temporale cui il discorso si riferisce può essere spazialmente o temporalmente diversa da quella in uso durante il discorso. Tale possibilità è garantita da indicatori particolari di referenza. Comunicazione extralinguistica: associativa La comunicazione extralinguistica è considerata come l’uso comunicativo di un insieme di simboli. È non composizionale: ovvero fatta di parti, non di costituenti. Sono blocchi molecolari non scomponibili, dotati di significato globale intrinseco. Questo comporta una serie di differenze rispetto al linguaggio: • Associabilità. La proprietà associativa dice che nel generare un significato globale più ricco della semplice sequenza, ciascun significato extralinguistico rimane un atomo indipendente, non è possibile alcuna struttura superordinata, molecolare. È possibile costruire una sequenza di simboli dai significati collegati, il significato della sequenza di atti extralinguistici sarà sempre dato per associazione semplice tra i diversi simboli elementari mai per composizione di significati come avviene nel linguaggio. La sequenza di gesti rende chiara l’intenzione comunicativa dell’attore; la ricostruzione di tale intenzione non è guidata da regole sintattiche inerenti agli atti comunicativi, ma solo dalla logica e dalla conoscenza del mondo che l’interlocutore possiede. 6 • Produttività limitata teoricamente e irrealizzabile praticamente. La produttività non dipende necessariamente dalla sistematicità: è possibile ipotizzare che un agente generi continuamente nuovi gesti aventi significati conversazionali condivisi. In pratica però i sistemi di comunicazione extralinguistica esibiscono un numero limitato di festi utilizzabili in modo condiviso. La comunicazione extralinguistica non possiede sistematicità e quindi non ha molto senso inventare un nuovo simbolo per un significato complesso se poi quel nuovo simbolo non sarà mai più usato dagli agenti. • Dislocazione limitata teoricamente e inutile praticamente. Per la dislocazione si ha una situazione analoga a quella della produttività. Fatti salvi i vincoli di capacità di apprendimento e di memoria, non è impossibile pensare alla costruzione sociale di un gesto che rimandi a dei significati. Tali gesti però non avrebbero alcuna possibilità di rimanere stabilmente nel repertorio comunicativo di una comunità, perché la loro utilizzazione sarebbe talmente improbabile da rendere inutile la loro acquisizione. La ragione è sempre la mancanza di sistematicità nella comunicazione extralinguistica. Esistono tipi di input che si prestano contemporaneamente ai due tipi di elaborazione: è questo il caso di una conversazione normale vis-a-vis, dove gli interlocutori usano gli elementi linguistici forniti dal dialogo contemporaneamente a quelli extralinguistici provenienti dall’osservazione reciproca e dalla gestualità. Le due vie collaborano al fine di costruire un significato coerente, incrementando la quantità e qualità della conoscenza condivisa (collaborazione). Alcuni tipi di input privilegiano la modalità linguistica (es. registrazione audio o lettera scritta). Si noti che una struttura linguistica può comunque essere anche elaborata per via extralinguistica. Altri tipi di input privilegiano la modalità extralinguistica (es. interazione corporea emozionale o film muto). Il dato in ingresso non determina la modalità di elaborazione. Se ammettiamo che le due modalità comunicative si attivino in modo indipendente, dobbiamo rispondere a delle domande: la prima riguarda la relazione tra modalità comunicative e sviluppo del sistema uomo, la seconda riguarda l’esistenza o meno di moduli comunicativi specifici (Fodor) o di sottosistemi funzionalmente isolabili (Shallice). Bara considera le due modalità comunicative come due sistemi funzionali isolabili, non come moduli separati. I due sistemi godono di ampia autonomia l’uno dall’altro, questo è dimostrato dalla loro dissociabilità con lesioni. I processi centrali elaborano in modo diverso le info provenienti dai due sistemi comunicativi. A un certo livello però le info acquisite attraverso i due sistemi funzionali devono diventare equivalenti a livello di elaborazione: quando deve essere ricostruita l’intenzione comunicativa dell’attore, i processi centrali di inferenza usano qualunque tipo di info, contestuale o generale, per raggiungere un’ipotesi. Di qualunque genere sia la percezione, l’attivazione sensoriale precede comunque l’attribuzione di significato. Il significato una volta compreso potrà influenzare la neurofisiologia del sistema. Possiamo dire che le info in arrivo attivano diversamente i processi centrali, ma una volta che siano state adeguatamente simbolizzate, vengono trattate in modo analogo. Talora ci sia discrepanza tra i risultati forniti dall’uno e quelli forniti dall’altro, saranno i processi centrali a risolvere il dilemma, dando credito al sistema più affidabile in quel determinato contesto, o privilegiandone per esempio uno in modo sistematico. La comunicazione extralinguistica è efficace sui significati di base. La struttura composizionale del linguaggio semplifica enormemente la comunicazione. La struttura linguistica è un’importante conquista, che rende possibile effettuare agevolmente comunicazioni di difficoltà insormontabile per la struttura extralinguistica. 7 1.5 Atti comunicativi Tipi di frasi filosoficamente sensate sono quelle in linea di principio verificabili. Ogni frase di cui non si possa stabilire la verità o falsità, sarebbe da considerare priva di senso a livello logico-filosofico rigoroso. La tesi verificazionista ha dei problemi logici: il più importante concerne la differenza tra significato di una frase e la procedura tramite cui si può controllare se le sue condizioni di verifica sono verificate. Si va verso un approccio più quotidiano, soggettivo, legato a quello che le persone fanno davvero quando parlano. Si parla di gioco linguistico, che permette di identificare il significato del linguaggio con l’uso effettivo dello stesso. 1.5.1 Il dire è fare Si studiano le conversazioni di tutti i giorni, i giochi linguistici effettivamente giocati dalle persone. “Il dire è fare” diventa il motto della pragmatica. Il concetto chiave diventa quello di atto linguistico: Austin nota che in situazioni ben determinate alcuni enunciati espressi in forma dichiarativa (atti performativi) modificano il modo allo stesso modo delle azioni. Non ha quindi senso dire se sono veri o falsi. Gli atti performativi possono avere successo, modificando il mondo a patto che sussistano quelle che Austin definisce condizioni di buona riuscita: (A.1) Deve esistere una procedura convenzionale accettata che abbia un certo effetto convenzionale, procedura che deve includere l’atto di pronunciare determinate parole da parte di determinate persone in determinate circostanze. (A.2) La procedura specifica le circostanze e prescrive quale debba essere il comportamento delle persone. (B.1) La procedura deve essere seguita da tutti i partecipanti sia correttamente che (B.2) completamente. (α.1) Se la procedura è destinata dall’impiego da parte di persone aventi determinati pensieri o sentimenti, o all’attivazione di un determinato comportamento consequenziale da parte di qualcuno dei partecipanti, allora una persona che partecipa alla procedura deve avere i pensieri o i sentimenti richiesti, e i partecipanti devono avere intenzione di comportarsi nel modo prescritto; inoltre (α.2) devono in seguito comportarsi effettivamente in tal modo. Se le condizioni non sono quelle associate alla buona riuscita, il performativo fallisce. Ci sono due tipi fondamentali di infelicità dei performativi. Il primo tipo è il fallimento che si identifica con un non aver compiuto l’atto desiderato, a tutti i fini concreti. Nei due casi α l’atto invece è compiuto, ma è stato compiuto in circostanze tali da poter dire che c’è stato un abuso della procedura. Un fallimento di A e B azzera l’atto, un fallimento in α mantiene l’azione compiuta, ma la rende vacua, vuota di significato. Si evidenziò poi che non erano solo i performativi a modificare il mondo esterno, ma ogni atto generato in forma comunicativa. Una delle conseguenze di considerare il linguaggio in termini di atti linguistici che lo si fa rientrare nelle leggi generali che regolano le azioni: se ne evidenziano gli aspetti intenzionali. Austin lo scompone in tre parti separate: • Atto locutorio: corrisponde alla specifica emissione linguistica, con uno specifico significato e riferimento. • Atto illocutorio: corrisponde alle intenzioni comunicative che ha il parlante nell’emettere il messaggio. 10 Mentre le implicature conversazionali guidano le inferenze in avanti a partire dall’enunciato dato, le presupposizioni guidano le inferenze all’indietro, stabiliscono cioè le condizioni logiche che permettono a quell’enunciato di sussistere. Habermas dice che gli atti linguistici si basano su 4 presupposizioni consensuali, che definiscono le affermazioni di validità di un enunciato. Proferendo un atto linguistico, un parlante afferma: • Il suo contributo è vero (massima di qualità); • Il suo contributo è comprensibile (massima di quantità, relazione e modo); • La sua manifesta espressione di intenzione è sincera; • Il suo enunciato è corretto o appropriato in relazione al riconosciuto contesto normativo. La presupposizione essenziale per il successo di un atto illocutorio consiste nel prendere un impegno da parte del parlante, così che l’ascoltatore possa fidarsi di lui. 1.6 Principi della comunicazione Ci sono dei principi generali della comunicazione, poi ci sono regole specifiche della comunicazione linguistica (espresse dal lessico, sintassi, semantica, pragmatica ed è determinata sia geneticamente che culturalmente). Poi ci sono le regole specifiche della comunicazione extralinguistica, questi principi sono innati, perché quelli culturalmente determinati ricadono all’interno delle regole generali della comunicazione. Principi generali della comunicazione • Cooperazione. La comunicazione è un’attività cooperativa in cui sia il significato di ciascun atto comunicativo è concordato fra gli agenti, sia il significato globale dell’interazione risponde alle motivazioni di tutti i partecipanti (gioco comportamentale). • Attenzione comune. Sono le condizioni di contatto: il partner deve avere compreso che le azioni eseguite dall’attore sono espressive, vale a dire sono il tentativo di stabilire una comunicazione nei suoi confronti. • Intenzionalità comunicativa. La comunicazione è apertamente intenzionale: l’attore desidera cioè che il partner non solo recepisca il contenuto informativo dell’atto comunicativo, ma anche riconosca il suo tentativo di comunicargli qualcosa di rilevante. • Simbolicità della comunicazione. Si costruisce insieme il significato dell’interazione. L’agire diventa comunicativo quando tutti i partecipanti concordano nell’attribuirgli un significato comunicativo: l’azione diventa atto comunicativo quando le si assegna un significato. • Conoscenza condivisa. La comunicazione si fonda su conoscenze progressivamente condivise tra gli attori. L’efficacia della comunicazione si fonda sulla condivisione progressivamente più ampia di conoscenze. • Conversazione. Le forme di conversazione adeguate alla situazione devono essere messe in atto. • Dipendenza culturale. Le norme sociali vanno rispettate, realizzando atti comunicativi compatibili con le stesse. • Sistema funzionale linguistico ed extralinguistico. Linguistico ed extralinguistico sono due modalità di realizzare la comunicazione reciprocamente integrantisi, non competitive tra loro. Questi sono sottosistemi funzionali isolabili, anche se hanno finalità comuni. CAPITOLO 2: STRUMENTI PER COMUNICARE (8 pag.) Quali strumenti sono disponibili per validare una teoria? 11 • Formalizzazione. Una teoria deve essere formalizzata, secondo una modalità logica o computazionale, per appartenere a pieno titolo alla scienza cognitiva. L’intelligenza artificiale ha nella scienza cognitiva classica proprio il senso di fornire una metodologia comune. • Costruzione. Bridgman dice che la definizione di uno stato o fenomeno è equivalente alle operazioni necessarie per costruirlo, questo garantisce la ripetibilità della procedura. Ci sono due possibili declinazioni del criterio costruttivista: o La costruzione della teoria dal punto di vista dell’evoluzione della specie corrisponde a stabilire quali sono le possibilità che una determinata funzione si sia sviluppata. Molte delle ipotesi evoluzionistiche non sono osservabili direttamente, ma solo tramite induzioni basate su evidenze indirette. o La costruzione della teoria dal punto di vista dello sviluppo individuale corrisponde a sostenere che per capire come una determinata funzione opera nel sistema adulto, è necessario capire come si è sviluppata a partire dal neonato. • Correlazione cerebrale. La neuropsicologia cognitiva si è assunta l’incarico di stabilire quali sono i correlati cerebrali di tutte le funzioni mentali. Ci sono diverse tecniche: o Nelle indagini anatomiche e funzionali viene chiesto al soggetto di effettuare una serie di compiti mentre è immerso in un’apparecchiatura in grado di monitorare e registrare la sua attività cerebrale. o Le tecniche di dissociazione selettiva mirano a stabilire correlazioni fra incapacità funzionali e lesioni cerebrali. Scopo di questo criterio è esplicitare le connessioni fra mente e cervello: una teoria in grado di prevedere che determinate patologie cerebrali porteranno a specifici problemi psicologici è una teoria di ampiezza e fecondità più ampie di una che non sia in grado di fare alcuna connessione. Analizzare la comunicazione dal punto di vista cognitivo significa considerarla un atto mentale congiunto di tutti coloro che vi stanno partecipando, per scomporla poi a partire dagli stati mentali individuali dei partecipanti. Quando gli stati mentali diventano collettivi, si parla di attenzione comune, credenza mutua e intenzionalità collettiva. 2.1 Cooperazione Perché si dia un atto comunicativo è necessario essere almeno in due, e che si sia entrambi intenzionati a generarlo insieme. La costruzione di significato avviene nel momento in cui i due agenti mettono in comune la propria parte; non è invece indispensabile né la copresenza fisica né la condivisione temporale. Il mezzo influenza il contenuto e quindi gli agenti sono obbligati a tenere conto del canale di trasmissione che verrà usato. Questo viene fatto in modo quasi automatico. Ciascuna interazione comunicativa è un’attività a iniziativa alternata, di cui entrambi i partecipanti condividono costantemente la responsabilità. A rimane l’unico giudice riguardo alla correttezza di quanto espresso, mentre B è la misura dell’efficacia del suo discorso. A si assume onnisciente riguardo ai propri stati interni, dalle motivazioni alle scelte espressive. L’attività pertiene al parlante, la passività all’ascoltatore, al cambiare del turno, si scambiano i ruoli (falso). In un’ottica di cooperazione, successi e fallimenti vanno equamente distribuiti tra i partecipanti, dato che il significato è opera collettiva. L’ascoltatore diventa co-responsabile di quanto è stato detto, nel momento in cui si impegna a correggere gli assunti erronei del parlante riguardo a quanto può essere considerato condiviso tra loro. 12 La conversazione è un’interazione dinamica in cui il contributo di ciascun agente acquista significato all’interno della struttura globale. Lo scambio dialogico non va ridotto ad un’analisi rigidamente sequenziale di atti linguistici separati, per cui ciascun agente diventa a turno attivo o passivo. Al contrario, in ogni momento dell’interazione ciascun agente è sempre attivo, sia che parli sia che ascolti. Quando si analizza un atto linguistico isolato, si deve essere consapevoli dell’artificiosità dell’operazione e non suppore di aver raggiunto il cuore del problema. Nel contesto comunicativo gli stati mentali di tutti i partecipanti sono attivi in contemporanea, non in sequenza. Tutto è più semplice quando la comunicazione è usata in buona fede per raggiungere la cooperazione comportamentale, con gli attori che condividono uno stesso obiettivo. Naturalmente è possibile che ogni cooperazione venga infranta: quando un partecipante è ridotto al ruolo di puro oggetto (es. litigio tra automobilisti), non possiamo parlare di cooperazione comunicativa. 2.1.1 Cooperazione conversazionale e comportamentale Grice dice che c’è successo quando l’interlocutore comprende il desiderio del parlante e vi si adegua, e c’è fallimento quando l’interlocutore o non capisce, oppure, non intendendo adeguarsi ai desideri del parlante, interrompe la conversazione. Grice però non tiene conto di altre possibilità intermedie. È possibile che la cooperazione conversazionale venga mantenuta, mentre manchi la cooperazione comportamentale (fallimento). La cooperazione comportamentale e conversazionale è modellata rispettivamente assumendo l’esistenza di un insieme di giochi comportamentali, e di un insieme di regole della conversazione, che per analogia chiameremo gioco conversazionale. 2.2 Gli stati mentali Gli stati mentali sono rilevanti per il processo della comunicazione. 2.2.1 Attenzione comune Perché sia possibile una comunicazione è indispensabile che tutti i partecipanti vi prestino consapevole attenzione., ma ci deve anche essere un reciproco esser certi che anche l’interlocutore sta facendo la stessa cosa. Ci si deve continuamente confermare della condivisione del fatto stesso che si interagisce. Le condizioni di contatto sono requisito iniziale: consistono nell’avere già stabilito un accordo sul fatto che si sta prestando attenzione a quanto sta avvenendo fra gli agenti (es. sguardo o via acustica). Una volta che l’attenzione di entrambi sia esplicitamente attivata su quanto succede fra i due, ciascuno assume che l’altro tenga traccia di: • Quanto detto o fatto da A e B; • Quanto detto o fatto da C, D o altri, purché sia comunicativo nei confronti di A e B, o purché acquisisca particolare rilevanza mentre l’interazione tra A e B è in atto. • Quanto accaduto durante l’interazione, anche se non agito né da loro né da altri, purché A e B prestassero attenzione a ciò che succedeva intorno a loro. L’attenzione comune sarà attiva fino a quando non sarà esplicitamente staccata da uno o da entrambi. 2.2.2 Credenza condivisa Tradizionalmente si usa come concetto primitivo la credenza, le cui proprietà di base sono definite da un insieme di assiomi derivati dalla teoria del logico Hintikka; il principale problema è costituito dalla onniscienza 15 Conoscenza implicita È conoscenza non esplicita, leggibile direttamente da altre parti del sistema. È rappresentata tramite le regole di produzione. Ha una parte trasparente e una opaca: • La parte trasparente corrisponde alle immagini e produzioni che traducono in termini procedurali conoscenze esplicite. Il sistema ha libero accesso a tali conoscenze. • Le procedure opache sono modi di agire che scattano automaticamente, senza bisogno di controllo o di attenzione. Sono fuori dalla consapevolezza: operano inconsciamente e sono ricostruibili esplicitamente solo a posteriori, in modo sempre incompleto e arbitrario. È sovrapponibile al concetto di conoscenza procedurale. Parte della conoscenza tacita è assimilabile alle capacità di sfondo (Searle): queste permettono al sistema di agire, senza bisogno di rappresentare tutte le assunzioni che sottostanno al suo essere nel mondo. Tali assunti possono essere generati e introdotti nella sfera consapevole di conoscenza. La relazione tra conoscenza tacita ed esplicita corrisponde al rapporto che c’è tra il vissuto e il simbolizzato. Di una conoscenza tacita si può tentare di inferire quale possa essere il corrispettivo esplicito: questo corrisponde a costruire una teoria di un fenomeno, solo che il fenomeno è introspettivo. Le procedure opache generano risultati espliciti. 2.3 Intenzionalità Il concetto di intenzionalità assume due significati: • Direzionalità dell’intenzione. Il primo concerne quel che Searle chiama aboutness, “l’essere a proposito di” di un’intenzione, il suo riferirsi sempre a qualcosa, il fatto che sia sempre diretta verso una persona, oggetto o evento. Le azioni e gli stati mentali caratterizzati da intenzionalità possiedono per forza un focus su cui si concentra la prospettiva dell’attore, focus verso il quale orienta la linea d’azione o pensiero. • Il secondo significato si riferisce al fatto che l’intenzionalità può anche assumere la caratteristica della deliberazione: un’azione o stato mentale caratterizzato da intenzionalità può comprendere un nucleo che è stato voluto, deciso o scelto. Tale nucleo non è però necessariamente presente. Le nostre azioni hanno sempre una serie di conseguenze: alcune desiderabili e altre invece inevitabilmente legate all’obiettivo prefissato ma irrilevanti o negative. Ci sono delle distinzioni da fare: 1. Azione pienamente intenzionale, consapevole e deliberata: il soggetto vuole raggiungere un determinato obiettivo. L’intenzione non deve essere per forza verbalizzata. Il fatto che un’intenzione sia deliberata corrisponde al suo poter generare un piano d’azione corrispondente alla meta desiderata. Questo è esattamente ciò che succede per le intenzioni consapevoli. Comprende azione pienamente intenzionale, intenzione stabile ed effetti deliberati. 2. Azione intenzionale direzionata, non deliberata e conscia: comprende intenzione in azione ed effetti accettati. 3. Azione non intenzionale e conscia: comprende comportamenti stereotipati, determinati da stati mentali ed emotivi non direzionati o influenzati da toni emotivi non collegabili a cause precise. 4. Azione intenzionale direzionata, deliberata e inconscia: è un caso impossibile, perché non è possibile che si dia un’azione pienamente intenzionale inconscia. 16 5. Azione intenzionale direzionata, non deliberata e inconscia: comprende mete inconsce realizzate in modo parassitico rispetto al piano d’azione consapevole ed atti marcati: nel primo caso l mete inconsce non interferiscono con quelle consapevoli, mentre nel secondo caso le mete inconsce disturbano il raggiungimento di quelle consce. 6. Azione non intenzionale e inconscia: comprende agiti automatici e fisiologici e stati neurali. C’è un’altra dicotomia, legata al tempo in cui l’intenzione si attiva. Per indicare la stabilità nel tempo si dice intenzionale stabile, contrapposta ad un tipo transitorio e a volte simile ad un riflesso del pensiero chiamato intenzione in azione. L’azione stabile è deliberativa, è quella che sottende al disegno di piani d’azione, mentre quella in azione attiva le mete e sottomete specifiche per raggiungere l’obiettivo globale. L’intenzione in azione è spesso automatica e non deliberativa. La tesi di Bara è che ci sia un’intenzionalità inconscia non deliberata (caso 5). Questa intenzione contribuisce al corso d’azione in modo opportunistico, sfruttando le modifiche possibili per far sì che la meta venga raggiunta. Quando è l’intenzione precedente ad essere inconscia, essa può facilitare la costruzione di un piano d’azione relativo ad una meta conscia, o al contrario renderla più difficile. Se la meta inconscia è congruente con quella conscia, diventa un facilitatore di cui non ci si rende mai conto. Se invece la meta inconscia agisce in direzione opposta a quella conscia, nell’ostacolarla può manifestarsi e la persona la riconosce. Se, invece, l’intenzione in azione è inconscia agisce come un modificatore dell’azione che è in esecuzione per ottemperare a un’intenzione conscia. Le disfunzioni comportamentali e gli atti mancati sono esempi di un’intenzione inconscia in azione. L’atto mancato è provocato da un desiderio inconscio, che si realizza attraverso un’azione dissonante rispetto al piano d’azione deliberato e consapevole. L’unico modo per rendersi soggettivamente conto di un desiderio inconscio è attraverso il comportamento. Anche se il desiderio inconscio riesce a trasformarsi in una modifica d’azione, non diverrà consapevole a meno che venga poi attribuita intenzionalità vera e propria all’azione così modificata. La chiave di tale consapevolezza risiede nella riconosciuta incongruità del comportamento rispetto alle sole intenzioni consce. Il caso 3 comprende comportamenti stereotipati o collegati a stati mentali coscienti, ma non intenzionali (non deliberati né direzionati). La persona è perfettamente consapevole di trovarsi in uno stato d’animo contraddistinto da ansia o depressione, ma non riesce a identificare alcuna ragione motivante: c’è coscienza ma non intenzionalità. Il caso 6 invece è la categoria dei fenomeni non intenzionali e non coscienti, infatti non sono stati mentali ma stati neurali che realizzano il funzionamento cerebrale che a sua volta sottende l’operare mentale. 2.3.1 Intenzione comunicativa Le azioni comunicative sono sempre svolte insieme a qualcuno. Si definisce intenzione comunicativa l’intenzione di comunicare qualcosa: A possiede l’intenzione comunicativa che p, rispetto a B quando A ha l’intenzione che i due fatti seguenti vengano condivisi da A e da B: 1. Che p; 2. Che A intende comunicare a B che p. Grice fa notare che comunicare comprende non solo l’intenzione del parlante di primo ordine, di raggiungere un determinato effetto sull’interlocutore, ma anche l’intenzione di secondo ordine, che l’intenzione di primo ordine sia riconosciuta in quanto tale dall’interlocutore. Strawson dice che è necessario considerare anche un terzo ordine, che fa sì che anche quella di secondo ordine sia riconosciuta in quanto tale. Arienti, Bara e 17 Colombetti hanno mostrato che se un’intenzione di ennesimo ordine è richiesta nella definizione di comunicazione, allora l’attrice potrebbe non possedere l’intenzione di ordine ennesimo+1. Ciò comporta due alternative: o si postula un’infinita gerarchia di intenzioni, o si fornisce una definizione circolare di comunicazione, usando la nozione di conoscenza condivisa. Formula: A intende comunicare una certa cosa a B, quando desidera che B dia per condiviso fra loro due non solo il contenuto specifico della comunicazione, ma anche il fatto che lei voleva proprio comunicarglielo. Quindi anche l’intenzione comunicativa è primitiva della pragmatica; questo implica un numero infinito di incassamenti finiti di intenzioni e credenze condivise. Formula: dal fatto che A intende comunicare a B una certa cosa, si può inferire che intende che anche l’intenzione originaria di comunicarglielo sia riconosciuta e che sia riconosciuta anche l’intenzione di fargli sapere che lei intendeva proprio che lui si accorgesse della sua intenzione di comunicarglielo. Bisogna fare delle distinzioni: 1. Atto comunicativo deliberato e conscio. • Comunicazione. Una comunicazione deve possedere intenzionalità e coscienza. Perché l’intenzionalità comunicativa abbia successo, è necessari oche si verifichino due condizioni: che sia riconosciuto dall’interlocutore il contenuto specifico dell’intenzione comunicativa (che p), e che sia riconosciuta l’intenzione di comunicare il suddetto contenuto. Questa seconda condizione rende l’intenzione comunicativa uno stato mentale necessariamente conscio. 2. Atto comunicativo intenzionale, non deliberato e conscio. • Sequenza di parole o di gesti. La sequenza di parole di un enunciato o la sequenza di movimenti di un’azione comunicativa sono esempi di intenzionalità comunicativa non deliberata ma cosciente. Una persona è perfettamente consapevole di quanto sta dicendo, ma non struttura le frasi in anticipo. Sono intenzioni comunicative in azione, consapevoli, dirette ad un fine, ma non deliberate. • Effetti intesi apertamente. Possiamo considerare come pienamente intesi solo gli effetti che entrambi gli agenti considerano ovvi, evidenti e certi rispetto all’azione intorno a cui si sta deliberando insieme. Sono intesi anche gli effetti primi e immediati delle azioni o stati del mondo che costituiscono il contenuto proposizionale dell’intenzione comunicativa. Da questo punto in poi l’attribuzione di intenzionalità comunicativa è arbitraria. • Effetti intesi non apertamente. È uno spazio di quasi-comunicazione. Supponiamo che A manifesti a B qualcosa che corrisponde perfettamente ad uno stato mentale consciamente posseduto da A, senza però che A abbia formulato un’esplicita intenzione comunicativa riferita a quello stato mentale. Supponiamo che B colga anche l’allusione emessa intenzionalmente da A. Di fronte ad una risposta di B che espliciti l’intenzione quasi-comunicativa trasmessa da A, A può rendersi conto o meno di quanto è successo, eventualmente anche rendendo esplicito qualcosa in precedenza appartenente alla conoscenza tacita. Si definisce effetto inteso non apertamente un contenuto proposizionale corrispondente ad uno stato mentale privato di A, in cui l’intenzionalità comunicativa non sia deliberata, veicolato attraverso un altro atto comunicativo avente un diverso contenuto proposizionale e piena intenzionalità comunicativa. Il punto cruciale è che il suo significato viene costruito a partire dalla comprensione di B. - Un’estensione si verifica quando, nel dare significato all’atto comunicativo di A, B compie un’inferenza, o effettua una presupposizione, posseduta privatamente da A, ma che A non 20 La struttura di un gioco comportamentale: • [NOME DEL GIOCO] • Relazione tra i giocatori (x;y); • Condizioni di validità: tempo, luogo, altre; • Mosse del gioco: x fa qualcosa, y fa qualcosa… Ciascun agente ha del gioco una visione soggettiva, basata sulla nozione di conoscenza condivisa, anch’essa soggettiva. Il fatto di dare ai giochi una struttura di conoscenza di tipo dichiarativo implica che di essi si possa parlare, menzionandoli all’occorrenza. È possibile, ma non necessario, che gli attori possiedano una rappresentazione esplicita dei giochi da loro giocati. 3.1.2 Tipi di gioco Si classificano diversi tipi di gioco a seconda della quantità di persone in grado di giocarli: • Giochi culturali: comuni ad un’intera cultura. Due persone che condividono la stessa cultura, in una determinata situazione, se uno specifico gioco viene attivato sanno reciprocamente cosa ciascuno si aspetta che l’altro faccia. Più il gioco è diffuso, più si tratta di qualcosa che si avvicina ad una norma sociale di condotta. Questi comprendono anche aspetti paralinguistici ed extralinguistici (es. prossemica). I giochi culturali sono legati al tempo di vita della cultura stessa. • Giochi di gruppo: condivisi da un gruppo di persone. Il gioco è condiviso da una cerchia più o meno ristretta di persone, che usualmente hanno condiviso l’esperienza di strutturazione del gioco stesso. I giochi di gruppo possono essere insegnati esplicitamente, anche se di solito vengono appresi per imitazione, spesso senza vera consapevolezza. • Giochi di coppia: comune a due sole persone. Tali giochi sono costruiti da due persone e sono validi solo per loro. Un gioco di coppia, estendendosi, può diventare di gruppo. I gruppi personalizzano i giochi culturali e le coppie quelli di gruppo. Ci si può chiedere se possono esistere giochi universali. Sicuramente esistono schemi comportamentali comuni a tutti gli uomini, necessariamente geneticamente determinati, quindi esulano dalla definizione di gioco. 3.1.3 Giocare un gioco Un gioco verrà giocato da un attore se si verificano 2 condizioni: 1. Che il gioco sia giocabile; 2. Che l’attore sia interessato a giocarlo. Apparentemente l’intenzione non dà problemi in caso di un singolo agente. Ma l’intenzione si deve misurare con le altre intenzioni attive nel sistema a breve e lungo termine. L’intenzione va in competizione con le altre attive e una gerarchia di priorità viene sempre mantenuta. Ampliando il discorso ai giochi con più partecipanti ci si può chiedere se il gioco è giocabile semplicemente se si è motivati a farlo? No, ci sono delle condizioni di validità: • Tempo: i giochi comportamentali non sono attivabili in qualunque momento. In alcuni casi le condizioni temporali possono essere meno rigide. Infine, ci sono anche giochi che non prevedono alcun vincolo temporale, anche se possono essere attivati di preferenza in determinati momenti invece che in altri. 21 • Luogo: i giochi prevedono una situazione di attivazione, entro la quale sia possibile fare le mosse previste. Circostanze inappropriate rendono infelice l’esecuzione di un enunciato performativo (enunciato che non dice qualcosa ma fa qualcosa). Una completa procedura performativa corrisponde ad un gioco comportamentale, quindi un singolo enunciato performativo è una mossa dello stesso gioco. Un gioco che non corrisponda ad una procedura performativa avrà vincoli meno rigidi di luogo, ovvero non scatterà automaticamente il fallimento. Il luogo preferenziale resta comunque importante. Spesso si trova la presenza contemporanea di vincoli temporali e spaziali, che stabiliscono le condizioni di validità del gioco. Generalmente sono i giochi professionali quelli con condizioni di validità complesse (es. avvocato, professore). • Altre condizioni (libere): alcuni giochi possono richiedere altre condizioni di validità, legate ad aspetti particolari dei giochi stessi. 3.1.4 Mosse di gioco Garantite le condizioni di validità, un gioco deve essere contrattato (proposto ed accettato da tutti). Una volta aperto, il gioco rimarrà attivo per i partecipanti per tutto il suo svolgimento, fino alla naturale conclusione. Apertura La mossa diretta di apertura può consistere in un atto espressivo (consiste in un atto comunicativo che menzioni il gioco stesso, o per nome o per metonimia, riferendosi ad una qualunque delle parti che lo costituiscono) o nell’esecuzione di un atto comportamentale che equivale alla prima mossa. È possibile proporre il gioco con una mossa che usi un atto linguistico indiretto (specie se il gioco non è abituale). Il gioco una volta aperto e accettato, non rimane attivo indefinitamente, fino a che non avvenga una chiusura formale. Normalmente, sono i giocatori stessi che continuano a segnalare che il loro comportamento sta continuando a realizzare il gioco concordato. Le mosse che confermano il gioco sono meno sottolineate di quelle di apertura. In alcune situazioni particolarmente ritualizzate è possibile che ci sia un presidente o un cancelliere che dichiari aperta e chiusa la riunione, ma è un’eccezione. In un gioco meno rigidamente formale, la chiusura è anch’essa oggetto di trattazione. Tutti i partecipanti dovrebbero concordare che si sono raggiunti gli obiettivi o che le mosse previste sono state eseguite. La soddisfazione è soggettiva (vedi i giochi competitivi in cui può vincere solo una persona). Una seria contestazione sulla chiusura implica che un attore non accetta quel gioco come terminato, o che potrebbe denunciare come scorrettezza o rottura delle regole una sua sospensione a quel punto. Mossa Un gioco comportamentale specifica le mosse che lo costituiscono al livello del dettaglio più alto possibile, in modo da vincolare il meno possibile gli attori ad un’unica modalità obbligata di esecuzione. Si tratta di concordare fra i partecipanti se una specifica realizzazione di una mossa possa essere ritenuta valida, rispetto al contesto e alle finalità dei giocatori. Alcuni giochi, particolarmente idiosincratici o istituzionali, possono richiedere invece l’esecuzione di una specifica mossa, descrivendo la procedura fino al minimo dettaglio. 3.1.5 Rottura di un gioco Aver iniziato un gioco non significa per forza portarlo a termine. L’attore che si ritira da un gioco è però soggetto ad una sanzione sociale. Con rottura di un gioco si intende che un attore inizia un gioco, ritirandosi 22 quando è il suo turno di effettuare una mossa. Talvolta è la legge a garantire che un contratto venga rispettato, in questo caso si hanno conseguenze legali, ma non vi è alcun obbligo iniziale. In altri casi invece è il gruppo sociale a penalizzare l’individuo. I contratti rigidi sono costrittivi e precisi, concedono poco all’interpretazione, perché le mosse sono prescritte in dettaglio, quindi le sanzioni sono nette e inevitabili. I giochi elastici sono flessibili e aperti, lasciando gli attori liberi di creare le mosse, purché rispettino lo spirito del gioco; prima che ci sia sanzione ufficiale deve essere dimostrata la malafede. Le caratteristiche di personalità e le esperienze vissute portano ognuno a preferire un tipo di gioco piuttosto che un altro. le preferenze personali non sono però un dettame etico. Il gruppo non persona quando a rompere il gioco è il garante del gioco stesso; alla normale penalizzazione, qui si aggiunge quella della confraternita che non tollera debolezze al proprio interno. Non rispettare il gioco in cui ci si è impegnati è comunque segno di non-cooperazione che rende più difficoltose le successive interazioni. Non essere considerati affidabili è l’essenza della penalizzazione sociale. Una diversa situazione è quella in cui un attore, di cui si presume la conoscenza di un gioco, non è invece capace di seguirlo. In questo caso si ha fallimento. Può esserci un fallimento di conoscenza quando l’attore non sa cosa ci si attende da lui ed esegue una mossa sbagliata o fuori luogo. La distinzione tra fallimento e rottura non è semplice da cogliere per il partner che si trova a dover fare una scelta: può richiamare l’attenzione dell’attore sull’incongruità della mossa oppure può decidere di lasciar perdere, con il rischio che la rottura passi per un involontario fallimento. 3.1.6 La relazione fra giocatori Perché due persone possano giocare un gioco, la prima questione da risolvere è se la loro relazione sia tale da permetterglielo. In modo statico, la relazione fra due persone è definita dal tipo di giochi che esse mutualmente riconoscono come giocabili. La conoscenza di un gioco non implica che entrambi si sia disposti a giocarlo proprio con quel partner. In modo dinamico, la relazione definisce anche quelli che sono i giochi presumibilmente giocabili tra due individui che pure non li abbiano mai agiti in precedenza. Ciò equivale a porsi la domanda “Sarebbe l’altro presumibilmente motivato a giocare questo gioco, se glielo proponessi?”. L’unica risposta certa si avrà solo all’effettuarsi della proposta o all’esecuzione della mossa di apertura, ma per minimizzare il numero di rifiuti ogni attore cercherà di anticipare le reazioni dell’altro. Questo lo farà chiedendosi “Com’è la relazione tra me e l’altro?” oppure “Come vede l’altro la nostra relazione?”. La differenza consiste che nella prima domanda, l’attore assume che la relazione fra sé e l’altro sia unica, assoluta, mentre nella seconda coglie il fatto che possano esistere differenze nel modo in cui ciascuno vede le proprie relazioni con le altre persone. La relazione dinamica è soggettiva, mentre quella statica è oggettiva. La relazione diventa la generatrice di vincoli e possibilità, a partire dai giochi che sono stati giocati o che appartengono alla comune cultura, per arrivare a quelli potenzialmente giocabili, ma che dipendono dalla reciproca percezione degli attori. Ciascuna comunicazione, secondo Bateson, avviene su due livelli: uno su cui viaggia il contenuto informativo specifico e uno su cui viaggia un messaggio relazionale (caratterizzata dalla parte non verbale). La relazione è uno degli elementi primari considerati per stabilire se una proposta di gioco è accettabile o meno. Talvolta quindi, per rendere realizzabile un gioco, prima deve essere rivista la relazione fra i giocatori. In altri casi, un agente può cercare di giocare un gioco al fine di modificare la relazione con gli altri 25 • Pattern D: disorganizzato disorientato. Il bambino è incapace di organizzare un comportamento coerente nei confronti della madre, mostrando forti oscillazioni dell’attenzione. La madre si mostra disorganizzata e soggetta a stati alterati di coscienza con immersione in situazioni personali irrisolte, solitamente luttuose o traumatiche. L’atteggiamento della madre è spaventato tale da causare paura al bambino. Da adulto avrà disturbi dissociativi o personalità multiple. In termini di gioco comportamentale, se il bambino impara un solo gioco emotivo, a quello dovrà ispirarsi comunque nella sua vita successiva; se ne conosce più d’uno, potrà muoversi con un’aumentata libertà di manovra. Lo stile di attaccamento rappresenta in chiave emozionale quello che è il format per la dimensione cognitiva. 3.3 Gioco conversazionale Il gioco conversazionale è un insieme di compiti che ciascun partecipante alla conversazione deve eseguire in una data sequenza. Ciascun compito è caratteristico di una specifica fase del processo di generazione/comprensione. Il gioco conversazionale determina come le differenti fasi devono essere concatenate nei casi standard e in quelli non standard. In ciascuna fase, il compito associato alla fase viene seguito utilizzando un insieme di regole inferenziali, chiamate regole di base. Il gioco conversazionale si può rappresentare come un insieme di metaregole che definiscono il compito da eseguire in ciascuna fase e specificano qual è il compito da attivare successivamente. Per ciascuna fase, la metaregola associata definisce il compito grave a una formula logica che deve essere derivata attraverso le regole di base locali. La metaregola detta cosa deve essere fatto sia nel caso in cui il compito sia stato eseguito, sia nel caso contrario. È il gioco conversazionale a gestire il dialogo, che è un’attività altamente strutturata che coinvolge almeno due agenti. Nei dialoghi si possono distinguere una struttura globale e una locale. La struttura globale determina il flusso della conversazione, organizza il concatenarsi delle fasi del dialogo in sequenze. Si definisce sequenza come un blocco di scambi legati da una forte coerenza semantica e pragmatica. La maggior parte delle interazioni presentano una sequenza di apertura, il corpo e una sequenza di chiusura. Il dialogo può essere visto come un’alternanza di turni. L’alternanza dei turni è parte della struttura locale del dialogo. La relazione tra atti linguistici all’interno dello stesso turno è anch’essa gestita dalla struttura locale. La struttura locale poi gestisce le relazioni tra turni consecutivi, tra cui spiccano le coppie adiacenti, che sono sequenze stereotipate di interazione del tipo salito/saluto, offerta/accettazione-rifiuto, domanda/risposta e simili. La struttura globale dei dialoghi deriva dalla mutua conoscenza di un piano d’azione. La struttura globale non deriva da regole linguistiche, ma da giochi comportamentali. Il gioco comportamentale gestisce l’interazione globalmente considerata, mentre il gioco conversazionale si occupa dello sviluppo armonico del dialogo. CAPITOLO 4: GENERAZIONE E COMPRENSIONE DI ATTI COMUNICATIVI (13 pag.) Lo schema generale è il seguente: l’attore produce un enunciato, ricevuto dal partner, che ne rappresenta il significato. Gli stati mentali del partner relativi al dominio del discorso possono essere modificati dalla comprensione, quindi il partner modifica la mossa successiva, che poi viene generata. Possiamo distinguere 5 fasi logicamente concatenate nei processi mentali di B: 26 1. Fase 1 – Atto espressivo. Lo stato mentale espresso da A è ricostruito da B a partire dall’atto illocutorio letterale; 2. Fase 2 – Significato inteso dal parlante. B ricostruisce le intenzioni comunicative di A, compreso il caso di discorso indiretto. 3. Fase 3 – Effetto comunicativo. Consiste in due processi: a. Attribuzione, dove B attribuisce ad A stati mentali privati come credenze ed intenzioni; b. Aggiustamento, dove gli stati mentali di B relativi al dominio del discorso possono essere modificati in conseguenza all’enunciato di A. 4. Fase 4 – Reazione. B produce le intenzioni che comunicherà nella risposta. 5. Fase 5 – Risposta. B realizza concretamente una risposta comunicativa. Queste fasi sono controllate dal gioco conversazionale. Se una delle qualunque fasi iniziali non porta a termine il suo compito, la catena è sospesa e il processo va direttamente alla reazione (4). Per ciascun compito, un insieme di regole di livello base definisce quali sono le inferenze dipendenti dal dominio che devono essere usate per eseguirlo; queste regole hanno ruoli diversi nei diversi processi: • Nella comprensione sia dell’atto espressivo (1) che del significato del parlante (2) c’è un numero limitato di regole specializzate. La ragione è che il risultato dei processi di comprensione va condiviso da entrambi i partecipanti. Le regole di comprensione sono costitutive del significato, costruito insieme da tutti i partecipanti. • L’effetto dell’enunciato sul partner (3) è una questione di elaborazione mentale privata invece. Quindi non è possibile formulare un insieme esaustivo di regole per questa fase. • La fase di reazione (4) è un caso diverso: qui il compito è quello di pianificare un atto comunicativo aperto, partendo dalle motivazioni private attivate dallo svolgersi del dialogo. Le norme che la regolano non sono universali e logicamente necessarie, ma dipendono dalla specifica cultura degli agenti e dalle circostanze in cui si svolge il dialogo. • La generazione della risposta (5) è basata su un tipo specializzato di pianificazione e su un insieme di regole linguistiche ed extralinguistiche condivise e costitutive. 4.1 Riconoscimento dell’atto espressivo Il punto di partenza è un atto illocutorio letterale, in cui la forza illocutoria indica come deve essere inteso l’enunciato. Formula: l’attrice A genera un enunciato rivolto al partner B, avente il contenuto p e la forza illocutoria f. A questo stadio di sviluppo, la teoria del dialogo si pone a livello proposizionale. Per quanto riguarda la forza illocutoria letterale, essa è da considerarsi come una proprietà dell’enunciato che può essere derivata a partire dal basso unicamente dalle caratteristiche dell’enunciato. Dal punto di vista della rappresentazione, è necessario un modello per formalizzare le azioni. I tipi di eventi possono essere primitivi e qui l’azione consiste nel generare un atto illocutorio; in alternativa le azioni sono definite attraverso i loro effetti. Un’intenzione è rappresentata nella stessa forma di un tipo di azione. Un agente può avere l’intenzione solo di eseguire lui stesso un’azione (se c’è un unico specificatore x che vale sia come il soggetto che ha intenzione, sia come l’agente dell’azione da compiere). Oppure ci può essere una condizione in cui “x intende indurre y a compiere l’azione”. Anche se un atto illocutorio letterale è usualmente eseguito per esprimere un 27 atteggiamento riguardo al contenuto, questa non è l’unica possibilità: bisogna distinguere tra usi espressivi e non espressivi di un enunciato. Nell’uso espressivo, l’attore A realizza un atto più astratto di esprimere un proprio stato mentale al partner B (Formula: A esprime al partner B lo stato mentale s). A livello linguistico, l’atto illocutorio letterale si riferisce alle convenzioni sintattiche e semantiche del linguaggio, mentre l’atto espressivo è collegato alle convenzioni che regolano l’uso della forza illocutoria letterale. È importante questa distinzione perché creano delle diverse inferenze: dall’atto illocutorio letterale B non può derivare alcuno stato mentale attribuibile ad A, al di là dell’intenzione; al contrario, l’inferenza standard che si può derivare dall’atto espressivo consiste nell’attribuire all’attore lo stato mentale espresso, che è il passo iniziale per comprendere il significato inteso dal parlante. Bisogna quindi sottolineare 3 punti: 1. Se anche l’interazione è ampiamente basata sul linguaggio, l’atto illocutorio letterale non è necessariamente linguistico. 2. Entrambi i tipi di atti, in quanto atti, possono presentarsi come mosse di un gioco comportamentale, con delle conseguenze. 3. Si evidenzia un’anomalia paradigmatica: dopo aver insistito sul fatto che la comunicazione è cooperativa, viene introdotto ora il significato letterale, che rimanda a un’oggettivizzazione dell’atto illocutorio. L’anomalia però è apparente: l’atto illocutorio letterale non è comunicativo. Se non è espressivo, esso non rimanda ad alcuno stato mentale del parlante rispetto all’ascoltatore e non può essere preso come punto di partenza per la costruzione del significato. Una volta che l’atto espressivo sia stato riconosciuto, si attiva il processo di comprendere il significato inteso dal parlante. Le regole cominciano ad operare quando B assume che l’atto illocutorio letterale che ha riconosciuto è condiviso con A. Le Regole R1-R3 codificano il potere espressivo delle principali forze illocutorie letterali: assertive (R1), interrogative (R2) e direttive (R3). Le regole di un atto espressivo: 1. Metaregola M1 (riconoscimento): il compito del processo di riconoscimento dell’atto espressivo è quello di raggiungere uno stato in cui sia condiviso tra partner e attrice il fatto che l’attrice o ha prodotto un atto espressivo, oppure ha eseguito una mossa di un gioco comportamentale. 2. Regola 1 (R1): nello spazio delle credenze condivise, la forza illocutoria assertiva corrisponde per default all’espressione di una credenza. 3. Regola 2 (R2): nello spazio delle credenze condivise, la forza illocutoria interrogativa corrisponde per default all’espressione dell’intenzione dell’attrice di indurre il partner a farle sapere se è il caso che p. Il trattamento è limitato alle domande che ammettano una risposta binaria sì/no. 4. Regola 3 (R3): nello spazio delle credenze condivise, la forza illocutoria direttiva corrisponde per default all’espressione dell’intenzione dell’attrice di indurre il partner a eseguire un’azione. 5. Regola 4 (R4): nello spazio delle credenze condivise, compiere un atto illocutorio letterale che è definito come una mossa di un gioco, conta come giocare quel gioco. Queste regole vanno considerate come la componente comune ai vari tipi di forza illocutoria. Bisogna però trattare a parte gli enunciati del gioco: sono enunciati la cui illocuzione associata è completamente definita 30 Il metalivello deve selezionare inizialmente una catena inferenziale che raggiunga la Formula 1, in cui B possa dare per condivisa la richiesta di A di attivare il gioco G. Le euristiche da impiegare dovrebbero sfruttare la conoscenza rappresentata nei giochi comportamentali. Bisognerebbe tentare di interpretare un enunciato attraverso una ricerca bidirezionale che parta da un lato dall’atto espressivo, e dall’altro dal gioco attualmente giocato oppure dai giochi le cui condizioni di validità sono soddisfatte. Partire dalle condizioni di validità significa selezionare il gioco più probabile fra quelli possibili. L’euristica dovrebbe prima considerare i giochi di coppia, poi quelli di gruppo e infine quelli culturali. Se invece si parte dall’atto espressivo, è il livello di base a dover cercare di raggiungere la Formula 1. Ci sono diverse varianti per aprire un gioco comportamentale: 1. Mossa di gioco: a. Mossa espressiva, linguistica o extralinguistica; b. Enunciato di gioco: esecuzione diretta di azione prevista dal gioco. 2. Offerta di gioco: a. Azioni; b. Gioco globale. Nel caso 1 gli enunciati sono eseguiti in quando mosse di un gioco, nel caso 2 invece gli enunciati sono usati per proporre un gioco comportamentale. Nel caso 1 si può usare qualsiasi tipo di mossa che appartenga ad un gioco, tali mosse possono essere espressive oppure enunciati specifici del gioco. Nel caso 2 l’attore menziona un gioco, proponendolo prima di eseguire una qualsiasi mossa. L’assunto di sincerità diventa fondamentale nel causare l’effetto comunicativo desiderato sul partner: per decidere se impegnarsi o meno nel gioco comportamentale proposto da A, il partner B deve fare un’ipotesi precisa sugli stati mentali effettivamente posseduti da A. 4.2.1 Atti linguistici indiretti Atto illocutorio indiretto è un atto illocutorio il cui significato viene trasmesso in modo mediato, attraverso l’esecuzione di un altro atto illocutorio. Il parlante esegue un atto illocutorio primario tramite il proferimento di un atto illocutorio secondario letterale. Il problema è quello di spiegare come fanno gli interlocutori a intendersi: ci sono 5 linee di spiegazione: A. ATTI LINGUISTICI INDIRETTI COME FORME IDIOMATICHE. Questo approccio tenta una risoluzione linguistica degli indiretti: Sadock dice che essi sono espressioni idiomatiche che equivalgono semanticamente a forme dirette, apprese e usate come tali dagli utilizzatori di un determinato linguaggio. Ci sono delle critiche: (1) ci sono un infinito numero di atti linguistici indiretti che si possono proporre per indicare la stessa cosa, una forma idiomatica riconosciuta invece deve essere appresa e usata in quanto tale con varianti minime; (2) atti linguistici apparentemente indiretti possono essere usati talvolta come diretti, mantenendo quindi la loro forza letterale. B. ATTI LINGUISTICI INDIRETTI RISOLTI PER INFERENZA. Per Searle, il problema degli atti linguistici indiretti è di come sia possibile per il parlante dire una cosa e intendere quella, e nel contempo voler dire anche qualcos’altro. L’idea di base è che l’ascoltatore effettui una catena di inferenze che lo portino a ritrovare lo scopo primario del parlante, partendo dalla lettera dell’enunciato. Anche qui ci sono delle critiche: (1) è poco convincente l’assunto che la comprensione di un indiretto debba discendere dal fallimento dell’interpretazione letterale della forza illocutoria; (2) un secondo punto critico è una riflessione 31 evolutiva: i bambini padroneggiano l’uso delle forme indirette già intorno ai 3 anni di età, prima che siano in grado di effettuare il tipo di inferenze logiche descritte. C. ATTI LINGUISTICI INDIRETTI RISOLTI CON L’ANALISI DEL CONTESTO. Gazdar nega che le frasi abbiano una forza letterale, in questo modo non si distingue più fra atti illocutori diretti e indiretti. L’idea è che il contesto permetta all’ascoltatore di arrivare a quello che il parlante voleva dire, senza passare da un significato della frase che sia indipendente dal contesto in cui è stata emessa. D. ATTI LINGUISTICI INDIRETTI CONVENZIONALI E NON CONVENZIONALI. Gibbs mostra che in una serie di casi un indiretto idiomatico sia praticamente equivalente ad un diretto. Egli preferisce parlare di indiretti convenzionali (quando il contesto permette all’ascoltatore di comprendere immediatamente il significato inteso dal parlante) e di indiretti non convenzionali (quando è necessario per l’ascoltatore effettuare una serie di inferenze per raggiungere il significato). I convenzionali sono basati sull’ipotesi dell’ostacolo: il parlante tende a formulare un enunciato che riguardi il maggiore ostacolo potenziale che l’ascoltatore può incontrare a soddisfare la sua richiesta. Il punto critico consiste nella difficoltà di stabilire come ciascun contesto rimandi ad uno specifico ostacolo, che possa quindi definire ciò che verrà considerato convenzionale. E. ATTI LINGUISTICI INDIRETTI SEMPLICI E COMPLESSI. Il corrispettivo del problema degli indiretti nell’approccio paradigmatico è il grado di complessità della catena che collega l’atto espressivo all’apertura comportamentale. Dato un qualunque enunciato, si tratta comunque di risalire al gioco di riferimento. Possiamo così distinguere tra indiretti semplici e complessi: quelli semplici sono quelli che rimandano direttamente l’interlocutore al gioco di cui l’enunciato rappresenta una mossa, hanno difficoltà cognitiva equivalente a quella dei diretti; quelli complessi sono quelli per i quali è necessario che l’interlocutore effettui una serie di inferenze. La distinzione di Bara è basata sul processo inferenziale necessario per passare dall’enunciato al gioco, qualunque sia l’enunciato. L’idea è che il significato letterale sia sempre necessario come punto di partenza, ma non sia mai sufficiente, neppure nei casi classicamente trattati come diretti. L’atto illocutorio letterale è il punto di partenza ineliminabile. Rimane la complessità delle inferenze, da spiegare soprattutto in chiave evolutiva. Gli atti linguistici indiretti sono uno strumento efficace di cortesia. Realizzazioni indirette o dirette delle forme di cortesia vengono trattate tutte allo stesso modo, riconoscendo così il gioco che sottostà agli specifici enunciati. 4.3 Effetto comunicativo In ogni situazione comunicativa, l’attore si aspetta che il partner risponda a tutte le intenzioni comunicative espresse, quindi la cooperazione comunicativa richiede che il partner elabori tutte le intenzioni comunicate da A, prendendo inoltre posizione su ciascuna di esse: B deve decidere se accettare o meno di partecipare al gioco proposto da A. Effetto comunicativo sul partner è l’insieme di tutti gli stati mentali acquisiti o modificati in conseguenza delle intenzioni comunicative espresse dall’attore. Un’ulteriore condizione è che questi stati mentali siano effettivamente causati dalla corrispondente intenzione comunicativa. Per esempio, il fatto che qualcuno cerchi di convincermi di una data cosa, deve esser una delle ragioni per cui io vi creda, altrimenti l’effetto desiderato non viene raggiunto. Allo stesso modo, se una persona intendeva già fare una cosa, e viene richiesta da un’altra di eseguirla, non si può dire che l’eventuale esecuzione corrisponda a una prova di effetto comunicativo ottenuto. Il fatto che qualcuno mi chieda di fare qualcosa deve essere una delle ragioni per cui io lo faccio. 32 Diverso è il caso in cui l’attore stesso non invochi direttamente la fiducia del partner, ma preferisca usare evidenze a disposizione. Una caratteristica di questa fase è che non è un compito di riconoscimento. Il raggiungimento dell’effetto comunicativo si basa su conoscenza privata e motivazioni individuali. L’attore deve sfruttare le motivazioni altrui per cercare di ottenere il risultato da lui desiderato. L’attore per massimizzare le chance che l’effetto comunicativo abbia successo deve basarsi su un modello del partner. Più tale modello è preciso, più l’effetto comunicativo aumenta le probabilità di successo. Al punto di transizione dal significato del parlante all’effetto comunicativo, la catena inferenziale lascia lo spazio delle credenze condivise per entrare nel dominio degli stati mentali privati. Nella fase dell’effetto comunicativo non si descrive un processo di riconoscimento ma il processo causale che modifica le credenze e le intenzioni private del partner. Anche se l’effetto comunicativo è basato sulla conoscenza privata, può essere descritto con il seguente schema generale: 1. L’input è l’insieme delle intenzioni comunicative dell’attore riconosciute dal partner; 2. L’output è l’insieme degli stati mentali del partner collegati ai tipi di intenzioni comunicative dell’attore. 3. Il processo è una catena inferenziale resa possibile da condizioni collaterali che possono essere stabilite dal partner sulla base sia delle sue conoscenze e motivazioni private, sia degli stati mentali da lui attribuiti all’attore. Si distinguono due processi: • Processo di attribuzione: in cui il partner inferisce quelli che sono gli stati mentali privati dell’attore che, seppure non comunicati esplicitamente, sono rilevanti per l’aggiustamento. • Processo di aggiustamento: in cui gli stati mentali del partner relativi al dominio del discorso possono modificarsi in conseguenza dell’enunciato emesso dall’attore. Tali modifiche avvengono sulla base sia delle intenzioni comunicative riconosciute, sia di stati mentali privati. Nel modello dell’effetto comunicativo, il gioco conversazionale guida il partner a chiedersi se aderire o meno alle intenzioni comunicative dell’attore: il partner deve decidere se partecipare al gioco proposto dall’attore tramite l’apertura di gioco. La Metaregola M3 richiede che venga eseguito il processo di aggiustamento, che a sua volta ha bisogno che siano effettuate le attribuzioni rilevanti. Le regole dell’effetto comunicativo: • Metaregola M3: o Sottocompito 1: se il partner dà per condiviso che l’attrice gli abbia comunicato che intende giocare con lui il gioco, allora anche lui intende giocarlo. o Sottocompito 2: se il partner dà per condiviso che l’attrice gli abbia chiesto di fare una cosa, allora la fa. o Sottocompito 3: se il partner dà per condiviso che l’attrice gli abbia comunicato una certa cosa, allora ci crede. Il compito del processo dell’effetto comunicativo è quello di stabilire se: (1) il partner intende giocare il gioco comportamentale proposto dall’attrice; (2) il partner intende eseguire le azioni che l’attrice desidera che lui esegua; (3) se infine il partner crede ogni fatto che l’attrice intende condividere con lui. 35 Un’interazione morbida è quella in cui nessun agente è mai posto nella condizione di agire o ricevere un esplicito rifiuto. Anche quando l’apertura di gioco è compresa correttamente, la relazione fra mosse e giochi rimane complessa. I casi semplici sono quelli in cui il partner o accetta il gioco e la mossa o rifiuta entrambi; due situazioni più complicate sono quelle in cui il partner è disponibile a giocare il gioco ma non la mossa specifica o viceversa. È compito della fase che stiamo trattando riconoscere e analizzare tali situazioni di conflitto. Si devono considerare possibili concordanze o conflitti fra la proposta dell’attore e le preesistenti intenzioni del partner. 4.4 Reazione La fase di reazione deve produrre un’intenzione comunicativa, che rappresenta l’input della fase di generazione della risposta; dal punto di vista conversazionale, deve includere informazioni per l’attore riguardo agli effetti sulla mente del partner del tentato effetto comunicativo. La rilevanza del gioco conversazionale emerge chiaramente quando il partner non ha alcun obiettivo comportamentale da raggiungere; lo stesso gioco conversazionale richiede che sia generata l’intenzione comunicativa di informare l’attore intorno all’effetto comunicativo. Le regole della reazione. Metaregola M4: • Sottocompito 1: se il partner dà per condiviso che l’attrice gli abbia comunicato che intende giocare con lui il gioco, allora le comunicherà se intende giocarlo oppure no. • Sottocompito 2: se il partner dà per condiviso che l’attrice gli abbia chiesto di fare una certa cosa, allora le comunicherà se intende farla oppure no. • Sottocompito 3: se il partner dà per condiviso che l’attrice gli abbia comunicato una certa cosa, allora le comunicherà se ci crede oppure no. Il compito del processo di reazione è quello di effettuare una comunicazione di ritorno all’attrice, in cui il partner la informi sul fatto di aderire o meno a ciascuno dei seguenti punti: (1) l’apertura comportamentale dell’attrice; (2) le intenzioni comunicative dell’attrice che il partner esegua un’azione; (3) l’intenzione comunicativa dell’attrice di condividere un fatto col partner. Successivamente, è attivata la fase di generazione di risposta. Le intenzioni comunicative prodotte nella fase di reazione risultano dall’integrazione tra effetto comunicativo e i giochi comportamentali che il partner desidera giocare con l’attore. Il metalivello impone che la reazione sia pertinente all’analisi eseguita per comprendere il significato inteso dal parlante (Metaregola M4). Il partner deve prendere posizione intorno a tutte le intenzioni comunicative dell’attore, indipendentemente dal fatto che abbiano avuto successo o meno: la reazione deve essere rilevante, non necessariamente sincera. La metaregola M4 sfrutta il fatto che un’intenzione non porta a un’azione se si crede che gli effetti dell’azione siano stati già ottenuti. Questo implica che non è necessaria alcuna reazione quando il partner crede che l’attrice assuma già che l’effetto comunicativo sia condiviso. Un’asserzione o una richiesta hanno bisogno di una conferma; ma una conferma non ha bisogno di ulteriori conferme. La forza della metaregola M4 è tale che l’attrice cercherà comunque di interpretare la risposta del partner come informativa riguardo all’effetto comunicativo raggiunto dall’attrice stessa. La violazione viene sfruttata per veicolare un’implicatura conversazionale: il partner informa l’attore che non intende rendere apertamente condiviso l’effetto comunicativo. Ci sono casi particolari di interazione che non seguono la 36 metaregola. In questi casi il contesto istituzionale provvede alternative specifiche alle usuali situazioni comunicative. La metaregola M4 non è soddisfatta solo se il partner non è in grado di organizzare un’intenzione comunicativa pertinente all’atto comunicativo dell’attore. Questo caso estremo di fallimento corrisponde all’impossibilità per il partner di procedere oltre nella conversazione. Il modello prevede invece il caso in cui uno degli interlocutori produce un atto comunicativo indipendentemente, cioè un atto non sia una risposta a un precedente enunciato. Il livello di base resta lo stesso ma non c’è alcun input né dalle fasi precedenti né dalle regole conversazionali: il metalivello resta perciò inattivo. Questo caso è quello in cui un agente decide di introdurre un nuovo argomento. Il nuovo argomento è introdotto sulla base di associazioni o inferenze private di un solo agente. Il compito del livello base della fase di reazione consiste nel pianificare il raggiungimento di un effetto comunicativo sull’attore, attraverso la produzione di intenzioni comunicative di generare la risposta. La reazione è pianificata prendendo in considerazione i seguenti elementi: 1. Le intenzioni conversazionali definite dal metalivello; 2. L’effetto comunicativo dell’atto linguistico prodotto dall’attore; 3. Gli obiettivi privati che il partner intende raggiungere con la sua risposta. Il punto per il partner consiste nel far sì che l’attore assuma che sia condiviso che il partner possieda alcuni stati mentali. Il livello base di reazione segue le norme usuali di conversazione. Ci sono diverti tipi possibili di intenzione comunicativa che il partner può generare. Il caso più semplice è quello in cui l’attrice è riuscita a indurre il partner a eseguire un’azione; la funzione della fase di reazione è trasformare l’intenzione privata generata dalla fase di aggiustamento in un’intenzione comunicativa: fallo comunicativamente. Il tipo di risposta può essere linguistico o no. Se l’attrice ha cercato di indurre il partner a compiere un’azione, la reazione dovrebbe informare sulle intenzioni del partner riguardo a quell’azione. Qui il partner può produrre un atto linguistico, oppure eseguire apertamente l’azione. Per quanto riguarda le risposte negative, il partner può rendere esplicita con una frase di rifiuto la propria intenzione di non eseguire l’azione richiesta. La versione non linguistica del rifiuto è eseguire un’azione apertamente incompatibile con quella richiesta. Se l’attore ha cercato di convincere il partner di qualcosa, l’effetto atteso consiste in una modifica dei suoi stati mentali privati, che però il partner è tenuto a dichiarare. Nessuna regola obbliga il partner ad essere sincero. Il gioco conversazionale ammette anche altre possibilità oltre l’accettare o il rifiutare. Il partner può riconoscere di non aver capito qual è il gioco comportamentale di A e attivare un sottodialogo di chiarificazione. Il partner può anche iniziare una contrattazione allo scopo di trasformare l’intenzione dell’attrice in qualcosa di più vicino ai propri stati mentali. Un compito centrale per il livello di base consiste nell’assicurarsi che l’interazione proceda morbidamente. Un caso particolarmente rilevante è quello delle scuse, ovvero giustificazioni per non aderire alle intenzioni comunicative dell’attore. La scusa implica che il partner comunichi all’attore che una delle condizioni necessarie per aderire alla sua richiesta non è valida. Una scusa deve essere compatibile sia con le convenzioni sociali che con il gioco comportamentale in atto. Una caratteristica tipica delle scuse è che sono ricorsive; la condizione presentata come scusa può a sua volta dover essere giustificata. La natura ubiquitaria delle scuse rende la loro assenza un preciso messaggio. 37 L’unico tratto distintivo del gioco conversazionale è l’intenzionalità comunicativa: rompere l’intenzionalità comunicativa è l’unico modo di uscire da ogni possibile forma di dialogo. In conclusione, l’output del livello base della fase di reazione è un insieme di intenzioni comunicative dirette dal partner verso l’attore: toccherà alla fase di generazione trasformarle in una risposta osservabile. 4.5 Risposta La fase di risposta ha in input le intenzioni comunicative prodotte dalla fase di reazione, e genera una rappresentazione che deve essere tradotta nella risposta effettiva. Nel caso di una risposta puramente linguistica, l’atto espressivo è in termini di interlocutore A, contenuto proposizionale p e forza illocutoria letterale f. Come la comprensione è costituita da due fasi: la comprensione dell’atto espressivo e la comprensione del significato del parlante; così anche la risposta è costituita da due processi: • Il primo pianifica le espressioni di alcuni stati mentali in funzione delle intenzioni comunicative; • Il secondo realizza tali espressioni di stati mentali attraverso la rappresentazione di comportamenti linguistici ed extralinguistici. Il primo compito della generazione di risposta è una sorta di pianificazione specializzata. Bara assume l’esistenza della capacità di trasformare un’intenzione comunicativa direttamente nell’espressione di uno stato mentale. Talvolta è necessario seguire una strada più complessa, come quando si deve pianificare uno specifico enunciato in una situazione difficile, oppure si vuole strutturare un inganno efficace. Il partner deve tenere in considerazione gli specifici stili cognitivi ed emotivi della persona con cui sta interagendo. Analizziamo i possibili modi di rifiutare che B ha: • Risposta negativa alla domanda letterale; • Rifiuto della proposta diretta: il rifiuto può essere espresso direttamente o indirettamente; • Rifiuto della proposta indiretta: direttamente o indirettamente; • Controproposta: rilanciare contrattando. B deve esprimere la sua reazione in termini compatibili con le regole della conversazione. Questo è il secondo compito della fase di generazione, e consiste nel dare alla reazione un’adeguata forma linguistica. La dicotomia preferenziale/meno preferenziale si riferisce a quanto una data risposta è considerata socialmente preferibile. Accettazioni e consenso sono azioni preferenziali e rifiuti e dissenso sono meno preferenziali. Le strategie conversazionali tese ad attutire l’impatto delle risposte meno preferenziali consistono in: • Ritardo: l’esecuzione di un’azione non preferita tende ad essere dilazionata (pause, pre-sequenze introduttive o sequenze alternative usate per tergiversare); • Indicazione di azione meno preferita: l’azione viene introdotta marcandola come non preferita (tramite pre-sequenze esplicite, segnali non verbali di minor preferenza, indicazioni paralinguistiche e particelle pragmatiche specifiche); • Atti linguistici indiretti o equivalenti: l’azione meno preferita è di solito eseguita in forma indiretta o ammorbidita; • Giustificazione: le ragioni sono fornite all’interlocutore, dando spiegazioni, motivazioni e scuse. 40 Perché si dia un’ironia, l’enunciato deve essere divertente, nel caso di un umorismo benevolo, o quanto meno non troppo malevolo. Lo sfruttamento è un modo di giocare con la condivisione. Il punto è che un’intenzione ironica non influenza la sequenza del concatenamento di regole, ma solo il modo in cui le regole sono usate. Ci sono diverse ipotesi sulla definizione di ironia: • L’ironia è basata sull’antifrasi: un enunciato da intendersi al contrario. • Ma c’è un’ipotesi alternativa di Sperber e Wilson, che dicono che ci sono affermazioni ironiche il cui significato non è semplicemente il contrario di quanto detto. Secondo loro, l’ironia è un caso di interpretazione ecoica: un enunciato ecoico è un enunciato che evoca il pensiero, l’atteggiamento di qualcuno che non sia il parlante stesso. Nel caso dell’ironia, il parlante produce un enunciato che fa da eco al pensiero di qualcun altro, evidenziando al tempo stesso il proprio atteggiamento critico o denigratorio verso il contenuto p. • Morgan considera l’ironia come una finzione trasparente: il parlante dice qualcosa, facendo finta di credervi, e nel contempo rendendo ovvio, con strumenti paralinguistici e non verbali, che si tratta di una finzione. • Spiegazione più generale: l’enunciato ironico costruisce uno scenario possibile, sullo sfondo del quale farà spicco l’elemento di alterità che il parlante introduce senza menzionarlo, e che deve quindi essere dedotto dall’ascoltatore. L’elemento di alterità deve spiccare per contrasto. Come l’ascoltatore può distinguere un enunciato ironico da uno serio? Bara ribadisce che l’unico mezzo consiste nel sapere qual è la conoscenza che l’attrice considera condivisa con il partner. Gli interlocutori sono in grado di cogliere l’incongruenza dello scenario proposto solo sulla base della conoscenza condivisa fra loro e il parlante, il quale a sua volta può usare indicatori paralinguistici. Rappresentazione più formale della teoria. L’attrice genera un enunciato p, incompatibile con lo stato di cose r; crede anche che sia condivisa tra lei e il destinatario la conoscenza r, che può essere stata adeguatamente attivata; infine, l’intenzione comunicativa dell’attrice è di mettere in contrapposizione l’enunciato p con lo sfondo r. Ci sono due tipi di ironie: • Ironie semplici: quando l’interlocutore può cogliere il significato inteso dal parlante immediatamente; • Ironie complesse: quando l’interlocutore, per cogliere il significato inteso dal parlante, deve effettuare una serie di inferenze. Dal punto di vista evolutivo, il fatto che l’ironia possa essere colta solo sulla base di conoscenza condivisa, dovrebbe renderla incomprensibile ai bambini sotto i 4 anni. Inoltre, l’ironia semplice dovrebbe essere comprensibile prima di quella complessa. 5.2.2 Situazioni come-se Sono situazioni in cui gli agenti si comportano come se le reciproche intenzioni comunicative fossero quelle espresse, mentre è condiviso che non lo sono, che si tratta cioè di una simulazione sociale di interazione effettiva. Brown e Levinson considerano la possibilità che un parlante, per evitare l’obbligo di minimizzare il rischio di perdere la faccia, parli come se il punto importante fosse il raggiungimento della massima efficienza. Un’attrice agisce come se le condizioni di validità di un gioco comportamentale fossero verificate, al fine di costringere il partner a impegnarsi in un gioco che altrimenti questi non avrebbero potuto o voluto giocare. 41 Le possiamo considerare come una simulazione del tipo di relazione che gli agenti intendono assumere in una situazione per loro più interessante. La rottura volontaria di queste situazioni è un preciso messaggio sui giochi comportamentali che una persona è disposta a giocare. In altri casi, un attore può instaurare una situazione come-se proprio per evitare giochi più impegnativi. Nelle situazioni come-se non cambiano le regole del dialogo ma l’uso che se ne fa. In queste situazioni non c’è in linea di principio alcuna relazione fissa fra ciò che viene detto e ciò che è condiviso essere vero; è irrilevante la connessione tra quanto uno dice e quanto uno crede: per educazione, ci si comporta come se il discorso fosse rilevante e sincero. La nostra ipotesi è che per ogni regola necessaria a comprendere l’intenzione del parlante ci sono due possibili sfruttamenti della regola utilizzata: uno ironico e uno come-se. 5.3 Fallimento Occorre distinguere due tipi di fallimento: il fallimento rispetto a una meta interna dell’agente e il fallimento comunicativo. Meta M dell’agente A (B deve aiutare) • Raggiungimento (M è stato ottenuto) → successo comunicativo (B ha fatto la sua parte); • Fallimento (M non è stato ottenuto) → successo comunicativo (B ha fatto la sua parte, ma…) oppure insuccesso comunicativo (B non ha fatto la sua parte). Solo gli agenti stabiliscono cosa va considerato un successo e cosa un insuccesso. Ci sono fallimenti talmente evidenti da essere indiscutibili. È ancora l’agente a stabilire se la sua meta corrisponde a uno stato del mondo o all’esecuzione di una specifica azione. Ci sono casi in cui non solo interessa un determinato stato di cose, ma anche come tale sia stato ottenuto. Infine, è possibile che l’obiettivo di un agente coincida esattamente con l’esecuzione di una determinata azione in sé stessa, disinteressandosi degli effetti che l’azione potrà avere. A livello psicologico è interessante il rifiuto, in cui le difficoltà intervengono a livello dell’effetto comunicativo. In un’ottica cooperativa, anche il fallimento deve essere concordato tra gli attori. Il fallimento condiviso è il caso in cui entrambi gli agenti sono consapevoli che è accaduto e accettano di considerarlo un fallimento vero e proprio. Il fallimento comunicativo è un tentativo non riuscito di produrre un effetto comunicativo sul partner. Rispetto all’attrice A, il fallimento comunicativo può avvenire in una qualunque delle tre fasi ipotizzare: (fase 1) a livello del significato letterale, o (fase 2) del significato del parlante, o (fase 3) dell’effetto comunicativo. Incomprensione B non capisce la lettera o il significato di ciò che A dice, viene attivata la fase di reazione. Il partner decide se rendere esplicito il fallimento oppure gestire la situazione in modo diverso. L’insuccesso è trasparente per B, perché è consapevole di non aver capito quel che ha detto A. Fraintendimento B capisce la lettera o il significato di ciò che A dice in modo diverso rispetto alle intenzioni di A. È un insuccesso opaco, perché B è inconsapevole di non aver capito quel che ha detto A. 42 Rifiuto B capisce ciò che A dice, ma non vi si adegua. Il rifiuto è un caso di insuccesso trasparente per B, nel senso che dipende da una consapevole decisione di B. Il verificarsi di un fallimento non può essere attribuito ad una cattiva applicazione di una regola del livello base. La causa di un fallimento va ricercata nelle rappresentazioni a cui le regole sono applicate. Sia i fraintendimenti che i rifiuti avvengono secondo 3 modalità essenziali: a. Una regola per default è applicata in contrasto con le intenzioni dell’attore; b. Una regola per default è bloccata in contrasto con le intenzioni dell’attore; c. L’attore o il partner utilizzano una rappresentazione differente da quella che rispettivamente il partner o l’attore assumono che l’altro usi. Ci sono diversi tipi possibili di fallimento comunicativo. 5.3.1 Fallimenti letterali Riguardano o la trasmissione del messaggio o l’attribuzione del significato espressivo dell’enunciato. Possiamo avere il caso 1a in cui B non capisce cosa A dica, sia il caso 1b in cui B capisce altro da ciò che A ha detto. 1a Incomprensione dell’atto espressivo. Possono darsi due casi: 1. A gioco conversazionale inattivo. Quando il gioco conversazionale non è stato attivato vengono a mancare le condizioni di contatto, e quindi il messaggio trasmesso da A non arriva neanche a B. B non è consapevole del messaggio di A, e quindi non darà alcuna info di ritorno. 2. A gioco conversazionale attivo. Il gioco conversazionale tra A e B è stato attivato B si accorge del fatto che A ha agito comunicativamente, ma non riesce a capire quale sia il messaggio. B ha il vantaggio di essere consapevole dell’insuccesso comunicativo di A. 1b Fraintendimento dell’atto espressivo. L’ascoltatore comprende l’atto linguistico in modo diverso da come il parlante intendeva. Non c’è consapevolezza di errore da parte di B, è convinto di aver compreso l’atto espressivo. Ci sono 3 possibilità: 1. Errata applicazione di una regola per default. Consiste nella mancata comprensione da parte di B del valore espressivo dell’enunciato. Un enunciato che A intendeva essere non espressivo viene compreso da B come espressivo. 2. Errato blocco di una regola per default. B comprende come non espressivo un enunciato che A intendeva come espressivo. 3. Differente utilizzazione di conoscenza. B confonde un enunciato con un altro, come accade per esempio quando B è leggermente sordo e pronto a vicariare con la fantasia le proprie carenze uditive. 5.3.2 Fallimenti di significato Riguardano una errata comprensione delle intenzioni comunicative dell’attrice. Ci sono due tipi di incomprensione: il primo (2a) in cui B non capisce qual è l’intenzione comunicativa del parlante, e il secondo (2b) in cui B fraintende l’intenzione comunicativa di A. 2a. Incomprensione del significato del parlante. B, pur comprendendo la lettera dell’enunciato, non riesce a capire cosa A volesse comunicargli proferendo quello specifico enunciato. B sarà consapevole del fallimento e si avrà direttamente la fase di reazione. 45 B consideri condiviso tra loro p. La difficoltà dell’inganno consiste nel mantenere sempre attive nello spazio attenzionale sia la credenza privata non-p, che quella data per condivisa p. Mentre l’accordo tra stati mentali ed espressi non è richiesto dal gioco conversazionale, le cose cambiano per il gioco comportamentale: questi si possono classificare in 3 categorie: a. Giochi regolari. Gli agenti si impegnano reciprocamente alla sincerità e correttezza. Garantiscono un’effettiva cooperazione comportamentale. Qualunque atto comunicativo non sincero o non corretto rompe il gioco e va considerato come un inganno. Se però la rottura del gioco non è pianificata, non ricade nella categoria degli inganni. b. Giochi irregolari. Gli agenti non sono reciprocamente impegnati alla sincerità e correttezza. Gli stati mentali effettivi sono rilevanti, ma sono ammesse discrepanze locali tra gli stati mentali privati e quelli espressi: tali discrepanze non valgono come veri e propri inganni. Gli agenti devono segnalare quando stanno entrando nel gioco irregolare e quando ne stanno uscendo. La relazione impone che gli agenti siano sinceri e corretti, tranne quando sono reciprocamente consapevoli che tale assunto è sospeso. c. Giochi di facciata. La concordanza tra stati mentali privati ed espressi è irrilevante per mutuo consenso. Tali giochi coprono le situazioni come-se, in cui sincerità e correttezza sono irrilevanti. Non si dà alcun inganno in questo tipo di giochi: quando sorge un problema è perché uno degli interlocutori considera regolare un gioco che l’altro ritiene di facciata. Da un punto di vista evolutivo, Perner sostiene che l’inganno è un tentativo di un attore di manipolare gli stati mentali del proprio partner. Affinché si possa parlare di inganno vero, si deve escludere la possibilità che esista una tendenza innata a compiere l’atto volto all’inganno. Le bugie primitive hanno lo scopo di evitare una conseguenza spiacevole, e la rigidità con cui sono messe in atto rivela che non sono inganni volti a manipolare le credenze altrui, ma semplicemente strategie per evitare conseguenze spiacevoli. Mitchell dice che solo gli atti basati sulla comprensione delle credenze altrui, e pianificati per il raggiungimento di un fine premeditato, costituiscono un inganno genuino. Leekman dice che a un primo livello, è possibile avere l’intenzione di mentire senza necessariamente avere l’intenzione di manipolare le credenze altrui. Bara, Bosco e Bucciarelli dicono che non tutti gli inganni sono strutturati con la medesima complessità: la difficoltà di comprensione dipende dal numero delle inferenze necessarie per ricondurre l’enunciato al gioco. Per effettuare o scoprire un inganno ben congegnato, si dovranno prendere in considerazione più elementi. Un inganno semplice consiste nell’emissione di un enunciato p, che sia in contrapposizione con qualcosa non- p che permetterebbe al partner di risalire immediatamente al gioco che l’attore desidera nascondergli (in letteratura sono chiamati bugie). Un inganno complesso consiste nel proferire l’atto comunicativo q, il quale implica una credenza p che guida il partner verso una mossa o un gioco diversi da quelli cui arriverebbe se avesse accesso alla credenza privata di A che non-p. Per riuscire, un inganno non deve essere scoperto dal partner. Se il partner scopre un tentativo di ingannarlo, può scegliere tra denunciarlo e fare finta di non essersene accorto, eventualmente per pianificare un controinganno. Ci sono diverse possibilità di inganno: a. Inganno riuscito. B pensa che p sia creduto da entrambi. 46 b. Inganno non riuscito, ma neppure scoperto (primo livello di incassamento. B non crede che p, ma pensa che A ci creda. c. Inganno scoperto (secondo livello di incassamento). Tuttavia, B non crede che A si sia accorta che l’inganno è stato scoperto. d. Inganno scoperto (terzo livello di incassamento). B pensa che A sia consapevole che l’inganno è stato scoperto, ma che non abbia capito che B sa che A se ne è accorta. e. Inganno svelato. B dichiara pubblicamente che A è una traditrice smascherata. CAPITOLO 6: COMPETENZA COMUNICATIVA (13 pag.) Con il termine competenza si intende l’insieme delle capacità astratte possedute da un sistema, indipendentemente da come tali capacità sono effettivamente utilizzate. Con il termine prestazione si intende l’insieme di capacità effettivamente dimostrate da un sistema in azione, desumibili direttamente dal suo comportamento in una specifica situazione. Il fatto che un soggetto riesca a fare una certa cosa è certamente indicativo che quella capacità rientra nella sua competenza. La questione si complica quando assumiamo che la competenza debba maturare: non si può osservare la prestazione corrispondente finché la competenza non sia matura. La maturazione dipende dal fatto che sia realizzata da strutture neurali e cognitive non pronte alla nascita, ma che si sviluppano successivamente. Un’eventuale mancata maturazione della competenza è da attribuirsi al fatto che non si siano rese disponibili in tempo utile le strutture che dovevano realizzarla. Le strutture neurali e cognitive implicate possono essere specifiche per quella competenza, che in tal caso si assume essere modulare. In alternativa le strutture neurali e cognitive sono aspecifiche e generali, non modulari, ma essenziali per la generazione della prestazione. In conclusione, solo la presenza di una prestazione è prova dell’esistenza della competenza relativa. Il non- rilevamento di una prestazione, di per sé, non vuol dire nulla. Le evidenze della teoria della pragmatica cognitiva che verranno fornite sono su 3 dimensioni: • Una teoria deve essere compatibile con quanto sappiamo sull’evoluzione dell’uomo: la pragmatica cognitiva è in accordo con molte delle conoscenze evoluzionistiche disponibili. • Una teoria non deve solo spiegare cosa succede quando il sistema si è stabilizzato, ma deve anche spiegare il suo sviluppo ontogenetico: in accordo con l’approccio della scienza cognitiva evolutiva, un criterio importante per saggiare la potenza di una teoria è che riesca a spiegare non solo i fenomeni sotto indagine, ma anche la costruzione progressiva dei fenomeni stessi. • Questa teoria deve riuscire a correlare i processi mentali impegnati nella comunicazione con le funzioni cerebrali che li realizzano. 6.1 Evoluzione della competenza comunicativa La psicologia evoluzionistica dice che la mente umana è il prodotto del processo evolutivo che ha caratterizzato la storia del genere Homo: ciascun componente della mente è stato modellato dalla selezione naturale. Solo il costante riferimento all’ambiente di adattamento evolutivo permette di comprendere come un comportamento si è evoluto e quali meccanismi psicologici ne sono alla base. Cercheremo di seguire l’evoluzione della capacità comunicativa della specie umana, con l’intento di rendere ragione della sua attuale struttura. L’approccio usato discende direttamente da quello evolutivo di Darwin. 47 La complessità della vita sociale è un eccellente predittore dello sviluppo della capacità comunicativa della specie. Dipende da quanto è geneticamente rigida la reciproca interazione fra gli individui e da quanti possibili giochi essi siano in grado di giocare liberamente tra loro. Sistema rigido di interazione Si trova in tutte le specie animali: a ogni segnale corrisponde un unico significato, senza possibilità di composizione o modifica. Gli animali emettono e ricevono un segnale, determinato geneticamente, senza spazio né per la creazione di un nuovo significato (innovazione) né per la costruzione di un insieme dotato di significato a partire dai significati elementari (composizione). Un primo salto qualitativo lo troviamo al livello dei mammiferi e uccelli: qui c’è una certa libertà individuale nell’interazione fra conspecifici. Il livello successivo è quello dei mammiferi sociali, in grado di comunicare significati elementare come la reciproca presenza, o il pericolo, tra conspecifici. Sistema semirigido di interazione È quello tipico dei mammiferi superiori: c’è un limitato numero di significati di base che può essere montato a costruire un significato composto (es. lupi e delfini). La capacità di un sistema semichiuso raggiunge alcune decine di possibili messaggi. Rimane limitato il numero dei significati elementari, nonché quello dei connettivi leciti. Un impressionante salto qualitativo è quello compiuto dai primati antropomorfi che esibiscono capacità comunicative straordinarie rispetto a qualunque altra specie animale. Sistema aperto di comunicazione I sistemi aperti (solo esseri umani), sono quelli in cui il numero di significati elementari è potenzialmente infinito, come potenzialmente infinito è il numero delle frasi generabili tramite il meccanismo della sintassi: il risultato è che il numero dei possibili messaggi significativi è infinito. Il linguaggio umano compone le parole sulla base di unità elementari, il numero delle parole che si possono comporre è infinito. È possibile generare frasi significative sempre differenti, anche senza preoccuparsi di inventare nuovi significati elementari o di coniare neologismi. 6.1.1 Comunicazione comparata Quando è comparso il linguaggio umano? Per parlare è necessario possedere non solo un apparato fonatorio adeguato, ma anche un sistema uditivo in grado di discriminare con la stessa efficacia i suoi emessi. Già i primi ominidi (da Homo habilis in avanti), possiedono la struttura fonatoria utile per generare consonanti associate a vocali (una serie amplissima di suoni ben discriminabili e con precisi confini tra una parola e l’altra). L’apparato uditivo è sviluppato già a partire dai mammiferi superiori, ed è indispensabile per il riconoscimento. Gli ominidi possono quindi collegare vocali a consonanti. L’Homo habilis può costruire parole generandole a partire da una cinquantina di costituenti elementari. Il linguaggio è uno strumento di coesione sociale unico per permettere l’evoluzione e il mantenimento di gruppi oltre 150 persone, garantendo che i legami interpersonali non siano trascurati per le necessità di sopravvivenza. Passiamo all’evidenza neuropsicologica: per parlare è necessaria una capacità cerebrale significativamente sviluppata e un’area specifica (area di Broca e Wernicke). Nell’Homo habilis si vede la prima volta la capacità cerebrale per supportare l’abilità linguistica. Un protolinguaggio umano si può far risalire all’Hoh erectus; ma per poter identificare un vero e proprio linguaggio dobbiamo arrivare al tardo Homo erectus e all’Homo sapiens. 50 Tra i 16 e i 24 mesi si osserva l’aumento del numero di sinapsi entro e fra regioni corticali. Tra i 9 e i 24 mesi la densità delle connessioni sinaptiche diventa il 150% del livello che si trova nell’adulto. A 4 anni abbiamo il picco di attività metabolica. Poi si osserva un lento declino, con l’eccezione della mielinizzazione, per ciascuno degli eventi descritti troviamo un evento complementare di tipo sottrattivo: morte di molte cellule, retrazione di assoni, degenerazione sinaptica. Deacon dice che attraverso l’eliminazione selettiva i neuroni risolverebbero il problema della specificità degli obiettivi. I neuroni tendono a sovraprodurre assoni e questi si connettono a molti obiettivi potenziali; solo una frazione di queste connessioni sono mantenute in età adulta: quelle che si sono provate efficaci, mentre quelle restanti sono eliminate da una competizione fra assoni. In alternativa alla metafora della potatura, a Bara sembra che il cervello venga scolpito, nel passaggio da bambino ad adulto, sia in termini di numero di neuroni e di connessioni dendritiche, sia in termini di sinapsi attive. Solo prendendo in considerazione sia gli aspetti micro che macrocerebrali, si ha l’idea corretta di cosa succeda nel cervello umano. 6.1.3 L’evoluzione del linguaggio IPOTESI DELLA CONTINUITA’ LINGUISTICA. Piaget fornisce la prima formulazione di questa ipotesi: il linguaggio deriva senza soluzione di continuità dalla capacità comunicativa extralinguistica. Piaget vedeva nel sistema motorio il precursore del linguaggio: ma in senso stretto il linguaggio non ha alcun precursore. A un blocco del sistema motorio non corrisponde alcuna difficoltà ad acquisire perfetta padronanza di un linguaggio. IPOTESI DELLA DISCONTINUITA’ LINGUISTICA. Chomsky dice che al linguaggio non può essere applicato il principio della selezione darwiniana. Si tratta di una completa mutazione genetica non finalizzata, che ha dato luogo alla tipica capacità linguistica degli esseri umani. Secondo lui, il linguaggio non si è evoluto affatto. Piattelli-Palmarini dice che un’evoluzione può esserci stata: il linguaggio non si è evoluto a fini comunicativi, anche se poi è stato usato dagli uomini per comunicare, visto che il linguaggio è anche uno strumento di potenziamento del pensiero. Le critiche sono quelle di Pinker, che mostra come l’ipotesi si fondi su una cattiva comprensione dei principi dell’evoluzione darwiniana. Se non si accetta l’ipotesi di una competenza grammaticale improvvisamente disponibile per gli ominidi, a distinguerli dagli altri animali, qualunque struttura linguistica intermedia sarà già sufficiente a garantire un vantaggio evolutivo a chi la possieda. La selezione può aver premiato le abilità linguistiche favorendo in ogni generazione quei parlanti che gli ascoltatori potevano meglio comprendere, e quegli ascoltatori che meglio potevano decodificare i parlanti. I loro figli, portatori di un corredo genetico mutante, avrebbero proseguito sulla stessa strada. IPOTESI DELLA CONTINUOTA’ EXTRALINGUISTICA E DELLA DISCONTINUITA’ LINGUISTICA. Questa ipotesi si vuole mantenere compatibile con le assunzioni di Chomsky di una discontinuità evolutiva del modulo linguistico, ma salvando parte dell’eredità comunicativa dei primati, e precisamente la comunicazione extralinguistica. Burling dice che la comunicazione dei primati possiede un’impressionante serie di caratteristiche simili alla comunicazione umana non verbale. Tali caratteristiche sono: 51 • Gradualità del segnale: da un sorriso si passa ad una smorfia senza soluzione di continuità; la gradualità va confrontata con il fatto che il linguaggio è invece discreto e basato su continui contrasti. • Scarso bisogno di apprendimento: si impara quando sorridere, ma come farlo è innato. • Capacità informativa: eccellenza nel trasmettere info su emozioni e volizione, e parallela povertà nel trasmettere info relative al mondo esterno (extralinguistica); al contrario il linguaggio è poco adatto a trasmettere informazioni emotive, e molto efficace a permettere di parlare del mondo. • Controllo volontario incompleto: ci si può sforzare di sorridere ma è difficile riuscirvi efficacemente. • Mancanza di produttività: non si possono costruire significato mai prodotti prima, come si generano nuove parole e frasi. • Impossibilità di dislocazione: non si possono scambiare info su qualcosa che non stia accadendo qui e ora con extralinguistica. Il linguaggio invece lo permette. Burling sottolinea la somiglianza fra la comunicazione animale e quella umana non verbale. La sua conclusione è che gli ominidi possiedono una competenza comunicativa non verbale essenzialmente analoga a quella dei primati e che rimane una diretta continuazione di quella esibita dai mammiferi superiori. Quello che differenzia uomo-animale è una competenza comunicativa linguistica. Il linguaggio rappresenta un elemento di discontinuità. La critica principale afferma che i punti sopra elencati non discriminano tra linguaggio e comunicazione extralinguistica: differenziano piuttosto il comportamento intenzionale comunicativo da quello non comunicativo. Inoltre, trascura le importanti convergenze tra comunicazione extralinguistica e linguistica umana. IPOTESI DELLA DISCONTINUITA’ COGNITIVA. L’ipotesi di Bara è che la neocorteccia incrementi enormemente l’intelligenza generale, rendendo le capacità comunicative umane non più comparabili con quelle degli altri primati. L’incremento cerebrale che avviene con Homo habilis è dovuto a fattori incrociati di tipo cognitivo, comunicativo e manuale. Secondo questa ipotesi, un primo salto qualitativo avviene grazie all’incremento cerebrale, che modifica le capacità cognitive complessive e quindi anche comunicative, negli ominidi. La capacità comunicativa extralinguistica si distacca dalla linea di crescita animale, mentre per il linguaggio si può ipotizzare una mutazione genetica. La differenza con Chosmky è che egli assume una mutazione genetica sintattica e globale, non finalizzata; in un’ottica evoluzionistica invece la mutazione iniziale porta a un protolinguaggio che viene mantenuto e sviluppato per finalità principalmente comunicative. Fra pensiero e linguaggio si stabilisce un circolo virtuoso, per cui ogni incremento del primo facilita il secondo e viceversa. Sono le potenziate strutture cognitive a far sì che il modulo linguistico possa emergere e sia prontamente utilizzabile: da un lato c’è l’incremento della neocorteccia e dall’altro la plasticità cerebrale. Quindi l’insorgenza del protolinguaggio negli ominidi si spiega con una mutazione genetica e questo corrisponde ad un ulteriore salto qualitativo. In seguito, l’efficacia comunicativa si dimostra un premio evolutivo sufficiente a stabilizzare la nuova conquista nel pool genetico della popolazione. Una volta che gli uomini hanno sviluppato la competenza linguistica, la loro capacità comunicativa si potenzia in modo esplosivo. Il terzo passaggio implica un circolo virtuoso tra capacità comunicativa e cognizione incarnata. In questo modo viene a generarsi la scrittura e di conseguenza la cultura. Il punto chiave è che le aree cerebrali deputate alla cognizione sono esclusive degli ominidi, e non hanno alcun corrispettivo con altri animali. 52 Il gioco nell’evoluzione Quando possiamo pensare che siano stati costituiti i giochi comportamentali? La loro struttura portante è basata essenzialmente sugli atti illocutori commissivi: dove gli agenti si impegnano a effettuare una determinata azione, o perlomeno a provarsi in buona fede. È necessario che sia disponibile una capacità comunicativa in grado di gestire il tempo: in effetti A può impegnarsi in questo momento a fare una cosa in un tempo futuro, purché B si impegni a sua volta a fare qualche altra cosa in un tempo ancora più lontano. Per parlare di giochi comportamentali dobbiamo quindi aspettare che si sviluppi il linguaggio simbolico, che avviene con l’Homo sapiens. Inoltre, è necessaria l’esistenza di un patto sociale, cui gli agenti possano far riferimento a garanzia che le promesse vengano rispettate. I patti sociali più antichi riguardano: la sessualità, il procacciarsi il cibo, la protezione dei piccoli. 6.2 L’emergere della competenza comunicativa La distinzione tra competenza e prestazione diventa problematica quando si ha a che fare con un sistema in sviluppo. La competenza deve riferirsi non solo alle capacità astratte, ma anche alla potenzialità delle stesse. È sufficiente che un’abilità sia potenzialmente disponibile perché ricada nelle competenze del sistema. Un’ulteriore complicazione è data dal fatto che alcune abilità comunicative hanno bisogno che altre strutture di supporto siano già pienamente funzionanti (es. inganno richiede TOM e WM). Parleremo dunque dell’emergere della competenza, non di un suo sviluppo: se c’è, si manifesta man mano che ciò viene reso possibile dalle strutture collegate. In altri termini, per l’adulto è in linea di massima sufficiente capire cosa gli è possibile e cosa gli è impossibile al momento della sperimentazione; nel bambino dobbiamo far rientrare nella competenza anche quello che non gli è possibile oggi ma gli sarà possibile domani. Possiamo avanzare una predizione che riguarda l’acquisizione del linguaggio da parte del bambino: dovrebbe mostrarsi un formidabile comunicatore extralinguistico fino a 3 anni, poi il linguaggio viene completamente padroneggiato. C’è una fondamentale componente genetica nell’acquisizione del linguaggio. Si possono formulare delle predizioni su quello che ci si può aspettare di trovare, durante la crescita del bambino: 1. I neonati già alla nascita attivano una competenza comunicativa che presenta essenzialmente due possibilità realizzative: con un binario linguistico ed extralinguistico. Entrambi i binari usano le stesse primitive della comunicazione e possono sfruttare risorse cognitive comuni. 2. La comunicazione extralinguistica è quella che più rapidamente diventa disponibile per il neonato. Ci sono tre componenti di questa comunicazione extralinguistica: a. Prima componente che il bambino ha in comune con i mammiferi, che è responsabile delle prime interazioni tra piccolo e madre; b. Seconda componente che il bambino ha in comune con i primati, disponibile a poche settimane dalla nascita, che guida le interazioni di attaccamento/accudimento; c. Terza componente umana, che necessita di strutture cerebrali neocorticali, a mutazione più lenta. È quella che osserviamo meglio nei bambini oltre l’anno: hanno una grande complessità di relazioni cognitive ed emotive con gli altri esseri umani di riferimento. 55 Appena oltre le prime settimane di vita le protoconversazioni diventano baby talk. Wells e Robinson hanno individuato una serie di elementi che caratterizzano il baby talk rispetto al linguaggio rivolto agli adulti: • Modo di produzione: è più lento, scandito e pronunciato più chiaramente; • Semplicità formale: enunciati sono più brevi e hanno sintassi più elementare; • Aspetti prosodici: viene usata l’intera gamma di toni di voce, in particolare toni più elevati; l’intonazione appare enfatizzata; • Semplicità semantica e ridondanza: lessico è più ristretto, con maggiore numero di ripetizioni di parole e frasi; • Funzione: dati i molti direttivi, la funzione essenziale sembra essere quella di controllare il comportamento del bambino, sostenendo l’interazione. L’aspetto più interessante riguarda il fatto che anche i bambini, quando parlano ad altri bambini, modificano le caratteristiche del proprio linguaggio: • Bambini così piccoli modificano il loro discorso in un modo che sarebbe razionale per loro se e solo se avessero tali credenze sugli stati linguistici e mentali dei piccoli cui si rivolgono; • I bambini fanno affermazioni sulle proprie credenze relativamente alle proprietà dei fratellini, i bambini hanno colto le differenze fra queste proprietà e quelle degli adulti o di bambini coetanei; • I bambini si comportano con i fratellini in un modo che mostra una complessa comprensione pragmatica di queste differenze. In sintesi, i bambini mostrano la capacità di aggiustare il proprio discorso in funzione dell’età dell’interlocutore. In situazioni di interazione con coetanei, i bambini diventano molto più abili di quello che sembra credibile ai loro genitori. Quando il bambino interagisce con l’adulto si sintonizza per adeguarsi all’implicito atteggiamento che l’adulto stesso ha verso di lui. L’abilità di far finta si sviluppa molto presto (2 anni) e tra i 3 e i 5 anni inizia una serie di giochi di ruolo con coetanei. 6.2.2 Fasi di sviluppo Teorie diverse prevedono un diverso sviluppo nell’acquisizione della capacità di comunicare. La chiave sta nell’analizzare la pragmatica in una prospettiva dinamica piuttosto che statica. Per capire come un bambino possa gestire gli aspetti più fini della comunicazione, dobbiamo considerare 3 nuovi aspetti: due relativi alle conoscenze disponibili al bambino, e uno relativo al valore di convenzionalità posseduto da una mossa di un gioco. • Conoscenze specifiche. La comprensione di un atto comunicativo si avvale di conoscenze specifiche. Il non possedere determinate conoscenze specifiche può causare un fallimento nella comprensione dell’atto espressivo, il che, a sua volta, può non consentire la ricostruzione del significato inteso dall’attore. • Apprendimento di un gioco comportamentale. La comprensione di ogni atto comunicativo consiste nell’essere riusciti a ricondurlo ad un gioco comportamentale. Fino a quando la conoscenza di un gioco comportamentale non è stata acquisita, il significato dell’atto non può essere compreso. Un problema è quello dell’apprendimento dei più importanti giochi familiari e sociali: una volta che il gioco sia appreso, occorre poi ricondurre l’atto al gioco stesso. • Valore di convenzionalità di una mossa. Poiché alcune mosse vengono usate di frequente per fare riferimento ad un gioco, acquisiscono un valore di convenzionalità maggiore rispetto ad altre. Queste saranno di facile comprensione e saranno definite semplici, rispetto a quelli complessi che necessitano di una catena di inferenze e quindi sono riconducibili al gioco con maggiore difficoltà. 56 Rispetto al problema dell’acquisizione delle conoscenze necessaria a esprimere la competenza comunicativa di tipo linguistico, è possibile ipotizzare una prima fase in cui il bambino molto piccolo non possiede le conoscenze specifiche. In questa fase la difficoltà a comprendere il significato di un atto comunicativo è elevata, indipendentemente dalla complessità dell’atto. Man mano che le conoscenze e il linguaggio si consolidano, e viene parallelamente appreso un numero maggiore di giochi comportamentali, il valore di convenzionalità della mossa influirà sulla facilità di rievocazione del gioco. Quindi, la conoscenza specifica e la conoscenza del gioco, assieme al valore con convenzionalità della mossa, determinano la facilità di comprensione di un atto comunicativo. Bara, Bosco e Bucciarelli hanno formulato le seguenti ipotesi (tutte confermate da un loro studio su 80 bambini): 1. Differenti atti linguistici semplici hanno la medesima difficoltà di comprensione; 2. Gli atti comunicativi standard sono più facili da comprendere rispetto a quelli non standard; 3. Esiste un gradiente di difficoltà crescente nella comprensione dei compiti pragmatici (dal più semplice al più complesso): atti linguistici semplici, atti linguistici complessi, ironia, comprensione di inganno, pianificazione di inganno; 4. Esiste una stretta relazione tra l’abilità a svolgere compiti pragmatici e quella di risolvere compiti di TOM. Ricerche sperimentali hanno trovato che: • I bambini già a 2-6 anni non hanno difficoltà a comprendere e produrre sia i diretti che gli indiretti convenzionali. • L’ironia viene compresa come “qualcosa che fa ridere” molto preso (7-9 mesi i bambini ripetono qualche comportamento che ha divertito i genitori, solo per la sua comicità). A 2-3 anni i bambini hanno già una considerevole e articolata comprensione di ciò che i familiari reputano divertente. • L’inganno semplice viene compreso a partire dai 3 anni e mezzo. La pianificazione di inganni deve aspettare fino ai 7 anni. Si è dimostrato che l’emergere della competenza comunicativa è indipendente dalla modalità specifica; inoltre, la modalità linguistica e quella extralinguistica presentano essenzialmente gli stessi tratti di acquisizione. 6.3 Neuropragmatica Il linguaggio è normalmente situato nell’emisfero controlaterale alla mano dominante. In entrambi gli emisferi ci sono però aree interessate al suo funzionamento. Kasher ha analizzato la relazione fra modularità e pragmatica, considerando che l’uso del linguaggio è sostenuto da due competenze pragmatiche differenti: 1. Una competenza pragmatica puramente linguistica, dedicata alla conoscenza degli atti linguistici fondamentali. Questa è tipicamente analitica e rappresenta la conoscenza pragmatica di base. L’insieme dei moduli funzionali che la costituiscono è localizzabile nell’ES. 2. Una competenza pragmatica non linguistica, relativa ai sistemi cognitivi più generali. Questa è tipicamente sintetica ed è costituita da una conoscenza non puramente linguistica, usata per padroneggiare i sistemi di regole relativi alle “cose che si fanno con le parole”. È indispensabile per gestire gli atti linguistici non di base. È localizzabile nell’ED. I processi comunicativi sono divisibili in 2 parti: (1) una centrale, dove si svolgono le inferenze necessarie ad attribuire un atto comunicativo ad un gioco; (2) una periferica, dove si svolgono i processi di entrata e uscita, 57 mediati dalle vie nervose, percettive afferenti e motorie efferenti. La competenza pragmatica è di pertinenza dei processi centrali, mentre la prestazione pragmatica di quelli sia centrali che periferici. I processi pragmatici centrali sono diffusi in tutta la corteccia. L’attore deve avere: (1) capacità di passare da uno stato interno fisiologico, emotivo e cognitivo ad una motivazione; (2) abilità di pianificare; (3) abilità di intonarsi al comportamento comunicativo dell’interlocutore. Il partner deve avere: (1) capacità di effettuare inferenze; (2) capacità di bilanciare la proposta altrui col proprio stato fisiologico, emotivo e cognitivo, in modo da attivare una motivazione o ricontrattare; (3) abilità di intonarsi al comportamento comunicativo dell’interlocutore. I processi pragmatici periferici sono legati al canale percettivo e motorio e quindi sono localizzati in aree specifiche. Questi processi potrebbero essere danneggiati selettivamente: si noti però che la competenza pragmatica non sarebbe diminuita, mentre la prestazione comunicativa potrebbe risultare seriamente danneggiata. 6.3.1 Il decadimento della comunicazione Il decadimento delle prestazioni pragmatiche può essere: 1. FISIOLOGICO. Si è però visto che l’età non incide negativamente sull’abilità comunicativa o funzioni pragmatiche. 2. DEGENERATIVO. Nel morbo di Alzheimer c’è una perdita di prestazione che segue esattamente il percorso inverso a quello osservato nell’emergere della competenza comunicativa. C’è un decadimento crescente per atti complessi, inganni e ironie. 3. TRAUMATICO. I tipi di lesione considerati per i processi comunicativi sono: lesioni frontali, parietali destre e parietali sinistre. In nessuna di queste lesioni ci aspettiamo però una perdita funzionale, ci aspetteremo invece specifiche riduzioni di prestazione legate a danneggiamenti focali di area. a. Traumi cranici frontali. I lobi frontali presiedono ad attenzione, memoria, apprendimento, giudizio e pianificazione. Il tipico danno da trauma frontale chiuso è uno stiramento neuronale e danno diffuso assonale. È un danno cerebrale generalizzato e aspecifico, spesso seguito da perdita di coscienza. I deficit più frequenti riguardano l’attenzione, memoria, apprendimento, giudizio e pianificazione, i pazienti mostrano: disinibizione, diminuita regolazione del comportamento e scarsa capacità di astrazione. Questi deficit si riflettono sull’abilità comunicativa: confabulazione, neologismi, uso abbondante di stereotipie linguistiche; assenza di afasia. Il trauma chiuso non danneggia i processi specifici del linguaggio, ma piuttosto l’abilità metalinguistica, c’è un problema di sintonia della comunicazione: discorso confuso, poco strutturato e disorganizzato, pieno di referenze contestuali indirette, con tendenza a perdere il focus della conversazione. La prestazione comunicativa è deteriorata. Un’interpretazione del deficit comunicativo frontale in termini di pragmatica cognitiva implica un danno a livello del gioco conversazionale: i traumatizzati dovrebbero avere minori difficoltà al livello base (dove si possono applicare regole inferenziali per default) e invece maggiori difficoltà ogni volta che si tratta di stabilire una relazione che non sia immediata tra significato espresso e inteso. Si ipotizza una differenza nella comprensione di atti comunicativi non standard (ironia e inganno) rispetto ai controlli, mentre c’è uguaglianza per la comprensione di atti comunicativi standard. Studi dimostrano che: • Non c’è differenza di comprensione tra atti comunicativi diretti e indiretti semplici; • C’è differenza di comprensione tra atti comunicativi standard e non standard; 60 nel momento in cui viene minacciato, attiva emozioni primarie di cui la persona non è necessariamente conscia. Di tali emozioni è necessario che il medico tenga debito conto. Ezekiel e Emanuel identificano 4 tipi di atteggiamento da parte del medico: • STILE COMUNICATIVO DEL MODELLO PATERNALISTICO. L’interazione è caratterizzata da una responsabilità assoluta del medico che definisce obiettivi e strategie. La pianificazione della terapia è fatta dal medico sulla base delle info fornite dal paziente. Il medico interviene direttamente guidando le azioni del paziente, senza tenere conto delle sue intenzioni. La motivazione a guarire è data per scontata. o Valori del paziente: oggettivi e condivisi da medico e paziente; o Obbligo del medico: promuovere benessere del paziente indipendentemente dalle sue preferenze; o Concezione dell’autonomia del paziente: assenso a valori oggettivi; o Concezione del ruolo del medico: custode responsabile. • STILE COMUNICATIVO DEL MODELLO INFORMATIVO. Delega del controllo da medico a paziente, il paziente stabilisce le mete e pianifica la terapia sulla base delle info fornite dal medico. Il medico è deresponsabilizzato. o Valori del paziente: definiti, fissi e noti al paziente. o Obbligo del medico: fornire al paziente le info rilevanti e realizzare l’intervento scelto dal paziente; o Concezione dell’autonomia del paziente: scelta e controllo della cura; o Concezione del ruolo del medico: esperto, tecnico competente. • STILE COMUNICATIVO DEL MODELLO INTERPRETATIVO. La definizione di meta e pianificazione terapia sono realizzate assieme da medico e paziente. La responsabilità è condivisa. Il paziente può non collaborare al processo interpretativo: si rischia che il medico si imponga sul paziente, oppure che il medico ridefinisca i valori del paziente. La malattia ha per il paziente un significato che può essere colto solo se medico e paziente cooperano nella costruzione dell’interpretazione. o Valori del paziente: indefiniti, conflittuali, da chiarire; o Obbligo del medico: chiarire ed interpretare i valori rilevanti del paziente; fornire info e realizzare l’intervento scelto dal paziente; o Concezione dell’autonomia del paziente: autocomprensione finalizzata alla cura; o Concezione del ruolo del medico: consigliere, persona che supporta. • STILE COMUNICATIVO DEL MODELLO DELIBERATIVO. Medico e paziente cooperano a costruire il significato che la malattia ha per il paziente. La meta condivisa è che l’intervento medico realizzi i valori del paziente. Il paziente è attivo nell’esprimersi e comprendere e il medico non esercita potere assoluto. La responsabilità è condivisa. Medico e paziente discutono solo i valori legati alla salute, il medico può cercare di persuadere, ma mai di imporre il proprio punto di vista. o Valori del paziente: modificabili e rivedibili attraverso la discussione; o Obbligo del medico: spiegare l’importanza dei diversi valori e persuadere il paziente a seguire i più desiderabili; fornire info e realizzare l’intervento scelto dal paziente; o Concezione dell’autonomia del paziente: crescita personale finalizzata alla cura; o Concezione del ruolo del medico: amico, maestro. In generale, i modelli interpretativo e deliberativo garantiscono una relazione sicuramente più stabile. Il punto debole di questa classificazione è che è basata solo sulle caratteristiche del medico. È molto probabile che ciascun medico mantenga il proprio stile individuale in ciascuna delle diverse relazioni in cui entra. 61 Un’indicazione di minima è quindi che il medico sviluppi uno stile cooperativo. L’interazione risulterà più efficace quando entrambi gli agenti collaborano attivamente. Il medico utilizza poi una serie di strumenti ausiliari (identificati qui come “farmaco”). Gli strumenti clinici non sono autonomi, ma la loro efficacia dipende da come è impostata la relazione tra medico e paziente. Le aspettative determinano il successo/fallimento degli strumenti, molto più che la loro azione oggettiva. Gli stessi effetti collaterali possono essere rivisitati in chiave funzionale e quindi vanno affrontati e chiariti. È rispetto alla definizione di guarigione che si misura l’efficacia soggettiva di un farmaco, e questa dipende dalla specifica situazione in cui si trovano medico e paziente. Più la situazione si discosta dal caso ideale, più aumenta l’importanza della costruzione comune, al fine che ogni mossa veda co-responsabili i due agenti. Il raggiungimento dell’obiettivo predefinito dipende da una definizione di guarigione che viene formulata insieme dalla coppia medico-paziente; l’efficacia degli strumenti adottati dipende anch’essa dalle aspettative concordate col paziente. È ancora quindi la comunicazione a determinare in ampia misura quanto il paziente si sentirà bene, al termine della serie di mosse specifiche che il medico lo ha convinto ad attuare. La soddisfazione del medico è legata sia al cambiamento oggettivo delle condizioni di patologia, sia al fatto che il paziente sia egli stesso convinto di essere migliorato. Questo è legato all’essere riusciti a condividere il significato della guarigione. 7.2 Psicoterapia Il paziente viene guidato dal terapeuta a costruire un modo particolare di interagire, a ogni gioco si accompagna l’apprendimento di un lessico. Il paziente impara così a comportarsi, a parlare e a spiegare se stesso nel mondo attraverso il gioco che il suo terapeuta gli ha insegnato a giocare. In questa relazione strutturata sulla base di una progressiva reciproca fiducia, il paziente concede al terapeuta una serie di possibilità normalmente inaccettabili in una situazione di vita normale. Fondamentale è la costruzione dell’alleanza terapeutica. Lo psicoterapeuta può agire non solo su quello che il paziente racconta, ma anche e soprattutto su quello che entrambi stanno vivendo. Una volta che terapeuta e paziente hanno sperimentato un nuovo gioco, il paziente avrà il compito difficile di continuare ad applicarlo anche al di fuori della psicoterapia, con l’assistenza dell’esperienza del terapeuta. Il terapeuta deve spiegare al paziente quello che accade tra loro durante la seduta: metalettura del lavoro clinico in cui assumono il ruolo di osservatori critici di quel che loro stessi hanno fatto. 7.2.1 Il sintomo come comunicazione È possibile considerare il sintomo come un tipo di comunicazione particolare dal paziente verso il terapeuta. Il sintomo è un comportamento stereotipato, con caratteristiche di rigidità e non-controllabilità, ed è tipicamente egodistonico. Un sintomo è un attivatore di comportamenti da parte delle persone con cui il paziente interagisce. Quando il paziente mette in atto i suoi sintomi con persone che non siano il terapeuta, non c’è comunicazione, ma c’è solo azione. Quello che manca è l’intenzionalità dell’azione, che è bloccata esattamente dal suo essere compulsiva, non scelta e deliberata. Ciò che rende qualcosa un sintomo è proprio la sua obbligatorietà, fuori da ogni libertà di scelta. 62 Attribuzioni di significato È la contrattazione del significato di un comportamento del paziente, per cui alla sua azione non deliberata viene attribuito un carattere di piena intenzionalità. Qui questo si può chiamare anche con interpretazione. L’attribuzione di significato ha diversi aspetti: 1. Contesto. Il processo di contrattazione del comportamento del paziente avviene all’interno della sua relazione col terapeuta, in un contesto in cui il paziente concede al terapeuta il permesso di andare oltre le proprie intenzioni non deliberate, leggendole in trasparenza per ritrovarne le motivazioni effettive. 2. Contenuto. A questi ambiti si applica l’interpretazione a due tipi di contenuti: quello proposizionale e quello relazionale. Ogni interpretazione si può riferire sia al contenuto specifico di quanto detto o fatto dal paziente, sia a quanto il paziente ha fatto o detto significa riguardo alla sua relazione con il terapeuta. 3. Punto di partenza. Il processo di interpretazione si può applicare ad azioni della cui intenzionalità l’agente può essere conscio o meno. quando B, basandosi sul comportamento non comunicativo di A, inferisce che A possiede un determinato stato mentale e lo prospetta ad A medesima, si possono dare due casi: a. A è cosciente di possedere quello stato mentale; nel caso più semplice, A non lo considera rilevante per l’interazione o non lo aveva consapevolmente attivato; b. A non è cosciente di possedere quello stato mentale; in questo caso A può non riuscire a coglierlo, neppure se B glielo fa notare. Questo rappresenta il passaggio più difficile per un paziente. Comunque, solo un’interpretazione che sia non ovvia e che non risulti inaccettabile dal paziente, è da considerarsi terapeuticamente utile. 4. Punto di arrivo. È l’esercizio in sé a essere prezioso. Un sintomo comincia a perdere la sua necessità assoluta per ritrovare un significato specifico, quello che la coppia terapeuta-paziente decide di dargli. Quando il sintomo diventa pienamente comunicativo, allora ritorna nella sfera dell’intenzionale e quindi della libera scelta. Il comportamento comincia a diventare non solo informativo ma anche comunicativo. 5. Modo. All’interno della situazione terapeutica si realizza una modifica sostanziale, per la quale possiamo tornare a parlare di comportamento comunicativo. Il terapeuta ha la possibilità di considerare il comportamento nevrotico come una comunicazione come-se. È una finzione di grande efficacia. In questo modo il terapeuta restituisce significato a comportamenti che ne erano stati deprivati perché diventati compulsivi. Il terapeuta legge il comportamento del paziente come se fosse intenzionale, portandolo a rendersi conto dei significati che il suo agire ha nei confronti di se stesso e delle persone che lo circondano. 6. Effetti attesi. L’idea è che un aumento di consapevolezza permetta di acquisire gradi maggiori di libertà di scelta. Si tratta di rendere libero il paziente, grazie all’attribuzione di intenzionalità comunicativa al suo comportamento disfunzionale. L’interpretazione dei sogni L’interpretazione dei sogni consiste in una duplice attribuzione di intenzionalità comunicativa come-se: la prima dall’inconscio al conscio del paziente, e la seconda dal paziente al terapeuta. È utile in psicoterapia usare strategicamente i sogni che i pazienti fanno come spunti per una riflessione su argomenti che talvolta è difficile affrontare in piena lucidità. Ciascun sogno può dare un primo significato, che dipende dalle condizioni specifiche di colui che quel sogno l’ha fatto, e un secondo significato, che dipende dalla relazione che il sognatore ha col terapeuta cui sta raccontando il sogno.
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