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Preparazione esame Psicologia clinica Prof. Molinari - Da Edipo re a Edipo a Colono, Sintesi del corso di Psicologia Clinica

Riassunto integrale e dettagliato, diviso per capitoli utile per la preparazione dell’esame di psicologia clinica con il Prof. Molinari. Il Manuale di preparazione per l'esame è “Da Edipo re a Edipo a Colono. Ciclo di vita e riflessioni psicoanalitiche”.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 28/08/2019

Chia1397
Chia1397 🇮🇹

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Scarica Preparazione esame Psicologia clinica Prof. Molinari - Da Edipo re a Edipo a Colono e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Clinica solo su Docsity! DA EDIPO RE A EDIPO A COLONO: CICLO DI VITA E RIFLESSIONI PSICOANALITICHE L’obiettivo generale era quello di portare all’attenzione di studiosi ed operatori dell’ambito psicologico suggestioni e nuove opportunità di ricerca e di intervento attraverso l’indagine della tragedia classica. riflettere su alcuni aspetti dell’Edipo a nostro avviso non ancora sufficientemente considerati dalla indagine psicologica tradizionale che possono offrire spunti di comprensione delle complesse vicende dell’umano. i contributi qui presentati hanno come linee giuda l’analisi di Edipo nel suo percorso di vita compreso tra le due tragedie l’Edipo re e l’Edipo a Colono. • I miti greci sono stati per Sigmund Freud e la psicoanalisi un punto di riferimento importante per la spiegazione di complessi meccanismi psichici; una centralità assoluta è stata riconosciuta all’Edipo, “La verità è che non si può parlare di Edipo senza intendere l’Edipo”, secondo Bozzaro, simbolo di contenuti psichici universali. • Consapevoli del fatto che la psicoanalisi del novecento si sia riferita principalmente all’Edipo Re, è interessante riflettere anche sull’ultima opera di Sofocle. L’Edipo a Colono, in senso figurato, può rappresentare il compimento del ciclo di vita non solo dell’Edipo ma anche dell’uomo nelle sue diverse evoluzioni ed in particolare nell’ultima tappa della vecchiaia: la morte e la necessaria “rinuncia al potere”: ♦ Come l’Edipo Re è stato uno strumento utile per la psicologia dello sviluppo (Teoria dello sviluppo psicosessuale) ♦ Così l’Edipo a Colono può essere un’utile meta- fora per la comprensione dello sviluppo psicologico nell’età matura e nella terza età. I contributi presentati vogliono offrire un apporto, seppur circoscritto, alla comprensione, attraverso il mito di Edipo, dello sviluppo psichico dell’uomo dalla nascita alla morte attraverso cinque interpretazioni della natura e delle vicende del personaggio tragico: 1. Il primo capitolo (Zanchi e Molinari), dopo alcuni cenni alla vita di Sofocle e dopo una breve presentazione dell’opera Edipo a Colono, analizza l’ultima fase del ciclo di vita dell’uomo. La vicenda di Edipo diventa la riproposizione della condizione psicologica già emersa nell’infanzia e nell’adolescenza. Nella vecchiaia, tuttavia, il conflitto dovrà essere riconosciuto ed accettato pena la disgregazione dei legami generazionali. Edipo a Colono compie riti purificatori, cerca di espiare le sue colpe e di riordinare il proprio mondo per preparasi a morire. Il riscatto del personaggio avviene in primis dalla società che lo circonda, Colono lo accetta non come colpevole del parricidio e dell’incesto, ma come supplice; non come portatore di sventure, ma come vecchio cieco stanco della vita. Edipo è in cerca solo di un luogo dove poter morire ed essere sepolto. Nel primo capitolo viene avanzata l’ipotesi che la morte di Edipo possa essere la morte dell’ultimo esponente del mondo dionisiaco in cui le pulsioni primordiali erano dominanti rispetto alla legge. Edipo verrà sostituito da Teseo, l’eroe che ucciderà il Minotauro e che troverà la strada per uscire dal labirinto, nascerà una nuova civiltà che fonda il proprio vivere sulla ragione e sulla forza del logos. 2. Il secondo capitolo (Bozzaro) si concentra sull’enigma: l’essenza stessa del personaggio sofocleo è enigmatica. Edipo non sa chi è, quali siano le sue origini, è incatenato alla profezia dell’Oracolo di Delfi “Ucciderai tuo padre e giacerai con tua madre” senza coglierne il senso. L’etimologia del nome Edipo (oida) infatti porta già in sé il fondamento del suo destino: la maledizione di voler sapere e la condanna ad una verità tragica. • Il processo di conoscenza per il mondo greco ed anche per la riflessione psicoanalitica non consiste in un percorso lineare, ma in una via tortuosa, accidentata che porta l’uomo verso l’ignoto del suo essere. Non a caso questo percorso si traduce nel “Conosci te stesso” dell’Oracolo di Delfi. L’ubris del sapere scientifico, un sapere “per causas”, tende a ridicolizzare il pensiero mitico, per fornire invece la visione di una realtà troppo semplificata, razionalmente ordinata in cui tutto è riconducibile ad eventi fenomenologici. 3. Il terzo capitolo ( Maria Costanzo) approfondisce la tematica del trauma e le sue tracce sulla psiche adulta. La vita di Edipo sembra proseguire lungo un percorso tortuoso che trova il suo senso attorno ad eventi traumatici: l’abbandono e l’incesto. Ma l’Edipo diventa il punto di partenza di un’indagine che va a individuare la relazione di tutti i bambini con i loro vissuti traumatici, che spesso rimangono inespressi. Proprio l’incomunicabilità è uno degli esiti devastanti della sofferenza percepita. Non solo Costanzo scrive che il trauma infantile ha una ricaduta sulla vita adulta, ma ritiene che il trauma adulto “Collassa su quello infantile e sullo schermo della vita si disegnano immagini di morte, violenze, abusi”. Anche in Edipo infatti il marchio della colpa di parricidio ed incesto si va a sovrapporre a quello dell’abbandono primigenio. L’autrice arricchisce il suo contributo attraverso l’esame di casi ricavati dalla pratica clinica. 4. Giuseppe Raniolo pone l’attenzione sull’aspetto dell’odio transgenerazionale tramite un’analisi rigorosa ed attenta del succedersi ciclico del conflitto attraverso le generazioni. Nel mito l’odio è bidirezionale: non solo i figli sopprimono i padri, ma a loro volta i padri attentano alla vita dei figli. Nella stirpe di Edipo ci si accorge dell’assenza delle figure paterne: Polidoro muore quando Labdaco è ancora in fasce, Labdaco a sua volta viene a mancare quando Laio è bambino, anche Laio abbandona Edipo ed anche Edipo abbandonerà Eteocle e Polinice. Questa, che apparentemente sembra una maledizione che grava sui padri, può essere letta come un disegno funzionale al ciclo perenne della vita in cui le nuove generazioni subentrano a quelle vecchie sostituendole. Dove meglio che nell’Edipo si può individuare la duplice direzione dell’odio? É vero infatti che Edipo ancora in fasce viene abbandonato da Laio, ma è altrettanto vero che sarà Edipo a commettere il parricidio. “Quindi i figli parricidi sarebbero spinti a commettere il delitto, non solo dalla situazione edipica, ma da un odio paterno introiettato e fatto proprio dal figlio. [...] Si tratta di una catena infinita: un padre pagherà con la propria morte il suo tributo alla vita e, dopo la sua morte, il figlio dovrà pagare con la propria morte il diritto alla vita dei suoi discendenti. Siamo occupanti transitori di un posto che un altro aveva occupato e che un altro ancora occuperà”. 5. L’ultimo contributo di Turi Sapienza considera la bi-logica dell’espiazione e indaga l’essenza della tragedia che coniuga due logiche: quella visibile e quella invisibile in un’unica tessitura. Simbolo dell’ambivalenza è la sfinge la quale è testa di uomo, corpo di leone e coda di serpente. Edipo, risolutore degli enigmi della Sfinge, è lui stesso metafora della duplice natura umana che contempla la compresenza di opposti: ■ Così il figlio di Laio può essere contemporaneamente padre e figlio, padre e fratello dei suoi figli, figlio e marito. ■ Edipo vede e non vede, sa e non sa, agisce ma non sa di agire, è sia colpevole che vittima, il suo futuro è dominato dagli eventi del passato che ancora agiscono nel suo presente. L’accecamento che il protagonista si infligge è sia la punizione per le sue colpe, ma soprattutto è la chiave per uno sguardo differenziato e differente sulla realtà: ora Edipo può vedere meglio, attuare quell’introspezione che gli permetterà poi a Colono di portare a termine il processo di espiazione. Edipo a Colono: letteratura e psicologia di ENRICO MOLINARI e DAVIDE ZANCHI L’Edipo a Colono è l’ultima tragedia scritta da Sofocle e fu rap- presentata per la prima volta dopo il 406 a.C., anno della morte dell’autore. Il poeta aveva già portato in scena il famoso Edipo Re, opera destinata a diventare un imprescindibile punto di riferimento del pensiero umano, ripresa più volte da pensatori illustri non ulti- mo lo stesso Freud. L’Edipo a Colono è una delle sette tragedie di Sofocle che sono giunte a noi, insieme all’Aiace, all’Antigone, alle Trachinie, all’Elettra, all’Edipo Re ed al Filottete; gli altri 116 drammi invece sono purtroppo andati perduti. In campo psicoanalitico, sicuramente meno considerata rispetto all’Edipo Re, è stata vista da alcuni autori sotto una luce “simbolica” ed individuata come il superamento della concezione e della teoria del complesso edipico. 1. Fromm (1951) interessatosi a questa tragedia ne sottolinea la ribellione del figlio contro l’autorità del padre (il contrasto prima tra Laio ed Edipo, poi tra Edipo e Polinice) ed il ricongiungimento finale con la terra e le Dee della Ter- ra, riconducendo il tutto all’appartenenza ad un mondo matriarcale. 2. Hillman (1986) introduce invece il concetto di dissolvenza del complesso edipico, vedendo nell’amore del demo di Colono che accetta ed accoglie Edipo, il ribaltamento del dovere di cacciarlo come impuro. Sofocle, nato nei primi anni del V secolo, figlio del fabbricante d’armi Sofillo, originario del demo di Colono, da tragediografo fu innovatore degli interi canoni della drammaturgia, aumentando il numero degli attori e dei componenti del coro (da due fino a dodici) e scindendo la struttura rigida delle trilogia in drammi indipendenti. Fu proprio Sofocle ad aver introdotto la scenografia (skenografia), ma poco sappiamo in proposito. Eppure la mancanza di cause che scatenino eventi destabilizzanti non preclude l’azione stessa. • La trama si focalizza e si snoda sulla capacità di Edipo di riordinare gli eventi, partendo dalla sua vita. Egli, vecchio cieco, deve ricomporre i tasselli di un puzzle prima di lasciare la scena ed abbandonarsi all’Ade. Per fare ciò sceglie un luogo in cui regna la luminosa luce della razionalità. • Atene stessa viene rappresentata non come era al tempo di Sofocle, lacerata da divisioni interne, fragile moralmente ed irrispettosa dei costumi, ma al tempo del suo massimo splendore, in cui governava Teseo, esponente di una stirpe di cavalieri e membro di un’aristocrazia illuminata che non imponeva il duro giogo della figura del tiranno. ▲ Colono, demo di Atene, appare come rigogliosa, verde, in cui tutto è al suo posto, luogo ideale per l’arrivo di una mente riordinatrice. ▲ Tebe è invece l’Anti-Atene lacerata da dissidi interni, in primis quello tra Eteocle e Polinice, in cui il turannos è presente, ma non si capisce chi sia; non è nessuno dei due fratelli poiché sono in guerra, né Creonte che deve abbandonare la città per chiedere aiuto, né in fondo Edipo, l’esiliato, al quale viene chiesto di tornare per fermare la battaglia tra i due figli. Tebe si sta auto-distruggendo e, come ultimo grido di aiuto, si aggrappa ad un impuro, nella cui vita ha sempre dominato il kaos; ma forse, per ricostruire un ordine ed una civiltà nuova, si deve aspettare la fine della precedente. Ad Atene però si comprende che tutto è cambiato fin dalle prime scene: persino Edipo di fronte al coro deve aspettare il suo turno per poter parlare. Anche l’anomos Edipo, colui che è al di fuori di ogni legge, deve soggiacere al nomos . Il paradosso che nasce è strepitoso, nella città di Teseo ci sono una serie di comportamenti che anche il pazzo deve rispettare. Una legge per i fuori-legge. Una legge anche per il figlio di Laio. ♦ Si è distanti dall’inconsapevole Edipo che uccideva il padre e veniva chiamato guerriero, che sposava la madre e veniva ammirato come amante e che, risolvendo gli enigmi della sfinge, veniva proclamato re. ♦ Qui egli è eroe, perché in fondo rispetta la legge, si omologa alla società civile ed addirittura se ne farà portavoce, scacciando Polinice. Sofocle prima crea un pazzo e lo condanna come eroe e poi crea un eroe e lo condanna come pazzo. • Lontano è ormai il mondo Omerico in cui Achille ed Ettore vivevano vite parallele a quelle dei comuni mortali, vite che venivano ricordate, imprese che facevano scrivere poemi. • Nell’Edipo a Colono è l’uomo il vincitore nei confronti dell’eroe e questo, come avviene alla fine della tragedia, ritorna al mondo degli dei, l’unico luogo che gli appartiene. L’addio del protagonista non può avvenire prima di aver riordinato il mondo che sta per lasciare ed allora riemergono sentimenti tradizionali come l’humanitas alla quale Antigone fa appello per spezzare l’attitudine aggressiva del coro. La pietà per un vecchio zoppo e per sua figlia destinati all’esilio è un tema che non può lasciare insensibili gli abitanti della razionale Colono, che sono sì innovatori, ma non dimenticano, proprio come il loro re, le tradizioni. • Così anche nel setting psicoanalitico il paziente come Edipo riordina, cataloga, archivia, attribuisce ad ogni esperienza con una forte valenza psichica un ordine di senso che viene integrato nel senso più generale della propria esistenza. • E, come Edipo, attraverso questo lavoro di archiviazione si prepara ad affrontare la sua uscita di scena, così nella relazione analitica il paziente prende le distanze dagli eventi traumatici del passato per sostituirli con nuovi vissuti. Anche Creonte è una figura attesa dallo spettatore, è il nemico, che viene caratterizzato da atteggiamenti ricorrenti nello schema della letteratura greca, come quelli del peccatore di ubris (tracotanza). Può nascere così lo schema tradizionale del Dramma del Supplice, in cui Edipo recita il ruolo di perseguitato, Creonte, quello di persecutore e Teseo quello di soccorritore. Questa rappresentazione nella rappresentazione mostra come Edipo non sia stato accolto dalla città e giudicato su un piano civico (la parola civico ci rimanda al concetto di civiltà che forse ad Edipo non apparteneva), ma su quello religioso. Egli essendo supplice è lo straniero pentito che chiede ospitalità, è l’ospite che non può essere rifiutato perché sarebbe un oltraggio agli dei. Edipo, dal canto suo, come vuole la tradizione, da ospite porta con sé un dono da offrire alla città, la protezione che il suo corpo avrebbe dato dai nemici. Il sentimento di deferenza del singolo nei confronti della comunità il cosiddetto aidos, fa sì che l’eroe si uniformi alle leggi e che chieda di farne parte. Il Dramma della Vecchiaia, come è stato definito l’ultimo lavoro di Sofocle da Giuseppe Serra (1998) rappresenta la vecchiaia “con la sua saggezza e la sua stoltezza, con la sua dignità ed umiliazione, con la sua ossessione per l’ordine, con la sua vitalità di serpente spezzato che gode l’ultimo sole ed alla fine si trae in disparte per morire, perché ode la voce che la chiama”. L’ULTIMO ATTO: IL SACRIFICIO L’Edipo a Colono è l’ultima opera di Sofocle, opera che racchiude in sé la ricapitolazione della vita stessa. É Sofocle che dispensa gli ultimi insegnamenti, come un vecchio che prima di morire cerca di tramandare la propria visione del mondo. Anche Edipo che sembra avere una vecchiaia infinita, lascia a Teseo le sue ultime volontà. Lo spettatore in questa tragedia riconosce in Edipo “Il vagabondo dalle mille sventure” e ricorda la storia di cui è portatore. Qui il punto di vista di Edipo e quello dello spettatore coincidono, egli è il colpevole, il parricida. Nel demo di Colono invece gli ateniesi vedono nel figlio di Laio il supplice che chiede ospitalità, l’inconsapevole che ricerca solo un luogo dove essere seppellito. • É interessante notare come, pur non cambiando la figura di Edipo, muta la prospettiva di coloro i quali circondano il protagonista: ora egli è ancora colui che ha commesso l’incesto ed i segni dell’autoacciecamento ne sono la testimonianza, ma la colpa viene giustificata dagli abitanti della rigogliosa Colono, emerge il carattere inconsapevole del crimine e per questo Edipo passa dalla situazione di colpevole a quella di colpito da un fato avverso. • Qui sta l’essenza stessa di questa tragedia: il riconoscimento e l’accettazione. Il figlio di Laio, compiendo riti purificatori, come l’immergere le mani in una fonte sacra e tagliare per tre volte nove rami di ulivo, riconosce la propria storia ed accetta la propria identità, non cancella infatti la colpa, ma la iscrive nella propria vita, attribuendole un senso. Il Dramma della Vecchiaia riporta in scena dinamiche psichiche fondamentali, presenti in ogni uomo che entra nell’ultima fase della vita: • Così come nell’analisi freudiana dell’Edipo Re emerge la nascita del celebre complesso edipico che sarà poi portante per tutta la storia della psicoanalisi e della psicologia dello sviluppo, nell’Edipo a Colono si conclude la guerra dell’uomo contro i suoi istinti primordiali di incesto e parricidio. • Mentre Freud stesso descrive che il complesso edipico si sviluppa dai due ai cinque anni e dopo una fase di latenza riemerge nell’adolescenza, si può ipotizzare che i fantasmi di questo riemergano una terza volta nella vecchiaia dell’uomo—> L’individuo, nell’ultima fase della sua esistenza, rivive ancora il conflitto con le altre figure chiave della sua vita e dall’esito di questa lotta deriva il futuro, non solo della generazione sulla scena, ma anche delle generazioni future. La ridefinizione dei rapporti di potere nella vecchiaia è un aspetto cruciale della vita e probabilmente una delle transizioni più complicate. Come affermano Scabini e Iafrate, l’anziano vede perdere progressivamente il proprio potere all’interno delle relazioni familiari. Egli non è più quel Super-io che viene riconosciuto come colui che impone la legge, ma come colui che ormai deve rispettarla. Scabini ricorda che il passaggio che porta l’anziano a perdere la propria autorevolezza per mantenere solo una dimensione affettivo-emotiva implica una ridefinizione della propria identità. Sarà proprio questa ridefinizione, ultima e dolorosa, che causerà il riemergere del conflitto edipico —> L’anziano vedrà nel proprio figlio ormai adulto l’usurpatore, colui che vuole sostituirlo, un nemico. • Il conflitto adolescenziale per l’acquisizione del potere rinasce qui, dopo un lungo periodo di latenza: dei due l’uno non vuole perdere la funzione di guida, l’altro deve abbandonare il ruolo incerto, grigio di capo- famiglia in potenza, per diventare in atto il punto di riferimento che condurrà la famiglia a scrivere un nuovo racconto nel grande libro della storia familiare. • L’odio inconscio per l’avversario è lo stesso di quello sperimentato da figlio nella propria adolescenza e rimasto latente. Il risultato però è differente: l’anziano deve qui riconoscere il conflitto, capirne la valenza ed accettare la propria sconfitta. L’ordine del mondo implica che egli non esca vincitore da questa lotta, una lotta che alla fine ne richiederà la vita. Il vecchio in fondo ne conosce l’esito, ma accettare la propria morte è il compito più doloroso che la vita richiede. • Quando egli sarà pronto al sacrificio, come il vecchio Edipo lo è nella rigogliosa Colono, allora anche l’ultimo capitolo sarà compiuto. • Così l’anziano potrà riconoscere in sé il vecchio padre, che a sua volta si era sacrificato; potrà riconoscere il figlio come continuatore della propria storia e soprattutto come innovatore di quella stessa storia di cui anch’egli è stato portatore ed innovatore. Il superamento del complesso edipico richiede non solo la vittoria della nuova generazione, ma anche il sacrificio di quella vecchia . La manifestazione del conflitto è qui meno dirompente rispetto al periodo adolescenziale: è un conflitto meno esplicito, che si misura durante tutto il tempo della vecchiaia, ma evidente in momenti cruciali quali: • la fine del lavoro; • l’inizio della quiescenza; • la nascita della famiglia del figlio che sancirà la presenza della generazione di mezzo. Il primo ed il secondo evento sono il simbolo della perdita del ruolo di sostentamento per la famiglia, il terzo rappresenta la fine dell’egemonia sulla propria progenie. • Egli, riconoscendo e quindi legittimando il figlio come nuovo autore della storia familiare, lascerà il proprio ruolo di legislatore, per assumere la funzione di sostegno affettivo nei confronti della nuova famiglia. La nascita dei nipoti e la malattia sono due eventi chiave per l’anziano nell’assunzione del nuovo ruolo: • Nel primo caso iscriverà i nipoti nell’intreccio generazionale dei legami, li farà partecipi di una storia familiare raccontando la propria vita, quella delle generazioni precedenti, tramandando loro tradizioni ed usanze e censurando ciò che non deve essere ricordato. Sarà poi compito delle nuove generazioni essere partecipi di questa storia familiare. • Nel secondo invece, l’anziano, sperimentando una propria impotenza, dovrà legittimare il ruolo dei figli, avendo il coraggio di affidare loro la propria vita. Questi passaggi cruciali sono delle prove per verificare se il Complesso edipico è stato realmente superato. Non sempre tuttavia l’accettazione ed il riconoscimento avvengono da parte dell’anziano: spesso il sacrificio viene negato, creando uno squilibrio generazionale. • Ci immergiamo qui nella tipica situazione di stallo familiare che trova il suo rispecchiamento nel mito di Saturno: Esiodo nella Teogonia racconta come Saturno, figlio di Urano e Gea, sia salito al potere evirando suo padre, ma era stato profetizzato che a sua volta anch’egli sarebbe stato spodestato da uno dei suoi figli. Saturno iniziò così a divorare la sua progenie. In questa situazione di onnipotenza dell’individuo, possiamo notare come a dominare è la paura per la propria morte e la fantasia di immortalità. • Riconoscere nella propria progenie il futuro implica il saper riconoscere la propria fine. Nella sindrome di Saturno l’aggressività è completa e domina la fantasia di morte per il figlio. La fantasia inconscia è che la vita necessiti di un debito e che questo non venga ripagato con la propria morte ma con quella del figlio: uccidere il figlio per pagare il proprio debito e rimanere in vita. • Il delirio di Saturno non porta solo alla distruzione dell’individuo, ma ha come conseguenza una disgregazione dei legami generazionali. Il figlio ormai adulto vede nel padre un’aggressività pericolosa per se stesso e per la nuova famiglia costituitasi, così non avviene più una sua iscrizione nella storia familiare in modo naturale, ma nasce un tentativo di forzare nuovamente un potere che sembra perenne. Non vi è il riconoscimento e la legittimazione, ma la rottura del legame transgenerazionale. Abbandoni, isolamento, oppure collera e rancore, come è prevedibile saranno i sentimenti che emergeranno e che impediranno uno sviluppo sano. Questa rottura di legame infatti si ripercuoterà nella relazione tra la generazione di mezzo e quella successiva, impedendo un pieno sviluppo della figura paterna come buona. L’evento cruciale, in cui si misura se la trasmissione di ruoli avviene in modo naturale, è il passaggio di eredità , è questo l’atto che identifica la capacità di lasciare e quella di accogliere. • La morte del genitore è un evento difficile da accettare ed accogliere per i figli. In questa fase c’è la transizione di tre nuclei familiari e viene esplicitato il passaggio generazionale. La generazione che precedentemente occupava il posto intermedio deve riconoscere lo spettro della propria futura morte. Anch’essa si trova di fronte nuovamente all’Edipo: deve lentamente accettare la propria morte e riconoscere ai suoi figli il ruolo di genitori. • Si ripete qui il modello introiettato dai propri padri, superare l’Edipo e trasmettere la storia familiare o non riuscire a superarlo e cadere tra le braccia di Saturno. Tornando a Sofocle, nell’Edipo a Colono il protagonista caccia Polinice, suo primogenito, poiché vede nella lotta fratricida il ripetersi di una guerra generazionale, vede in loro un nuovo destino di morti ed uccisioni familiari che deve finire. Edipo riordina tutto ciò che viene lasciato in sospeso, non solo la sua città, negando a Creonte il suo ritorno, ma anche la sua famiglia, nel tentativo di impedire una nuova scia di sangue. Con lui e con la sua morte finirà la stirpe Ma chi è Edipo? ♦ Edipo è l’uomo nudo che vince la paura e che affronta a viso scoperto il suo destino. ♦ Edipo è l’essere umano ‘intelligente’, una forma di vita fatta di domande costanti che hanno bisogno di risposte che causeranno altre domande fino ad arrivare fino in fondo. ♦ Edipo è un emotivo atto di fede e di omaggio alla parola, questo miracolo creato dall’uomo per dare forma ai pensieri e poterli esprimere e condividere... ♦ Edipo è la nostra grande metafora, la metafora dell’esistenza umana. E come ogni grande metafora nasce da gesti molto concreti... Edipo porta già nel nome una duplicità di significati e di destino; esso può significare: • l’uomo dal piede gonfio (oidos) —> accezione che allude al bambino dai piedi trafitti e legati tra loro, abbandonato e impotente; • l’uomo che sa (oida)—> accezione che riguarda Edipo che sa risolvere l’enigma della Sfinge che allude alla condizione umana; quello che Edipo non sa è di essere lui l’uomo dell’enigma, non sa che si dovrà riconoscere nel bambino dai piedi trafitti, scoprendo cos’é la drammaticità della sua esistenza. Nell’interrogazione della Sfinge – l’enigma per eccellenza che allude nella risposta al percorso della vita – si fa riferimento in modo inequivocabile per ben tre volte al nome stesso di Edipo: Quale essere con una sola voce ha talvolta due piedi (dipus), talvolta tre (tripus), talvolta quattro (tetrapus)? Da qui, dalla risoluzione di un apparente paradosso, prende le mosse l’esperienza, il cammino, ma anche il pathos, il dolore, la sofferenza di Edipo: risoluzione parziale perché Edipo risolvendo l’enigma, mostra di sapere che la vita dell’uomo è in generale un alternarsi di condizioni di autonomia e di dipendenza, di libertà e di limiti. Si libera in questo modo dalla Sfinge (e libera anche il gruppo, la città di Tebe dagli artigli mortali del mostro – in greco ainigma significa ‘artiglio’), ma non sa che questo successo è l’inizio della sua fine e solo dopo aver raggiunto il fondo – l’ultimo stadio della kenosis – può tentare di risalire e ritrovare un sollievo temporaneo. Edipo, l’intelligente, il sapiente, l’esperto, il bravo risolutore di enigmi, non sa nulla sulla propria vita, ignora la propria vera nascita, non conosce realmente le proprie origini, non sa di essere stato un ‘figlio’ precocemente esposto ad un doppio abbandono, ad un doppio tradimento, da parte della madre prima, da parte del padre dopo. Le cicatrici che ha nei piedi sono gli unici indizi del trauma originario, ma Edipo non ha gli elementi conoscitivi per comprenderne il senso. Su di lui pesa come un macigno l’oracolo ricevuto a Delfi: “ucciderai tuo padre e giacerai con tua madre”. Ed Edipo, terrorizzato, fugge da Corinto, lontano da quelli che ritiene siano i propri genitori, proprio per non commettere quei crimini, illudendosi che la verità dell’oracolo possa essere fronteggiata con le semplici leggi del libero arbitrio . Anche in questo Edipo ci somiglia profondamente! Edipo rifiuta energicamente ogni indizio di verità, pur mostrando attivamente di desiderarla. Quando le parole di Tiresia trovano progressiva conferma nelle testimonianze del nunzio e del vecchio pastore, Edipo è costretto a riconoscere che la sequenza degli eventi della propria vita, così come li aveva ordinati fino ad allora, non è più sostenibile. È costretto, con fatica ma anche con estremo dolore a sottoporli ad analisi, a un’operazione di decostruzione prima e di ricostruzione dopo... • Edipo protesta, si arrabbia, ‘resiste’ come resistono tutti gli uomini (e tutti i pazienti) quando sono costretti a mettersi in contatto con le aree interne che sono attigue alla verità originaria delle proprie ferite o dei propri traumi. Ma l’operazione di ‘svelamento’, che egli stesso contemporaneamente desidera e pretende, una volta avviata deve compiersi. È interessante notare come per i greci del V secolo il processo di conoscenza non fosse inteso come un atto di invenzione, come scoperta, come creazione, ma come un progressivo e a volte doloroso ‘riconoscimento’ di ciò che, in un certo senso, già si sa... perché già accaduto. Ma cosa impedisce di vedere con chiarezza ciò che già si vede? Ciò che ostacola la vera conoscenza e che per molti personaggi tragici si rivela la massima colpa è la ‘presunzione di sapere’, da cui nasce la “hybris”, l’arroganza: il sapere inteso come potere, quel comportamento che porta l’uomo a oltrepassare i limiti che gli sono assegnati, che scompiglia l’ordine del mondo e che gli dei puniscono pesantemente (come successe a Prometeo). Edipo non è immune da questa forma di “presunzione intellettuale”. Si potrebbe quasi pensare che il successo ottenuto con la risoluzione dell’enigma della Sfinge gli abbia fatto montare la testa. La vittoria dell’intelligenza sulla bestialità della Sfinge gli ha procurato fama e successo. Basta sentire con che tono ribatte alle parole di Tiresia, che lo invita ad avere un atteggiamento più umile e più rispettoso verso ciò che ignora. ▲ La presunzione di sapere di Edipo somiglia molto alla presunzione del sapere scientifico: è un sapere “per causas” , un sapere che presume di conoscere le cause che hanno prodotto gli eventi, perché “riduce” preventivamente gli eventi a “fenomeni” semplici. Ogni conoscenza scientifica si basa su un “riduzionismo epistemologico”, a una forma di lettura semplificata, basata essenzialmente su un uso prudente e mimetico della ragione, guidato dal principio di non contraddizione. ▲ Il pensiero “mitico” rappresenta proprio l’opposto: se cerca corrispondenze e coerenze anche fra i minimi dettagli o fra i piani diversi nei quali si svolgono gli eventi (natura, umano, divino) lo fa perché vuol collegare attraverso un unico filo di senso gli opposti, le contraddizioni, le antinomie. Ma cosa ne è oggi del pensiero mitico? Corrao, parlando del mito di Edipo, osservava come noi moderni non riusciamo più a farci sorprendere né dalla fascinazione della mitologia antica né dalla funzione mitopoietica che potrebbe essere riattivata da specifiche condizioni psichiche e mentali. Corrao affermava che la trasformazione antropologica e culturale che ci riguarda non solo ci ha distanziato dagli antichi, ma anche ci ha reso molto meno sensibili in pochi decenni al potere risolutore del mito, come ad esempio lo ha utilizzato Freud per stabilire uno dei fondamenti della psicoanalisi. È probabile che per contrastare la perdita progressiva del valore del mito e della capacità mitopietica dell’uomo attuale, possa essere utile ricomprendere il mito attraverso un processo inverso al riduzionismo semplificante che lo ha indebolito, e che consiste nella sua amplificazione di campo impiegata al fine di restituirgli tutta la sua complessità ed il suo potere. I materiali del mito possono essere utilizzati come modello cognitivo atto ad esplorare ciò che non si conosce o ciò che si conosce poco o ciò che resiste ad una investigazione diretta. Il patrimonio collettivo del mito è racchiuso in quella immensa letteratura di racconti, di favole, di fiabe e di romanzi che incantano da sempre adulti e bambini, anche se cambia nei secoli lo strumento della narrazione: la declamazione degli aedi, poi la scrittura, la poesia, l’epica, il teatro, l’arte, più recentemente il cinema, i video games... Il fascino della narrazione, la persistenza transculturale delle stesse strutture narrative di base, la ricorrenza di figure archetipiche presenti nelle diverse tradizioni mitologiche sono tutte spiegazioni possibili, ma non esaurienti, del fatto che produzioni di carattere “mitico” resistono nel tempo, in quello individuale e in quello collettivo: sono prodotti mentali molto particolari, che nessuna forma di ‘pensiero storico’ o di considerazioni ‘logico-scientifiche’ riesce del tutto ad annullare. La funzione principale del mito per Corrao è quella di fornire una forma discorsiva e narrativa per una verità che non può essere detta e trasmessa attraverso una definizione diretta. La definizione di una verità deve essere per forza autoreferenziale e logica ed espressa in un linguaggio discreto. Il linguaggio logico peraltro non può contenere se stesso né la sua verità né il suo movimento verso la verità cercata. Il linguaggio può esprimere la verità ed il suo movimento solo indirettamente e analogicamente, cioè in modo mitico. Ma torniamo a Edipo e al suo incontro con la Sfinge, rappresentazione vivente essa stessa degli enigmi che produce. L’enigma è la figura che meglio rappresenta la concezione che i greci avevano del sapere e della conoscenza. 1. Gli enigmi erano per lo più formulati sotto forma di interrogazione o di proposizioni spesso contraddittorie. Erano messaggi criptici, da dover decodificare, spiegare, interpretare... 2. Ma enigmi erano anche le figure mostruose, create dalla fantasia popolare e riprese dagli artisti e dai poeti, che nell’assemblaggio perturbante delle parti – animali/umani/divini – esprimevano in modo immediato le contraddizioni dell’esperienza umana e della sua psiche: emozioni forti e intense, aggressività e piacere, eros e thanatos, rabbia e amore, ma anche stadi intermedi o misteriosi o ‘bordeline’ come il sonno, la follia, la mania, l’allucinazione, la possessione... La Sfinge (testa di donna, ali di uccello rapace, corpo di leone, coda di serpente) è una delle tante creature mostruose nate da Tifeo ed Echidna (donna con corpo di serpente). Le altre sono: i cani Ortro e Cerbero, la Chimera, le Arpie, l’Idra di Lema, Ladon, il Leone di Nemea. Tutte queste ‘mostruosità’ impediscono l’instaurazione del ‘kosmos’, dell’ordine e devono essere distrutte. Zeus per primo ucciderà il loro padre Tifeo. Altri eroi continueranno l’impresa: Edipo la Sfinge, Ercole cattura Cerbero e uccide Ortro… L’elaborazione mitologica è un’espressione di un pensiero immaginario che in varie forme compete e contrasta con le altre forme di pensiero “concreto” o “reale”, non necessariamente iscritta in una linea evolutiva di un prima e di un dopo: come se le espressioni mitologiche fossero un modo fantasioso e immaginario di rappresentarsi i fenomeni naturali che successivamente, vengono interpretati alla luce di paradigmi scientifici. Può anche succedere il contrario: oggi la funzione dell’immaginario (basti pensare al cinema di Bunuel o di Lynch) è spesso quella di mettere in discussione il concetto di “realtà” così come ci è stato consegnato dalla visione scientifica positivista. Chi ha esplorato la mitologia greca cercando di non leggerla come un’espressione ingenua e arcaica di un pensiero ‘primitivo’, sa che è un grandioso affresco di metafore e di simboli. Per gli antichi greci alla verità si arrivava faticosamente e lentamente, attraversando ostacoli e superando difficoltà, anche a rischio della propria vita. Per alcuni secoli, da Omero fino ai filosofi pre-socratici, l’indagine conoscitiva, sia che riguardi gli eventi della natura sia che voglia esplorare i comportamenti umani, si svolge attraverso procedure molto complesse: l’attività del pensare è sotterranea, nascosta, tutta interiore; ciò che viene espresso attraverso il linguaggio non è l’intero percorso del ragionamento o del processo riflessivo, bensì il prodotto finale: l’affermazione solenne, che sintetizza e condensa in una sola proposizione, spesso apodittica, la verità. L’assiomatica della sapienza antica non richiede, come per noi moderni, un corollario di ragionamenti e di dimostrazioni. Gli antichi hanno un sacro rispetto per le parole. È nel silenzio che le precede che si nasconde il lavoro di riflessione e di elaborazione. Il sapiente parla quando ha finalmente trovato la forma verbale più chiara per esprimere la verità, proprio come un dio: oracoli ed enigmi appartengono allo stesso genere. Dove il concetto di chiarezza non è quello cartesiano delle “idee chiare e distinte”, perché la mente del vate, del poeta, del sacerdote, del filosofo non ha nulla a che fare con l’Io penso del “cogito moderno”, mente finalizzata soprattutto all’analisi, alla distinzione, alla divisione: la mente del vate era rivolta alla sintesi, a riuscire a connettere con- temporaneamente molti piani e diverse antinomie. • La conoscenza è come un lavoro di tessitura e di cucitura di pezzi diversi: è l’intreccio dei nodi, la trama del tessuto, l’ordito del disegno... non è un procedere dritto e veloce come una freccia, ma un giro tortuoso e curvo. Per raffigurare l’oracolo o l’enigma gli artisti usavano il segno della spirale, dalla quale con una elaborazione più complessa derivarono l’immagine del labirinto: entrambi ricorrono frequentemente nel “mito” con funzioni espressive particolari. Della spirale e del suo significato ne conserviamo una traccia nel nostro “punto interrogativo” (?), un segno grafico che utilizziamo nella scrittura per segnalare che si tratta di una domanda, di una richiesta. Noi lo mettiamo alla fine della proposizione. In spagnolo lo si mette, capovolto, anche all’inizio della frase. 1. Una delle raffigurazioni pittoriche più antiche dell’incontro di Edipo con la Sfinge è disegnata in una coppa attica del V sec., conservata nei Musei Vaticani. La scena è composta proprio attorno al momento dell’enunciazione dell’enigma. L’anonimo artista pone la Sfinge al centro della composizione, seduta su una colonna ionica in modo che la sua coda di serpente tracci nell’aria il segno di una spirale, che viene ulteriormente ripreso nel motivo ornamentale sottostante. La Sfinge, in posizione dominante, ha lo sguardo rivolto a Edipo, che nello specifico non sembra affatto intimorito: la sicurezza che dimostra attraverso la postura (comodamente seduto, con le gambe accavallate, il bastone poggiato sul corpo, la mano che accarezza la barba, il cappello del viandante in testa) suggerisce a chi guarda che l’esito della sfida sarà a suo favore. • Spirale = serpente . Il suo attorcigliarsi in cerchi concentrici e il suo snodarsi fino a diventare una linea sinuosa, che velocemente fugge sul terreno ne fanno fin dall’antichità un animale sacro. Già simbolo della vita e della morte nella cultura egiziana – Il suo veleno uccide, la sua pelle cura – diventerà presso i greci, attorcigliato attorno a un bastone, il simbolo della medicina di Esculapio. 2. Fra gli artisti che successivamente riprenderanno il tema di Edipo e la Sfinge va citato Ingres (1806), che invertendo le rispettive posizioni (Edipo al centro in atteggiamento arcuato, la Sfinge rintanata nel suo scuro rifugio) sembra suggerire l’inversione dell’enigma: chi interroga chi? Siamo proprio sicuri che Edipo ha risolto l’enigma della Sfinge? E con esso tutti gli enigmi della propria esistenza? 3. De Chirico (il cui quadro del 1968 compare sulla copertina) ci restituisce graficamente una lettura interessante del mito. La figura di Edipo rimane al centro della composizione, ma il suo sguardo non è rivolto alla Sfinge: immerso nei propri pensieri, manichino senza occhi, senza bocca, senza orecchie, privato della vista ma anche della parola sembra quasi non accorgersi delle 6 grandi spirali che invadono la scena: il loro numero evoca l’enigma posto dalla Sfinge (3 domande) alle quali Edipo darà 3 risposte, ma la loro presenza sembra andare al di là dell’evento mitologico. La loro forma allude a minacciosi serpenti, ma potrebbero anche sfumare in motivi puramente ornamentali. Un tempo gli enigmi riguardavano le grandi questioni della vita e della morte. Già alla fine del V secolo, quando la visione del mondo diventa sempre più “antropocentrica” e il mithos viene interamente sostituito dal logos, oracoli ed Edipo nasce dall’odio; Laio lo odia; la nascita di Edipo è morte: Edipo nasce ed è esposto con le caviglie forate per farvi passare la cinghia. Edipo vive una “agonia primitiva” quel buio fatto di sensazioni, percezioni che non rimandano ad alcun suono. L’angoscia di annientamento lo sovrasta, ma non può percepire e pensare emozioni senza nome che lo sommergono; la sua mente, la mente conscia non le registra, pur se la psiche è offesa. Edipo sembra conservare l’esperienza ma non la sua rappresentazione: è possibile parlare di esperienza/non esperienza perché è accaduta/non accaduta. Perché non è registrata! Vissuto di pericolo, angoscia e presenza dell’altro sono i vertici dell’esperienza traumatica ed Edipo sembra provare tutto ciò: la sua rabbia sembra trovare un nome “chi è la mia radice?” – dice Edipo a Tiresia. Il trauma infantile interno si incontra con un evento imprevedibile e sconvolgente e diviene trauma adulto in cui l’angoscia senza nome è sostituita da una angoscia che assume forme dicibili in cui è possibile utilizzare difese quali il diniego, la depersonalizzazione, la derealizzazione. Il trauma adulto ha una ricaduta su quello infantile. Collassa su questo e sullo schermo della vita si disegnano immagini di morte, violenze, abusi. Edipo racconta dell’irruzione del trauma, del suo ingresso in una angoscia con un nome: Io come padre ebbi Polibo. Laggiù contavo molto io. Poi mi cadde addosso un fatto: mi dà voce in mezzo al bere che sono figlio falso io. Per me fu una mazzata. Quel giorno soffrivo ma mi tenni. Il seguente andai dalla madre, dal padre e facevo domande. Fu brutto colpo l’insulto se la presero con chi aveva gettato là quella parola. Mi fece piacere vederli così. Ma per me era un trapano fisso: si incuneava più fondo. Prendo la strada di Delfi. Il fatto traumatico si impone sul sé, nel suo andare per Delfi incontra oggetti confusi, parziali (la sfinge). Così racconta dell’oracolo: “penetrare mia madre, far sorgere vite, una carne, ostica all’occhio dell’uomo, farmi assassino del padre che fu mia radice”. Edipo forse racconta del suo voler intrudere nel corpo della madre, del volerla possedere o del voler essere dentro lei in un tornare confuso allo stadio originario. Edipo è in contatto con una esperienza confusiva. Nel dialogo con Giocasta egli sembra aver compreso la verità, ma successivamente, appreso della morte di Polibo, dice “ma come non fu la mia radice?”. Tale affermazione colpisce il lettore che si trova immerso nella stessa esperienza confusiva, negante, in cui ha bisogno di trovare il falso e il vero che sembrano essere divenuti uguali. GIOCASTA E LA VISIBILITÀ Giocasta è donna apparentemente capace ed evoluta, razionale e protettiva. Una protezione che lascia il posto al controllo, alla protezione per sé stessa. Giocasta è assai simile a quelle madri che vivono in una relazione fusionale con il figlio, una fusionalità che è arcaica, possessiva, violenta e che non lascia spazio al padre—> Vuole un figlio e lo concepisce con inganno impossessandosi di Laio (ha un figlio da Laio facendolo ubriacare—> esercita una sorta di controllo sulla sua procreatività). In Giocasta si rivedono le madri arcaiche, primitive e spesso mostruose rappresentate dai bambini abusati. A cosa è legata la mostruosità? Ad una madre arcaica o alla mostruosa rappresentazione di una coppia genitoriale come figura combinata? O meglio la mostruosità è legata ad un inconsistente processo di differenziazione preedipica fatta di oggetti parziali che si muovono su angosce schizo-paranoidi? “Identico seno racchiuse padre e figlio”: può forse essere letto anche in tal senso cioè dentro alla mostruosità ed all’indifferenziazione psicotica capezzolo-pene. Per Gaddini il padre è il secondo oggetto, sperimentato come una serie di cambiamenti nel solo oggetto che conosce: la madre. Questa è presente in una immagine tremendamente ingrandita, con quattro arti. L’immagine di una coppia genitoriale combinata prevale su quella di un padre violento. Giocasta nei suoi tratti sembra avere caratteristiche paterne e materne insieme. Detiene un segreto, ma ne è confusa, non vuole vedere la realtà, la nega, blocca più volte Edipo, lo induce alla colpa, lo definisce malato: Edipo esagera. S’impenna il cuore suo, rovente, in rifrangersi d’angosce. Non decifra coi fatti del passato il nuovo oggi con buonsenso, anzi è preda di voci che ode; basta che sia voce di spettri paure. Edipo deve bloccare con forza Giocasta, rompendo il suo legame per poter conoscere la verità, “uno schianto” che potrà renderla possibile. Attraverso un complicato e penoso processo di ricerca e di conoscenza Edipo raggiunge la visibilità di ciò che non può essere visto e la dicibilità di ciò che non può essere detto. Come Michele, il personaggio del libro di Ammanniti, “papà era l’uomo nero... buono di giorno e cattivo di notte” Michele, come tanti altri bambini, deve separarsi/individuarsi per giungere alla verità: egli deve riconoscere un padre esterno reale. Ed Edipo è riuscito a portare a termine la sua individuazione? La rottura del segreto dà una svolta alla storia, ma Edipo resta imprigionato in luoghi oscuri della mente, invaso dalla colpa e dalla vergogna: io sono contorto, spezzato... liberatevi dalla cancrena grave. Anche per gli Dei io sono massimo disgusto vivo, devi esiliarmi, farmi senza patria. Ora Edipo vaga in cerca di un luogo, di un luogo della mente... Passa tra bagni purificatori, si libera dalle scorie, ma l’odio ritorna ed Edipo ripropone la sua storia: ripudia, maledice, profetizza al figlio una fine miseranda, mentre forte è il legame con le figlie. Edipo è nel claustrum, in un luogo buio in cui forse la storia si ripete e fuori da sé troverà spazi di luce. La colpa, la vergogna, il voler fuggire non dagli altri ma da sé, il non potersi guardare, il non poter vedere per non essere soli si ripetono. LA STORIA DI ROBERTA La madre di Roberta si sposò a quattordici anni, con un uomo di dieci anni più grande di lei. Nonostante gli avvertimenti da parte dei familiari circa il fatto che l’uomo aveva abusato di una sua cugina, la madre di Roberta, quando vede la figlia allontanarsi e rifiutare il padre si arrabbia con lei, non sospettando del marito. Gli incontri tra lo psicologo e Roberta furono caratterizzati da lunghi silenzi interrotti da una voce flebile e angosciata che ripeteva quasi a se stessa “non posso... ricordare mi fa stare male... non voglio più pensare”. Il suo sguardo spento era sempre rivolto verso il basso, io vedevo le sue palpebre muoversi come se seguisse con gli occhi delle immagini. Immagini indicibili, piene di vergogna e di colpa: “io non sapevo che potevano succedere queste cose... ero troppo affezionata a lui. Ho sbagliato a farmi lavare da lui ma lui diceva che non dovevo avere vergogna. La nonna mi diceva che aveva abusato di mia cugina ma io non la capivo e nessuno mi spiegava e poi mi dicevano che era cambiato, mi voleva bene mi coccolava. Poi è successo. Voglio andare in collegio, voglio morire: anch’io l’ho baciato, anch’io ero là con lui.” L’impensabilità del trauma dell’incesto rende ognuno di noi assai simile agli abitanti di Colono: cerchiamo di allontanare da noi l’untore. L’odio Transgenerazionale. Figlicidio e parricidio di GIUSEPPE RANIOLO Il mito di Edipo, nella versione in cui ci è stato tramandato da Sofocle, è divenuto centrale nella nostra civiltà. Noi ci riconosciamo nelle sue vicende, soffriamo per lui, ci indigniamo ancora per la sua miserevole sorte. Edipo che si interroga sulle sue origini e che non demorde dalla ricerca pur conoscendo i rischi che comporta, ci costringe a prendere atto che il desiderio di conoscere convive con il timore di sapere: • Il desiderio di conoscere da solo rischia di trasformarsi in arroganza; • il timore di sapere in stupidità. Andrè Green ci ricorda che ciascuno di noi è certamente un Edipo, secondo l’espressione di Freud, non solo per avere commesso il parricidio e l’incesto, con il desiderio se non con l’azione, ma anche per il nostro accanimento nel negarlo dopo l’infanzia. Ma ciascuno di noi può, proprio perché il mito si offre alla narrazione e alla rappresentazione, trovare un’area in cui elaborare e dare senso ai desideri più riposti che altrimenti avrebbero solo l’azione come possibilità di espressione. Come sostiene Jean Starobinski la storia della specie non è fatta soltanto di apporti e di conquiste, ma anche di negazioni, di rifiuti, di rimozioni; e la possibilità del progresso, per la specie come per l’individuo, ha come condizione che il rimosso non conservi un’energia autonoma eccessiva. Una funzione mitopoietica integra, una capacità di creare sogni sognati dalle comunità e dalle stesse narrate e tramandate, come sono i grandi miti, può aiutarci a contenere e trasformare questa energia autonoma eccessiva. Un mito vive nella sua unità, nessun elemento da solo può sostituirlo o condensarlo. Tuttavia è possibile, in un gioco di prospettive, di punti di vista, di vertici, leggerlo a partire da un suo elemento. In questa breve nota ho posto i vertici del parricidio e quello, più trascurato nella letteratura psicoanalitica e ignorato dallo stesso Freud, del figlicidio al centro dell’analisi. Scrive Schinaia che “nella genealogia di Edipo i padri sono assenti, spesso concretamente assenti”. Polidoro muore quando Labdaco era ancora un bambino; Labdaco, padre di Laio muore quando Laio non ha che un anno; “in entrambi i casi manca un padre che accompagni il figlio fino all’adolescenza, che ne segua la crescita fino alla maturazione sessuale”. È come se Labdaco e Laio, con il loro venire al mondo, avessero determinato la morte dei propri padri. Sarà così inevitabile per Laio ritenere che la condizione stessa di padre lo possa portare alla morte. • La predizione dell’oracolo può essere letta come il riconoscimento della incapacità di Laio ad essere padre. Del resto lo stesso Laio aveva scelto, in un primo tempo, come suo oggetto del desiderio, un ragazzino, Crisippo, causandone la morte (secondo alcune versioni del mito), quindi ponendo la propria sessualità al di là di ogni intento procreativo e dando prova di confondere sia i sessi che le generazioni. • Anche Edipo non vedrà in Giocasta chi avrebbe potuto essere sua madre per differenza di età e nell’uomo incontrato al trivio chi avrebbe potuto essere suo padre sia per età e sia per prestigio. • Neanche Giocasta vedrà in Edipo chi avrebbe potuto essere suo figlio e il nome e i segni sul corpo del suo giovane marito non la faranno trasalire che a riconoscimento avvenuto per esclusivo volere di Edipo. Andrè Green si chiede se Edipo abbia voluto veramente sfuggire al suo destino visto che questo desiderio avrebbe dovuto renderlo circospetto di fronte ad ogni situazione che l’avesse messo in conflitto con un uomo in età d’essere suo padre e di fronte ad ogni relazione sessuale con una donna in età di essere sua madre, e tutto ciò dato che il dubbio che Polibo e Merope non fossero i suoi veri genitori si era insinuato nella sua mente. Sono legati, Labdaco, Laio ed Edipo, da un destino simile dal quale non riescono ad affrancarsi. Ognuno di loro vive o teme di essere costretto a vivere al posto del padre e a causa della sua morte e ognuno di loro porta questo legame inscritto nel nome, infatti Lévi Strauss afferma che Labdaco significa zoppo, Laio mancino ed Edipo piedi gonfi. Le prime due etimologie vanno accolte con riserva, giacchè il significato di parecchi nomi propri della mitologia greca rimane controverso. Tuttavia è interessante osservare che, se l’etimologia è corretta, a nessuno di loro si addice l’enigma della Sfinge proprio a causa della comune infermità. Raskovsky è uno degli studiosi che mette in evidenza la negazione massiccia, nella storia dell’uomo, delle tendenze figlicide originarie che provocherebbero, per identificazione, gli impulsi parricidi. Quindi i figli parricidi sarebbero spinti a commettere il delitto, non solo dalla situazione edipica ma da un odio paterno introiettato e fatto proprio dal figlio. Ma andiamo per gradi. • Il dramma di Edipo è quello di un bambino odiato dal padre e non desiderato dalla madre: per via dell’oracolo, i due genitori ordinarono ad un servo di uccidere Edipo di soli 3 giorni • L’oracolo non imponeva a Laio di uccidere il bambino. Esso si limitava ad affermare che proprio quella coppia avrebbe messo al mondo un figlio parricida. Entrambi, decidono di fare coincidere la sua nascita con la morte. Nessun dolore, nessun rimpianto. Durante la gestazione quali fantasie di morte, hanno vissuto entrambi? Che vissuto hanno avuto del feto che intanto cresceva? Lo avranno identificato con un mostro, un vampiro, un assassino. • Laio e Giocasta vivono un accoppiamento mortifero in cui non c’è spazio per la genitorialità. Del resto Laio non ha alcun modello paterno al quale riferirsi. Non così sarebbe per Edipo che, adottato, porta dentro di sé l’idea di una amata coppia, Polibo e Merope, che lo ama e che gli avrebbe permesso di confrontarsi con le sue fantasie incestuose e parricide se non fosse che una ferita originaria, attestata, come dice il nunzio, dalle giunture perforate dei suoi piedi, una ferita inferta ben prima di potersi confrontare con il tema del desiderio edipico, condiziona irrimediabilmente la sua originaria cesura-relazione io-mondo. Quando il nunzio ne fa menzione Edipo esclama Ahimè, perché ricordi quest’antica sventura? Ed è fondamentale, per la comprensione della vicenda edipica, constatare che il diniego, meccanismo di difesa eminentemente psicotico, ha trovato uno spazio enorme nella vita di Edipo. Egli non ha visto, nelle sue deformità fisiche l’esito di una violenza fondamentale e non ha riconosciuto nel suo nome la relazione con le cicatrici che porta e con il motivo delle stesse. Il nunzio gli ricorda che da questa sorte Edipo ebbe il nome e dunque il suo stesso nome lo fa riconoscere come un esposto, condannato a morte. • Edipo vede le sue cicatrici e, contemporaneamente non le vede, sente il suo nome e lo dice ma non ne comprende significato e relazione e non chiederà mai a nessuno alcuna spiegazione. Diniego, quindi, ma anche menzogna, bugia, segreto, stanno dietro il parricidio. Ci si riferisce qui a Polibo e Merope che amarono sì Edipo ma gli negarono la conoscenza delle origini, la verità dell’adozione, la circostanza della sterilità della coppia. Edipo nato per morire, sarebbe rinato all’interno di quella coppia e per quella coppia se la verità avesse accompagnato la sua esistenza. L’oracolo, che lo voleva parricida e incestuoso, infatti non si riferiva alla coppia adottiva. L’oracolo è veritiero nella misura in cui sono menzogneri gli uomini. Si ricorda che vedere per i greci è sapere, per questo erano chiamati [...] il popolo dell’occhio. Ciò che è nascosto va tolto dalle tenebre dell’invisibile e portato alla luce. La distanza che separa e tiene unito questo spazio genera la possibilità stessa della conoscenza. • Proprio in ciò sta l’essenza della tragedia, in quanto presuppone che due mondi, due logiche, quello del visibile e quello dell’invisibile entrino in comunicazione tra loro. Proviamo a cercare in Omero, in Tiresia, in Edipo. 1. Si racconta che Omero, fermo, davanti la tomba di Achille, volle vedere l’eroe con le armi scintillanti fabbricate da Efesto, splendenti più della vampa del fuoco. Il bagliore lo accecò. Omero voleva vedere. Quindi avrebbe saputo ciò che veniva velato. Il disvelamento, nello sguardo, di ciò che è nascosto, riguarda la verità. Così nascondersi costituisce per i greci, l’equivalente del divenire invisibile per un dio, e questo rappresenta un modo di interpretare il cavallo di Troia. Omero desidera vedere le armi lucenti di Achille perché in esse è inscritta la verità. Ma lo splendore di ciò che si manifesta intensamente alla luce, oscura la vista. Il manto screziato dello scudo di Achille costituisce la membrana che lega e divide il visibile e l’invisibile. Esso è abbagliante come il pensiero degli dei. 2. Tiresia accecato per avere anche lui visto ciò che non doveva vedere, la madre e la dea Pallade in una circostanza che egli non aveva previsto, né voluto; vide ciò che non era lecito: chiunque veda uno degli immortali quando non lo ha scelto il dio stesso, a grave prezzo pagherà di averlo visto. Tiresia viene dunque ricompensato dagli dei con il dono di un sapere che includeva tutto il passato, il presente ed il futuro. 3. Edipo è lo svelamento dell’enigma: l’invisibile (tò afanés). Qual è l’essere che è tripede bipede e tetrapode? La risposta è l’uomo ed è contenuta in Edipo. Edipo, colui che ha il piede fasciato. Applicando un processo bi-logico: l’enigma è l’uomo, l’Edipo è nell’uomo. La sete di conoscenza dunque per Omero, Tiresia ed Edipo. La relazione con il mondo è fondata su ciò che si vede, per un popolo che lega la conoscenza alla vista, il rapporto con la realtà diviene tragico. L’invisibile diventa un ostacolo alla conoscenza e quindi va disvelato—> la verità è il disvelamento di ciò che è nascosto . Essere dunque panottici, volere vedere tutto e tutti, attiva un conflitto insanabile, poiché il movimento dell’apparire, condensato nello sguardo, è possibile solo in quanto emersione del nascondimento. • Le parole, vero (aletes) e invisibile (adelon) sono al tempo stesso speculari e contrapposte . Ma il loro collegamento è evidente: • la negazione del nascondimento ne certifica l’esistenza; • la differenza tra un pensiero vero e una bugia consiste nel fatto che il pensatore è logicamente necessario per la bugia ma non per il pensiero vero. Non è necessario che qualcuno pensi il pensiero vero: esso aspetta l’avvento del pensatore che acquista significanza attraverso il pensiero vero. La bugia e il suo pensatore sono inseparabili. Il pensatore non ha importanza per la verità, ma la verità è logicamente necessaria al pensatore l’assunzione tacita di Descartes che i pensieri pre- suppongano un pensatore è valida soltanto per la bugia. Se è vero ciò che è visibile, è pure vero che la verità (aleteia) ha origine in ciò che non si vede. • È dunque l’essenza ambigua della verità che lega dall’inizio il visibile, all’invisibile. E questa è una tragedia in quanto l’invisibile diventa l’ombra del visibile. L’uccisione del padre diventa una persecuzione, l’ombra di Edipo. L’ombra è la parte oscura, cioè l’invisibile della verità. Ma l’ombra nel contempo, pur restando ombra diventa conferma. L’ombra è dunque rassicurante, perché conferma una realtà, quella visibile. Immaginiamo il contrario: il terrore di vedere l’ombra, cioè l’invisibile, senza la realtà, come per esempio il vampiro. Possiamo accettare la realtà senza ombra, man non il contrario. Si accetta la morte del padre ma non l’idea di ucciderlo. Sarebbe alquanto economico, nel viatico dell’espiazione, fermarsi nel mezzo del giorno o della notte, per non vedere l’ombra. Se lo sguardo posandosi su tutto ciò che è visibile, apparente, diventa fallace, Edipo per cogliere la verità deve chiudere gli occhi alle cose visibili. La vista del corpo si offusca per vedere il mondo interno . L’analisi attiva l’introspezione perché rimane invisibile. La parola diventa dunque svelamento, risale dall’abisso per essere svelata. E la parola che ricade, lapsus, attiva un movimento semantico ancora più imprevedibile, diventa essa stessa, aleteia, cioè verità. È difficile dunque comprendere l’eleganza essenziale del linguaggio di Sofocle, senza tener conto del suo immane tentativo di mettere in armonia due opposte dinamiche: umanizzare il divino e divinizzare l’umano. Si riporta un dato storico che funge da lyason tra il mito e la tragedia sofoclea con il bosco di Colono. • Diodoro Siculo descrive che ad Engyon, città fondata dopo la caduta di Troia, le dee chiamate Madri sono responsabili della sacralità del bosco che circonda la città. Gli uomini di Engyon, l’attuale Troina, poco di distante da Apollonia, l’attuale San Fratello, a tutt’oggi, la penultima domenica di maggio, si radunano in gruppo per iniziare un viaggio nel bosco, in un luogo da sempre ritenuto sacro, e svolgono, una singolare processione, chiamata la festa dei rami o ramada. Dopo due giorni di contatto e di unione panica con la natura, fanno ritorno in paese a cavallo, tutti ricoperti e bardati, uomini e bestie, di alloro, che viene distribuito agli abitanti. Con l’alloro, si adornano i balconi e case. Oggi diventa corollario per la festa di San Silvestro, patrono di Troina. Riporta Bion, cambiano le religioni ma non il bisogno di religione. Torniamo a Sofocle. Edipo si ferma a Colono, nel bosco sacro alle Euminidi, le dee benevole, si ferma ed attende. È giunto de finibus terrae, come si nomina ancora oggi, l’ultimo lembo della Messapia, alle porte della candida Leuca. Uno spazio dunque inaccessibile sia agli uomini sia agli eventi atmosferici, un luogo non luogo, uno spazio ectopico, l’idea di un tempo senza fine e soprattutto senza che subisca i cambiamenti, un luogo sacro. Edipo condannato e al contempo protetto dagli dei. È noto che Edipo, invece di togliersi la vita, si era privato unicamente degli occhi, perché dice di non sapere con quali occhi avrebbe potuto mirare il padre e la madre, contro i quali aveva commesso delitti orribili, qualora egli fosse disceso nell’Erebo, fornito della vista. La necessità dell’espiazione dopo la colpa, l’esistenza di una vita spirituale oltre la tomba, e la persistenza immortale dell’anima umana; idee tutte abbracciate da Sofocle. Se si lega la conoscenza alla vista, il rapporto con la verità si trasforma in tragedia. • L’invisibile è ostacolo alla conoscenza, così la verità è il disvelamento di ciò che è nascosto. • Ciò che si vede è vero, in quanto viene alla luce, ma il movimento dell’apparire, condensato nello sguardo è possibile solo in quanto emersione dal nascondimento. • Se è vero ciò che è visibile, è pure vero che la verità ha origine in ciò che non si vede, l’invisibile è l’ombra del visibile. È opinione diffusa che Edipo viene punito per la hybris, la sua perdita di misura, il suo volere conoscere oltre i limiti umani. Più per l’incesto, Edipo viene punito per la tensione epistemofilica per l’arroganza del sapere. Basterebbe chiudere gli occhi. Il superamento dei limiti da parte di Edipo appare indubbio, è la sua equiparazione con Tiresia, allorchè vede nuda Atena. L’ardire conoscitivo avvicina Edipo agli dei piuttosto che portarlo in un insanabile conflitto con loro. • Aprire gli occhi: verità umana. • Chiudere gli occhi, verità divina. Edipo dunque oltrepassa il limite invalicabile che separa lo sguardo differenziato e differenziante sulla realtà, da quello indifferenziato. È secondo Matte Blanco il passaggio dall’asimmetrico al simmetrico, anticipa la simassi. Chiudere gli occhi per tornare all’unico luogo in cui è possibile trovarsi ad occhi chiusi, un’esperienza conosciuta, ma non pensabile. Il tentativo di Edipo di gettare luce sulle proprie origini, d’impadronirsi conoscitivamente del luogo della sua nascita, dov’è stato prima, impresa impossibile. • Così si definirebbe questa hybris conoscitiva, volere differenziare ciò che è, e deve restare indifferenziato, in quanto luogo infinito, in quanto topos senza coordinate spazio-temporali. La nascita equivale alla morte. Il massimo che la coscienza umana può fare, è lasciare entrare al suo interno le infinite dimensioni dell’essere simmetrico ma la coscienza può trattare solo con poche dimensioni alla volta. Chiudere gli occhi è anche la misura di precauzione per non farsi accecare da una troppo abbagliante verità . Edipo deve chiudere gli occhi di fronte alla violenza dell’ineffabile, ma questa rinuncia allo sguardo, gli consente di vedere l’invisibile. La lacerazione è ricomposta, anche se la castrazione (Edipo si è accecato da sé) resta come aporia incancellabile, cioè una modalità inaccettabile in quanto bi-logica, e dunque doppiamente traumatica per l’identità. Si può commentare che il desiderio di Edipo come il vedere ciò che è invisibile, sia anche il vedere la verità. Ritorna la frenesia conoscitiva che si acquieta solo con la morte, dunque tensione epistemofilica per eccellenza. Oidi-pous, di chi è il piede gonfio? è il pene del padre? è il pene che il figlio trova nella madre? o forse, è il figlio neonato, che è grande come un piede gonfio, e vuole tornare dove stava con gli occhi chiusi? È però anche l’enigma della sfinge: essere tripode, bipede, tetrapode. Essere uno e l’altro, una classe in un’altra, dunque essere figlio, bambino e padre, marito e figlio, figlio e padre dei figli di cui è anche fratello. A vedere bene, l’enigma della madre-sfinge è anche l’enigma del volto materno che per primo riflette la nostra esperienza e che può restituire un’alterità, separatezza oppure, ignorandola, la può annullare. È il piano cui, per la madre come per il figlio, la separazione non diventa realtà. L’Edipo a Colono lacera il campo della coscienza, rompe l’equilibrio instabile tra asimmetria e simmetria, cioè tra ragione e sentimenti, disarciona il legame con ciò che regge il rapporto con la realtà e costituisce un ossimoro arcaico. La tragedia di Sofocle è una parte tragica della commedia della vita. Il coro dice: la sorte migliore è non nascere. Si ricorda che il teatro, per Siracusano è un protomodello dello stato mentale, un modello di pensiero arcaico dove il sogno, la fantasia più pura, un misterioso senso estetico, l’orrido, il mostruoso, l’affettività più esplosiva si mescolano in forme, grandezze e dimensioni le più disparate. Edipo accecò i suoi occhi che avevano visto ciò che non dovevano, e non avevano saputo vedere ciò che avrebbero dovuto. Così Edipo divenne cieco per vedere, visse per espiare. Si sprofonda nell’abisso delle contrapposizioni: giustizia/ingiustizia, colpa/innocenza, speranza/disperazione, luce/buio, vedere/non vedere, capire/non capire, visibile/non visibile, udito/inaudito, straniero/conterraneo, selvaggio/domestico, dentro/fuori. Un pensare magma che non conosce confini, la simmetria senza limiti. Bion considera come oggetto centrale di Edipo la sua superbia, arrogance, e ipotizza l’esistenza di legami di natura non libidica tra individuo e gruppo, dopo aver prospettato la convenienza di percepire i fenomeni di gruppo contemporaneamente e come centrati sulla situazione edipica [e come] centrati sulla sfinge e collegati al problema della conoscenza e del metodo scientifico. Il tipo di pensiero che caratterizza l’emozione edipica è proprio quello che si chiama pensiero simmetrico. Risulta, allora, maggiormente comprensibile lo stretto legame che unisce il pensiero bivalente, all’emozione: perché è lo stesso legame che tiene insieme pensiero asimmetrico e pensiero simmetrico, logica razionale e logica dell’inconscio. Matte Blanco ci invita però a chiarire e approfondire un dato: all’interno dell’emozione regna il principio di simmetria ed ogni emozione definisce un territorio limitato all’interno del quale vi è un insieme infinito. Questo è un esempio, continua Matte Blanco, di ciò che si è proposto di chiamare insiemi infiniti intensivi. • Il regno dell’emozione non è il regno di un solo insieme infinito, ma di numerosi insiemi infiniti. Emozione ed inconscio, nella loro totalità, sono strutturati sia come insiemi infiniti o oggetto bi-logico, partecipe quindi della dimensione finita della coscienza e di quella infinita dell’inconscio, sia come oggetto bi-simmetrico. Si evince che l’introduzione del principio di simmetria in un dato insieme provoca alterazioni della struttura logica abituale. Si ricorda che questo principio, così semplice e tuttavia così pregno di significati, ha reso possibile descrivere in modo logico e comprensibile tutte, proprio tutte, le manifestazioni in cui il pensiero psicotico e l’inconscio si discostano dalle regole della logica bivalente. Il pensiero logico, razionale e asimmetrico coesiste con il pensiero mitico, irrazionale e simmetrico. Sono essenzialmente aspetti diversi, ma complementari, del funzionamento della mente. La struttura mentale, considerate le differenze emisferiche e le interconnessioni, può essere rappresentata, come una struttura formata da cinque diversi strati. • 1° strato: si trovano pensieri catalogabili, ben circoscritti, definiti e correlati a fatti concreti, luogo della logica bivalente ove il il fiume è il fiume, la moto è la moto, volare è volare • 2° strato: in cui si trovano stati emozionali più o meno coscienti ed incominciano ad essere presenti le prime blande simmetrizzazioni. È il piano della metafora che rimane ancora tale per l’individuo; posso dire di avere una fame da lupo ma sono pienamente in grado di distinguere e di riconoscere che non sono un lupo; l’innamorato all’innamorata: ti mangerei di baci, essendo ben consapevole del limite antropofagico. • 3° strato: le quote di simmetria aumentano e gli oggetti appartenenti alle stesse classi di equivalenza diventano identici. Ogni membro della classe diventa identico a tutti gli altri, è il luogo della simmetrizzazione, l’intensità emotiva tende ad avere valori infiniti. La mente tende a formare classi d’identità sulla base di singole caratteristiche: è il luogo ove uno è uguale ad un altro in quanto è presente una classe di appartenenza, per esempio se una persona malata indossa il pigiama, tutti i pigiami vengono indossati da persone malate.
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