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Primo levi “se questo è un uomo”, Appunti di Letteratura Italiana

Tratta i primi capitoli di se questo è un uomo, come un viaggio, sul fondo, iniziazione

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 31/05/2021

deborah-sciarra-2
deborah-sciarra-2 🇮🇹

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2 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Primo levi “se questo è un uomo” e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! SHEMÀ Il saggio ‘SE QUESTO È UN UOMO’ si apre con una poesia, si nota però che manca di nome scritto ma in realtà il titolo è SHEMÀ e fa parte delle liriche ‘ad ora incerta’. Il titolo è una parola ebraica ed è una delle preghiere più importanti dell’ebraismo. Levi era di famiglia ebraica però non conosceva questa religione ma inizierà a conoscerla nel Lager. ‘SHEMÀ’ significa ascolta ed è la parafrasi di una delle preghiere più note dell’ebraismo, composta da passi biblici che formulano il comandamento fondamentale dell’amore verso Dio con l’intenzione di trasmetterlo alle generazioni successive. Levi afferma che ‘se c’è Aushwitz non ci può essere Dio’ usando il tempo presente. Lo scrittore fa un confronto tra la vita normale e la vita dei campi di concentramento, evidenziando la disumana sofferenza degli uomini. Infatti dopo essersi rivolto a chi vive nella serenità domestica, ‘in tiepide case’, ‘cibo caldo’, ‘visi amici’, presenta in corrispondenza la sorte dei deportati, ‘l’uomo che lotta per mezzo pane’, ‘la donna senza capelli e senza nome’. Sottolinea inoltre la necessità del ricordo e della testimonianza: coloro che non lo faranno, saranno destinati a subire quanto esplicato dalla serie di congiuntivi ‘la malattia vi impedisca’ ‘vi si sfaccia la casa ’… Quindi in questo modello abbiamo da una parte Dio e l’amore con la preghiera ebraica e dall’altra parte abbiamo Aushwitz e l’odio con la poesia. In questa poesia troviamo l’endecasillabo che fa parte della tradizione di Dante. La frase presente nella poesia ‘considerate se questo è un uomo’ non è rivolta ai carnefici ma ai prigionieri perché sono loro che perdono l’umanità. Inoltre l’ebraico non pronuncia la parola di Dio e in questa poesia manca Dio, non c’è spazio per Dio proprio perché c’è il male. PREFAZIONE La “fortuna” di Levi è insomma quasi paradossale: l’essere giunto ad Auschwitz in un periodo relativamente favorevole per i detenuti, le cui possibilità di sopravvivenza quindi sono poco più alte della media. A questa constatazione, segue il proposito di Levi; lo scrittore non si prefigge l’obiettivo di sconvolgere l’animo del lettore con la descrizione minuziosa delle atrocità del lager (“Perciò questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull’inquietante argomento dei campi di distruzione”) né egli vuole “formulare nuovi capi d’accusa”. Piuttosto, con l’atteggiamento tipico dello scienziato (si pensi anche ad un’opera come Il sistema periodico del 1975), Levi vuole “fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano”. Per l’autore infatti l’odio razziale per il “diverso” è una “infezione latente” che giace nel fondo dell’animo umano. Quando questa convinzione diventa un “dogma” e un sillogismo per cui ogni straniero in quanto tale è da eliminare, allora nascono i campi di sterminio, che è per Levi “il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza”. ‘i capitoli sono stati scritti non in successione logica, ma per ordine di urgenza ’. Inoltre l’aggettivo pacato non equivale a sereno, tranquillo ma denota chi al momento tiene sotto controllo una collera che attende di scatenarsi. Ad esempio: -al momento dello sbarco sulla banchina di Aushwitz i deportati si trovano di fronte una decina di SS disposte a rispondere alle loro domande ‘ con la pacata sicurezza di chi non fa il suo ufficio di ogni giorno’ quindi con una pacata sicurezza di chi svolge il proprio lavoro. - anche quando i deportati aspettano di fare la doccia e una SS tiene un lungo discorso pacato e alla richiesta di chiarimenti si limita solo a guardare l’interprete come se nessuno avesse parlato.’ CAPITOLO 1 IL VIAGGIO Nel primo capitolo Primo Levi racconta le circostanze della sua cattura il 13 dicembre 1943, da parte della Milizia fascista, insieme ad altri ebrei. Levi viene quindi rinchiuso nel campo di internamento di Fossoli, vicino a Modena, dove venivano convogliate tutte le persone non gradite al governo fascista, primi fra tutti gli ebrei che in breve tempo passarono da 150.000 persone a oltre 600.000. levi era un ragazzo di soli ventiquattro anni con poco senno e nessuna esperienza infatti dice che la sua formazione e di esperienza avverrà nei campi della morte. Il 21 febbraio del 1944 nel campo trapela la notizia dell’immediato trasferimento, per ordine dei nazisti, di tutti gli ebrei, anche bambini, vecchi e malati, in un campo di concentramento nazista. L’ultima notte viene vissuta tragicamente nella consapevolezza dell’infausto destino che li aspetta, ognuno reagendo a proprio modo, piangendo, pregando, ubriacandosi, ecc.; solo le madri si organizzano per sbrigare i preparativi di viaggio e per poter assicurare ai propri figli il cibo, i vestiti puliti e persino i giocattoli di cui necessitano abitualmente. All’alba, dopo l’appello dei nazisti e la conta dei pezzi (così i deportati vengono definiti dai nazisti) da trasferire, vengono fatti tutti salire alla stazione di Carpi su un treno di 12 vagoni merci piombati, le cosiddette tradotte, in cui vengono stipati, compressi come bestie, 650 persone. levi infatti dice che la cosa era così nuova che non provavano dolore ma solo stupore verso questa disumanizzazione umana, perché si comportavano verso di loro senza nessun sentimento neppure l’odio, e già da qui Levi fa capire l’esperienza dei Lager. Levi infatti non racconta una storia ma come un uomo reagisce difronte ad essa, infatti parla di ‘un campione di umanità’ perché finisce per essere testimone di questa situazione particolare infatti mentre Levi racconta dice solo che ci sono 12 vagoni ma non afferma cosa è venuto in quei vagoni ma esprime soprattutto le sensazioni. E’ la prima occasione in cui si rivela la violenza gratuita e fredda dei nazisti che, in Primo Levi, più che dolore, suscita uno stupore profondo che fa porre all’autore da domanda “come si può percuotere un uomo senza collera?”. Soltanto alla sera, dopo un’intera giornata con i deportati segregati dentro ai vagoni, il treno viene fatto partire. Il viaggio è molto lungo e lento intervallato da soste interminabili. Ad ogni fermata, i deportati attraverso le fessure dei vagoni chiedono pietosamente da bere, da mangiare, un pugno di neve ma i soldati di scorta impediscono a chiunque di avvicinarsi. I prigionieri vengono trasportati in treno fino in Polonia, attraversando prima il Brennero e poi l’Austria. Già in Austria più nessuno di loro cerca di comunicare con l’esterno; tra i deportati predomina ormai lo sconforto, lo smarrimento e la rabbia. Alla quarta notte il convoglio si arresta in mezzo alla campagna deserta, i prigionieri vengono fatti scendere su una banchina illuminata da riflettori, sembrano ombre e sotto lo stretto controllo dei soldati nazisti, di cui non comprendono la lingua, vengono divisi in base all’età e alle condizioni fisiche. Chi indugia viene ucciso all’istante: è il caso di Renzo che troppo a lungo si intrattiene a salutare la fidanzata Francesca è per questo viene sparato in faccia. Tutti gli uomini validi, tra cui Levi, utili al lavoro vengono radunati in un gruppo e separati da tutti gli altri. Il gruppo è composto da novantasei uomini e ventinove donne e vengono destinati ai campi di lavoro di Monowitz e Birkenau, mentre tutti gli altri, oltre cinquecento tra donne, anziani e bambini, vanno alla morte. Il capitolo si chiude con una breve riflessione che spiega il titolo del capitolo. L’autore descrive come dopo solo quindici giorni di prigionia, egli si sia trasformato divenendo un'altra persona, una persona sul fondo, completamente annientata e rassegnata, preda perennemente dalla fame, capace di rubare, con le piaghe sul dorso dei piedi, il ventre gonfio, la pelle gialla. L’ingresso in Lager viene visto come un ‘dramma pazzo’ come un susseguirsi di atti teatrali infatti c’è l’impressione di essere attori di una commedia tragica segnata da rituali grotteschi e insensati. Levi dice’ immaginiamo se ORA un uomo viene privato di ogni sua cosa personale, della sua identità, della sua umanità e della sua dignità solo così sarà chiaro cosa significa ‘giacere sul fondo ‘. La narrazione avviene da tratti generali a tratti personali, nell’opera troviamo sempre avvenimenti al plurale come ‘ ci picchiavano’ e non ‘sono stato picchiato’ perché lui parla delle reazioni. Inoltre lui parla in modo freddo e questo gli permette di passare da una narrazione degli eventi all’interiorità, mai in modo cronachista ma in una dimensione più ampia. Quindi il ‘noi’ con cui vengono raccontati gli eventi e l’io’ che fa suoi gli eventi finisce per essere segnato in modo personale. Il verso «Qui non ha luogo il Santo Volto, qui si nuota altrimenti che nel Serchio!» viene pronunciato da uno dei diavoli della bolgia dei barattieri ed è significativo perché nella scena immaginata da Dante, ci troviamo dinanzi ad un enorme lago di pece bollente. Qui vi finiscono i barattieri cioè coloro che avevano elargito favori in cambio di denaro. Per costoro emergere dalla pece anche solo per un secondo era un immenso sollievo. Tuttavia nel Lager-inferno la speranza e la compassione mancano. Nessuno può intercedere per un peccatore o per un recluso, nemmeno il Santo Volto (era un’icona sacra che si trovava a Lucca) dice il verso di cui Levi si ricorda improvvisamente mentre si fa strada stanco e infreddolito nel fango pesante del campo come un dannato nella pece. L’invenzione dantesca è potente, il parallelo azzeccato. La realtà purtroppo ha superato l’immaginazione, perché il dolore provato da Levi e dai suoi compagni è vero, arpiona le ossa come gli uncini dei diavoli quando qualcuno tentava di mettere fuori la testa per respirare. Allora i diavoli – che non facciamo fatica a immaginare vestiti di nero con in mano un fucile – li spingevano ancora più giù nel fondo del lago. Al dolore seguiva addirittura l’offesa, sbattuta sulla faccia da carcerieri disumani. In quel lago di pece, in quel mare di fango polacco, potevano pure scordarsi di sguazzare beati come facevano “da vivi” nelle acque del Serchio. CAPITOLO 3 INIZIAZZIONE Levi viene assegnato, dopo vari trasferimenti, al Block 30, ad una cuccetta in cui dorme già un altro prigioniero, Diena, che lo accoglie cordialmente facendogli posto. Inizia così la vita da deportato per Primo Levi che si trova ad affrontare due problemi fondamentali: il problema della lingua, considerato che il lager è abitato da un insieme di persone che parlano lingue diverse e non è facile capirsi. Anche gli ordini e le minacce vengono urlati in lingue sconosciute e per chi non capisce al volo sono botte e punizioni; il problema del cibo che consiste nella distribuzione di una zuppa e del pane, un “sacro blocchetto grigio che sembra gigantesco in mano del tuo vicino, e piccolo da piangere in mano tua”. La notte di Levi è agitata e abitata da sogni cupi e angosciosi. All’alba le luci si accendono e tutti si agitano, vestendosi frettolosamente e correndo alle latrine e al lavatoio per poter arrivare per primi alla distribuzione della razione quotidiana di pane. L’igiene nel campo scarseggia. Il lavatoio, decorato da grandi affreschi didascalici che fungono da monito a lavarsi e ad avere cura di sé, è in realtà un luogo immondo e dal cattivo odore, il pavimento è coperto di fanghiglia, dai lavandini scorre un’acqua torbida, maleodorante e non potabile, è praticamente inutile ai fini di una effettiva igiene. Infatti pochi in quelle condizioni mantengono la voglia di pulizia ed anche Levi, dopo solo una settimana di prigionia, considera il lavarsi come un inutile spreco di energia e completamente inefficace. Nonostante ciò c’è chi insiste a mantenere l’abitudine di lavarsi come Steinlauf, un cinquantenne che Levi incontra un giorno al lavatoio. Steinlauf nonostante l’inutilità dell’azione è intento a strofinarsi vigorosamente senza sapone e con ben scarsi risultati. Egli si rivolge a Levi chiedendogli perché non si voglia lavare e gli ricorda che smettere di aver cura di sé equivale a cominciare a morire ed a fare il gioco del Lager il cui fine è di ridurre l’uomo a bestia. Aver cura della propria igiene, anche se inutile, è un modo per reagire e sopravvivere, sopravvivere per testimoniare e per affermare la propria dignità.
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