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Procedimenti Penali: Decreto e Sospensione con Messa alla Prova, Sbobinature di Diritto Processuale Penale

Processo minorileSospensione del procedimento con messa alla provaProcedimenti penaliProcedimento per decreto

I procedimenti legali tradizionali del procedimento per decreto e della sospensione del procedimento con messa alla prova nel codice penale italiano. Il procedimento per decreto richiede il consenso dell'imputato e prevede la richiesta di decreto penale di condanna da parte del Procuratore, mentre la sospensione del procedimento con messa alla prova è possibile per reati di media o scarsa gravità e prevede la richiesta di sospensione e la messa a disposizione di un programma di trattamento redatto dall'Ufficio Esecuzione Penale Esterna. in dettaglio i presupposti, i termini e i procedimenti per questi due tipi di procedimenti.

Cosa imparerai

  • Quali sono i benefici per l'imputato nel procedimento per decreto penale di condanna?
  • Quali sono i presupposti per la sospensione del procedimento con messa alla prova?
  • Quali sono i presupposti per il procedimento per decreto penale di condanna?

Tipologia: Sbobinature

2017/2018

Caricato il 14/09/2018

fede94pir
fede94pir 🇮🇹

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Scarica Procedimenti Penali: Decreto e Sospensione con Messa alla Prova e più Sbobinature in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! Lezione di procedura penale 2 Maggio 2018 VENTICINQUESIMA LEZIONE (SECONDO SEMESTRE) TRATTI ESSENZIALI DEL PROCEDIMENTO PER DECRETO, DELLA SOSPENSIONE DEL PROCEDIMENTO CON MESSA ALLA PROVA, DEL GIUDIZIO IMMEDIATO E DEL GIUDIZIO DIRETTISSIMO Il procedimento per decreto e la sospensione del procedimento con messa alla prova sono riti deflattivi perché tendenzialmente si instaurano e si concludono nell’UP; il giudizio immediato e il giudizio direttissimo sono riti acceleratori perché saltano l’UP accelerando il momento della celebrazione del dibattimento. PROCEDIMENTO PER DECRETO Il procedimento per decreto è un rito tradizionale ossia presente da sempre nel nostro codice. Il procedimento per decreto deve presupporre il consenso dell’imputato, non preventivo ma successivo: si manifesta come acquiescenza al decreto penale di condanna. Lo schema del procedimento per decreto prevede che il PM concluda le indagini e che, entro 6 mesi dall’iscrizione della notizia di reato nel registro delle notizie di reato, se ritiene che si possa applicare una pena pecuniaria, chieda al GIP di emettere un decreto penale di condanna. Il procedimento per decreto, allora, presuppone solo pene pecuniarie da applicare in concreto: ciò che conta è la pena che il PM ritiene applicabile in concreto, non quella astratta prevista dalla legge. Ancora, è necessario che il PM ritenga non applicabile in concreto una misura di sicurezza personale presupponendo questa un accertamento più approfondito del fatto in contraddittorio. Naturalmente, il PM deve trasmettere al GIP il fascicolo che gli consenta di effettuare un controllo sulla richiesta di decreto penale di condanna: infatti, il giudice potrebbe anche ritenere che sussistono tutti i presupposti per emettere una sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cpp. Una volta che il decreto penale di condanna munito del precetto diviene esecutivo per mancata opposizione, la pena pecuniaria ossia la multa o l’ammenda devono essere pagate. In sostanza, il PM nella richiesta di decreto deve determinare la pena pecuniaria che egli in concreto ritiene applicabile alla luce dei parametri di cui all’art. 133 cp. Un disincentivo ad opporsi in quanto beneficio per l’udito (a meno che non sia innocente) è che la pena pecuniaria applicabile può essere ridotta fino alla metà del minimo edittale. La legge Orlando del 2017 ha previsto anche che laddove la pena pecuniaria sia applicata in sostituzione di una pena detentiva (caso previsto dalla L. 689/1981), il PM e il giudice devono prima stabilire il valore giornaliero cui può essere condannato l’imputato tenendo conto delle sue condizioni economiche, con la precisazione che tale valore giornaliero non può essere inferiore a 75 euro e non può superare il triplo di 75 (225 euro). Tale sistema favorisce pene più miti: infatti, l’art. 135 del codice penale prevede un criterio di ragguaglio tra pena detentiva e pena pecuniaria secondo il quale ogni giorno di pena detentiva corrisponderebbe a 250 euro, valore al quale il giudice non può condannare a causa dei limiti massimi nettamente inferiori (225 euro) previsti dalla riforma Orlando. È allora evidente che la previsione della Legge Orlando costituisce un ulteriore premio per chi subisce il procedimento per decreto e un disincentivo all’opposizione. Infatti se si esercita l’opposizione, in caso di condanna eventuale, la pena sarà sicuramente più elevata di quella in concreto applicata con il decreto penale; inoltre, se si esercita l’opposizione vengono meno anche tutti i benefici correlati al decreto penale di condanna, gli stessi della sentenza di patteggiamento ope legis: il decreto non applica pene accessorie, non ha effetti nei giudizi civili o amministrativi ecc. Giunta la richiesta di decreto del PM, il GIP decide: può rigettare la richiesta o accoglierla. Se il giudice accoglie la richiesta emettendo il decreto penale di condanna, questo deve essere notificato all’imputato, al civilmente obbligato per la pena pecuniaria (il quale risponde civilmente nel caso i cui l’imputato non sia solvibile) e al difensore (di fiducia o d’ufficio). Entro 15 giorni dalla ricezione della notificazione del decreto, l’imputato può opporsi al decreto penale di condanna per mezzo o di un’opposizione pura e semplice (cioè senza alcuna richiesta di riti alternativi) in 1 conseguenza della quale il GIP dispone il giudizio immediato ossia il passaggio a dibattimento (visto che il procedimento per decreto non contempla l’UP), ovvero di un’opposizione corredata dalla richiesta di riti speciali diversi (come il patteggiamento o l’abbreviato), innestabili sul procedimento per decreto il quale subisce la conversione in un altro rito speciale deflattivo. In tutti i casi in cui il rito per decreto si converte in un altro rito, rimane aperta la soluzione verso gli epiloghi propri del rito che subentra: se il procedimento per decreto si converte in un giudizio immediato, si passa al dibattimento all’esito del quale può essere deciso un proscioglimento o una condanna; se il procedimento per decreto si converte in un rito abbreviato, questo si celebra davanti al GIP e si conclude con un proscioglimento o una condanna; se il procedimento per decreto si converte in un patteggiamento, si passa da un procedimento consensuale di condanna ad un procedimento consensuale munito dell’accordo delle parti il quale si conclude con una sentenza di applicazione della pena equiparata ad una condanna. Al proposito, non avrebbe molto senso chiedere la conversione del procedimento per decreto in un patteggiamento visto che quasi mai, in questa sede, l’imputato otterrebbe un trattamento migliore di quello ottenuto con il decreto penale di condanna. Sarebbe più ragionevole o tentare il tutto per tutto chiedendo l’abbreviato e puntando al proscioglimento oppure meglio ancora sarebbe passare al dibattimento. Infatti, visto che il procedimento per decreto presuppone una pena pecuniaria e visto che questa si ricollega a fatti di scarsa gravità, il termine di prescrizione previsto per questi reati non sarà molto elevato e con molta probabilità, scegliendo il dibattimento, si arriverebbe alla prescrizione. SOSPENSIONE DEL PROCEDIMENTO CON MESSA ALLA PROVA La sospensione del procedimento con messa alla prova è un rito tradizionale del processo minorile, ambito nel quale ha molta fortuna, nella logica educativa del minore e dell’espulsione dello stesso dal circuito del processo penale che di per sé costituisce un’afflizione per chi lo subisce. Nel rito ordinario, tuttavia, tale procedimento non sta avendo i risultati sperati. Nella messa alla prova, l’imputato o l’indagato chiedono al giudice di sospendere il procedimento e di essere sottoposti ad un programma di trattamento redatto dall’ufficio esecuzione penale esterna (c.d. UEPE) ossia dai servizi sociali. Tale programma deve essere accettato dall’indagato o imputato in quanto contenente delle prescrizioni, tra cui il lavoro di pubblica utilità il quale costituisce una prescrizione necessaria. Dal punto di vista procedurale, è necessario presentare all’ufficio esecuzione penale esterna un’istanza di programma; ci si munisce di una copia di tale istanza sulla quale ci si fa apporre un timbro attestante il deposito dell’originale, in modo che la copia rappresenti la prova della formulazione della richiesta all’UEPE. Tale prova, poi, deve essere allegata all’istanza di sospensione del processo con lo scopo dimostrare la serietà dell’impegno assunto da parte dell’imputato. La sospensione del procedimento con messa alla prova è possibile per reati di media o scarsa gravità. In particolare, deve trattarsi di reati punibili con la pena della reclusione non superiore a 5 anni (pena edittale massima) oppure di reati per i quali è doveroso applicare il rito monocratico semplificato. Ancora, vi è un presupposto di carattere sostanziale: alla luce degli indici di cui all’art. 133 cp, il giudice deve poter valutare se il soggetto, oltre ad astenersi dal commettere reati in futuro, possa essere ricondotto alla convivenza civile (anche se non vi è una sentenza di condanna irrevocabile ma opera ancora una presunzione di non colpevolezza) grazie alle prescrizioni del programma di trattamento, le quali devono contenere anche previsioni inerenti agli obblighi riparatori o risarcitori nei confronti della persona offesa, alla possibilità di applicare anche la mediazione ecc. L’imputato, entro gli stessi termini in cui può chiedere il rito abbreviato o il patteggiamento, ovvero entro il termine per la formulazione delle conclusioni, ex artt. 421-422 c.p.p., può chiedere al g.u.p. la sospensione del procedimento e la sua messa alla prova. Il giudice valuta programma, può modificarlo con il consenso dell’imputato o senza il suo consenso se ha già disposto la sospensione. Se il giudice ritiene sussistenti i presupposti, sospende il procedimento e mette alla prova l’imputato. La sospensione non può avere durata maggiore di 2 anni se si tratta di reati punibili con pena detentiva; non può avere durata maggiore di 1 anno nel caso di reati che non sono punibili con pena detentiva. La sospensione del procedimento sospende anche i 2 presupposti, il soggetto rimane in carcere. I presupposti sono la flagranza; il titolo del reato che consente l’arresto in flagranza ex art. 280 c.p.p. (derogabile nel caso di arresto facoltativo in flagranza ex 381 co.2); e le esigenze cautelari. È infatti possibile che una persona commetta un reato in flagranza, ma poi non sussistano in concreto il pericolo di fuga, di inquinamento probatorio o di A questo punto la persona viene rimessa in libertà. In tutti questi casi avremo un arresto in flagranza, perché c’è il presupposto del rito, ma non c’è una misura cautelare in atto di tipo custodiale. Questo significa che la persona non sarà portata in udienza ma sarà citata a comparire perché è libera. E’ quindi il primo caso: chi ha subito un arresto in flagranza di reato, si è visto convalidare o meno quell’arresto (diciamo di sì) dal GIP, è stato poi rimesso in libertà e quindi dovrà essere citato a comparire entro 30 giorni dall’arresto davanti al giudice del dibattimento. Può anche darsi, però, che il gip abbia convalidato o meno (potrebbe anche non convalidare perché manca la flagranza) e però decida di applicare la misura cautelare perché ritiene che ci siano i gravi indizi di colpevolezza. Ai fini della nostra fattispecie, l’importante è che applichi la misura; che convalidi o meno non è importante. Supponiamo, adesso, che il giudice abbia applicato la misura e la persona si trovi in stato custodiale: è evidente, a questo punto, che non ci potrà essere una citazione a comparire ma la persona sarà portata in udienza fisicamente dall’autorità giudiziaria entro quel termine. Un’ ultima possibilità è quella che il PM chieda allo stesso giudice del dibattimento di decidere sulla richiesta di convalida e questo è il caso più frequente: il PM, cioè, di fronte all’arresto in flagranza, fa condurre direttamente l’arrestato, che si trova presso una casa circondariale o presso gli uffici della polizia giudiziaria, proprio davanti al giudice del dibattimento, il quale sommerà in sé due funzioni: quella di decidere sulle richieste di convalida, ed, eventualmente, nel caso in cui decida di convalidare, di decidere anche sulla responsabilità, perché nel caso in cui il giudice del dibattimento non convalidi, gli atti vengono trasmessi al PM e si procede con rito ordinario, a meno che non vi sia il consenso del PM e dell’imputato. In realtà è difficile che ci sia il consenso ma, se lui volesse, nonostante la mancata convalida, potrebbe sottoporsi direttamente ad un giudizio direttissimo. Quindi, qui abbiamo un arresto in flagranza, una convalida celebrata direttamente davanti al giudice del dibattimento (supponiamo con esito positivo) e il contestuale giudizio direttissimo. Subito dopo la stessa udienza, quindi, dopo la convalida, si passa al giudizio direttissimo e si giudica sulla responsabilità (quasi sempre con una condanna). In questi casi l’imputazione sarebbe formulata dal PM in udienza, direttamente dopo la convalida dell’arresto in flagranza. Ci sono quindi tanti modi per formulare l’imputazione: o direttamente in udienza, quando in quell’udienza dibattimentale si è già provveduto alla convalida d’arresto, o in udienza quando c’è stata già una convalida da parte del GIP con la persona in custodia cautelare che viene condotta in udienza e non viene quindi citata e, una volta giunta in udienza, si vedrà formulare un’imputazione da parte del PM (e questa volta sarà portata in udienza entro giorni e non entro le 96 ore previste nel caso in cui si scelga la via della convalida dibattimentale). Vi è poi il caso di chi si trovi libero, perché il pm ha scelto la convalida davanti al gip e , a prescindere dal fatto che la convalida sia stata adottata o meno, comunque la persona è stata rimessa subito dopo in libertà o per mancata convalida senza misura cautelare o per convalida senza misura cautelare. In entrambi i casi la persona è libera e se è libera non può essere portata in udienza ma dovrà essere citata a giudizio entro 30 giorni e a quel punto l’imputazione sarebbe inserita nel decreto di citazione a giudizio. Questo è, quindi, un modo alternativo di esercizio dell’azione penale rispetto alla formulazione in udienza dell’imputazione penale. Nel caso della confessione, normalmente l’azione penale si esercita con la citazione a giudizio, perché chi confessa potrebbe essere libero e a quel punto potrebbe essere citato a giudizio dopo la confessione entro 30 giorni dall’iscrizione della notizia di reato affinchè si celebri il rito direttissimo nei suoi confronti o, se non il direttissimo, il rito dibattimentale a tutti gli effetti: cambia qualcosa soltanto sul piano dell’introduzione della prova, perché si osservano protocolli più snelli per citare i testimoni che, per esempio, possono essere citati anche oralmente dall’APG. Proprio perché è un rito veloce, a volte, si hanno poche ore (immaginiamo il caso dell’arresto di cui si chiede la convalida in udienza dibattimentale: è ovvio 5 che per poter trattare subito l’udienza entro 96 ore si devono citare velocemente il testimone, il perito, il consulente tecnico, affinchè si assuma la prova velocemente in udienza dibattimentale). Ovviamente l’epilogo è aperto: in teoria si può anche prosciogliere l’imputato che ha confessato o che ha subito un arresto in flagranza convalidato. E’ un po’ difficile ma può accadere: il caso Misseri, per esempio, insegna che i giudici possono ritenere inattendibile la confessione perché finalizzata a coprire altre persone. A questo punto, esclusi i riti speciali, tornando al rito ordinario, una volta che il giudice dell’udienza preliminare ha emesso il decreto che dispone il giudizio, quel decreto, insieme al fascicolo del dibattimento, arriverà al giudice della fase dibattimentale. Anche se il giudizio è rappresentato da una fase unica, questo si può convenzionalmente scomporre in tre sotto-fasi: gli atti preliminari del dibattimento, il dibattimento e gli atti successivi al dibattimento. 1. Gli atti preliminari non possono iniziare prima che venga emesso il decreto che dispone il giudizio e neanche prima che si formi il fascicolo per il dibattimento perché siamo ancora in udienza preliminare. Il momento di discrimen probabilmente è proprio quello in cui, formatosi il fascicolo, la cancelleria del giudice dell’udienza preliminare trasmette il fascicolo insieme al decreto che dispone il giudizio al giudice della fase del giudizio che è o un tribunale collegiale o monocratico o una Corte d’Assise (non esiste nel rito ordinario un giudice di pace che si occupa di reati con una scarsa gravità attraverso un procedimento autonomo che non è quello ordinario). Gli atti preliminari al dibattimento sono sostanzialmente quattro e si svolgono tutti prima dell’udienza dibattimentale e, quindi, ad essere rigorosi, dovremmo dire che gli atti preliminari iniziano nel momento appena citato e finiscono il giorno in cui inizia l’udienza dibattimentale in cui le parti si incontrano dinanzi al giudice. Un’ caso di atto preliminare è quello che consiste nell’anticipare o nel differire la data dell’udienza dibattimentale: quella data viene fissata dal giudice dell’udienza ordinaria ma può capitare che la previsione, che deve garantire minimo 20 giorni (anche se nella prassi intercorrono mesi), giunti in prossimità del dibattimento, ci si renda conto che quell’udienza è molto piena di processi, per esempio, e quindi qualche processo venga rimandato e il ruolo delle udienze può cambiare. Per questo i giudici possono, prima di arrivare in udienza, modificare la data dell’udienza per il singolo processo. Un altro atto preliminare può essere quello che nasce dalla necessità di anticipare la formazione della prova per ragioni di urgenza: si assume la prova prima del dibattimento in un’udienza ad hoc che si fissa dinanzi al presidente del collegio. Un altro atto ancora può essere dato dal caso che ci sia un adempimento importantissimo da adempiere: il deposito delle vittime, testimoni, periti, consulenti tecnici, imputati di reato connesso o collegato. Ciascuna parte, cioè, deve rendere note alle altre parti le fonti di prova che intende introdurre nel processo per poter garantire il diritto alla prova contraria e per fare in modo he si prepari il contro-esame su quelle fonti di prova. L’ultimo atto, infine, è quello della sentenza anticipata di proscioglimento: in alcuni casi limitati (estinzione del reato ed improcedibilità) si può prosciogliere prima dell’udienza dibattimentale. Questa fase preliminare sembrerebbe finire quando comincia l’udienza dibattimentale però nell’udienza dibattimentale si compiono alcune attività preliminari che si chiamano “accertamento della regolare costituzione delle parti (art. 484) e subito dopo le eventuali questioni preliminari, il presidente del collegio dichiara aperto il dibattimento. Qualcuno, allora, dice: vi sono delle attività, come gli accertamenti ex art. 484 e le questioni preliminari che si collocano prima dell’apertura del dibattimento ma che sono attività dell’udienza. Qualcuno, quindi, estende la prima fase fino alla formale apertura dell’udienza di dibattimento ai sensi dell’art. 491. Questa tesi può essere plausibile ma è più opportuno ritenere che questi atti siano degli atti introduttivi del dibattimento ma non preliminari ad esso perché gli atti preliminari si svolgono prima dell’udienza. 2. Con l’inizio dell’udienza si apre il dibattimento, fase in cui si chiede l’ammissione delle prove, si decide sulla richiesta di ammissione delle prove, si ammettono le prove, se ne escludono altre, si revocano eventualmente le prove e poi si assumono (o acquisiscono) le prove costituende. 6 Una volta assunte le prove si passa alla discussione: il PM e i difensori delle parti vengono ascoltati (i difensori dell’imputato vengono ascoltati per ultimi). 3. Dopo la discussione iniziano gli atti successivi al dibattimento. In cosa consistono questi atti? Si delibera la sentenza (il giudice entra in camera di consiglio, delibera la sentenza con alcune regole) e, una volta deliberata, la sentenza deve essere pubblicata; viene letto in udienza, davanti al pubblico, il dispositivo della sentenza. Può accadere, a questo punto, che il giudice rediga, insieme al dispositivo, anche la motivazione (dovrebbe essere la normalità ma nella prassi è un’eccezione). Anche la motivazione deve essere letta in udienza. Nel caso in cui la sentenza non fosse completa fin dall’origine, la motivazione deve essere redatta successivamente e, dopo di che, la sentenza integrale deve essere depositata nella cancelleria del giudice che l’ha emessa. Il deposito della sentenza rappresenta l’ultimo atto successivo al dibattimento. Con il deposito finisce la fase del giudizio. Dopo il giudizio ci saranno, eventualmente, le impugnazioni: la sentenza, una volta che viene depositata potrà essere estratta in copia da chi intende impugnarla. 7
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