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Primo capitolo dei promessi sposi, riassunto e testo, Appunti di Letteratura Italiana

testo, riassunto e spiegazione con foto del primo capitolo dei promessi sposi.

Tipologia: Appunti

2015/2016
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Caricato il 25/11/2016

Ilenia.Urbano
Ilenia.Urbano 🇮🇹

4.1

(17)

11 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Primo capitolo dei promessi sposi, riassunto e testo e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Capitolo I G. Mantegazza, Don Abbondio e i bravi Personaggi: Luoghi: Tempo: Temi: Trama: Don Abbondio Il paese 7 novembre 1628, sera La giustizia Descrizione minacciano di non celebrare il matrimonio. La giustizia e le gride. Descrizione del curato. Don Abbondio torna a casa e rivela tutto a Perpetua, che gli dà i suoi consigli. Il curato impone alla donna di non riferire nulla di quel che sa. "Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l’aspettato era lui. Perché, al suo apparire, coloro s’eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt’e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s’era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l’altro s’era staccato dal muro; e tutt’e due gli s’avviavano incontro..." Inizio del romanzo: i luoghi della vicenda Il lago di Como ha due rami e quello che si volge verso sud si stringe fra due catene montuose, acquistando per un breve tratto il corso di un fiume, specie nel punto dove le due rive sono unite dal ponte di Lecco. Poco più a valle il lago torna ad allargarsi e la riva si distende tra il monte di S. Martino e il Resegone, con un profilo rotto in collinette e piccole valli, mentre tutt'intorno vi sono vigne e campi coltivati. Lecco è la città principale di questa regione ed è sede, al tempo della vicenda narrata, di un castello che ospita una guarnigione di soldati spagnoli, spesso intenti a molestare le donne del luogo e a maltrattare i contadini, quando non depredano i raccolti della vendemmia. Tra le alture e la riva del lago, così come tra le varie colline, si snodano strade che talvolta scendono fra due muri infossati nel suolo e in altri casi si alzano su terrapieni, consentendo a chi vi cammina di vedere un ampio tratto di paesaggio: i luoghi da cui si ammira questo spettacolo sono da ammirare a loro volta, in quanto mostrano il profilo variabile delle cime dei monti che tempera e raddolcisce il carattere in parte selvaggio della natura. Don Abbondio incontra i bravi Per una delle stradine descritte, la sera del 7 novembre 1628, torna a casa dalla passeggiata don Abbondio, curato di un paesino di quelle terre il cui nome non è citato dall'anonimo, così come non è specificato il casato del personaggio. Il curato cammina lentamente e con fare svogliato, recitando le preghiere e tenendo in mano il breviario, mentre alza di quando in quando lo sguardo e osserva il paesaggio, oppure prende a calci i ciottoli sulla strada. Oltrepassata una curva, percorre la strada sino a un bivio alla cui confluenza è posto un tabernacolo, che contiene immagini dipinte di anime del purgatorio: Veduta del Resegone, sul lago di Como qui, con sua grande sorpresa, vede due uomini che sembrano aspettare qualcuno, il primo seduto a cavalcioni sul muretto e l'altro in piedi, appoggiato al muro opposto della strada. Entrambi indossano una reticella verde che raccoglie i capelli e hanno un enorme ciuffo che cade loro sul volto; portano lunghi baffi arricciati all'insù e due pistole attaccate a una cintura di cuoio; hanno un corno per la polvere da sparo appeso al collo e un pugnale che emerge dalla tasca dei pantaloni, con una grossa spada dall'elsa d'ottone e lavorata. Don Abbondio li riconosce immediatamente come individui appartenenti alla specie dei bravi. I bravi, le gride, la giustizia Ma chi erano in effetti i bravi? L'autore cita una grida dell'8 aprile 1583, emanata dal governatore dello Stato di Milano che minacciava pene severissime contro tutti quei malviventi che si mettevano al servizio di qualche signorotto locale per esercitare soprusi e violenze, intimando a costoro di lasciare la città entro sei giorni. Tuttavia il 12 aprile 1584 lo stesso funzionario emanò un'altra grida in cui si minacciavano pene ancor più severe contro tutti quelli che avevano anche solo la fama di essere bravi, e il 5 giugno 1593 un altro governatore fu costretto a emanarne ancora un'altra con reiterate minacce, seguita da un'altra datata 23 maggio 1598 in cui si ribadivano pene severissime contro i bravi che commettevano omicidi, ruberie e vari altri delitti. La serie interminabile di gride prosegue con un provvedimento datato 5 dicembre 1600 ed emanato da un nuovo governatore di Milano, che minacciava nuovi tremendi castighi contro i bravi (anche se, osserva ironicamente l'autore, quel funzionario era forse più abile a ordire trame politiche e a spingere il duca di Savoia a muover guerra contro la Francia). A quella grida se ne aggiunsero altre prodotte da altri governatori nel 1612, 1618 e 1627, quest'ultima a firma di don Gonzalo Fernandez de Cordova poco più di anno prima dei fatti narrati; ciò basta all'autore a concludere che, ai tempi di don Abbondio, c'erano ancora molti bravi in Lombardia. I bravi minacciano don Abbondio Tornando a don Abbondio, il curato capisce subito che i due bravi stanno aspettando lui, dal momento che al vederlo essi si scambiano un cenno d'intesa e gli si fanno incontro. Il curato si guarda intorno, nella speranza di scorgere qualcuno, ma la strada è deserta; pensa se abbia mancato di rispetto a qualche potente, escludendo di avere conti in sospeso di questo genere; non potendo fuggire, decide di affrettare il passo e affrontare i due figuri, atteggiando il volto a un sorriso rassicurante. Uno dei bravi lo apostrofa subito chiedendogli se lui ha intenzione di celebrare l'indomani il matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, al che il curato si giustifica balbettando che i due promessi hanno combinato tutto da sé e si sono rivolti a lui come un funzionario comunale. Il bravo ribatte che il matrimonio non dovrà esser celebrato né l'indomani né mai e don Abbondio tenta di accampare delle scuse poco convincenti, finché l'altro figuro interviene con parole ingiuriose e minacciose. Il compagno riprende la parola e si dice convinto che il curato eseguirà l'ordine, facendo poi il nome di don Rodrigo, che riempie don Abbondio di terrore: il curato fa un inchino e chiede suggerimenti, ma il bravo ribadisce l'ordine impartito e intima al religioso di mantenere il segreto, lasciando intendere che in caso contrario ci saranno rappresaglie. Don Abbondio pronuncia alcune parole di deferenza e rispetto verso don Rodrigo, quindi i due bravi se ne vanno cantando una canzone volgare, mentre il curato vorrebbe proseguire il colloquio entrando in improbabili trattative. Rimasto solo, dopo qualche attimo di sconcerto don Abbondio prende la strada che conduce alla sua abitazione. F. Gonin, I bravi Stemma del gov. don Gonzalo F. Gonin, Don Abbondio e i bravi Di un'altra grida si parla anche nel cap. XIV, quando Renzo e il poliziotto travestito sono all'osteria della Luna Piena, a Milano: l'oste, che ha riconosciuto il poliziotto, vuole mostrarsi ligio alla legge e mostra al giovane la grida che gli impone di registrare nome e cognome di chi viene ospitato nella locanda, suscitando le rimostranze di Renzo che si rammenta di quanto poco aiuto gli avesse offerto la grida mostratagli dall'avvocato. Il giovane fa osservazioni ironiche sullo stemma di don Gonzalo de Cordova (il governatore di Milano) che campeggia sul documento e conclude con amaro sarcasmo che "comanda chi può, e ubbidisce chi vuole", mentre poco dopo anche gli altri avventori dell'osteria si uniscono a lui nel dire che le leggi "son tutte angherie, trappole, impicci". L'idea di Renzo è che la parola scritta, specie per chi come lui è semi-analfabeta e non in grado di leggere facilmente, diventa un strumento nelle mani dei potenti per esercitare soprusi e angherie sui più deboli, mentre a lui povero contadino la giustizia non è stata minimamente assicurata dall'apparato legislativo. L'inutilità delle gride verrà ulteriormente ribadita dall'autore nel cap. XXVIII, quando viene descritta la situazione a Milano seguente alla rivolta per il pane del giorno di S. Martino: il prezzo del pane è nuovamente calato in seguito a un provvedimento di legge, cosa di cui approfittano i milanesi per acquistarne in gran quantità, situazione che ovviamente non può durare a lungo a causa della penuria di grano. Il 15 novembre viene dunque emanata una grida, a firma del gran cancelliere Antonio Ferrer, che proibisce di comprare pane in eccesso sotto minaccia di severissime pene e impone nondimeno ai fornai di continuare a produrne, il che suscita l'ironia dell'autore secondo il quale "Chi sa immaginarsi una tale grida eseguita, deve avere una bella immaginazione; e certo, se tutte quelle che si pubblicavano in quel tempo erano eseguite, il ducato di Milano doveva avere almeno tanta gente in mare, quanta ne possa avere ora la Gran Bretagna" (l'allusione è alla pena della galera, ovvero l'arruolamento dei condannati come forzati sulle navi da guerra). In seguito viene deciso di aggiungere il riso nel composto del pane e se ne fissa con una nuova grida un prezzo ridicolmente basso, il che spinge anche gli abitanti del contado a venire a comprarlo in città; per arginare il fenomeno, viene emanata l'ennesima grida che proibisce di portare il pane fuori dalla città, per cui l'autore osserva che "La moltitudine aveva voluto far nascere l'abbondanza col saccheggio e con l'incendio; il governo voleva mantenerla con la galera e con la corda". Il risultato di tutto ciò è che il grano ben presto si esaurisce e si scatena una terribile carestia, che sarà poi una delle concause del diffondersi della peste nel 1630 (Manzoni riferisce di non aver trovato traccia delle gride che ponevano fine alle tariffe calmierate del pane). È interessante infine ricordare che l'espressione "gride manzoniane" è passata in proverbio a indicare provvedimenti di legge inefficaci, che minacciano pene roboanti senza trovare poi una concreta applicazione da parte dello Stato o della giustizia. Testo Capitolo I Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene [1] non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte [2], che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti [3], scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce lombarda, il , dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti, e il lavoro dell’acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d’oggi, e che s’incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore [4] d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia. Dall’una all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, F. Gonin, Renzo e l'Azzecca-garbugli secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell’acqua; di qua lago, chiuso all’estremità o piùttosto smarrito in un gruppo, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che l’acqua riflette capovolti, co’ paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra’ monti che l’accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch’essi nell’orizzonte. Il luogo stesso da dove contemplate que’ vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d’intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v’era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l’ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell’altre vedute. Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, curato d’una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del personaggio, non si trovan nel manoscritto, né a questo luogo né altrove. Diceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l’altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l’indice della mano destra, e, messa poi questa nell’altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all’intorno, li fissava alla parte d’un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov’era solito d’alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d’un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l’altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che all’anche del passeggiero. I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell’intenzion dell’artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e, alternate con le fiamme, cert’altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là. Il curato, voltata la stradetta, e Resegone dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L’abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva distinguer dell’aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d’ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’ . Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante de’ suoi caratteri principali, degli sforzi fatti per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità. Fino dall’otto aprile dell’anno 1583, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don Carlo d’Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d’Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pubblica un bando contro di essi. ... A tutti costoro ordina che, nel termine di giorni sei, abbiano a sgomberare il paese, intima la galera a’ renitenti [5], e dà a tutti gli ufiziali della giustizia le più stranamente ampie e indefinite facoltà, per l’esecuzione dell’ordine. Ma, nell’anno seguente, il 12 aprile, scorgendo il detto signore, dà fuori un’altra grida, ancor più vigorosa e notabile, nella quale, tra l’altre ordinazioni, prescrive: . Tutto ciò, e il di più che si tralascia, perché . All’udir parole d’un tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza d’un signore non meno autorevole, né meno dotato di nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario. È questi l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco, Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della Città di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di quella delli sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, etc. Il 5 giugno dell’anno 1593, pienamente informato anche lui , intima loro di nuovo che, nel termine di giorni sei, abbiano a sbrattare il paese, ripetendo a un dipresso le prescrizioni e le minacce medesime del suo predecessore. Il 23 maggio poi dell’anno 1598, (bravi e vagabondi), prescrive di nuovo gli stessi rimedi, accrescendo la dose, come s’usa nelle malattie ostinate. conchiude poi, . Non fu però di questo parere l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Pietro Enriquez de bravi pienamente informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, Dichiara e diffinisce tutti coloro essere compresi in questo bando, e doversi ritenere bravi e vagabondi... i quali, essendo forestieri o del paese, non hanno esercizio alcuno, od avendolo, non lo fanno... ma, senza salario, o pur con esso, s’appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo, officiale o mercante... per fargli spalle e favore, o veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad altri che questa Città è tuttavia piena di detti bravi... tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume loro, né scemato il numero, Che qualsivoglia persona, così di questa Città, come forestiera, che per due testimonj consterà esser tenuto, e comunemente riputato per bravo, et aver tal nome, ancorché non si verifichi aver fatto delitto alcuno... per questa sola riputazione di bravo, senza altri indizj, possa dai detti giudici e da ognuno di loro esser posto alla corda et al tormento, per processo informativo... et ancorché non confessi delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per detto triennio, per la sola opinione e nome di bravo, come di sopra Sua Eccellenza è risoluta di voler essere obbedita da ognuno di quanto danno e rovine sieno... i bravi e vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di gente, fa contra il ben pubblico, et in delusione della giustizia informato, con non poco dispiacere dell’animo suo, che... ogni dì più in questa Città e Stato va crescendo il numero di questi tali né di loro, giorno e notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e ruberie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più facili, confidati essi bravi d’essere aiutati dai capi e fautori loro... Ognuno dunque, onninamente si guardi di contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perché, in luogo di provare la clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l’ira sua... essendo risoluta e determinata che questa sia l’ultima e perentoria monizione Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano, e Governatore dello Stato di Milano; non fu di questo parere, e per buone ragioni. , dà fuori, il 5 decembre 1600, una nuova grida piena anch’essa di severissime comminazioni, . Convien credere però che non ci si mettesse con tutta quella buona voglia che sapeva impiegare nell’ordir cabale [6], e nel suscitar nemici al suo gran nemico Enrico IV; giacché, per questa parte, la storia attesta come riuscisse ad armare contro quel re il duca di Savoia, a cui fece perder più d’una città; come riuscisse a far congiurare il duca di Biron, a cui fece perder la testa; ma, per ciò che riguarda quel seme tanto pernizioso de’ bravi, certo è che esso continuava a germogliare, il 22 settembre dell’anno 1612. In quel giorno l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Giovanni de Mendozza, Marchese de la Hynojosa, Gentiluomo etc., Governatore etc., pensò seriamente ad estirparlo. A quest’effetto, spedì a Pandolfo e Marco Tullio Malatesti, stampatori regii camerali [7], la solita grida, corretta ed accresciuta, perché la stampassero ad esterminio de’ bravi. Ma questi vissero ancora per ricevere, il 24 decembre dell’anno 1618, gli stessi e più forti colpi dall’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Gomez Suarez de Figueroa, Duca di Feria, etc., Governatore etc. Però, non essendo essi morti neppur di quelli, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Gonzalo Fernandez di Cordova, sotto il cui governo accadde la passeggiata di don Abbondio, s’era trovato costretto a ricorreggere e ripubblicare la solita grida contro i bravi, il giorno 5 ottobre del 1627, cioè un anno, un mese e due giorni prima di quel memorabile avvenimento. Né fu questa l’ultima pubblicazione; ma noi delle posteriori non crediamo dover far menzione, come di cosa che esce dal periodo della nostra storia. Ne accenneremo soltanto una del 13 febbraio dell’anno 1632, nella quale l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, , per la seconda volta governatore, ci avvisa che . Questo basta ad assicurarci che, nel tempo di cui noi trattiamo, c’era de’ bravi tuttavia [8]. Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l’aspettato era lui. Perché, al suo apparire, coloro s’eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt’e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s’era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l’altro s’era staccato dal muro; e tutt’e due gli s’avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s’avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l’indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all’indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell’occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un’occhiata, al di sopra del muricciolo, ne’ campi: nessuno; un’altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti di quell’incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d’abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi. Signor curato, disse un di que’ due, piantandogli gli occhi in faccia. Cosa comanda? rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo. Lei ha intenzione, proseguì l’altro, con l’atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull’intraprendere una ribalderia, lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella! Cioè... rispose, con voce tremolante, don Abbondio: cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s’anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune [9]. Or bene, gli disse il bravo, all’orecchio, ma in tono solenne di comando, questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai. Pienamente informato della miseria in che vive questa Città e Stato per cagione del gran numero di bravi che in esso abbonda... e risoluto di totalmente estirpare seme tanto pernizioso con fermo proponimento che, con ogni rigore, e senza speranza di remissione, siano onninamente eseguite el Duque de Feria le maggiori sceleraggini procedono da quelli che chiamano bravi Ma, signori miei, replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, ma, signori miei, si degnino di mettersi ne’ miei panni. Se la cosa dipendesse da me,... vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca... Orsù, interruppe il che già teneva in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente; e, ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito: Perpetua! Perpetua! , avviandosi pure verso il salotto, dove questa doveva esser certamente ad apparecchiar la tavola per la cena. Era Perpetua, come ognun se n’avvede, la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie, che divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l’età sinodale dei quaranta [16], rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche. Vengo, rispose, mettendo sul tavolino, al luogo solito, il fiaschetto del vino prediletto di don Abbondio, e si mosse lentamente; ma non aveva ancor toccata la soglia del salotto, ch’egli v’entrò, con un passo così legato, con uno sguardo così adombrato, con un viso così stravolto, che non ci sarebbero nemmen bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per iscoprire a prima vista che gli era accaduto qualche cosa di straordinario davvero. Misericordia! cos’ha, signor padrone? Niente, niente, rispose don Abbondio, lasciandosi andar tutto ansante sul suo seggiolone. Come, niente? La vuol dare ad intendere a me? così brutto com’è? Qualche gran caso è avvenuto. Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire. Che non può dir neppure a me? Chi si prenderà cura della sua salute? Chi le darà un parere?... Ohimè! tacete, e non apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio vino. E lei mi vorrà sostenere che non ha niente! disse Perpetua, empiendo il bicchiere, e tenendolo poi in mano, come se non volesse darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare. Date qui, date qui, disse don Abbondio, prendendole il bicchiere, con la mano non ben ferma, e votandolo poi in fretta, come se fosse una medicina. Vuol dunque ch’io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto al mio padrone? disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto. Per amor del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va... ne va la vita! La vita! La vita. Lei sa bene che, ogni volta che m’ha detto qualche cosa sinceramente, in confidenza, io non ho mai... Brava! come quando... Perpetua s’avvide d’aver toccato un tasto falso; onde, cambiando subito il tono, signor padrone, disse, con voce commossa e da commovere, io le sono sempre stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per premura, perché vorrei poterla soccorrere, darle un buon parere, sollevarle l’animo... Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo; onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più d’una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto insieme di comando e di supplica, e dicendo: per amor del cielo! Delle sue! esclamò Perpetua. Oh che birbone! oh che soverchiatore! oh che uomo senza timor di Dio! Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto? Oh! siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farà, povero signor padrone? Oh vedete, disse don Abbondio, con voce stizzosa: vedete che bei pareri mi sa dar costei! Viene a domandarmi come farò, come farò; quasi fosse lei nell’impiccio, e toccasse a me di levarnela. Ma! io l’avrei bene il mio povero parere da darle; ma poi... Ma poi, sentiamo. Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo [17] è un sant’uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e, quando può fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse una bella lettera, per informarlo come qualmente... Volete tacere? volete tacere? Son pareri codesti da dare a un pover’uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi! l’arcivescovo me la leverebbe? Eh! le schioppettate non si dànno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, appunto perché lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti vengono, con licenza, a... Volete tacere? Io taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo s’accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le... Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggianate? Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non cominci a farsi male da sé, a rovinarsi la salute; mangi un boccone. Ci penserò io, rispose, brontolando, don Abbondio: sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare E s’alzò, continuando: non voglio prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch’io che tocca a pensarci a me. Ma! la doveva accader per l’appunto a me. Mandi almen giù quest’altro gocciolo, disse Perpetua, mescendo. Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco. Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro. Così dicendo prese il lume, e, brontolando sempre: una piccola bagattella! a un galantuomo par mio! e domani com’andrà? e altre simili lamentazioni, s’avviò per salire in camera. Giunto su la soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse, con tono lento e solenne : per amor del cielo! , e disparve. Note 1. I monti della Brianza e i monti Orobici. 2. Il ponte di Lecco. 3. Il Gerenzone, il Galdone e il Bione. 4. Ironia circa il fatto che i soldati spagnoli usassero prepotenze nei confronti dei contadini, molestando le loro donne e depredandoli dei loro raccolti. 5. A coloro che si oppongono, che resistono. 6. Allusione alle trame con cui don Pedro Enriquez indusse Carlo Emanuele di Savoia a muovere guerra contro Enrico IV di Francia, grazie al tradimento di Carlo de Gontant, duca di Biron; quest'ultimo fu scoperto e decapitato, il primo venne sconfitto. 7. Tipografi che avevano il privilegio di stampare decreti della "Regia Camera", cioè del pubblico erario. 8. Ancora, tuttora. 9. Don Abbondio insinua alquanto volgarmente che si tratti di un matrimonio riparatore, gettando tutta la colpa sui due promessi. 10. Della sua indole, del suo carattere. 11. I luoghi dove non poteva essere arrestato chi vi si rifugiava: chiese, conventi, alcuni palazzi signorili. 12. Ostacolare. 13. I genitori (latinismo). 14. Fingendo di non vedere. 15. Lunatico, collerico. 16. I sinodi avevano stabilito che i preti non potessero avere domestiche di età inferiore ai 40 anni. 17. Il cardinale Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano. I PROMESSI SPOSI CAPITOLO 1 Il racconto prende l'avvio con un'ampia visione del paesaggio in cui si colloca il paese brianzolo dove abitano Renzo e Lucia, i due promessi sposi. Lui è un filatore di seta, orfano di padre e di madre; lei è filatrice in  una filanda ma senza continuità di lavoro: vive con la madre vedova. Si dovevano sposare e  il matrimonio era fissato per l'otto novembre 1628. Tutto sarebbe andato liscio, se il signorotto locale, don  Rodrigo, non si fosse incapricciato di Lucia e non avesse scommesso col cugino, don Attilio, che in tempi  brevi, se ne sarebbe impadronito e l'avrebbe portata al castello. Per questa violenza egli poteva sperare  nell'immunità dovuta sia al suo grado sociale sia alla connivenza del potere giudiziario e politico, alleato dei  potenti. Bisognava impedire intanto la celebrazione del matrimonio. Per questo il pomeriggio del 7 manda due bravi ad ordinare al curato don Abbondio che quel matrimonio  non si deve celebrare. I due bravi si appostano all'angolo di una strada di campagna, percorsa d'abitudine  dal curato. Il quale, intimidito, si dichiara pronto ad obbedire. Lo fa perché per temperamento è un pauroso;  non era nato con un cuor di leone; ma obbedisce e si rassegna e si fa complice di un gesto di violenza  anche perché la società nella quale viveva era violenta, ingiusta e non offriva adeguata protezione contro i  soprusi dei potenti ai poveri, ai disarmati, ai miti. A casa dove giunge affannato ed agitato confida ogni cosa  alla sua serva Perpetua: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo  l'occasione. L'ordine impartito a lei è di non fiatare della cosa con nessuno. Lei dà qualche suggerimento, tra cui quello di avvertire il cardinale. Ma don Abbondio è troppo dominato dalla paura procuratagli da quei  bravi e crede che la disobbedienza gli costerà una fucilata. La notte, che trascorre agitatissima, è difatti  popolata di bravi e di archibugiate. Riassunto Il primo capitolo inizia con accurata e realistica descrizione dei luoghi dove vivono Renzo e Lucia i protagonisti della storia. Con un’ampia panoramica il Manzoni si sofferma a mostrare il lago, i monti che lo circondano (il Resegone e il San Martino), il fiume Adda, il borgo di Lecco e i paesi intorno, quindi passa all’ambientazione storica della vicenda, raccontando della dominazione spagnola in queste terre con soldati stranieri che commettono violenze sulle donne, saccheggi nei campi e soprusi di ogni genere. Inizia così la vicenda: è la sera del 7 novembre 1628 e Don Abbondio passeggia, come è solito fare, leggendo il breviario. Ad un certo punto, ad una biforcazione della strada, nei pressi di un tabernacolo dipinto, vede due figuri che non avrebbe mai voluto vedere, sono due bravi che stanno aspettando proprio lui. Portano i capelli lunghi, raccolti in una reticella dalla quale esce solo un ciuffo che ricade sulla fronte, e dai vestiti si intravedono armi spaventose. La specie dei bravi era molto diffusa in quegli anni e il Manzoni fa un minuzioso elenco di grida, le leggi di quell’epoca, che prevedono pene severe per i bravi, che sono al servizio dei potenti. Il Manzoni, con ironia, ci fa comprendere l'inefficacia delle grida, perché comunque anche chi le deve fare rispettare, non osa mettersi contro i potenti. Don Abbondio capisce egoisticamente che i bravi stanno aspettando proprio lui, dopo aver guardato se per caso ci fosse qualcuno che potesse soccorrerlo e cercato inutilmente vie di fuga va incontro loro, ostentando finta tranquillità, recitando il breviario ad alta voce quasi per farsi compagnia e darsi coraggio. I bravi gli bloccano la strada e con minacce di morte gli intimano di non celebrare il matrimonio tra due giovani del luogo: Renzo Tramaglino, un filatore di seta e Lucia Mondella, una lavoratrice della filanda. Don Abbondio è spaventatissimo, cerca di lusingare i due e di giustificarsi dicendo che a lui non viene nulla in tasca se quei ragazzacci vogliono maritarsi. Si mostra subito complice e si dichiara disposto all'obbedienza, soprattutto quando sente il nome di don Rodrigo, il padrone dei due bravi. I due dopo averlo minacciato lo salutano frettolosamente con un imprecazione, certi dell’obbedienza del curato, il quale invece vorrebbe ora trattenerli e chiedere consiglio per non celebrare il matrimonio. Il Manzoni si sofferma nuovamente ad illustrare il clima di sopraffazione che caratterizza il Ducato di Milano sotto la dominazione spagnola: i potenti possono impunemente commettere ogni tipo di violenza, mentre i deboli sono costretti a subire senza nessuna protezione ed elenca le vari classi sociali dell’epoca (clero, nobili, militari,mercanti, artigiani, giurisperiti) con i vantaggi che ne derivano facendone parte. Da lì, l’Autore prende spunto per descrivere e giustificare la psicologia di Don Abbondio. Il nostro curato, come affettuosamente viene chiamato, fin dalla fanciullezza, si rivela un debole e un timoroso, incapace di affrontare le difficoltà della vita in un'epoca tanto violenta: un vaso di terra cotta fra tanti vasi di bronzo. Egli, non per una vera vocazione religiosa, sceglie la strada sacerdotale ma perché gli da la possibilità di appartenere ad una classe privilegiata e protetta. Don Abbondio per poter star tranquillo e non cacciarsi nei guai, bloccato dalla paura, ha un comportamento caratterizzato dal servilismo, dall’opportunismo che lo porta a stare sempre dalla parte del più forte e a giustificarne i comportamenti, criticando chi non pensa ai fatti propri. Così mentre intraprende la strade verso la curia, fra sé e sé immagina le reazioni di Renzo, buono come un agnello se non contraddetto e ripensa a ciò che avrebbe dovuto dire ai bravi. Avrebbe dovuto mandarli direttamente da quei due giovani, si rende però conto che questo sarebbe stato troppo. Così segretamente insulta quel don Rodrigo, che tante volte aveva difeso quando altri avevano inveito contro di lui. Giunge così a casa affannato e spaventato, dove lo attende Perpetua, la sua serva. Da una parte Don Abbondio non vede l’ora di confidarsi, dall’altra la donna non vede l’ora di sapere. Così dopo molti tentennamenti e giuramenti, finalmente il povero curato si sfoga e si confida con lei, ma non accetta i suoi saggi consigli. Infine, stremato, va a dormire, già pentito per la rivelazione e raccomanda alla donna di non far parola con nessuno. Analisi del testo cioè il paese natale di Renzo e Lucia. Per quanto riguarda il tempo, tutto il capitolo è ambientato nel giorno di Martedì 7 Novembre 1628. Manzoni specifica questa data di inizio del romanzo per dare maggiore veridicità ai fatti ma anche per misurare narrativamente la velocità del racconto (infatti i primi otto capitoli si svolgono tutti completamente nell’arco di quattro giorni, dalla sera del 7 alla notte del 10). Linguaggio In questo capitolo si incontrano quattro tipi di linguaggio o modi linguistici, uno per ogni personaggio. Il primo, Don Abbondio, parla sempre con intercalari e frasi sospese: anche questo serve per evidenziarne il carattere, infatti, per paura, ha sempre paura a parlare. Il secondo riguarda il primo bravo, quello che parla per la maggior parte del tempo: costui ha un linguaggio diplomatico ma arrogante, per questo riesce a convincere facilmente il docile Don Abbondio. Il terzo tipo di linguaggio si capisce solo grazie all’unica battuta del secondo bravo, che parla sguaiato, minaccioso, grossolano e inserisce alla fine di ogni frase una bella bestemmia. L’ultimo modo linguistico appartiene a Perpetua; la serva di Don Abbondio ha un linguaggio cordiale, semplice ma schietto e in questo riesce a convincere il suo padrone a parlare dell’accaduto. Il registro usato dai personaggi, ad eccezione di Don Abbondio, è molto basso, quasi rozzo. Il curato, invece, usa un registro alto, inserendo anche delle frasi in latino. Il narratore non ha niente a che fare, per quanto riguarda il registro, usandone uno che i personaggi del suo romanzo gli invidierebbero. Un registro di linguaggio molto alto è anche usato nella grida, essendo proprio trascritte dall’autore dalle vere leggi custodite a Milano. Quella era infatti la lingua del 1600, che Manzoni imita perfettamente nell’introduzione del romanzo, dando prova di grande studio della lingua italiana. Figure retoriche Nel testo Manzoni usa molte figure retoriche. La più importante è la celebre “ironia manzoniana”, che come ho già detto è presente nella prima parte del capitolo dove l'autore parla dell’ingiustizia dei signorotti spagnoli che insegnavano la modestia alle fanciulle, che accarezzavano le spalle ai mariti e via dicendo… questa è detta “ironia manzoniana”. Inserisce anche delle litoti (non era nato con un cuor di leone – riga 249), delle metafore (animale senza artigli e senza zanne – riga 251), delle similitudini (come un vaso di terracotta – riga 319) e dei latinismi (parenti - riga 320 - da parens,ntis che in latino significa genitori). Analisi Il primo capitolo introduce il romanzo e ne presenta le principali caratteristiche, che a livello tematico si  incentrano principalmente sul rapporto tra situazione storico­sociale nella Lombardia del Seicento, a livello  narrativo invece forniscono le coordinate della storia (spazio, tempo e personaggi principali). Il capitolo può essere suddiviso in sei macrosequenze, che alternano pause e scene in perfetto equilibrio: • Descrizione dello spazio e del tempo storico della vicenda ­ pausa • Passeggiata di Don Abbondio ­ scena • Digressione sui bravi ­ pausa • Incontro e dialogo tra Don Abbondio e i bravi ­ scena • Digressione sulla situazione sociale in Lombardia ­ pausa • Colloquio tra Don Abbondio e Perpetua ­ scena Questa alternanza di pause e scene crea ritmo nel racconto, che inizia con la pacata descrizioni dei luoghi e  del tempo in cui si svolgerà la storia. La descrizione percorre dunque i luoghi in cui è collocata la vicenda con una “ripresa” fatta dall’alto da un  ipotetico osservatore che sposta man mano lo sguardo sui vari elementi del paesaggio: come su una carta  geografica, lo sguardo va da Nord a Sud seguendo la direzione del fiume e allargandosi verso i monti, fino a  scendere sulla sommità delle mura di Milano, da cui l’ipotetico osservatore può ora guardare, in lontananza,  il Resegone. Il punto d’osservazione è ormai sceso, tanto che ora la costa sale con un pendio: è quindi un  punto di vista in continuo movimento. La scelta di descrivere i luoghi dall’alto non è casuale, ma è indice della volontà di Manzoni di collocarsi al di  sopra del mondo narrato per far solo intuire al lettore l’affetto nutrito per quei luoghi in cui ha trascorso  l’infanzia. L’inquadratura dello spazio “stringe” sempre di più: ora si vedono strade ne stradette, su cui  improvvisamente di trovano a camminare ipotetici spettatori,che diventano gli stessi lettori ai quali il narratore si rivolge direttamente con una metalessi (appello al lettore): il luogo stesso da dove contemplate que’ vari  spettacoli....il monte di cui passeggiate le falde ..[...]. Infine lo sguardo del narratore si appunta su una sola di queste strade, inquadrando un individuo che  cammina, che stringe in mano il suo brevario tenendovi dentro l’indice della mano destra : il punto di vista  ora diventa quello dello stesso personaggio, attraverso i cui occhi è descritto il tramonto. Il tempo  accuratamente determinato inserisce la vicenda immaginaria in un preciso momento storico, pochi giorni  prima di quell’11 Novembre 1628 in cui avvennero i tumulti di Milano; il 7 Novembre in sé per sé non è la  data di nessun evento storico, ma per Manzoni la storia non è solo quella dei grandi eventi, ma quella della  gente comune, per cui questa data che è fondamentale nella vicenda, viene precisamente indicata. Il primo personaggio del romanzo a questo punto viene presentato nella scena e se ne fa conoscere prima di tutto il nome, Abbondio, scelto non solo perché è il patrono di Como, ma perché il nome stesso conferisce  l’immagine dell’abbondanza e il lettore è portato ad immaginarlo tondo e pacifico, anche per i primi indizi  caratteriali che vengono dati: il fatto che reciti tranquillamente preghiere sul consueto percorso verso casa,  che guardi oziosamente il paesaggio alzando gli occhi dov’era solito, sono tutti indicatori di un carattere  abitudinario, amante dell’ozio e della tranquillità. La tranquillità del tramonto lascia, però, presagire che qualcosa stia arrivando a turbare la scena: le due  nuove comparse conferiscono un quadro specifico del secolo scelto come protagonista, perché nel loro  ritratto convergono i due poli essenziali del periodo storico, cioè la violenza e lo sfarzo. L’atteggiamento con  cui compaiono in scena è minaccioso e la divisa li individua come bravi, assoldati dai signorotti per difesa  personale, ma contemporaneamente gli oggetti di minaccia sono indossati come segno di eleganza, i  mustacchi sono lunghi e arricciati in punta, il corno pende sul petto come una collana, la cintura di cuoio è  lucida.... Segue poi una digressione storica sui bravi, in cui i pochi interventi ironici del narratore bastano a  trasformare l’inefficacia dei decreti emessi per distruggere questa categoria in un atto d’accusa: l’ampollosità della forma delle gride è in contrasto con la loro sostanziale inefficacia e questa discrepanza tra forma e  sostanza tipica del Seicento acquisisce valore morale ed è per questo più volte denunciata nel romanzo. Il passo del colloquio di don Abbondio con i bravi è condotto con un’alternanza di punti di vista, prima  una focalizzazione interna del curato, che osservando i gesti dei bravi si accorge che stavano aspettando  proprio lui, poi una focalizzazione “zero” del narratore onnisciente, che descrive i gesti e i pensieri del  personaggio e riporta un accenno di monologo interiore. La sintassi di frasi brevi e semplici, separate da una frequente punteggiatura, aumenta la suspense e porta il narratore a ridere di Don Abbondio per la sua  estrema viltà e paura. Il brano continua con la presentazione dei personaggi chiave del romanzo che, assenti dalla scena e  ancora sconosciuti al lettore, vengono presentati secondo l’opinione deformante dei personaggi in scena e si acuisce l’impressione comica data da Don Abbondio nel mostrare tanta vigliaccheria di fronte ai bravi.  Come spesso accadrà anche ad altri personaggi significativi del romanzo, il narratore inizia a fornire notizie sulla vita dell’ecclesiastico  con una digressione narrativa, ritratto con cui Manzoni vuole porre in risalto l’immagine di una società corrotta, mal governata, in cui le  gride erano numerose, anzi diluviavano, ma servivano solo a rivelare l’impotenza dei loro autori. Il potere esecutivo era affidato a  persone che appartenevano per nascita alla parte privilegiata, oppure ne dipendevano per clientela, ma in realtà tali esecutori eran  generalmente de’ più abbietti e ribaldi soggetti del loro tempo. Questa è la situazione in cui si trova a vivere Don Abbondio e il passo riprende con le ragione che lo hanno  indotto a farsi prete, in un sistema elaborato per sopravvivere in un mondo violento e descritto dallo stesso  curato attraverso discorsi indiretti liberi (il battuto era almeno un imprudente, l’ammazzato era sempre stato  un uomo torbido). L’ottica distorta del personaggio crea un effetto di straniamento, per cui sono presentati come normali  principi e affermazioni che all’autore e al lettore appaiono assurdi, pur consentendo al narratore di non  esprimere giudizi propri, ma semplicemente ponendo il lettore di fronte all’evidenza. Pensino ora i miei venticinque lettori: Manzoni sembra definire la quantità del suo pubblico con troppa  modestia o falsa modestia oppure voleva sottolineare che il suo romanzo era destinato al solo pubblico della  sua terra?  Ogni ipotesi può risultare verosimile. Sicuramente il lettore è coinvolto nel giudizio sul personaggio, definito poveretto, a metà tra l’ironia e il  compatimento; Don Abbondio cammina a testa china e la sua posizione non è solo indice del suo stato  d’animo, ma serve anche ad anticipare il soliloquio con cui il curato si rivolge mentalmente a personaggi  immaginari indefiniti, rivelando ancora una volta la sua ottica distorta, nel descrivere l’amore e il sacramento  del matrimonio come semplice passatempo per ragazzacci che, per non saper che fare, s’innamorano. Manzoni, però, non intende creare un personaggio assolutamente malvagio, per cui gli fa prendere  coscienza che suggerire ai bravi di minacciare direttamente Renzo e Lucia sarebbe troppo grave: segue  dunque un sommario degli insulti rivolti a Don Rodrigo e la presentazione di Perpetua, il cui nome, per la  popolarità raggiunta con i Promessi Sposi, viene usato per antonomasia ad indicare la governante di un  sacerdote. Il suo personaggio viene introdotto prima della sua entrata in scena dal giudizio di Don Abbondio  che la considera una compagnia fidata, e dal narratore onnisciente, che ne evidenzia pregi e difetti: infine è  lei stessa a presentarsi, affermando di essere nubile per scelta, per aver rifiutato tutti i partiti che le si erano  offerti. Il successivo dialogo tra la Perpetua e Don Abbondio ha tutte le caratteristiche di una commedia, non solo  per le parole, ma anche per gli atteggiamenti dei personaggi, dai quali si conferma il “tipo” del vigliacco nel  curato e della serva­padrona in Perpetua, la quale è descritta dal narratore come in possesso di saggezza  popolaresca e un senso morale che la spinge a parteggiare per le vittime dei potenti, senza la vigliaccheria  del suo padrone. Sequenza Tempo Luogo Personaggi Argomento 1 Descrittiv a Rive del lago di Como 2 Narrativa 7 novembre 1628 Rive del lago di Como Don Abbondio Ritorno a casa del parroco 3 Narrativa 7 novembre 1628 Rive del lago di Como Don Abbondio, due bravi di don Rodrigo Incontro tra i bravi e don Abbondio 4 Descrittiv a Documentazione storica sui bravi dal 1583 al 1632 5 Narrativa 7 novembre 1628 Rive del lago di Como Gli stessi I due bravi ingiungono a don Abbondio di non celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia 6 Descrittiv a 7 novembre 1628 Rive del lago di Como Don Abbondio Presentazione di don Abbondio: carattere e vita 7 Narrativa 7 novembre 1628 Casa di don Abbondio Don Abbondio, Perpetua Dialogo tra don Abbondio e Perpetua
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