Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

PROCEDURA CIVILE 1 - !AGGIORNATO CARTABIA! (Volume I), Sintesi del corso di Diritto Processuale Civile

Per info IG (agnifoca) Diritto processuale civile (Vol. I) - NOZIONI INTRODUTTIVE E DISPOSIZIONI GENERALI, libro completo con tutti i dettagli della nuova riforma Cartabia.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 16/06/2023

agnese.focanti
agnese.focanti 🇮🇹

4.6

(170)

12 documenti

1 / 164

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica PROCEDURA CIVILE 1 - !AGGIORNATO CARTABIA! (Volume I) e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! DIRITTO PROCESSUALE CIVILE I - NOZIONI INTRODUTTIVE E DISPOSIZIONI GENERALI Mandrioli - Carratta AGGIORNATO CARTABIA 1 2 La generale autonomia negoziale incontra un limite: è necessario influire su certe situazioni che investono interessi non esclusivi del singolo: non si può disporre negozialmente del rapporto di filiazione e non si può rinunciare alla propria capacità di agire. Si potrà solo, se vi sono determinate circostanze espressamente previste dalla legge, di ottenere il disconoscimento di paternità, la separazione personale o l’interdizione: queste sono modificazioni o effetti costitutivi in senso ampio e che l’ordinamento contempla come realizzabili solo ad opera dell’organo giurisdizionale. A tale organo l’ordinamento affida il previo compito di riscontrare l’esistenza di quelle circostanze: queste non implicano la violazione di alcuna norma ma sono contemplate da certe norme come condizione necessaria per certi effetti realizzabili solo attraverso l’opera dell’organo giurisdizionale. Questo tipo di attività giurisdizionale si chiama perciò giurisdizione costitutiva (nel senso ampio comprensivo della modificazione e dell’estinzione) necessaria o a necessario esercizio giudiziale. Questo elemento della necessarietà sta in relazione con la caratteristica per cui questa attività giurisdizionale non presuppone alcuna violazione. Tuttavia, esiste una giurisdizione costitutiva non necessaria nel senso che gli effetti costitutivi, attuabili da essa, avrebbero potuto essere attuati anche indipendentemente dall’opera dell’organo giurisdizionale: di conseguenza, l’attività dell’organo giurisdizionale soccorre solo quando è mancata l’attuazione spontanea o primaria. Ad esempio, nel caso in cui vi è un obbligo di contrarre, assunto con un contratto preliminare, rimasto ineseguito (qui sta la violazione) ed attuabile con sentenza costitutiva ai sensi dell’art. 2932 c.c. In tal caso, la non necessarietà dell’attività giurisdizionale ci riconduce al fenomeno per cui l’attività giurisdizionale ha funzione sostitutiva e secondaria, in quanto presuppone una violazione. Quando l’attività giurisdizionale è necessaria, tale esigenza o bisogno è, in re ipsa, cioè nel fatto che si sono verificate quelle circostanze che rendono possibile la modificazione giuridica solo attraverso l’insostituibile opera dell’organo giurisdizionale. L’altro tipo di attività giurisdizionale con la caratteristica di prescindere dalla violazione è l’ accertamento mero . L’esigenza di tutela giurisdizionale dal fenomeno della contestazione nel doppio senso di: 1. Contestazione di un altrui diritto che il titolare considera esistente: il soggetto che, pur senza ledere l’altrui diritto di proprietà, lo contesta nel senso che si vanta proprietario lui stesso; 2. Un vanto di un proprio diritto nei confronti di un soggetto che lo ritiene inesistente: il soggetto che, prima ancora della scadenza del suo debito, nega di essere debitore o il soggetto che si vanta creditore. Quando si verifica questo fenomeno che si chiama contestazione si determina una situazione che non è ancora violazione, ma che potrebbe divenirlo, cioè l’incertezza obiettiva circa l’esistenza di un diritto. L’ordinamento offre - direttamente o indirettamente [Mentre taluni ordinamenti configurano espressamente l’ammissibilità dell’azione di accertamento mero (come quello tedesco), altri ordinamenti, come il nostro, si limitano ad implicarne l’ammissibilità attraverso la disciplina delle condizioni dell’azione, in particolare l’interesse ad agire]- uno strumento per eliminare questa situazione ancor prima di dar luogo alla violazione, ossia lo strumento per sostituire l’incertezza obiettiva con la certezza obiettiva. Tale strumento è l’attività giurisdizionale di mero accertamento : “mero” sta in relazione col fatto che la funzione dell’accertamento – che è caratteristica dell’attività giurisdizionale di cognizione – si presenta qui allo stato puro, ossia senza sovrapposizione di altre funzioni. 5 In sintesi: l’attuazione del diritto sostanziale avviene per lo più in via secondaria e sostitutiva (= sanzionatoria) , ma talvolta in via primaria . L’attività giurisdizionale dal punto di vista della struttura. A) La cognizione e i suoi caratteri strutturali tipici: l’attitudine a dare luogo alla cosa giudicata formale e, quindi, alla cosa giudicata sostanziale salva l’alternativa per pronunce meno stabili e più rapide; l’imparzialità del giudice e la posizione di uguaglianza tra le parti . Per rispondere a “ che cos’è l’attività giurisdizionale? ”, il c.p.c. disciplina diversi tipi di attività, con caratteristiche strutturali diverse, a ciascuna delle quali, d’altra parte, corrisponde una funzione particolare. Occorre esaminare singolarmente questi tipi di attività: Il più importante dei tipi di attività è quello di cognizione . La disciplina di questa attività è prevalentemente contenuta nel II libro del codice. Ad essa si riferisce anche la disciplina del libro primo ed anche nel libro terzo, oltre che in numerose leggi speciali. Per attuare una regola concreta di legge, occorre innanzitutto formulare quella regola, cioè enunciarla nella sua concretezza; vale a dire – dopo aver interpretato e tradotto in termini attuali la volta legislativa espressa in astratto – riscontrare ed enunciare che, essendosi verificati quei determinati fatti costitutivi ipotizzati come fattispecie astratta nella norma stessa, da quella norma è scaturita una regola concreta che, per essere attuata, deve prima di tutto essere enunciata. È chiaro quindi che enunciando la regola concreta, si afferma o si nega un diritto. A questo punto, la funzione propria dell’attività di cognizione (ossia del conoscere una regola concreta o circa l’esistenza di un diritto) emerge come una funzione di accertamento . La funzione di determinare la certezza sull’esistenza o la non esistenza di un diritto [Oggetto di questo accertamento sono i diritti soggettivi, che implica dei fatti costitutivi, e, questo accertamento, implica anche la ricerca della loro verità, il più possibile oggettiva (strumentale rispetto all’accertamento del diritto e approssimativa). Includere tra i fini del processo la ricerca della verità materiale o oggettiva alla quale le parti dovrebbero collaborare perché sia raggiunta dal giudice, è una deviazione dei fini propria dei regimi totalitari]. Tale certezza non dovrà essere esclusiva di un singolo, ma obiettiva , ossia fatta propria dall’ordinamento e tale da permettere che la regola possa essere imposta all’ osservanza di tutti . È quindi importante la struttura di quell’attività per mezzo della quale la certezza di uno o più soggetti diviene certezza obiettiva. Il soggetto il cui convincimento può divenire certezza obiettivo dell’ordinamento è il giudice. Il convincimento circa l’esistenza o meno di un diritto è il risultato di un giudizio e, quindi, il giudice dovrà rendere appunto un giudizio: giudizio sull’esistenza di un diritto, attraverso l’interpretazione della norma astratta e il riscontro circa l’accadimento dei fatti costitutivi del diritto. 6 Sul piano soggettivo, la trasformazione del convincimento in certezza si verifica son la cessazione di ogni effettiva contestazione interna. un soggetto di si considera certo solo quando cessa di avere dei dubbi e non si pone più il problema. Allo stesso modo, l’ordinamento sarà certo quando sarà cessata ogni effettiva possibilità di contestazione, ossia quando sulla pronuncia del giudice si sarà verificata una situazione di incontra stabilità , cioè quando su di essa non si potrà più controvertere con possibili effetti pratici. Ora occorre vedere quale sia la tecnica di cui l’ordinamento si serve per realizzare l’ incontrovertibilità : siccome ogni giudizio umano è fallibile, neppure una lunga serie di giudizi di riesame potrebbe assicurare il giudizio perfetto , tale cioè da esprimere una certezza assoluta. Perciò il numero delle possibilità di esame (cd. grado di giurisdizione, attraverso l’esercizio del potere di impugnazione ) deve essere convenzionalmente limitato. Nel nostro ordinamento i gradi di giurisdizione sono due (giudizio di primo grado e giudizio di appello o di secondo grado) oltre un ulteriore riesame di solo diritto (giudizio di Cassazione). Tale incontrovertibilità è tradizionalmente designata come cosa giudicata che può essere definita come la situazione in forza della quale nessun giudice può pronunciarsi su quel diritto sul quale è già intervenuta una pronuncia che abbia esaurito la serie dei possibili riesami. Tale esaurimento si verifica anche nel caso in cui si sia rinunciato ai diversi gradi di giurisdizione. Quindi, la caratteristica strutturale dell’attività giurisdizionale di cognizione consiste nel fatto che essa è strutturata in modo tale da concludersi in una pronuncia assoggettata ad una serie limitata di riesami del giudizio, o mezzi di impugnazione, il cui esaurimento dà luogo all’incontrovertibilità propria della cosa giudicata. Questa caratteristica fondamentale è espressa nell’art. 324 c.p.c. che contiene la regola del passaggio in giudicato della pronuncia su cui si è esaurita la serie dei mezzi di impugnazione. Questa norma è rubricata sotto il titolo cosa giudicata formale [l’attributo formale si contrappone a sostanziale ed equivale a processuale o anche a strumentale]. Si tratta di un fenomeno processuale che stabilisce quando – dopo aver esaurito la serie di possibili giudizi – nessun giudice può ulteriormente giudicare . La disciplina dello strumento per mezzo del quale la giurisdizione di cognizione consegue il suo risultato o funzione (cioè l’accertamento incontrovertibile del diritto sostanziale) sta in relazione con la disciplina dell’instaurazione di questo risultato, che riguarda il diritto sostanziale, ossia il risultato o funzione sostanziale della cognizione. Questo fenomeno è chiamato appunto cosa giudicata sostanziale la cui disciplina è sintetizzata nell’art. 2909 c.c. che enuncia che l’accertamento passato in giudicato “fa stato a ogni effetto tra le parti, loro eredi ed aventi causa ”. Tale espressione significa rendere il diritto sostanziale definitivamente conforme a quello che è stato il risultato dell'accertamento incontrovertibile. 7 Dal punto di vista della funzione, questa attività parrebbe assimilabile a quella della giurisdizione di cognizione costitutiva, da cui però si distingue perché, anziché accertare ed attuare diritti alla modificazione giuridica, semplicemente attua tali modificazioni, a cui non corrispondono diritti, ma più generiche aspettative assimilabili agli interessi legittimi: invece, quando investe diritti, ciò avviene, di regola, al di fuori di situazioni di contrasto. A queste caratteristiche funzionali corrispondono due caratteristiche strutturali: 1. La giurisdizione volontaria è attività svolta dagli organi giusridizionali in una posizione di imparzialità propria dell’attività di quegli organi; 2. La giurisdizione volontaria si svolge con forme procedimentali che presentano l’elemento tipico del concludersi con provvedimenti caratterizzati dalla revocabilità e modificabilità con la conseguente inidoneità alla cosa giudicata. A questa caratteristica strutturale si riconduce la tipica caratteristica funzionale per cui la giurisdizione volontaria non attua diritti, ma interessi o situazioni più sfumate. In conclusione, è un’attività strutturalmente e funzionalmente amministrativa che, in quanto svolta dagli organi giurisdizionali e destinata ad incidere su situazioni sostanziali più sfumate rispetto ai diritti, partecipa delle fondamentali e basilari garanzie che stanno alla base di ciascuno dei diversi tipi di attività giurisdizionale . Rapporto tra i diversi tipi di attività giurisdizionale Individuati i diversi tipi di attività giurisdizionale, si tratta ora di vedere in che rapporto stanno tra di loro, ossia la funzione propria di ciascuno di essi che si inserisce nella funzione generale dell’attività giurisdizionale. Per quanto riguarda i rapporti tra la funzione di cognizione e quella di esecuzione forzata: ● La cognizione accerta il diritto, formulandolo in una regola concreta e idonea a divenire incontrovertibile: la cognizione viene incontro all’esigenza di certezza. ● L’esecuzione forzata attua materialmente questa regola così formulata e accertata: l’esecuzione viene incontro all’esigenza di attuazione pratica. L’esigenza di certezza e di attuazione pratica costituiscono il duplice aspetto dell’unica esigenza di tutela giurisdizionale: perché l’ordinamento possa attuare il diritto di Tizio alla consegna di una certa cosa da parte di Caio, il quale nega di dovere quella consegna, occorre che l’ordinamento acquisisca prima la certezza obiettiva sull’esistenza di quel diritto e che poi lo attui. Ciò significa che, almeno tendenzialmente, cognizione ed esecuzione si pongono sulla medesima linea, l’una di seguito all’altra. Ciò accade quando la cognizione si svolge in funzione della successiva esecuzione. Quando, dunque, la cognizione ha funzione preparatoria rispetto all’esecuzione, il provvedimento che la conclude prende il nome di condanna. In questa linea trova posto anche l’attività cautelare – solo eventuale – in quanto tende ad assicurare la fruttuosità dell’una, dell’altra o di entrambe. Tuttavia, non sempre l’esigenza di tutela giurisdizionale si manifesta nel veduto duplice aspetto, sì da richiedere lo svolgimento di entrambe le attività (cognizione e esecuzione). Ci riferiamo ai casi in cui l’esigenza di tutela o di attività giurisdizionale è, già di per se stessa, di sola cognizione o di sola esecuzione. 10 1 . esigenza di tutela o di attività giurisdizionale di sola cognizione : si verifica in tutti i casi in cui l’esigenza stessa non tocca il mondo materiale. Ciò accade: perché non si è verificata alcuna violazione (casi di cognizione costitutiva necessaria; casi di cognizione di mero accertamento); perché si tratta di una violazione le cui conseguenze possono essere eliminate senza operare su un mondo materiale (nei casi di cognizione costitutiva non necessaria in cui la violazione consiste nella mancata attuazione di una modificazione giuridica). 2. esigenza di tutela di sola esecuzione forzata : si verifica nei casi in cui l’ordinamento, per ragioni di opportunità, ritiene di poter consentire l’esecuzione forzata, prescindendo da quel massimo grado di certezza obiettiva che è costituito da un incontrovertibilità propria del giudicato, accontentandosi di un minor grado di certezza, che considera sufficiente ai fini dell’esecuzione. Sono i casi in cui l’esecuzione – che presuppone un titolo esecutivo (documento che attesta l’esistenza di un diritto in modo sufficientemente certo) – si fonda su titoli esecutivi stragiudiziali . La possibilità di dare luogo all’esecuzione forzata senza la previa determinazione dell’incontrovertibilità propria del giudicato, lascia aperta la possibilità di un giudizio di cognizione inteso ad accertare l’esistenza del diritto, il quale può svolgersi ad iniziativa di chi subisce l’esecuzione con la funzione di paralizzare l’esecuzione stessa ( opposizione all’esecuzione e costituisce una parentesi di cognizione nel corso del processo di esecuzione, ossia un processo di cognizione che può, eventualmente, svolgersi contemporaneamente a quello di esecuzione). Questo fenomeno del possibile contemporaneo svolgimento della cognizione dell’esecuzione può verificarsi anche nell’ipotesi in cui l’ordinamento concede l’accesso all’esecuzione forzata, accontentandosi di un grado di certezza reputato sufficiente, ma non incontrovertibile. Sono i casi in cui il giudizio di cognizione ha già condotto ad una condanna, su cui non è sceso il giudicato. L’art 282 c.p.c. enuncia “ la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti ”; il che significa attribuzione generalizzata dell’efficacia esecutiva provvisoria a tutte le sentenze di condanna di primo grado. L’art. 283 c.p.c. prevede la possibilità della sospensione dell’esecutività della sentenza da parte del giudice dell’appello “ 1. Il giudice d'appello, su istanza di parte proposta con l'impugnazione principale o con quella incidentale, sospende in tutto o in parte l'efficacia esecutiva o l'esecuzione della sentenza impugnata, con o senza cauzione, se l'impugnazione appare manifestamente fondata o se dall'esecuzione della sentenza può derivare un pregiudizio grave e irreparabile, pur quando la condanna ha ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti. 2. L'istanza di cui al primo comma può essere proposta o riproposta nel corso del giudizio di appello se si verificano mutamenti nelle circostanze, che devono essere specificamente indicati nel ricorso, a pena di inammissibilità. 3. Se l'istanza prevista dal primo e dal secondo comma è inammissibile o manifestamente infondata il giudice, con ordinanza non impugnabile, può condannare la parte che l'ha proposta al pagamento in favore della cassa delle ammende di una pena pecuniaria non inferiore ad euro 250 e non superiore ad euro 10.000. L'ordinanza è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio ”. L’attività di giurisdizione volontaria è estranea alla funzione dell’attuazione dei diritti poiché non attua diritti ma semplici situazioni di aspettativa o di interesse ; mentre anche le sue caratteristiche strutturali sono diverse da quelle degli altri tipi di attività giurisdizionale. 11 L’ambito della giurisdizione e i suoi rapporti con le altre fondamentali attività dello Stato La giurisdizione è una delle tre fondamentali attività dello Stato (accanto a legislazione e amministrazione). La dottrina ha cercato di stabilire se la nozione di giurisdizione comprende tutti o solo alcuni dei tipi di attività: ➢ Se ci si riferisce al profilo funzionale , comprende la cognizione, l’esecuzione e la cautela; ➢ Se ci si riferisce al profilo strutturale , le differenze profonde tra la cognizione e l’esecuzione conducono inevitabilmente a limitare la nozione della giurisdizione ad una sola di tali attività, cioè la cognizione. Entrambe le nozioni di giurisdizione restano nettamente contrapposte alla giurisdizione volontaria. Non vanno poi dimenticati altri tipi di attività, come le giurisdizioni penali e amministrative, le quali hanno caratteristiche funzionali e strutturali analoghe. ➢ L’attività giurisdizionale si distingue da quella legislativa per il fatto che quest’ultima detta regole generali ed astratte, mentre la giurisdizione opera sempre con riferimento concreto ai singoli casi per i quali si attua il diritto, o formulando una regola concreta o dandole esecuzione. ➢ L’attività giurisdizionale si distingue dall’attività amministrativa per il fatto che, quest’ultima, opera anche con riferimento concreto ai singoli casi, è svolta dallo Stato e dai suoi organi, in posizione non imparziale perché è orientata ad attuare gli interessi dello Stato. ➢ Quanto alla giurisdizione volontaria: da un lato, va considerata a parte perché compie modificazioni giuridiche senza attuare diritti e partecipa dei caratteri strutturali propri degli atti amministrativi; dall’altro lato, in quanto è svolta da organi giurisdizionali ed è partecipe di alcune caratteristiche fondamentali, proprie dell’attività di questi organi. CAPITOLO II - IL PROCESSO E I SUOI REQUISITI Il processo come fenomeno giuridico. – Le situazioni giuridiche processuali Il processo non è altro che lo svolgimento dell’attività giurisdizionale e pertanto si può indicare la funzione del processo civile nell’attuazione di diritti e, dal punto di vista strutturale, si può distinguere tra processo di esecuzione e processo di cognizione, negando autonomia al cd. processo cautelare. Si può parlare anche di processo di giurisdizione volontaria. Esaminiamo in maniera più ravvicinata l’essenza intrinseca del processo, di questo “procedere”, inteso in senso giuridico. Le norme giuridiche, che consistono in valutazioni di comportamenti umani considerati in astratto, pongono automaticamente certi soggetti in una certa situazione giuridica rispetto a quello schema di comportamento, ossia: ● la situazione deve tener un certo comportamento ( situazione di dovere ); ● oppure di poter tenerlo. In quest’ultimo caso ciò può accadere in un doppio senso: 12 In dottrina e in giurisprudenza si parla genericamente di presupposti processuali (il primo gruppo di presupposti costituisce un requisito – limite, la cui mancanza difficilmente si verificherà nella pratica). I requisiti sono i medesimi la cui mancanza ostacola la pronuncia sul merito. a. Con riguardo al giu dice, si richiede il suo effettivo potere di decidere quella controversia: si richiede la cd. competenza (e la giurisdizione?) b. Con riguardo al soggetto che chiede tutela giurisdizionale e al soggetto nei cui confronti la domanda viene proposta , si richiede il potere , o meglio la serie dei poteri, di compiere gli atti del processo, che è la legittimazione processuale (sebbene il codice si riferisca alla capacità processuale) Se manca uno di questi requisiti, il giudice si deve fermare al rilievo di quella mancanza, con una pronuncia “ sul processo ”; se invece questi requisiti sussistono, il giudice può e deve andare avanti . Il processo segue il suo iter fino alla pronuncia sul merito. A questa categoria dei presupposti di procedibilità vanno ricondotti tutti quei diversi requisiti dai quali la legge fa dipendere la proponibilità della domanda (es. espletamento preventivo del tentativo obbligatorio di conciliazione, ove previsto). Anche con riguardo a questi requisiti, che sono i presupposti processuali, si deve tener presente che pure accanto ad essi esiste un altro ordine di requisiti che pure condizionano l’attitudine del processo a pervenire ad una pronuncia sul merito. Questi requisiti ( condizioni dell’azione ) che, pur essendo intrinseci alla domanda , condizionano allo stesso modo l’attitudine del processo a pervenire ad una pronuncia sul merito . CAPITOLO III - L’AZIONE E LE SUE CONDIZIONI (pag. 35) 11. La domanda e il potere di proporla Abbiamo già avuto occasione di mettere in rilievo che quella serie di situazioni e di atti in evoluzione, che è il processo, si mette in moto a seguito del compimento di un atto ben definito, la domanda . Col quale atto il soggetto che lo compie esercita un ben definito potere, ossia una situazione processuale semplice: il potere di proporre la domanda. Cominciamo col vedere a chi spetta e in che cosa intrinsecamente consiste questo potere. 1. A chi spetta il potere di proporre la domanda? A questo interrogativo, il nostro ordinamento offre una risposta precisa e categorica in una norma che, considerata l'importanza civile e sociale del tema (poiché si tratta di garantire la possibilità pratica di chiedere la tutela dei diritti) è giustamente collocata nella Carta costituzionale. Ci riferiamo all'art. 24, 1° comma, della Costituzione che abbiamo già preso in esame all'inizio di questa trattazione e che, come ricordiamo, stabilisce che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti o interessi legittimi. Premesso che «agire in giudizio» qui ha sicuramente il significato del primo rivolgersi al giudice e cioè del proporre la domanda, la risposta al nostro interrogativo di poc'anzi sta chiaramente nella parola «tutti», con la quale la norma costituzionale designa i soggetti che hanno il potere di agire nel senso già visto. E li designa in una maniera che più chiara e categorica non potrebbe essere, stabilendo che «tutti», cioè sia i cittadini che gli stranieri o gli apolidi, hanno il potere di proporre la domanda. a. La sola limitazione che può essere considerata compatibile con un'affermazione così categorica è pertanto quella che ha riguardo alle norme generali in tema di capacità, quelle norme, cioè, che in sostanza sottraggono agli incapaci i poteri relativi all'esercizio dei loro diritti, per attribuire tali poteri ai loro rappresentanti legali. 15 Dunque, tutti hanno il potere di proporre la domanda, eccettuati solo gli incapaci, in sostituzione dei quali il potere di proporre le domande relative ai loro diritti spetta ai loro rappresentanti legali. 2. Passiamo ora a domandarci qual è il contenuto intrinseco della domanda (sempre con riferimento al processo di cognizione). Nella disciplina del codice l'atto col quale si propone la domanda può assumere (come vedremo) le forme dell' atto di citazione oppure quelle del ricorso per ciascuno dei quali atti la legge pone determinati requisiti sia di forma che di contenuto. Qui interessa osservare che, perché la domanda possa assolvere alla sua fondamentale funzione di introdurre un processo (ossia un processo pur che sia tale, vale a dire anche indipendentemente dalla sua attitudine a pervenire ad una pronuncia sul merito), non occorre altro requisito, con riguardo alla forma ed al contenuto della domanda, se non quello che essa possa obbiettivamente considerarsi tale , che cioè consista in una domanda di tutela e non, ad es., in una richiesta di solidarietà o in un'espressione di disappunto o in un'invettiva. 12. L'azione e le condizioni dell'azione I requisiti per la pronuncia sul merito sono, dunque, requisiti ulteriori, in quanto, anziché condizionare il solo venire in essere di un processo qualsiasi, condizionano l'attitudine di questo processo a pervenire alla pronuncia sul merito. Ed anch'essi possono essere o presupposti o requisiti intrinseci: da un lato, i presupposti processuali e, dall'altro, quegli ulteriori requisiti intrinseci alla domanda che si chiamano condizioni dell'azione . Si tratta ora di vedere quali sono questi ulteriori requisiti intrinseci alla domanda, questi modi d'essere della domanda, con riguardo al suo contenuto sotto il profilo sostanziale, la cui mancanza fa sì che il processo non possa proseguire fino alla pronuncia sul merito, ma debba arrestarsi subito per dare atto, con una pronuncia «sul processo», di quella mancanza. Prima di esaminare singolarmente questi requisiti o «condizioni dell'azione», giova incominciare col rilevare che essi possono essere considerati come aspetti di un unico requisito o modo di essere della domanda e cioè di quella che potremmo chiamare la sua ipotetica accoglibilità. Se la domanda non contenesse l'affermazione che esiste un diritto o contenesse l'affermazione che questo diritto non appartiene a colui che chiede la tutela, o che questo diritto non ha bisogno di tutela perché nessuno l'ha violato) il giudice non avrebbe alcun motivo di riscontrare la verità di quanto esposto, e cioè di proseguire nel processo, perché - veri o non veri i fatti affermati -, la domanda stessa non potrebbe comunque essere accolta. Il che significa che solo in presenza di quei requisiti l'esercizio del potere di proporre la domanda - che spetta a tutti - può, anziché esaurirsi in un'immediata e sterile pronuncia «sul processo», introdurre l'ulteriore serie processuale di situazioni e di atti fino alla pronuncia «sul merito» e cioè - con particolare riguardo a colui che ha proposto la domanda - introdurre quella ulteriore serie di suoi poteri col cui esercizio si attua, fino alla pronuncia sul merito, l'«agire» di chi ha proposto la domanda, o, in altri termini, la sua «azione». In altri termini, quando la domanda possiede quei requisiti, essa, oltre a costituire esercizio di quel potere di proporre la domanda che l'art. 24 Cost. conferisce a tutti, costituisce al tempo stesso il primo atto di esercizio dell'azione, intesa come quella situazione giuridica composita o sequenza di situazioni che ricomprende in sé l'intera posizione giuridica dell'attore, ossia del soggetto che chiede la tutela giurisdizionale. 16 13. Le singole condizioni dell'azione: possibilità giuridica; interesse ad agire; legittimazione ad agire. Non resta ora che esaminare più da vicino i suddetti requisiti nei quali si articola quella che abbiamo chiamato «ipotetica accoglibilità» della domanda, e rispetto ai quali la denominazione di condizioni dell'azione emerge in tutto il suo significato. Si diceva poc'anzi che la domanda non è accoglibile, neppure ipoteticamente, se non contiene l'affermazione che esiste un diritto, e che questo diritto è bisognevole di tutela. Sappiamo, d'altra parte, che, per affermare un diritto, occorre affermare, ossia esporre, o narrare, certi fatti concreti che si chiamano fatti costitutivi di quel diritto in quanto, contemplati in astratto da una determinata norma, rendono concreta, nel momento in cui si verificano, la volontà astratta contenuta in quella norma. 1. In altri termini, non si può affermare un diritto se non c'è almeno una norma che preveda in astratto quel diritto; e se, d'altra parte, non si afferma l'accadimento concreto dei fatti previsti in astratto da quella norma. Ciò premesso, possiamo incominciare col ravvisare una prima condizione dell'azione nell'esistenza di una norma che contempli in astratto il diritto che si vuol far valere. Questa prima condizione dell'azione si chiama possibilità giuridica . 2. Ben altra importanza, anche sul piano pratico, ha invece la seconda condizione dell'azione, che pure emerge dai rilievi di poc'anzi. Più precisamente dal rilievo che, da un lato, per affermare un diritto bisogna affermare anche l'accadimento concreto di uno o più fatti costitutivi previsti in astratto da una norma; mentre, dall'altro lato, non basta affermare il diritto, occorrendo inoltre che tale diritto sia affermato come bisognevole di tutela. In questo bisogno di tutela giurisdizionale che emerge dall'affermazione dei fatti costitutivi e dei fatti lesivi del diritto, sta quella condizione dell'azione che si chiama interesse ad agire e che è espressamente enunciata dal fondamentale art. 100 c.p.c. («per proporre una domanda o per contraddire alla stessa, è necessario avervi interesse»). «Interesse», o «bisogno», non già per quel bene che è riconosciuto e attribuito dal diritto sostanziale, del quale sta alla base, ma interesse per quell'ulteriore diverso bene o risultato (ossia la tutela giurisdizionale) che può conseguirsi attraverso l'attività giurisdizionale. Ma si noti bene - lesione (o fatto lesivo) soltanto affermata o narrata nella domanda, così come soltanto affermato o narrato nella domanda deve essere il fatto costitutivo del diritto. ○ L'interesse ad agire sta, dunque, nell'affermazione (allegazione), contenuta nella domanda, dei fatti costitutivi e dei fatti lesivi di un diritto (!!!). ○ Peraltro, esso assume caratteristiche particolari nel caso di azione di mero accertamento o costitutiva necessaria. Infatti, nel caso dell'accertamento mero, l'affermazione del fatto lesivo sarà sostituita dall'affermazione della contestazione o del vanto , mentre nel caso della giurisdizione costitutiva necessaria l'interesse ad agire è, come si suol dire, in re ipsa , ossia nell'affermazione del semplice fatto costitutivo del diritto alla modificazione giuridica o diritto potestativo necessario. 3. Ancora in chiave di affermazione va, infine, riscontrata l'esistenza della terza condizione dell'azione, vale a dire la legittimazione ad agire . Qui l'ipotetica accoglibilità viene in rilievo sotto il profilo soggettivo: la domanda non è accoglibile, neppure ipoteticamente, se il diritto affermato nella domanda stessa non è affermato come diritto di colui che propone la domanda e contro colui nei cui confronti si propone la domanda. Se così non fosse, se cioè mancasse questa coincidenza soggettiva (nel suo duplice aspetto: attivo, come coincidenza tra chi propone la domanda e colui che nella domanda stessa è affermato titolare del diritto; e passivo, come coincidenza tra colui contro il quale la domanda è proposta e colui che nella domanda è affermato soggetto passivo del diritto o comunque violatore di quel diritto). 17 pratica, per stabilire se tale sentenza è idonea a fondare l'esecuzione forzata. Il proprium della sentenza di condanna, infatti, si rinviene nell'accertamento dell'esigenza di ulteriore tutela mediante esecuzione forzata e dei presupposti per far luogo a tale esecuzione. D'altro canto, il passaggio in giudicato di quest'accertamento fonda la c.d. actio judicati , rompendo il collegamento con la ragione sostanziale del diritto di credito. Con la conseguenza, tra l'altro, della trasformazione della prescrizione breve in quella ordinaria decennale (art. 2953 c.c.). Sempre con riguardo alla tutela di condanna, giova soffermarsi brevemente su alcuni tipi di azione (e delle relative pronunce) che, per le loro particolarità, vengono dette condanne speciali. Art. 278 “1. Quando è già accertata la sussistenza di un diritto, ma è ancora controversa la quantità della prestazione dovuta, il collegio, su istanza di parte, può limitarsi a pronunciare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione. 2. In tal caso il collegio, con la stessa sentenza e sempre su istanza di parte, può altresì condannare il debitore al pagamento di una provvisionale, nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova.” ● Una di queste figure è la c.d. condanna generica , prevista dall' art. 278 e che contempla la possibilità di scindere la pronuncia sul «se» (o sull' an ) di una certa prestazione, dalla pronuncia sul quantum . La norma in discorso prevede tale possibilità per l'ipotesi in cui, durante lo svolgimento di un giudizio instaurato per ottenere la pronuncia di condanna ad una determinata prestazione, si delinei già la certezza sull'an e non ancora sul quantum. In tal caso il giudice può, appunto, pronunciare la condanna generica, con una sentenza che vedremo chiamarsi «non definitiva» , salva la prosecuzione del giudizio per il quantum , rispetto al quale può intanto riconoscere una provvisionale o acconto (art. 278, 2° comma), con riferimento al quantum per il quale si ritiene già raggiunta la prova, immediatamente eseguibile. Va, d'altra parte, tenuto presente che la giurisprudenza suole ammettere l'azione di condanna generica anche in via autonoma, nel senso proprio di una domanda proposta con riguardo solo all'an, lasciando il quantum ad un altro eventuale, successivo processo, o, come si suol dire, a una «separata sede». Se in primo grado è stata chiesta la sola pronuncia sull'an non è possibile chiedere in appello la pronuncia anche sul quantum. - La sentenza che in questo modo si può ottenere, se, da un lato, è una condanna, perché consegue ad un'esigenza di tutela determinata da violazione, dall'altro lato, è una condanna che non è idonea a fondare un'esecuzione forzata, fino a quando non sarà integrata la determinazione del quantum (Carnelutti usava, a questo riguardo, la colorita espressione di «mezza condanna» ). - Essa, tuttavia, è considerata già condanna dall'ordinamento ad altri effetti, tra i quali soprattutto quello di costituire titolo per iscrivere ipoteca giudiziale sui beni del debitore (art. 2818 c.c.). Ulteriore problema è poi quello di vedere se, per la pronuncia della condanna generica, sia sufficiente l'accertamento di un danno potenziale, come la Cassazione suole affermare, o se, invece, occorra l'accertamento di un minimo di danno effettivo. 20 ● La c.d. condanna condizionale , che si ha sia quando il giudice fa dipendere l'eseguibilità della condanna dal verificarsi di una certa condizione e sia quando la condizione appartenga già al diritto sostanziale accertato ed il giudice si limiti a recepirla nella sentenza (ad es., il diritto di Tizio al pagamento di 100 da parte di Caio se si verificherà un certo evento, previsto dal contratto stipulato fra i due). In quest'ultimo caso - meglio definibile come condanna a prestazione condizionata - la sentenza potrà essere di condanna solo dopo l'avveramento della condizione, mentre prima, non potendosi configurare una violazione già in atto, non potrà essere che di accertamento mero (es. contratto preliminare quando una delle parti non adempie) . ● la c.d. condanna in futuro , nel senso di azione rivolta ad ottenere la condanna attuale ad una prestazione soggetta ad un termine e perciò eseguibile solo dopo il decorso di tale termine. Anche questo tipo di condanna non può, in linea generale, essere riconosciuta ammissibile se non come accertamento mero, poiché prima della scadenza del termine per adempiere non può esserci violazione, e dunque manca l'interesse ad agire per la condanna. Vi sono, tuttavia, dei casi in cui la legge stessa eccezionalmente configura delle autentiche condanne in futuro; il principale esempio è costituito dalla convalida della licenza per finita locazione prima della scadenza, prevista dall'art. 657, 1° comma. Poiché non c'è dubbio che, in questo caso, l'ordinamento consente la pronuncia di una condanna prima e indipendentemente dalla violazione, si deve ritenere che nel suddetto caso l'ordinamento ha eccezionalmente allargato l'ambito dell'interesse ad agire per la condanna fino a ricomprendervi la semplice probabilità (valutata e presunta dal legislatore) che alla scadenza del termine si verifichi la violazione; ed appunto in relazione a tale probabilità, consente al locatore di ottenere subito il titolo esecutivo, da portare ad esecuzione forzata se alla scadenza del termine non avverrà il rilascio spontaneo dell'immobile locato. In questa categoria vanno probabilmente incluse anche le condanne a prestazioni alimentari o di mantenimento, che la giurisprudenza tende ad ammettere pur nella mancanza di una loro espressa previsione legislativa e che, secondo quanto si ritiene, sono eseguibili via via che maturano i periodi di riferimento. ● I c.d. accertamenti con prevalente funzione esecutiva , si tratta di procedimenti di cognizione-condanna, la cui specialità consiste in ciò che, per conseguire il più rapidamente possibile l'accesso all'esecuzione forzata, si svolgono in maniera accelerata, ossia con una cognizione sommaria e non piena. In taluni casi, la cognizione è sommaria perché superficiale . In altri casi, la cognizione è sommaria perché incompleta (esempio tipico: le c.d. condanne con riserva delle eccezioni ), in quanto vengono pronunciati provvedimenti a contenuto di condanna nonostante che il convenuto abbia avanzato delle eccezioni di merito, il cui esame, di conseguenza, viene accantonato per essere compiuto in seguito. 3. Infine, per quanto concerne l' azione costitutiva non necessaria , l'interesse ad agire è determinato, come nella condanna, dalla violazione; nel caso della giurisdizione costitutiva necessaria , l'interesse ad agire è in re ipsa , ossia nello stesso fatto costitutivo del diritto alla modificazione giuridica. Ricordato tutto ciò, rimane da vedere in che consiste il proprium dell'azione (e della conseguente sentenza) costitutiva. In quanto si tratta di cognizione, non c'è dubbio che anche quest'azione tende, in primo luogo, all'accertamento del diritto che si fa valere. Ma poiché, in questo caso, il diritto che si fa valere è diritto ad una modificazione giuridica (o, come molti 21 lo chiamano, diritto potestativo alla costituzione, modificazione o estinzione di un rapporto giuridico o di uno status personale), l'accertamento del diritto non basta ancora per soddisfare l'esigenza di ottenere quella modificazione, la quale postula un quid pluris. La situazione è paragonabile a quanto accade nella condanna, ove pure, si è visto, l'accertamento non basta per attuare la tutela, ma costituisce la premessa logica e giuridica per quell'ulteriore attività tutelatrice che è l'esecuzione forzata. Ma la differenza profonda tra la sentenza di condanna e la sentenza costitutiva sta in ciò che, mentre con la condanna il giudice non può che rimandare l'attuazione effettiva del diritto all'esecuzione forzata, da compiersi dall'organo esecutivo, nel caso della sentenza costitutiva, l'ulteriore attuazione del diritto alla modificazione accertato può compiersi subito e direttamente dal giudice , dal momento che per attuarla non occorre operare nel mondo materiale, ma solo nel mondo degli effetti giuridici. Ecco, dunque, il giudice (della cognizione) far luogo alla modificazione giuridica (o, per meglio dire, alla costituzione, modificazione o estinzione di un rapporto giuridico o di uno status personale) subito dopo l'accertamento del diritto a tale modificazione. Subito dopo, sul piano logico, ma in realtà con lo stesso atto, ossia con quella medesima sentenza che contiene l'accertamento del diritto alla modificazione. Sebbene, poi, il momento in cui questi effetti concretamente si verificano venga individuato, tradizionalmente, nel momento del passaggio in giudicato della sentenza. 4. Infine, alcuni individuano, come ulteriore tipo di azione di cognizione, l' azione preventiva , intesa come azione diretta a prevenire anziché reprimere la violazione del diritto. Ma tale configurazione non sembra corretta, in considerazione del fatto che, in realtà, una funzione preventiva può essere assolta in taluni casi da forme di tutela giurisdizionale strutturalmente assai diverse tra loro, come, ad es., le azioni di accertamento mero, le azioni cautelari, le condanne in futuro, le condanne inibitorie, le nunciazioni e le misure di istruzione preventiva. Questo spiega l'orientamento quasi unanime della dottrina che nega autonomia alla c.d. azione preventiva e preferisce parlare di tutela preventiva come caratteristica funzionale comune a diversi tipi di tutela in talune ipotesi, senza che questo consenta anche di configurare la stessa tutela preventiva in via generalizzata ed atipica. Al tempo stesso spiega anche l'orientamento che nega il ruolo di autonomo tipo di tutela di cognizione anche all' inibitoria , nella quale di solito si concreta la tutela preventiva, e preferisce ricondurla ad ipotesi tipiche nelle quali, per tutelare in futuro situazioni sostanziali determinate, si ammette la pronuncia di provvedimenti che impongano la cessazione di una condotta illecita di carattere omissivo o commissivo. Possiamo, dunque, concludere questa rassegna dei diversi tipi di azione (e dei relativi provvedimenti) di cognizione, osservando che l'accertamento è l'elemento costante e comune a ciascuno di essi; ma mentre in un caso (accertamento mero), tale accertamento esaurisce la funzione di tutela, negli altri due casi, ad esso si aggiunge un elemento in più: nella condanna, tale elemento in più non è che un ulteriore contenuto dell'accertamento in quanto con esso si accerta l'ulteriore esigenza di tutela mediante esecuzione forzata, che verrà poi attuata nel processo esecutivo; nella sentenza costitutiva, invece, tale elemento in più è già insito nella sentenza, che dà diretta attuazione della modificazione giuridica (intesa come costituzione, modificazione o estinzione di un rapporto giuridico o di uno status personale), oggetto del diritto accertato. 16. L'azione esecutiva e l'azione cautelare. Se ora si esce dal campo del processo di cognizione per riferirsi alle azioni che introducono i processi di tipo diverso, e cioè rispettivamente quello di esecuzione forzata e quello cautelare, si deve 22 Dunque, dovere di decidere, in quel senso più ampio che include tutto il suo comportamento, cioè tutti i suoi atti nel processo, in funzione dell'atto finale che assolve alla funzione decisoria. Ed appunto con questo significato, globalmente riferito all'intero arco di attività da compiersi dal giudice nel corso del processo di cognizione, va intesa la fondamentale norma dell 'art. 112 , secondo la quale « il giudice deve decidere su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa », e nella quale va dunque in primo luogo vista l'enunciazione del dovere decisorio del giudice in questo senso globale (per capire se questo principio è stato rispettato lo vediamo sulla sentenza, nel suo dispositivo si deve trovare X). Nel compiere la suddetta enunciazione, la norma in discorso dice in sostanza tre cose: a) il giudice deve decidere, ossia enuncia il dovere decisorio in se stesso, il cui esercizio esclude ogni responsabilità; b) effettua un preciso riferimento del dovere decisorio del giudice alla domanda, nel senso che tale dovere è condizionato e determinato appunto, dalla domanda; in terzo luogo; c) precisa l'oggetto e l'ambito del dovere decisorio in discorso stabilendo che i limiti della decisione debbono coincidere con i limiti della domanda. → Principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato Cominciando ad esaminare la prima di queste enunciazioni, occorre osservare che la correlazione tra domanda e pronuncia investe in primo luogo proprio l'attitudine della domanda a fondare il diritto ad una pronuncia sul merito piuttosto che sul processo. Se, infatti, da un lato, solo la domanda qualificata dalle condizioni dell'azione può fondare il dovere del giudice di pronunciarsi sul merito, dall'altro lato, anche una domanda priva di una o più condizioni dell'azione, o addirittura una domanda invalida, fonda il più generico dovere del giudice di emettere comunque una pronuncia, ancorché non sul merito, ma sul processo. Se si ricorda che accertare l'esistenza di un diritto è un'operazione logica che si sostanzia nel riscontro che i fatti previsti in astratto dalla norma come fatti costitutivi del diritto si sono verificati nel caso concreto, così rendendo concreta la volontà di legge; se si ricorda tutto ciò, appare evidente che l'operazione del giudizio è la sintesi di due distinti momenti logici: 1) l'enunciazione in astratto della portata attuale della norma sia con riguardo alla precisa determinazione della sua volontà astratta e sia con riguardo alla individuazione degli schemi astratti dei fatti in essa previsti come fatti costitutivi (c.d. interpretazione della norma o giudizio di diritto ) 2) il riscontro che in quel determinato caso concreto si sono (o non si sono) effettivamente verificati i fatti previsti in astratto dalla norma e affermati in concreto nella domanda, oltre agli eventuali fatti lesivi (c.d. giudizio di fatto ). E la sintesi di questi due momenti (nei quali è facile ravvisare la premessa maggiore e la premessa minore di un sillogismo) è precisamente il c.d. sillogismo del giudice o giudizio, vale a dire l'enunciazione che in quel determinato caso la volontà astratta di legge che viene enunciata, è (oppure non è) divenuta concreta così come enunciata, e come tale è (oppure non è) bisognevole di tutela. Il tutto a conferma (oppure smentita) di quanto l'attore ha affermato nella domanda. In altri termini, la premessa maggiore di questo cosiddetto sillogismo sarebbe il c.d. giudizio di diritto , ossia quel momento logico nel quale il giudice ragiona su un piano astratto e teorico, come puro giurista. La premessa minore sarebbe invece il giudizio di fatto che il giudice compie, esattamente come uno storico, salvo solo il rilievo che non sempre il giudice può operare con quella totale assenza di vincoli, che è propria dello storico. Naturalmente, il c.d. sillogismo del giudice non è che uno schema, ossia una semplificazione di comodo di una serie di operazioni mentali ben più complesse. Basterà, per rendersene conto, tener presente, anzitutto, che ciascuna delle due premesse costituisce a sua volta il risultato di un giudizio, 25 almeno in senso logico (c.d. giudizio di diritto e c.d. giudizio di fatto) sicché il compito del giudice sta più nell'elaborazione di quelle premesse che non nello svolgimento del sillogismo. D'altra parte, i suddetti due giudizi (di diritto e di fatto) non possono mai compiersi del tutto indipendentemente l'uno dall'altro, perché il giudizio di diritto presuppone, nella sua stessa impostazione (come si è visto anche nell'esempio compiuto sopra), un primo orientamento che non può esser dato che dai fatti (mi pongo il problema dell'interpretazione dell'art. 1341 c.c., perché dai fatti affermati nella domanda emerge che essi rientrano nell'ambito di una clausola limitativa della responsabilità), mentre il giudizio di fatto presuppone la cernita e la messa a fuoco degli elementi rilevanti, la quale presuppone a sua volta il riferimento alla portata della norma (mi domando se vi fu una nuova sottoscrizione perché la norma parla di «specifica approvazione»). D'altra parte, l'impiego, nella norma, di concetti indeterminati (ad es., «giusta causa») rende talora impossibile la distinzione tra le due valutazioni. Né va dimenticato che talora è stessa legge che lascia al giudice un margine di scelta tra diverse soluzioni e la determinazione della concreta misura di determinate pronunce (ad es., «equa indennità») e, d'altro canto, il giudizio storico (ma anche quello giuridico) si risolve sempre in una scelta di maggior congruenza logica tra le contrapposte ipotesi prospettate delle parti perché la verità certa e assoluta non è di questo mondo. Senza, d'altra parte, dimenticare che in ciascuno dei momenti nei quali si articola il complesso ragionamento del giudice (interpretazione della norma, accertamento dei fatti, valutazione dell'attendibilità delle prove, scelta di congruenza) opera, in larga misura, il c.d. «senso comune». Il quale «senso comune», lungi dal poter essere razionalizzato in un sistema coerente (col ricorso alle c.d. «massime di esperienza» e alle regole scientifiche) è, per sua natura, incerto ed eterogeneo e soprattutto variabile nel tempo e nei luoghi. 18. La correlazione con la domanda e i confini del dovere decisorio del giudice. Il principio della disponibilità dell'oggetto del processo. Art. 99: “Chi vuole far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente”. → Il giudice per decidere se X esiste e come esiste, deve comprendere se si è realizzata la fattispecie costitutiva di X ( diritto fatto valere con la domanda giudiziale). Così precisata l'essenza del giudizio, occorre - passando ora agli altri due veduti aspetti della riferita proposizione dell'art. 112 - determinarne ulteriormente, da un lato, la sua correlazione con la domanda e, dall'altro lato, i suoi confini . La ragione di questa necessità sta ancora una volta nel fatto che il giudizio è un'attività dovuta in correlazione col diritto di azione. È chiaro, infatti, che per la stessa ragione per la quale questa prestazione è dovuta solo in quanto è richiesta da chi esercita l'azione, essa è dovuta nei limiti in cui è richiesta; ossia: poiché questa prestazione è la pronuncia sul diritto che è affermato nella domanda, essa dovrà effettuarsi precisamente su quel diritto, e non su un altro; su tutto l'ambito del diritto o dei diritti affermati (poiché se restasse un margine di diritto affermato su cui non si compie la pronuncia, per quel margine il giudice mancherebbe al suo dovere: c.d. omissione di pronuncia ), ma non oltre l'ambito del diritto o dei diritti affermati (perché, se così facesse, il giudice svolgerebbe un'attività non solo non dovuta, ma non richiesta e la sua pronuncia sarebbe affetta dal c.d. vizio di ultrapetizione ). Ed a questo punto ben si comprende l'estrema esattezza della sintetica formula con la quale l'art. 112 c.p.c., nel momento stesso in cui enuncia la correlazione tra il dovere decisorio e la domanda, enuncia anche che i confini di questa debbono essere i confini di quello. 26 Occorre ora approfondire ulteriormente ciascuno dei rimanenti due aspetti del medesimo condizionamento del dovere decisorio rispetto alla domanda, nel senso che quel dovere decisorio sorge: b) solo se c'è la domanda e c) con l' estensione della domanda. Che il dovere decisorio venga in essere solo in quanto sia proposta una domanda, risulta già dalla norma fondamentale, che concerne la tutela giurisdizionale considerata nella sua funzione globale. L' art. 2907 c.c. enuncia, infatti, che la tutela giurisdizionale dei diritti è prestata « su domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero o d'ufficio». Trascurando le ipotesi eccezionalissime della tutela prestata d'ufficio (15), e quelle della tutela chiesta dal Pubblico Ministero, si può constatare come questa norma sia ispirata ad un fondamentale principio. È il c.d. principio della disponibilità della tutela giurisdizionale , per il quale il titolare (affermato) del diritto sostanziale è libero di chiedere oppure non chiedere tale tutela, come anche di rinunciare ad essa una volta chiestala. Ed è evidente che tale disponibilità sta a sua volta in correlazione con la disponibilità del diritto sostanziale, poiché il chiedere o il non chiedere la tutela di quel diritto è un modo di disporre di esso. Il che è confermato dal rilievo che i casi in cui la tutela può essere eccezionalmente chiesta dal Pubblico Ministero sono proprio i casi in cui si opera su diritti sostanziali indisponibili. D'altra parte, nei casi nei quali l'iniziativa per la tutela giurisdizionale può occasionalmente spettare a soggetti diversi dal titolare affermato del diritto (casi di legittimazione straordinaria o sostituzione processuale), si può ravvisare un fenomeno di disponibilità allargata del diritto con conseguente limitazione della esclusività nel disporre della relativa tutela. Il principio della disponibilità della tutela giurisdizionale, che sta ancora a monte del processo, trova immediata correlazione in un altro principio, che invece appartiene già alla disciplina del processo e che può essere anzi considerato, in un certo senso, l'espressione in termini processuali del medesimo principio sia pure in un'ottica e con funzione diverse. Questo principio è enunciato dall’ art. 99 c.p.c. sotto la rubrica: principio della domanda: « chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente ». In evidente correlazione con l'art. 112, si riferisce alla dipendenza del dovere decisorio del giudice dall'iniziativa di chi propone la domanda. Il che significa che colui che propone la domanda e che per questo solo fatto, acquista un «diritto al processo», ha una sorta di esclusiva su questo «diritto al processo», e sul conseguente dovere decisorio del giudice, in quanto questo dovere viene in essere solo se c'è la domanda, ed è la domanda che vincola il giudice al dovere di giudicare. D'altra parte, come abbiamo già visto, e come risulta dall'art. 112, questo dovere dipende dalla domanda anche con riguardo alla sua estensione, ossia ai suoi limiti. Questo significa che chi propone la domanda vincola il giudice non solo al dovere di pronunciarsi, ma più precisamente al dovere di pronunciarsi su tutta l'estensione della domanda. In altri termini, l'«esclusiva» di chi propone la domanda sul dovere decisorio del giudice è anche una vera e propria esclusiva nell'ambito del giudizio o, come si suol dire, sull'oggetto del processo. È appunto in questo senso che si suole parlare di disponibilità dell'oggetto del processo in capo a colui che propone la domanda, nel senso che questi, con la sua domanda, vincola e limita il giudice nell'oggetto del suo giudizio. Ed è appena il caso di precisare che ci riferiamo all'oggetto sostanziale del processo. Si tratta ora di vedere più da vicino come opera questo vincolo del giudice. In primo luogo, tale vincolo si manifesta con riguardo al tipo di azione di cognizione esercitata: di accertamento mero, di condanna oppure costitutiva. Se, ad es., il giudice al quale fosse stata chiesta una condanna, pronunciasse una sentenza di accertamento mero, incorrerebbe nel vizio di parziale omissione di pronuncia, mentre se accadesse il contrario, il vizio sarebbe di ultrapetizione. 27 inserito in un ruolo diverso da quello dei giudici «togati»; e, d'altra parte, entro un limite di valore (euro 1.100) della controversia inferiore al limite di competenza di questo giudice (limite che è, di regola, pari a euro 5.000). Quando viceversa il giudizio di equità riguarda i giudici c.d. «togati» e senza limiti di valore, esso è facoltativo o concordato fra le parti. La prima ipotesi è configurata dall'art. 113, 2° comma, secondo cui «il giudice di pace decide secondo equità le cause il cui valore non eccede duemilacinquecento euro, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all'articolo 1342 del codice civile». Va anche rilevato che l'esigenza di conciliare con i dettami costituzionali la natura necessaria del giudizio di equità di cui all'art. 113 ha indotto la Corte costituzionale a pretendere che esso sia comunque conforme ai « principi informatori / principi regolatori della materia » (si risolve sul piano argomentativo e facendo una ricerca sulla giurisprudenza, in astratto è difficile da trattare in maniera approfondita, va fatto sul caso concreto) della materia oggetto della decisione giudiziale. Con la conseguenza che il giudizio necessario di equità, oltre a non poter violare le norme costituzionali e quelle processuali, non può neanche essere in contrasto con i principi che hanno ispirato (e «informano») l'ordinamento sostanziale vigente. 2. La seconda ipotesi di giudizio di equità è prevista dall' art. 114 e si concretizza quando entrambe le parti siano concordi nell'attribuire al giudice il potere di giudicare secondo equità una controversia su diritti disponibili (essendo chiaro che, con lo svincolare il giudice dal dovere di applicare le norme, si dispone, sia pure indirettamente, dei diritti stessi). Fenomeno molto diverso si verifica quando la legge prevede il ricorso all' equità (integrativa) per integrare la portata di determinate norme: così, ad es.. per la determinazione del danno che non può essere provato nel suo preciso ammontare (art. 1226 c.c.) o dell'indennità che spetta al danneggiato da chi ha agito in stato di necessità (art. 2045 c.c.). 20. Il principio della disponibilità delle prove. Sistema inquisitorio e sistema dispositivo. Il principio della libera valutazione delle prove. Art. 115 - Disponibilità delle prove 1. Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita. 2. Il giudice può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza. Art. 116 - Valutazione delle prove 1. Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti. 2. Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell'articolo seguente, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo. Fermo, dunque, che il vincolo di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato opera, in concreto, soltanto con riguardo ai fatti allegati, ci si deve domandare ancora se il suddetto vincolo concerne soltanto l'allegazione del fatto (ossia: la circostanza che un fatto sia stato o meno allegato e, quindi, il se il giudice deve giudicare su di esso) oppure anche il modo col quale in concreto si svolge il giudizio su quel fatto. Più precisamente, se tale vincolo investe anche gli strumenti dei quali il giudice si serve per compiere la sua operazione di giudizio sui fatti, che, come si ricorderà, consiste nel riscontro se i fatti allegati siano o non siano veri. 30 Orbene: è appunto con riguardo a queste «offerte di prova» ad opera dell'una o dell'altra parte, che ci domandiamo se il giudice sia vincolato ad esse. In altri termini: il giudice, nel formare il suo convincimento sulla verità dei fatti allegati dall'attore o dal convenuto, è tenuto a servirsi soltanto delle prove che gli sono offerte dall'una o dall'altra parte, oppure può, di sua stessa iniziativa («d'ufficio», come si suol dire) adoperarsi o comunque disporre per l'acquisizione delle prove che gli sembrano utili per il giudizio? A questo interrogativo risponde esplicitamente l' art. 115 nel senso che tale ulteriore e diverso vincolo per il giudice esiste, sia pure con delle eccezioni: «salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero», nonché i fatti non specificamente contestati dalla controparte costituita. E pertanto, riservandoci di tornare tra poco sia sul riferimento ai fatti specificamente non contestati e sia sull'accenno all'iniziativa del Pubblico Ministero, possiamo incominciare col prendere atto che, nel nostro sistema, il giudice è, almeno di regola, vincolato, oltre che dall'allegazione dei fatti compiuta esclusivamente dalle parti, dalle offerte di prove delle stesse parti sui fatti allegati. Questo doppio vincolo viene spesso espresso con un brocardo iudex secundum allegata et probata iudicare debet . Ma questo raggruppamento in un unico enunciato di due vincoli diversi è tutt'altro che felice. 1. In primo luogo, è inesatto parlare di «probata» (termine che parrebbe implicare il già avvenuto esperimento positivo del mezzo di prova) per riferirsi a quelle che, come abbiamo visto, sono invece le «circostanze che le parti hanno offerto di provare». 2. In secondo luogo, enunciando i due suddetti vincoli in un'unica proposizione si può determinare l'errato convincimento che essi abbiano il medesimo fondamento logico. Il che non è assolutamente vero, poiché mentre il primo vincolo - quello che vincola il giudice secundum allegata e che si esprime nella regola o principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato o della disponibilità dell'oggetto del processo - discende, come conseguenza logica necessaria, dal principio della domanda e da quello della disponibilità della tutela giurisdizionale e, in definitiva, dalla disponibilità dei diritti, la stessa cosa non può esser detta del secondo vincolo, quello che riguarda le offerte di prove compiute dalle parti. In realtà, questo secondo vincolo - per il quale si suole parlare di principio della disponibilità delle prove (o, più semplicemente di principio dispositivo) - non sta, come l'altro, in correlazione con la necessità di lasciare libero il titolare del diritto di scegliere se ed in che limiti chiederne la tutela, ma, presupponendo già compiuta la richiesta di tutela, riguarda solo un limite, per il giudice, nel servirsi di quegli strumenti tecnici di convincimento che sono le prove. Alcuni tra gli ordinamenti processuali moderni si sono orientati nella direzione accennata da ultimo, nel senso cioè di lasciare al giudice un'ampia facoltà di iniziativa nell'avvalersi dei mezzi di prova, e si sono così orientati verso il c.d. sistema inquisitorio. In realtà, questo sistema, sebbene più valido e più funzionale ai fini dell'accertamento il più possibile veritiero dei fatti, potrebbe incrinare, specialmente nei suoi presupposti psicologici, la posizione di imparzialità del giudice. Altri ordinamenti sono, invece, rimasti più o meno strettamente legati al sistema opposto, ossia al c.d. sistema dispositivo. Il nostro ordinamento - salvo quanto rileveremo tra poco con riguardo al processo del lavoro ed al processo di divorzio - si ispira ad un sistema che potrebbe dirsi « dispositivo attenuato », poiché, pur affermando genericamente il vincolo del giudice alle offerte di prova delle parti, non manca di far salvi i «casi previsti dalla legge», che costituiscono delle eccezioni di importanza tutt'altro che trascurabile. 31 Una di tali eccezioni è già contemplata nel medesimo art. 115 e, più precisamente, nel suo 2º comma , ove si dice che il giudice « può, tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza 1 ». Disposizione, questa, che parrebbe di contenuto ovvio, ma la cui introduzione nel codice del 1940 ha, in realtà, rappresentato una svolta importante: ciò che dà la misura del rigore formalistico con cui in precedenza si applicava il sistema dispositivo puro, tanto che ancora appariva attuale il detto, coniato nel periodo intermedio, secondo cui «quod non est in actis non est in mundo». Altre ipotesi di possibilità, per il giudice, di fondare il suo convincimento intorno ai fatti su prove non proposte dalle parti, si rinvengono negli artt. 117, 118, 213 , con la previsione della possibilità per il giudice di disporre d'ufficio, rispettivamente, l'interrogatorio libero delle parti, l'ispezione di persone o cose e la richiesta di informazioni scritte alla Pubblica Amministrazione. Ed è appunto in relazione a ciò che l' art. 116 , 2° comma , dispone che dalle risposte delle parti in sede di interrogatorio libero, come anche, più in generale, dal loro comportamento, il giudice può trarre «argomenti di prova». Ancora più accentuati risultano i poteri istruttori ufficiosi del giudice nel processo del lavoro. Qui ci limitiamo ad osservare che questo rilievo si fonda soprattutto sull'art. 421, 2° comma, ove si enuncia che il giudice «può altresì disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile...». In analoga direzione il legislatore si è orientato anche nel disciplinare il processo di divorzio, col disporre (art. 4, 8° comma, L. 898/1970) la possibilità per il giudice di disporre indagini sui redditi e sul tenore di vita dei coniugi nel caso che su questo emergessero contestazioni (art. 5, 9° comma). In questo quadro si inserisce anche il disposto dell'art. 281 ter, che attribuisce al giudice del tribunale in composizione monocratica (e indirettamente anche al giudice di pace) il potere di disporre d'ufficio la prova testimoniale, quando le parti si siano riferite a persone che appaiano in grado di conoscere la verità dei fatti di causa. Ma soprattutto importanti, a proposito dell'acquisizione della prova dei fatti, sono le parole che la L. 69/2009 ha aggiunto al 1° comma dell' art. 115 , ossia l'aggiunta della previsione che il giudice è vincolato a porre a fondamento della decisione, oltre che le prove proposte dalle parti o dal Pubblico Ministero, «i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita», così fornendo il fondamento positivo al c.d. «onere della contestazione». Si tratta dell'accoglimento del c.d. principio della non contestazione, in forza del quale, nei processi su diritti disponibili la mancata esplicita e specifica contestazione dei fatti di causa ad opera della controparte solleva la parte che li ha allegati dall'onere della prova. È d'altra parte evidente che questa relevatio ab onere probandi operi solo nei confronti della parte che, essendosi costituita, ha assunto un ruolo attivo e non anche nei confronti della parte che, non essendosi costituita, è stata dichiarata contumace. 1 Si ritiene che, nel caso dei «fatti notori» , debba trattarsi di singole situazioni o accadimenti storicamente determinati talmente certi da apparire indubitabili e incontestabili, e non di accadimenti futuri da ritenersi certi secondo l'id quod plerumque accidit o secondo le massime d'esperienza. Così sono escluse dalla portata della norma le nozioni di natura tecnica, salvo che siano acquisite alla conoscenza media, nonché quegli accadimenti che presuppongono la valutazione di dati particolari. Sono parimenti escluse le conoscenze che casualmente (o non casualmente: v. l'art. 97 disp. att. c.p.c.) può avere avuto personalmente il giudice ancorché in conseguenza di altra sua attività giudiziaria (c.d. scienza privata del giudice) o tramite informazioni fornite da un soggetto estraneo al processo che non rivesta né la qualità di testimone, né quella di consulente tecnico d'ufficio. Sono, invece, incluse le circostanze comunemente note nel luogo ove abitano le parti e il giudice (c.d. notorietà ristretta o locale). Art. 97 delle disp. di att. che pone un divieto di scienza privata , che significa che il giudice non può all’interno del processo fondare la propria pronuncia su fatti che conosce al di fuori dell’esercizio del suo ufficio. 32 di indisponibilità dei diritti - poteri tecnicamente analoghi a quelli propri dei soggetti che operano nel processo come parti, così sottraendo a questi ultimi l'esclusiva sul «come» ed eventualmente sul «se» far valere quei diritti in giudizio. Ciò consente anche di mettere in risalto come, con l'espediente del Pubblico Ministero, il legislatore abbia conseguito il fine della sottrazione ai privati della suddetta esclusiva nel far valere i diritti là dove tale esclusiva sarebbe stata in contrasto con l'indisponibilità dei diritti stessi; senza peraltro rinnegare - anzi riaffermando con l'adeguarsi alle esigenze della relativa tecnica - la scelta di fondo per il sistema imperniato sull'impulso di parte e per il sistema dispositivo. Sicché lo strumento del Pubblico Ministero se, dal punto di vista della sua funzione, può essere ricondotto alle finalità proprie di un processo ad impulso d'ufficio, dal punto di vista tecnico, si inquadra invece interamente negli schemi del processo ad impulso di parte. 22. Il principio del contraddittorio e il c.d. diritto costituzionale alla difesa. Art. 101 - Principio del contraddittorio. 1. Il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata e non è comparsa. 2. Il giudice assicura il rispetto del contraddittorio e, quando accerta che dalla sua violazione è derivata una lesione del diritto di difesa, adotta i provvedimenti opportuni . Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti giorni e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione. Per completare l'esame delle regole e dei principî che concernono genericamente l'attività decisoria del giudice considerata globalmente, rimane ora da soffermarsi su una fondamentale regola che riguarda ancora il giudice, nel senso che pone una condizione essenziale all'esercizio del suo potere e dovere di giudicare. L'avveramento di questa condizione dipende dall'instaurazione di una certa situazione tra gli altri due protagonisti del processo, vale a dire le due parti: colui che chiede la tutela e colui nei cui confronti la tutela è richiesta. Si tratta della regola codificata dall' art. 101 c.p.c. sotto la rubrica « principio del contraddittorio », e per la quale il giudice, «salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata e non è comparsa». Questa norma va esaminata, anzitutto, nella sua portata diretta ed esplicita, e, in secondo luogo, nella sua portata più ampia che si riconduce alla palese volontà del legislatore (espressa anche nella rubrica) di compiere, con essa, l'enunciazione di un principio generale. Con riguardo alla portata esplicita della norma, occorre domandarsi chi sia la «parte contro la quale la domanda è proposta». Premesso che le parti sono i soggetti attivo e passivo della domanda, è chiaro che dicendo «parte contro la quale la domanda è proposta» s'intende il soggetto passivo della domanda, ossia il con venuto . Ed a questo punto, per rendersi ben conto di chi sia il soggetto passivo della domanda, basterà tenere presente che la domanda consiste nella richiesta al giudice di un provvedimento sul merito: da ciò, infatti, appare evidente che soggetto passivo della domanda è colui che, secondo quanto è affermato e chiesto nella domanda stessa, dovrà subire le conseguenze del richiesto provvedimento del giudice, quel soggetto, insomma, che l'autore della domanda chiede che venga condannato a pagare 100, oppure che venga dichiarato non proprietario, oppure che subisca gli effetti dell'annullamento di un contratto o comunque della pronuncia. Di questo soggetto passivo della domanda, così individuato, noi avevamo già visto - parlando della legittimazione ad agire - che esso deve, di regola, coincidere con quel soggetto che nella domanda è affermato come soggetto passivo del rapporto sostanziale (ad es., debitore di 100), così come il 35 soggetto attivo della domanda deve coincidere col soggetto che nella domanda è affermato come soggetto attivo di quel rapporto (ad es., creditore di 100). Il Tizio che propone la domanda di condanna di Cajo a pagare 100 deve, insomma, aver previamente affermato, in quella domanda, che proprio lui è creditore di Cajo. Orbene: dopo che la regola della legittimazione ad agire (nel suo aspetto passivo) ha detto in sostanza che colui (Cajo) contro il quale si propone la domanda di condanna deve essere lo stesso soggetto (Cajo), che nella domanda è affermato debitore inadempiente, ecco che la norma in esame - ossia la regola del contraddittorio - impone, sotto pena di divieto al giudice di pronunciarsi, un preciso adempimento che implica un'altra coincidenza soggettiva; dice cioè che quel Cajo di cui nella domanda è chiesta, ad es. la condanna, deve essere stato «regolarmente citato» , ossia deve essere stato destinatario della citazione davanti al giudice, salva l'ipotesi che esso sia presente nel processo come altro convenuto o come altro attore. Qui interessa solo precisare che essa consiste in una vocatio davanti al giudice, con l'indicazione delle relative modalità di tempo e di luogo dell'udienza che si svolgerà davanti al giudice: vocatio da portarsi a conoscenza del suo destinatario in modo che si possa essere certi di tale conoscenza (a mezzo notificazione ossia consegna ufficiale di copia autentica dell'atto contenente tale vocatio insieme con la domanda, ossia l'atto di citazione). Si tratta insomma di un meccanismo che consente al soggetto passivo della domanda di comparire davanti al giudice - se lo vuole - e di contrastare la richiesta rivolta al giudice contro di lui, eventualmente con la proposizione di una controdomanda. Ed ecco che, in relazione a ciò, emerge, in tutto il suo significato, la ragione per la quale la norma in esame vuole che il destinatario della domanda sia «regolarmente citato», a ciò condizionando la pronuncia del giudice; la ragione, cioè, di quell'ulteriore necessaria coincidenza che, come si accennava poc'anzi, è enunciata dalla norma in discorso, tra destinatario della domanda e destinatario della citazione. Il Cajo di cui si parlava poc'anzi deve essere regolarmente citato proprio perché è colui che, secondo quanto si chiede nella domanda, dovrebbe subire gli effetti dell'eventuale accoglimento della domanda stessa . In altri termini: dal momento che, se la domanda di Tizio sarà accolta, Cajo sarà condannato, appare subito intuitivo che Cajo, e proprio Cajo, debba essere posto nella condizione di poter contrastare l'accoglimento di quella domanda, ossia di difendersi, naturalmente in quanto lo voglia. Le parti vanno poste in una posizione di uguaglianza formale (c.d. principio di uguaglianza delle parti) e di tale uguaglianza formale si esige un'estrinsecazione concreta, col consentire a coloro che del processo dovranno subire gli effetti, di svolgere in esso un ruolo attivo, che possa in qualche modo influire sul suo esito. La nostra Carta costituzionale ha recepito e fatto proprio il postulato in discorso con riferimento alla difesa (art. 24, 2° comma: «la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del processo»), ma in realtà con una portata che va ben oltre la disponibilità dello strumento della difesa, per investire senz'altro il postulato in discorso e che potremmo chiamare del diritto di tutte le parti alla possibilità di svolgere un ruolo attivo nel processo di cui dovranno subire gli effetti. Diritto, questo, elevato anch'esso al rango costituzionale dal nuovo 2° comma dell' art. 111 Cost. secondo cui « ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità davanti a giudice terzo e imparziale ». La regola del contraddittorio va inserita nel quadro di questo principio costituzionale. Poiché colui contro il quale la domanda è proposta deve essere posto, oltreché in condizione di uguaglianza formale rispetto a colui che propone la domanda, anche in condizione di difendersi, purché lo voglia; e poiché per difendersi occorre che egli sappia che cosa si chiede contro di lui e quando e come il giudice (e quale giudice) inizierà l'esame della domanda e che cosa egli deve fare per contrastare quella domanda, ecco che la norma in esame subordina l'esercizio del potere-dovere del giudice di giudicare, alla «regolare citazione» del soggetto passivo della domanda, ossia all'attuazione di una 36 serie di comportamenti che, come vedremo, sono preordinati precisamente a conseguire tutte le suddette finalità. La norma in esame (dopo aver previsto la necessità della regolare citazione della controparte) prosegue dicendo «... e non è comparsa» . Al lume della veduta ratio della norma, appare chiaro che la comparizione del soggetto passivo della domanda è considerata come un sintomo del fatto che quel soggetto sia stato in concreto posto in condizioni di conoscere le modalità della sua chiamata davanti al giudice; tanto è stato posto in tali condizioni, che è comparso al momento stabilito, così rivelando di essere stato posto, effettivamente, in condizioni di difendersi. Ciò implica che la comparizione del soggetto passivo della domanda davanti al giudice è considerata dalla legge come un requisito sostitutivo, e non aggiuntivo, rispetto alla regolare citazione o, per essere più esatti, alla regolarità della citazione. Sicché la congiunzione «e» (ove non la si voglia intendere come un lapsus del legislatore col significato di «o») dovrebbe essere intesa come riferita alla sola ipotesi dell'irregolarità della citazione e, con riguardo alla funzione di sanare tale irregolarità, come alternativa alla regolarità stessa ( !!! ). Insomma, la comparizione del soggetto passivo della domanda toglie rilievo ad ogni eventuale vizio della citazione (art. 164, 3° e 5° comma). Va, d'altra parte, tenuto presente che il 2° comma dell' art. 101 impone al giudice, quando ritenga di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio, di provocare il contraddittorio su tale questione, assegnando alle parti termini (non minori di venti e non superiori a quaranta) per memorie sulla questione stessa. E questo a pena di nullità della decisione. E’ stato aggiunto che, più generalmente, il giudice assicura il rispetto del contraddittorio e se accerta la violazione dei diritti di difesa adotta i provvedimenti opportuni . Così precisata la portata letterale della norma in argomento e la sua ratio, è facile determinarne la portata più generale o di principio. Tale portata (ovviamente da inquadrarsi anch'essa nella cornice del c.d. diritto costituzionale alla difesa) consiste nell'esigenza per cui, in generale, ogni pronuncia di giudice presuppone l'instaurazione di un contraddittorio, ossia di una situazione che consente ai soggetti che, secondo il diritto sostanziale e processuale, sono legittimati a contraddire, di svolgere - sempre che lo vogliano - le loro contestazioni: audiatur et altera pars (volgarmente: si senta anche l'altra campana); questo è il nucleo del principio, che costituisce uno dei cardini del processo di cognizione, di esecuzione, cautelare e perfino volontario e quindi uno dei principali orientamenti interpretativi dell'intera disciplina processuale. Ciò, peraltro, non impedisce che eccezioni a questa regola possano sussistere, purché naturalmente il legislatore faccia salvo in altro modo il fondamentale postulato dell'uguaglianza delle parti e della possibilità di difendersi. CAPITOLO V - LE ATTIVITA’ DIFENSIVE DEL CONVENUTO (pag.107) 23. Particolarità del diritto alla tutela del convenuto. a) L'inerzia del convenuto e le sue conseguenze. Dopo l'esame, dal punto di vista globale, della posizione giuridica dell'attore e del giudice, ci rimane ora da prendere in esame, sempre dal punto di vista globale, la posizione di colui nei cui confronti è proposta la domanda e che il rispetto del principio del contraddittorio impone, come si è visto, che sia regolarmente citato. Questo soggetto viene detto il convenuto perché, proprio in attuazione di questo principio, viene «chiamato», o, appunto, «convenuto» davanti al giudice per svolgere le sue difese. Da un punto di vista generale, si è visto che, proprio in applicazione del principio del contraddittorio, al convenuto deve essere garantita, ed attuata in concreto, una posizione che sia di uguaglianza rispetto all'attore. Tuttavia, si deve subito constatare che l'uguaglianza e la simmetria 37 - Tuttavia, ancora a sostegno della negazione dei fatti affermati dall'attore, il convenuto può fare qualcosa di più: può cioè avvalersi del potere di offrire al giudice determinati mezzi di prova, potere che, come si è visto, l'art. 115, attribuisce ad entrambe le parti: può produrre documenti, offrire prove testimoniali (sia mediante la c.d. prova contraria sulle stesse circostanze che l'attore ha offerto di provare, e sia mediante la prova anche su circostanze diverse, purché in funzione della negazione dei fatti allegati dall'attore, ecc.). Orbene: con l'esercizio di questo potere, il convenuto, pur non influendo affatto sull'ambito dell'oggetto del giudizio, tuttavia influisce indirettamente sui poteri del giudice, poiché si avvale della disponibilità delle prove, che è sua come dell'attore. Appunti ● Con minor grado di incidenza contestare ciò che l’attore ha affermato. E’ il potere di negare l’esistenza dei fatti storici allegati ex adverso (dalla controparte). L’effetto di questa contestazione del fatto storico è quella di rendere il fatto controverso , anziché pacifico . Fatto controverso significa fatto bisognoso di prova, al contrario il fatto pacifico in quanto non contestato non è bisognoso di prova. Infatti art. 115 afferma “...nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”; se la parte non contesta il fatto il giudice può porlo a fondamento della decisione, laddove vi sia la contumacia non si applica questa norma ( ficta contestatio ). Significa che colui che allega il fatto è onerato di darne la prova solo se il fatto è stato contestato ( art. 2697 c.c. fatti estintivi , modificativi e impeditivi ; diviene attuale al seguito della contestazione della parte, solo se la parte mi contesta io sono tenuto a provarlo). Per esempio non ascoltano i testimoni se il fatto è pacifico. La norma afferma che i fatti devono essere contestati specificatamente , l’onere deve essere specifico e non generico, “la circostanza allegata non corrisponde al vero”, oppure si allega un fatto in contrasto. Il grado di specificità della contestazione dipende dal grado di specificità dell’allegazione, ad allegazione generica segue contestazione generica (!). Il principio non si applica: - Nel caso di contumacia - Quando l’oggetto del diritto è indisponibile - Quando il fatto è rappresentato e deve essere provato con forma scritta ad substantiam (a pena di nullità), non posso surrogare la mancanza del documento senza una contestazione, perché in questo caso la presenza o meno del documento non si apprezza sul piano della prova del fatto ma sul piano del perfezionamento della fattispecie. Es. un contratto che deve essere concluso per iscritto ad substantiam , l’esistenza è un requisito di efficacia della fattispecie, non è un problema di prova, non si può surrogare questo elemento con una non contestazione. 25. c) La partecipazione attiva del convenuto, nei limiti della domanda dell'attore, ma oltre i limiti dell'oggetto del processo determinato dall'attore: l'eccezione. Ma il convenuto può, a sua volta, allegare ed offrire di provare degli altri e diversi fatti rispetto a quelli allegati dall'attore? Per rendersi conto di come possano verificarsi e quali siano questi “altri e diversi fatti” e di come possa porsi un problema di questo genere, occorre richiamarci a quanto si disse a suo tempo circa la portata concretante dei fatti rispetto al diritto. Un diritto - si disse - viene in essere quando si 40 determina una volontà concreta di legge, ciò che avviene quando si verificano in concreto uno o più di quei fatti che nella norma, o volontà astratta di legge, sono astrattamente previsti come idonei a costituire quel diritto, e che perciò sono detti fatti costitutivi. Ad es., poiché una norma - l'art. 1575 c.c. - enuncia la volontà astratta che il locatore deve consegnare al conduttore la cosa locata, il fatto della conclusione di un contratto di locazione è fatto costitutivo del diritto del conduttore Tizio alla consegna di quella certa cosa locata, nei confronti del locatore Cajo. 1. Sennonché, se il contratto di locazione fosse stato, in ipotesi, risolto consensualmente prima della consegna, il diritto di Tizio alla consegna, pur essendo a suo tempo venuto in essere, non potrebbe più esser fatto valere perché ormai estinto: il che significa che il fatto della risoluzione avrebbe operato, rispetto a quel diritto, con efficacia estintiva, ossia come un fatto estintivo . 2. Oppure se, in altra ipotesi, l'efficacia del contratto fosse stata sottoposta ad una condizione sospensiva, il fatto della stipulazione di tale condizione e del suo mancato avveramento, avrebbe impedito la possibilità di far valere quel diritto, ossia avrebbe operato con efficacia impeditiva della possibilità di far valere il diritto come diritto attuale, avrebbe cioè operato come fatto impeditivo . 3. Allo stesso modo, rispetto ad un diritto di credito ad una somma di denaro, si può pensare, oltre che al fatto della stipulazione, ad es., di un contratto di mutuo, come fatto costitutivo di quel diritto, anche al pagamento o al decorso del periodo prescrizionale come fatti estintivi dello stesso diritto, o alla pendenza di un termine, come fatto impeditivo, oppure ancora ad un pagamento parziale come fatto modificativo . Si delinea, così, con riferimento all'efficacia per così dire «concretante» che i fatti hanno, rispetto alle singole volontà astratte di legge, una netta distinzione tra fatti costitutivi, da un lato, e fatti impeditivi, modificativi o estintivi, dall'altro lato. Ed in relazione a questa distinzione, appare evidente che quegli “altri e diversi fatti”, sono per l'appunto i fatti estintivi e i fatti impeditivi o modificativi. Ad es. il locatore, convenuto per la consegna della cosa locata, potrebbe anziché, negare l'avvenuta conclusione del contratto, allegare il fatto estintivo che concreta la risoluzione consensuale o il fatto impeditivo determinato dalla pendenza di una condizione sospensiva? Che il convenuto possa allegare fatti con portata estintiva, impeditiva o modificativa del diritto, è nella logica del giudizio (che investe il diritto nella sua attuale esistenza ed efficacia) e, d'altra parte, risulta, indirettamente, ma chiaramente, da una precisa norma di legge: l' art. 2697 c.c. , che pone l' onere della prova a carico di chi allega i fatti , contrapponendo, sotto questo profilo, l'allegazione dei fatti costitutivi del diritto, all'allegazione dei fatti che hanno reso inefficaci tali fatti o hanno estinto o modificato il diritto. La norma ora richiamata dà anche un nome all'allegazione dei fatti impeditivi, modificativi o estintivi, usando, per questa allegazione, il termine «eccepire» , col chiaro significato dell'inclusione dell'allegazione in discorso nella nozione dell'«eccezione». Le eccezioni, delle quali soltanto qui ci occupiamo, sono le c.d. eccezioni di merito o sostanziali, che sono appunto quelle che emergono dall'art. 2697 c.c. (nonché dall'art. 112 c.p.c.). Queste eccezioni non sono propriamente tali (ossia sono eccezioni in senso improprio ) se consistono in semplici negazioni dei fatti costitutivi; sono, invece, vere e proprie eccezioni (ossia eccezioni di merito in senso proprio ) quelle che consistono nella richiesta di una decisione negativa su una domanda altrui sul fondamento di fatti impeditivi modificativi o estintivi. Precisato ciò occorre mettere bene in evidenza che con queste allegazioni l' oggetto del processo si allarga rispetto a quello delimitato dalla domanda. Un allargamento - s'intende che non riguarda la domanda stessa, poiché con l'eccezione si vuol soltanto determinare il rigetto di quella sola e 41 medesima domanda; ma un allargamento che concerne i fatti dei quali il giudice può e deve conoscere. È allora evidente che nei limiti in cui l'ordinamento consente queste allegazioni e questo allargamento, resta in qualche modo limitata e pregiudicata quell'esclusiva sull'oggetto del processo che per il principio - della disponibilità dell'oggetto del processo abbiamo visto appartenere a colui che propone la domanda. Premesso tutto ciò, possiamo rilevare come, nel nostro codice, questo potere è indirettamente ma chiaramente contemplato dalla seconda parte dell' art. 112 ove, dicendo che «il giudice non può pronunciare d'ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti» si dice implicitamente che egli può e deve pronunciare sulle eccezioni in genere. Ma la proposizione normativa or ora riferita offre anche la risposta all'ulteriore interrogativo che concerne l'esistenza o meno di un'esclusiva del convenuto sull'allegazione dei fatti impeditivi, modificativi o estintivi. In altri termini, ci si deve ancora domandare se a questa limitazione dell'esclusiva dell'attore corrisponde un'esclusiva del convenuto; se, cioè, i fatti in discorso possono essere allegati soltanto da lui. L'interrogativo si pone in concreto con riguardo all'alternativa dell'iniziativa del giudice. Si risolve, cioè, nel quesito se il giudice possa pronunciarsi d'ufficio su fatti impeditivi, modificativi o estintivi, dei quali sia venuto a conoscenza attraverso le risultanze processuali, nonostante che nessuna delle parti abbia proposto eccezione con riguardo ad essi o comunque chiesto una pronuncia su di essi. Orbene: è appunto a questo quesito che la seconda parte dell'art. 112 offre una risposta che potremmo dire possibilista poiché, col vietare al giudice di pronunciarsi su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti, questa norma afferma implicitamente che esistono due categorie di eccezioni (di merito): quelle sulle quali il giudice può pronunciarsi d'ufficio e quelle che possono essere proposte soltanto dalle parti . Ne deriva che, nell'ambito dell'insieme delle eccezioni di merito, le «eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti » costituiscono un'ulteriore e più ristretta categoria, per la quale può apparire utile la denominazione (frequente in dottrina e in giurisprudenza) di eccezioni (di merito) in senso stretto . Ma quali sono i fatti impeditivi, modificativi o estintivi, dei quali il giudice può tener conto anche d'ufficio, e quali invece quelli dei quali il giudice può conoscere solo se fatti oggetto di un'eccezione di parte? In molti casi, è lo stesso legislatore che, nell'indicare l'efficacia impeditiva, modificativa o estintiva di determinati fatti, enuncia chiaramente ed esplicitamente che tale efficacia è subordinata all'iniziativa di chi li fa valere oppure afferma che di essi il giudice non può (o, al contrario, può) tener conto d'ufficio. Tipici gli esempi dell'eccezione di compensazione (art. 1242 c.c.) e dell'eccezione di prescrizione (art. 2938 c.c.). Ma, come ci si deve regolare quando la legge non offre elementi sicuri? 1. Se si tiene presente che il dovere di pronunciare sul merito è quello di pronunciarsi sull'esistenza attuale del diritto affermato nella domanda, appare evidente che, per assolvere a tale dovere, il giudice deve conoscere di tutti quei fatti che, al momento della sua pronuncia, abbiano influito sull'esistenza di quel diritto e cioè anche di quei fatti impeditivi, modificativi o estintivi che abbiano automaticamente prodotto i loro effetti sul diritto: si pensi, ad es., al pagamento o alla risoluzione consensuale del contratto, alla nullità dello stesso, alla mancanza di data certa (ex art. 2704 c.c.) nella scrittura privata diretta a far valere un credito nei confronti di un terzo, alla simulazione, alla novazione, alla rinuncia, nonché alla c.d. compensazione impropria. Di questi fatti il giudice può - dal momento che deve - tener conto d'ufficio, purché risultino dagli atti di causa e siano non controversi o provati. 2. Ma se questi sono i fatti di cui il giudice può tener conto d'ufficio, appare evidente che quelli di cui viceversa non può tener conto d'ufficio sono quei fatti impeditivi, modificativi o 42 ○ Abbiamo una connessione debole quando la domanda riconvenzionale è connessa ( art. 36 c.p.c.) per il titolo (es. entrambe le domande si fondano sul contratto di compravendita). E’ una connessione tenue perché il giudice in astratto può accogliere o rigettare le domande senza che incida su questi casi. ○ Connessione in via di eccezione , si ha quando esiste un fatto che il convenuto può spendere tanto come eccezione, tanto come domanda riconvenzionale. E’ una connessione forte perché abbiamo due diritti incompatibili. Es. la risoluzione, l’annullamento. ■ L’eccezione di risoluzione è volta solo al rigetto della domanda principale (es. rigetto del pagamento del prezzo). ■ La domanda riconvenzionale invece è volta ad ottenere la rimozione per sempre del contratto e all’accertamento del diritto di risoluzione (es. caducazione anche di altri diritti che si poteva far valere, dunque si si trattava di una sola rata di mutuo, una volta risolto il contratto non potranno essere richieste neanche le altre). Le differenze sono che se faccio valere solo l’eccezione ottengo solo il rigetto della domanda, se ci sono altri effetti da far valere l’attore lo potrà fare. Se invece propongo la domanda di risoluzione ottengo un diverso risultato, accertamento del mio diritto alla risoluzione e in caso di accertamento la rimozione del contratto (tenuto al pagamento del contributo unificato, mentre con l’eccezione non vi è questo pagamento). La domanda riconvenzionale è la controdomanda proposta dal convenuto nei confronti dell’attore, mentre l’ eccezione riconvenzionale è una prospettazione difensiva finalizzata, a differenza della domanda riconvenzionale, esclusivamente al rigetto della domanda attrice, attraverso l'opposizione al diritto fatto valere dall’attore di un altro diritto idoneo a paralizzarlo (Cass. 9044/2010). CAPITOLO VI - L’OGGETTO DEL PROCESSO E I LIMITI DEL GIUDICATO. CONNESSIONE E CONCORSO DI AZIONI (pag. 127) 27. Le ragioni pratiche dell'individuazione dell'oggetto del processo attraverso l'identificazione delle azioni: il giudicato e i suoi limiti, la litispendenza, il divieto di domande nuove L'attore, con l'esercizio della sua azione, determina l'oggetto sostanziale del processo, così determinando i confini che il giudice deve raggiungere e non può superare con la sua pronuncia; i quali confini costituiscono anche, in linea di massima, il limite per le contro-richieste che il convenuto può inserire nel processo. Tutto ciò rende evidente che l'oggetto sostanziale del processo si determina preminentemente attraverso l'esercizio dell'azione e che, pertanto, se si vuole individuare quest'oggetto nei suoi esatti confini, si deve risalire all'azione. Questa individuazione dell'oggetto del processo nei suoi confini (sostanziali) è per l'appunto il tema del discorso che ci apprestiamo a svolgere ed al quale è opportuno premettere il rilievo che, secondo la terminologia corrente ed usata anche dal codice, il singolo processo individuato nel suo oggetto sostanziale viene indicato col termine «causa» . Possiamo, dunque, incominciare col rilevare che, per determinare ed individuare nei suoi confini una causa, occorre individuare l'ambito dell'azione che l'ha introdotta. Per questo, l'operazione 45 logico-giuridica di individuazione dell'oggetto di un determinato processo o di una determinata causa prende comunemente il nome di « identificazione dell'azione », come individuazione dei connotati di una singola azione, considerata come singolo fenomeno giuridico concreto e storicamente determinato, quasi si trattasse di indicare i connotati di un individuo: quella certa azione, proposta da Tizio contro Cajo in quel certo giorno per far valere quel certo diritto. Ma prima di vedere come questa operazione logico-giuridica deve compiersi, occorre vedere perché la si compie, quali, cioè, ne sono le ragioni pratiche. Queste ragioni pratiche consistono nella necessità di rispettare alcuni principi fondamentali del processo e, tra questi, in primo luogo: da un lato, la c.d. regola del ne bis in idem e, dall'altro lato, la regola del doppio grado di giurisdizione. Il principio del ne bis in idem si esprime in primo luogo nella fondamentale regola che sta alla base del fenomeno della cosa giudicata. Come si ricorderà, l'ordinamento ricollega all'esaurimento dei mezzi di impugnazione di cui all'art. 324 c.p.c., la cosa giudicata in senso processuale, ossia il divieto a qualsiasi eventuale altro giudice di pronunciarsi nuovamente sulla materia che ha costituito oggetto della pronuncia passata in giudicato, di- vieto che costituisce poi il fondamento della cosa giudicata in senso sostanziale, per cui l'accertamento contenuto in una sentenza passata in giudicato « fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa » ( art. 2909 c.c. ). 1. Se, in contrasto con questo divieto, l'azione su cui si è già formato il giudicato sostanziale venisse riproposta allo stesso o ad altro giudice, quest'ultimo dovrebbe - anche d'ufficio - affrontare e risolvere il quesito se l'azione così proposta è la stessa su cui si è già formato il giudicato, oppure è un'altra e diversa: dovrebbe, cioè, far luogo ad un'identificazione dell'oggetto del processo o della causa, attraverso l'identificazione delle due azioni, per stabilire se si tratta in realtà della medesima azione. E quando, come il più delle volte accade, la questione investe l'ambito del giudicato, essa si presenta, in concreto, come un problema di limiti del giudicato, e più precisamente un problema di limiti soggettivi ed oggettivi del giudicato stesso. 2. Un'esigenza analoga si determina nel caso in cui la seconda azione venga proposta quando il processo introdotto dall'esercizio della prima azione non sia ancora terminato, ma sia ancora pendente, intendendo come tale il processo che non ha ancora prodotto una decisione passata in giudicato. Anche in questo caso, la regola del ne bis in idem si traduce nel divieto al secondo giudice di pronunciarsi; e siccome l'azione è stata già esercitata, egli deve dare atto della litispendenza: così dispone l'art. 39, 1° comma, e, in correlazione con esso, l'art. 273. Ciò all'evidente scopo di evitare un possibile contrasto di giudicati sulla medesima azione. Anche qui, a seguito della proposizione della c.d. eccezione di litispendenza (o anche indipendentemente da essa, trattandosi di eccezione rilevabile anche d'ufficio), il giudice dovrà impostare e risolvere un problema di identificazione delle due azioni, con riguardo all'ambito e ai confini dell'azione già pendente. D'altra parte, un problema di identificazione di azioni può sorgere con riguardo alla necessità della salvaguardia del contraddittorio e del doppio grado di giurisdizione. Poiché, infatti, in ossequio a queste regole, il legislatore vieta la proposizione di domande nuove, sia nel corso del giudizio di primo grado, dopo la fase introduttiva, e sia in appello, per stabilire se una domanda è «nuova≫ rispetto a quelle proposte in primo grado - si dovrà ricorrere, appunto, all'identificazione delle azioni. Appunti Di regola l’accertamento investe e riguarda il diritto soggettivo fatto valere, vedremo in che cosa consiste poi l’efficacia che l’ordinamento riconosce a questo accertamento. Per ora è da evidenziare la 46 determinazione del periodo oggettivo entro cui questo accertamento cade. Non copre tutte le questioni di fatto e di diritto che il giudice deve accertare per decidere ● Accertamento autoritativo , accertamento vero e proprio con effetti previsti dal ’ art. 2909 c.c. , si proietta in tutti i giudizi su quell'oggetto. ● Accertamento meramente logico contenuto nella motivazione, hanno solo lo scopo di giungere alla decisione e hanno un'efficacia solo per quel procedimento. ● Si può estendere oltre il diritto fatto valere dalle parti: ○ Per volontà di legge il giudice deve accertare con efficacia di giudicato il rapporto pregiudiziale ; la norma di riferimento è l’ art. 34 (scritto per risolvere una ragione di competenza, a noi ora interessa dal punto di vista della determinazione dell’oggetto del giudizio). I fatti estintivi, impeditivi e modificativi possono avere una duplice rilevanza, come visto ieri, questa stessa cosa può avvenire anche in relazione ai fatti costitutivi, dunque A potrebbe essere un rapporto giuridico, dunque A = Y. Noi abbiamo due rapporti connessi l’uno con l’altro, dove il rapporto pregiudiziale che influisce su quello dipendente, il vincolo che li lega è la pregiudizialità dipendenza. Es. diritto al pagamento di una somma di denaro, e diritto al pagamento degli interessi, sono due diritti diversi che hanno ognuno dei presupposti, il diritto al pagamento degli interessi necessità che vi sia la necessità del pagamento della somma capitale. Dunque il primo dipende dal secondo. Se l’attore fa valere il rapporto dipendente, il rapporto pregiudiziale sarà trattato alla stregua di un fatto, senza efficacia di giudicato. Se poi successivamente sorge una controversia sul rapporto pregiudiziale, questo non è stato accertato dal giudice dunque può essere messo in discussione, salvo che le parti (1) lo richiedono con la domanda (es. con domanda riconvenzionale chiede l’accertamento del rapporto pregiudiziale, dunque l’accertamento sarà X e Y). Oppure potrebbe essere la legge (2) che vuole che il rapporto sia accertato con efficacia di giudicato: - Il rapporto sia costituito da uno status (es. pagamento di un credito alimentare). - All’interno di un diritto complesso, es. quando si agisce in rivendica della proprietà, non si fa valere solo il diritto alla consegna del bene, dunque l’accertamento copre tutto il diritto assoluto, dunque l'esistenza o meno del diritto di proprietà. - Ci sia un unico rapporto fondamentale complesso (nella stessa circostanza storica più avere rilevanza ai fini di più diritti, ma il soggetto articola la propria difesa in relazione a quello che è il mio obiettivo finale). Per esempio nel mutuo, A chiede a B, A sarà tenuto a ridare a B una serie di rate che coprono la somma + gli interessi. B agisce nei confronti di A per ottenere il pagamento della rata di febbraio 2023, asserendo che A non ha versato quella somma dovuta. In questo caso se applicassimo il principio che l’accertamento incide solo sul diritto fatto valere, il giudice andrà a decidere solo in relazione alla rata di febbraio. Potrebbe nascere una contestazione in relazione al contratto di mutuo, ma tutti gli accertamenti varranno solo ai fini di decidere la A deve a B la rata di febbraio. In questa situazione c’è un forte squilibrio tra la posizione di B e la posizione di A, per questo si applica questa eccezione. Abbiamo che dalla conclusione di un singolo contratto discendono più rapporti. 47 contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa ». Questa norma, già esaminata a suo tempo (retro, § 4) con riguardo alla nozione di cosa giudicata in senso sostanziale, ossia nella sua prima parte, va ora esaminata più da vicino nella sua seconda parte, ossia nel suo riferimento dell'effetto del giudicato alle parti, i loro eredi ed aventi causa. Il tema dei c.d. limiti soggettivi del giudicato si incentra, dunque, sulla portata di quest'ultima proposizione normativa e più precisamente sulla determinazione della portata con la quale va inteso il riferimento alle parti, nonché della portata dell'estensione compiuta col riferimento agli eredi e agli aventi causa ed infine nel quesito se quest'ultimo riferimento esaurisca oppure no, i casi di estensione soggettiva del giudicato. 1. In primo luogo, va tenuto presente che la sentenza vale rispetto a tutti ma come sentenza tra le parti nel senso che - in linea di principio - la sentenza non può «pregiudicare» altri soggetti che furono estranei alla lite sicché in questo senso, e solo in questo senso, deve intendersi l'espressione normativa che la sentenza produce effetto soltanto tra le parti. 2. In secondo luogo, se si tiene presente che, con la parola «parti» si intende non solo i soggetti degli atti del processo (parte in senso processuale), ma anche i soggetti del rapporto sostanziale affermato o dell'azione ( parte in senso sostanziale ), dai rilievi compiuti sopra circa la coincidenza tra l'ambito del giudizio e l'azione appare già evidente che le parti alle quali si riferisce l'art. 2909 c.c. sono le parti in senso sostanziale. 3. In terzo luogo, si può ulteriormente specificare che, per quanto si ebbe ad osservare a proposito della legittimazione straordinaria , i soggetti «sostituiti» o che subiscono gli effetti dell'esercizio dell'azione da parte di altri, sono comunque inclusi in questa nozione di «parti» in senso sostanziale. 4. In quarto luogo, - ed è questo il punto più delicato - si deve prendere atto che l'ordinamento offre molti esempi di estensione degli effetti del giudicato nei confronti di soggetti che non furono «parti» (neppure in senso sostanziale) nel processo. Questi soggetti sono in primo luogo quei soggetti ai quali l'art. 2909 c.c. si riferisce con l'espressione « eredi ed aventi causa ». A questo riguardo occorre premettere che la norma si riferisce a coloro che sono divenuti eredi od aventi causa dopo che il giudicato si sia formato. Con specifico riferimento, poi, all'espressione «aventi causa», sembra più esatto riconoscere all'espressione la portata più limitata che tradizionalmente le si attribuisce (vale a dire: acquirenti di un diritto a titolo derivativo). 5. Infine, occorre riconoscere che esistono casi di estensione del giudicato ad altri soggetti, oltre agli eredi o aventi causa delle parti, esplicitamente richiamati dall'art. 2909 c.c. E cioè - a parte gli effetti in certo senso erga omnes proprI della pronuncia su determinati tipi di rapporti soprattutto di stato -, occorre tener conto dei casi in cui: a. vi siano più soggetti legittimati (co-legittimati) ad esercitare un'azione che può essere esercitata una sola volta e che subiscono inevitabilmente il giudicato formatosi all'esito dell'esercizio dell'azione da parte di uno (o alcuni) dei co-legittimati (tipico il caso dell'impugnazione della delibera assembleare, alla quale sono legittimati più soggetti: art. 2377 c.c.), b. vi siano soggetti il cui diritto si trova, rispetto a quello su cui la sentenza ha deciso e su cui si è formato il giudicato, in un rapporto di c.d. pregiudizialità dipendenza , sicché l'estensione ad essi consegue normalmente, avuto riguardo all'ambito proprio del rapporto su cui si è deciso (si pensi, ad es., alla posizione del subconduttore rispetto a quella del conduttore); c. si abbia estensione anormale del giudicato, laddove essa sia espressamente prevista dalla legge , talvolta addirittura secundum eventum litis (è il caso delle obbligazioni 50 solidali, per le quali l'art. 1306, 2° comma, c.c. prevede l'estensione solo per il giudicato favorevole al debitore e non anche per quello sfavorevole). A queste ipotesi di estensione degli effetti della sentenza si contrappongono quelle della non estensione, che il terzo può far valere contro chi invece pretende che tale estensione sussista. Mentre, per converso, è chiaro che il terzo nei cui confronti si determina l'estensione del giudicato non può opporsi ad essa, perché il pregiudizio che egli potrebbe subire è, come si suole dire, di mero fatto. 29. Segue. B) Gli elementi oggettivi dell'azione: a) il petitum; b) la causa petendi. I limiti oggettivi del giudicato. Gli elementi oggettivi sono due: l'oggetto (o petitum) e il titolo (o causa petendi). ● L'oggetto o il petitum è ciò che si chiede con la domanda. E poiché la domanda è rivolta non a un soggetto solo, ma a due soggetti (al giudice ed all'altra parte) ai quali si chiedono cose diverse, il petitum assumerà, in concreto, due aspetti diversi. ○ Anzitutto, ossia in via immediata , la domanda si rivolge al giudice al quale si chiede non la cosa o la prestazione oggetto del diritto sostanziale, ma un provvedimento . In questo senso si parla di petitum immediato: la condanna, il mero accertamento, il sequestro ecc.; tutte richieste che potrebbero, in ipotesi, riferirsi alla stessa cosa in giudizi tra le stesse persone, ma la cui differenza basta ad escludere l'identità dell'azione. Così l'azione con cui si chiede il sequestro di una certa cosa è diversa dall'azione con cui si chiede la condanna alla consegna di quella medesima cosa; ed anche l'azione con cui si chiede la condanna alla consegna della cosa è diversa, perché ha un margine in più, rispetto all'azione con cui si chiede il mero accertamento dello stesso diritto alla consegna di quella cosa: e pertanto nulla ne impedirebbe la proposizione, naturalmente nei limiti di quel margine in più, anche se si fosse già prodotto il giudicato sul mero accertamento: si potrebbe in tal caso chiedere al giudice di pronunciare la condanna sul fondamento dell'accertamento già incontrovertibile. ○ In secondo luogo, ossia in via mediata , la domanda si rivolge alla controparte , che normalmente è il convenuto: e a questo soggetto non si chiede un provvedimento, ma si chiede un «bene della vita» : una determinata cosa (il fondo Serviano, o quella certa macchina, ecc.), o prestazione (pagare 100, costruire un muro, ecc.) oppure di non contestare una determinata situazione giuridica che ha un certo oggetto oppure, ancora, di subire una certa modificazione giuridica. Questo elemento costituisce l'oggetto o petitum mediato. E ovviamente anche questo elemento deve coincidere, perché si abbia identità di azioni; la quale dunque postula, sotto questo profilo, la coincidenza tanto del petitum immediato quanto del petitum mediato. Naturalmente, il fatto stesso che il «bene della vita» che chiamiamo petitum mediato viene in rilievo come oggetto di una domanda ad un giudice non può non presupporre il riferimento, più o meno esplicito, ad un diritto sostanziale, in mancanza del quale riferimento la domanda non sarebbe esercizio di un'azione ed il «bene della vita» richiesto non sarebbe un petitum. Orbene: questo riferimento ad un diritto sostanziale viene in rilievo, se considerato per se stesso, come il secondo dei due elementi oggettivi di identificazione dell'azione, ossia il titolo o causa petendi. ● Causa petendi significa ragione del domandare ; e naturalmente ragione giuridica o titolo giuridico (non il motivo interno per il quale si è ritenuto di proporre la domanda), la ragione 51 obiettiva su cui la domanda si fonda: in altri termini, il diritto sostanziale affermato in forza del quale viene avanzato il petitum. Che il diritto sostanziale affermato assolva, anche per se stesso, ad una ben precisa funzione individuatrice dell'azione appare evidente, solo che si tenga presente che il medesimo bene della vita può essere richiesto in forza di diritti diversi, o, come si suol dire, a diverso titolo. È chiaro, infatti, che l'azione con la quale si chiede la consegna di una certa cosa perché, a quanto si afferma, è stata data in comodato e ne è conseguito il diritto alla restituzione, è diversa dall'azione con la quale si chiede la consegna di quella medesima cosa in quanto se ne vanta la proprietà; ed è logico che il giudicato o la litispendenza su una di queste azioni non debba precludere il giudizio sull'altra. Petitum mediato e causa petendi sono, dunque, le due angolazioni del diritto sostanziale affermato, che è l'oggetto del processo. L'una mette a fuoco ciò che si domanda e l'altra il diritto sul cui fondamento si domanda; due angolazioni che si presuppongono a vicenda e si esprimono, in sintesi, nel diritto sostanziale affermato, ma la cui contrapposizione, d'altra parte, agevola, sul piano pratico, l'operazione dell'identificazione dell'azione che è, per natura sua, necessariamente analitica 2 . Il diritto affermato, nel quale convergono il petitum mediato e la causa petendi, viene in rilievo come entità concreta, non come categoria astratta; come volontà concreta e non come volontà astratta di legge. Ed a quest'ultimo riguardo, se si ricorda che ciò che individua il diritto come volontà concreta di legge non è la norma giuridica o volontà astratta di legge (la quale può costituire il presupposto o la base di quel diritto come di un'infinita serie di analoghi diritti), ma i fatti costitutivi del diritto, appare evidente come la causa petendi si risolva nel riferimento concreto a quel fatto o a quei fatti che sono allegati come costitutivi , e perciò anche individuatori, del diritto che si fa valere. Si tratta in sostanza del medesimo fenomeno già preso in esame con riguardo alla determinazione della sfera di disponibilità dell'attore nel determinare l'oggetto del processo. È, infatti, appena il caso di ripetere che si tratta ancora proprio di questo, ossia di individuare l'oggetto del processo. Poiché, come si disse allora, in base al principio jura novit Curia, il mutamento della semplice qualificazione giuridica, o nomen juris, può avvenire ad iniziativa del giudice, senza che ciò muti l'oggetto del processo (il quale oggetto è determinato con l'individuazione dei fatti costitutivi), ne deriva che un'azione proposta con riferimento ad un determinato fatto costitutivo (il giorno tale ti consegnati quella cosa in forza di un certo contratto con queste e queste modalità) non cambia per il fatto che quel medesimo contratto, storicamente individuato, sia qualificato, ad es., comodato o come locazione. E perciò, se si fosse prodotto il giudicato su un'azione proposta con riferimento a quel fatto costitutivo ed in applicazione delle norme sul comodato, l'azione che venisse poi proposta tra gli stessi soggetti per la consegna della medesima cosa, con riferimento a quel medesimo contratto, ma invocandosi l'applicazione delle norme sulla locazione, sarebbe ancora quella stessa azione che è coperta dal giudicato, e perciò sarebbe preclusa. Non così, invece, se ad es., dopo quel giudicato, si proponesse un'azione per sostenere che in un'altra occasione venne concluso un altro e diverso contratto, qualificabile indifferentemente come comodato o come locazione: in tal caso l'azione, anche se diretta alla consegna della stessa cosa, sarebbe un'azione diversa e perciò come tale non sarebbe affatto impedita dal giudicato formatosi rispetto alla prima azione. Diversa perché diverso sarebbe il fatto costitutivo, ossia l'episodio storicamente individuato nel suo complesso, che viceversa non muterebbe qualora venissero allegati taluni fatti, che non incidono sul “nucleo dei fatti” o che comunque - come afferma la giurisprudenza della Cassazione - risultano connessi alla stessa “vicenda sostanziale oggetto del giudizio”. Il fatto costitutivo del diritto affermato, d'altra parte, non è sempre elemento sufficiente per individuare la causa petendi: lo è certamente nei casi in cui la tutela giurisdizionale prescinde dalla 2 CHIOVENDA afferma che la causa petendi ha la funzione di specificare il petitum 52 del diritto all'annullamento di quel contratto per errore; mentre un'altra serie indefinita di fatti (tutti i possibili fatti realizzanti una violenza nella conclusione di quel contratto) sono ugualmente costitutivi del diritto (in certo senso diverso) all'annullamento di quel contratto per violenza. Il che - e sempre sul presupposto che sia fondata l'opinione che configura come diversi i diritti all'annullamento dello stesso contratto sotto i tre diversi profili - significa che l'annullamento del contratto è conseguibile non in correlazione con un'unica azione; e neppure in correlazione con tante azioni quanti sono i possibili fatti di errore più i possibili fatti di violenza più i possibili fatti di dolo; ma in correlazione con le tre diverse azioni che conseguono ai tre diversi diritti all'annullamento del contratto rispettivamente per errore, per violenza e per dolo; e ciascuna di queste azioni, fondata su ciascuno di questi diritti, avrà la sua propria causa petendi in tutta la serie dei possibili fatti di errore, o in tutta la serie dei possibili fatti di violenza o in tutta la serie dei possibili fatti di dolo 4 . Considerazioni analoghe possono essere compiute, mutatis mutandis, con riguardo all’azione di risoluzione e di rescissione del contratto. Infine, con riguardo più specifico al tema dei limiti oggettivi del giudicato, allo svolgimento che precede sembra sufficiente aggiungere, da un lato, il rilievo che anche l'oggetto del giudizio trova un suo fondamento positivo, sia pure indiretto, nell'art. 2909 c.c., in quanto enuncia che ciò che «fa stato» è l'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato (insieme agli effetti costitutivi); dall'altro lato, il rilievo che ciò che passa in giudicato è la concreta decisione sulla domanda proposta, quale emerge dal dispositivo della sentenza ma nel suo riferimento al petitum e alla causa petendi, escluse in ogni caso le affermazioni estranee alla logica della motivazione, ossia i obiter dicta . Diverso il discorso da fare con riguardo all'efficacia delle pronunce su questioni pregiudiziali e/o preliminari, rispetto alle quali il criterio di base è nel senso che il giudicato della pronuncia che la contenga è vincolante anche in altri giudizi sullo stesso rapporto, se ed in quanto ne costituiscano indispensabile premessa logico-giuridica. 30. Connessione, cumulo e concorso di azioni. Come abbiamo visto, perché due o più azioni possano dirsi identiche, e cioè in realtà una sola, occorre una piena identità di tutti i loro elementi, soggettivi e oggettivi. Ne deriva che il fenomeno per il quale due o più azioni hanno in comune solo alcuni elementi, fa sì che esse non siano identiche; e perciò l'esercizio dell'una non preclude l'esercizio dell'altra. Tuttavia, il fenomeno della comunanza parziale di elementi tra due o più azioni, se non interessa l'ordinamento sotto il profilo della litispendenza o del giudicato, lo interessa ugualmente sotto un altro profilo: quello della eventuale opportunità (che l'ordinamento fonda su quella comunanza) che le due o più cause siano esaminate e trattate insieme, ossia nello stesso processo. Ed è appunto perciò che il codice si occupa del fenomeno - chiamato connessione delle azioni o delle cause - oltre che sotto il profilo dell'eventuale cumulo di azioni nello stesso processo, anche sotto l'ulteriore profilo dell'eventuale conseguente possibilità (per realizzare il cumulo) di una deroga alle normali regole 4 Perciò l'opinione prevalente ritiene che l'individuazione di ciascuna di queste azioni riguarderà l'intera serie o l'intero gruppo di fatti considerati come costitutivi di ciascuno di quei diritti (ad es., tutti i possibili fatti di errore rispetto a quel contratto), ma non anche la diversa serie dei fatti che fondano l'annullamento sotto il profilo di un altro di quei tre diritti (ad es., la serie di fatti di violenza per i quali si può chiedere l'annullamento). In pratica, quando fosse stata respinta con sentenza passata in giudicato la domanda di annullamento del contratto per errore, ad es.. sull'autore del quadro, non si potrebbe proporre un'altra domanda di annullamento dello stesso contratto per errore ad es. sulla cornice; ma potrebbe proporre l'azione di annullamento di quel medesimo contratto facendo valere un fatto di violenza. D'altra parte, il giudicato non copre i fatti nella loro «materialità» ma in quanto prospettati in funzione di un tipo di tutela, sicché se, ad es., è respinta un'azione di dolo sulla base di certi fatti, il giudicato non impedisce che, sulla base di quei fatti, possa essere domandata la rescissione per lesione. 55 della competenza. La connessione tra le azioni può dipendere: sia dalla comunanza di entrambi gli elementi soggettivi, sia dalla comunanza di almeno uno degli elementi oggettivi (stesso petitum e/o stessa causa petendi). 1. Il primo caso (connessione soggettiva) si verifica quando due o più cause hanno - in comune entrambi i soggetti, è chiaro, infatti, che se il soggetto in comune fosse uno solo, ciò ovviamente non basterebbe a fondare una ragione di trattare insieme più cause. Pertanto, la connessione soggettiva sussiste nel caso di cause proposte, o da proporre, da uno stesso soggetto contro uno stesso soggetto (necessità che i soggetti operino nel medesimo nome e qualità). In tal caso, l'eventuale trattazione delle due o più cause nello stesso processo implicherebbe che, oltre gli stessi soggetti, che sono già nello stesso processo, anche gli elementi oggettivi - che sono diversi - venissero cumulati in quel processo. Si verificherebbe cioè un fenomeno di cumulo oggettivo conseguente alla connessione soggettiva , e che consiste, in sostanza, nella proposizione di più azioni diverse da una stessa parte e contro una stessa parte nel medesimo processo. Nel nostro codice, questo fenomeno è previsto e disciplinato dall’ art. 104 ) che, nell'eventualità della connessione soggettiva («... contro la stessa parte» e sottintendendo: «dalla stessa parte») ravvisa per l'appunto una ragione di opportunità di cumulo oggettivo, disponendo che contro la stessa parte possono (si tratta di una semplice facoltà) proporsi nello stesso processo più domande «anche non altrimenti connesse», ossia anche quando la connessione è solo soggettiva. - A questa ragione di opportunità l'art. 104 pone un solo ordine di limiti : quello che deriva dalla necessità di rispettare le regole della competenza del giudice (ossia della distribuzione tra i diversi giudici del potere di decidere le cause). Al riguardo, dunque, la norma in esame riafferma espressa. mente (attraverso il richiamo all'art. 10, 2° comma) la necessità di tener conto che il cumulo delle domande può portare il valore della causa - che, come vedremo, costituisce uno dei criteri di ripartizione della competenza - oltre il limite stabilito per la competenza del giudice che sarebbe stato adito se le diverse domande cumulate nello stesso processo, sulla base della connessione soggettiva fossero state proposte autonomamente. 2. La connessione oggettiva dà luogo alla possibilità del cumulo soggettivo ossia alla possibilità che, in relazione alla comunanza di uno o di tutti gli elementi oggettivi, si sovrappongono nello stesso processo anche gli elementi soggettivi (che sono diversi): il che in pratica significa possibilità per più soggetti di agire insieme, nello stesso processo, o, viceversa, possibilità per l'attore di convenire nello stesso processo più persone. E poiché questo fenomeno della presenza di più parti nello stesso processo si chiama, litisconsorzio, e questa eventualità si risolve, d'altra parte, in una facoltà per chi agisce, ciò spiega perché la legge chiama questo fenomeno « litisconsorzio facoltativo ». Così, infatti, nel codice, è rubricato l' art. 103 , ove si dispone che più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo nei casi di connessione oggettiva: più precisamente, quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l'oggetto (ossia il petitum mediato) oppure per il titolo (ossia la causa petendi) 5 ; ed inoltre in quel caso (che si suole chiamare di connessione impropria) in cui, essendo in comune soltanto la necessità di 5 Quale esempio di connessione per la causa petendi si indica l'ipotesi di più danneggiati che convengono in giudizio l'autore del fatto dannoso; quale esempio di connessione per il petitum , l'azione contro il debitore principale ed il fideiussore; quale esempio di connessione per il petitum e per la causa petendi , le domande proposte dal danneggiato da un incidente automobilistico contro il conducente ed il proprietario dell'autoveicolo 56 risolvere «identiche questioni» 6 , non si può parlare di comunione di elementi individuatori e quindi di vera e propria connessione; il che non impedisce al codice di attribuire rilievo alle palesi ragioni di opportunità pratica che consigliano la trattazione delle cause nello stesso processo. Il codice, oltre ad occuparsi, nell'art. 103, della connessione oggettiva (propria ed impropria) sotto un profilo generale, come si è visto or ora, prende anche in considerazione talune figure particolari e qualificate di connessione oggettiva, in diverse norme e sotto diversi profili, tutti però accomunati dall'opportunità di consentire l'eventuale trattazione congiunta delle cause connesse. Di una di queste particolari figure di connessione - la riconvenzione - abbiamo già avuto occasione di occuparci; di altre ci occuperemo in seguito, quando esamineremo i diversi argomenti con riguardo ai quali il codice le prende in considerazione: l'accessorietà 7 , la pregiudizialità 8 e la garanzia 9 con riguardo ai riflessi sulle regole di competenza, nonché, quest'ultima, anche con riguardo alla disciplina dell'intervento. A quest'ultimo proposito, è opportuno osservare fin da ora che, come si vedrà meglio più avanti, il cumulo soggettivo reso opportuno dalla connessione oggettiva e che si concreta nel litisconsorzio facoltativo, può realizzarsi non solo all'inizio del processo - secondo la previsione dell'art. 103 - ma anche a processo già in corso: più precisamente attraverso l'intervento che è un modo di instaurazione successiva del litisconsorzio, nonché attraverso il potere che la legge attribuisce al giudice (art. 40) di riunire le cause connesse, eventualmente proposte separatamente, davanti allo stesso o ad altro giudice. La comunanza di taluni elementi di due o più azioni può anche far sì che la conseguente connessione assuma rilievo - oltre che sotto il profilo, ora esaminato, dell'eventuale possibilità di trattare le due o più cause in un unico processo - anche sotto un altro profilo: quello dell'eventualità che all'esercizio di un'azione consegua il risultato pratico anche dell'altra azione, con la conseguenza che questa diviene inutile obiettivamente e quindi priva del requisito dell'interesse ad agire e comunque infondata. Questo fenomeno è di solito indicato con l'espressione concorso di azioni . 1. CONCORSO SUBIETTIVO Si può avere, anzitutto, un concorso di azioni per connessione di petitum e di causa petendi quando lo stesso diritto potestativo necessario viene attribuito a soggetti diversi, tutti co-legittimati ad agire. Si pensi all'azione di interdizione della persona in stato di abituale infermità di mente, che spetta nello stesso tempo al coniuge, ai parenti entro il quarto grado, agli affini entro il secondo grado, al curatore, al tutore ecc., oltre che al P.M. (art. 417 c.c.). Se uno di questi soggetti ha esercitato l'azione ed ottenuto l'interdizione, evidentemente nessuno degli altri soggetti legittimati può ancora chiedere l'interdizione, per difetto di interesse ad agire. 9 Il codice (art. 32) si occupa delle azioni di garanzia - ossia di quelle azioni con le quali una parte fa valere il suo diritto sostanziale di essere, appunto, garantita da un terzo, ossia risarcita delle conseguenze della sua eventuale soccombenza - sotto il profilo delle possibili deroghe delle regole di competenza nonché, come subito nel testo, a proposito dell'intervento coatto a istanza di parte. 8 Il codice (art. 34) si occupa delle «questioni» pregiudiziali - ossia delle questioni la cui decisione condiziona la decisione sull'azione principale - sotto il profilo della duplice possibilità che su di esse si decida incidenter tantum oppure con efficacia di giudicato, ed in quest'ultima ipotesi con possibili conseguenze sulla competenza. 7 È il fenomeno per il quale la decisione su un'azione (accessoria) dipende dalla decisione dell'altra (principale). Il codice si riferisce (art. 31) al rapporto di accessorietà tra le cause. 6 Così si esprime l'ultima parte del 1° comma dell'art. 103. Per lo più si tratta di identità di questioni di diritto, ma eventualmente anche di fatto. Sotto il primo profilo, si può pensare a diversi lavoratori che si trovano nella stessa posizione in ordine all'ipotesi interpretativa di una certa norma; sotto il secondo profilo, si può pensare alle posizioni contrattuali di più soggetti che hanno concluso contratti su moduli identici. 57 Es. Il giudicato è sempre tra tizio e caio ma non riguarda lo stesso effetto. Non c’è una relazione di identità (x e y). Dunque non si applica quella norma. Es. Se invece c’è il legame tra la situazione giuridica dedotta in giudizio e il giudizio già reso; può esserci quando nella fattispecie costitutiva, uno dei fatti costitutivi è un fatto diritto ovvero un rapporto pregiudiziale . L’accertamento di x rileva nella causa di y che vede come fatto costitutivo x (fa stato ad ogni effetto, dunque anche quando figura nella fattispecie costitutiva). Il giudice si pronuncia nel merito su y, esamina x (valore di a) ed essendo questa negativa anche y sarà negativa ( pregiudizialità dipendenza ). Se x è positiva (valore di a), y non per forza è positiva, in quanto il giudice dovrà vedere che valore deve dare alle variabili b e c. - Ad ogni effetto → efficacia positiva di tipo riflessa, o anche detta indiretta dovrà conformarsi a quella già presa nella sentenza passata in giudicato. Questi due effetti sono di natura processuale, ma in realtà sottintende un'altra regola che è ancora più importante rispetto all’eventualità patologica. La situazione più fisiologica è che magari l’accertamento non ci sia, in questo caso l’effetto si produce tra le parti. Luigi Montesano: “ il giudicato recide i legami tra la fattispecie concreta e la norma giuridica ”, dunque produce questo effetto normativo tra le parti (Enrico Allorio giurista molto importante che tratta questa tematica). Fino ad ora abbiamo dato per presupposto che il diritto x del procedimento 1 sia = ad x del procedimento 2; ma sul discorso dell’oggetto del giudizio e della sua individuazione troviamo una variazione da seguire in base al diritto che si fa valere in giudizio. Es. si discute della condanna al pagamento di 1000 euro, obbligazione di genere che non ha nessun tratto che ci fa capire a quale diritto ci si riferisce. ● Es. Se dicessimo che la prima condanna riguarda il prezzo di acquisto del televisore compravenduto, mentre il secondo il canone di locazione che Caio deve versare ogni mese a Tizio. Il titolo ci ha fatto cambiare il diritto. → ETERODETERMINATE non bastano le parti e il contenuto, ma è necessario trattare il fatto costitutivo che è cd. individuatore , perché individua l’oggetto della domanda. ● Es. Si discute se Tizio sia proprietario nei confronti di Caio di una casa, solo che nella prima afferma di averla acquistata da Mevio nella seconda invece di averla usucapita. Il diritto è lo stesso in questo caso, se Tizio è o meno proprietario nei confronti di Caio, dovrà accertare sicuramente a che titolo, ma non interessa esaminare la fattispecie costitutiva ai fini dell’accoglimento o meno della domanda (in base al discorso che stiamo facendo adesso, è ovvio che serve sapere la fattispecie costitutiva), in questo caso il fatto costitutivo è irrilevante ai fini dell’ individuazione del diritto . → AUTODETERMINATE si perviene sulla base del loro contenuto delle parti ma non del fatto costitutivo (il fatto costitutivo è rilevante ai fini del merito). Il giudicato sia assistito da una preclusione che si chiama del dedotto e del deducibile , significa che quando, nel caso dell’efficacia diretta (che è più semplice capirlo su questo), ripropongo una seconda domanda, non posso proporre una nuova domanda che sia fondata sul dedotto o sul deducibile. Dunque pongo o gli stessi fatti posti al fondamento della prima domanda, ma non posso nemmeno porre a fondamento il deducibile (es. mi sono dimenticato di allegarli). Questa preclusione parte dal presupposto che si parla di una domanda autodeterminata. Non preclude il non deducibile, che sono i fatti sopravvenuti rilevanti dunque venuti all’esistenza dopo. 60 - Es. diritto di proprietà tra Tizio e Caio su una casa, nel primo giudizio si stabilisce che Tizio non è proprietario (il fatto costitutivo era l’usucapione). Il diritto è lo stesso (domanda autodeterminata), l’eventuale fatto alternativo preesistente (es. eredità… vi sono diverse fattispecie che sono tutte idonee a costituire il diritto di proprietà e vanno dunque allegate tutte nel primo giudizio) è il deducibile . - Es. nelle domande eterodeterminate la preclusione del dedotto e del deducibile è più ristretta, il più delle volte quando si allega un altro fatto si parla di un’altro diritto. Diritto potestativo → es. diritto di annullamento Qui vi sono diverse fattispecie alternative, per errore, violenza e dolo. Per ogni titolo di annullamento , ci potrebbero essere più fatti di errore, violenza e dolo. Come facciamo a capire di quale diritto stiamo parlando. Vi possono essere più letture sostenute dalla dottrina: 1. Un solo diritto (la preclusione del dedotto e del deducibile è qui più pervasiva) 2. Un diritto di annullamento per ogni titolo, dunque ne avremo tre → giurisprudenza utilizza questo (certezza del rapporto giuridico delle parti e principio della ragionevole durata del processo). 3. Domande infinite per quanti fatti 09/03/2023 seconda lezione Abbiamo visto l’efficacia del giudicato e come si individua l’oggetto del giudizio, i limiti oggettivi del giudicato. Dobbiamo affrontare il profilo soggettivo, se il giudicato vincola le parti e anche i soggetti che non hanno acquistato la qualità di parte e dunque i terzi. Il giudicato inter alios , vincola il terzo? Già nel 1935 vi erano due opposte soluzioni, ora pacificamente è accolto il principio di relatività del giudicato . Si vedano i seguenti art. 24, soprattutto comma 2 Cost (diritto di difesa), e art. 2909 c.c. Consideriamo dunque un rapporto o di identità o di pregiudizialità dipendenza, però i soggetti sono diversi nel secondo giudizio. E’ possibile l’ipotesi in cui vi sia un'estensione ultra partes dell’ efficacia riflessa o efficacia diretta ? ● Efficacia diretta : L’unica ipotesi in cui si può discutere è questa in cui l’ordinamento ammette che il legittimato straordinario (colui che ha il potere d’azione ma non è titolare del rapporto, quindi agisce deducendo un rapporto altrui) senza che sia necessario che partecipi il titolare. Dunque nel primo giudizio l’accertamento è stato effettuato senza la presenza del vero titolare del rapporto giuridico (quando non vi è l’obbligo di partecipazione). In linea generale quando vi è un ipotesi di legittimazione straordinaria di regola non è ammesso che il soggetto non prenda parte al giudizio (litisconsorzio necessario), dunque il problema è risolto a monte perché il soggetto non è terzo, ma parte necessaria. ○ Caso particolare: azione di classe , si estende solo se il soggetto aderisce . L’adesione non è un atto di costituzione; l’aderente non può impugnare, non può allegare atti direttamente; solo il proponente può fare queste cose. L’aderente non è propriamente una parte processuale, ma non è nemmeno un terzo. ○ Negli Stati Uniti si segue il modello opposto dell’ opt-out , la sentenza vincola tutti e se si ha interesse si chiede di non essere considerati. 61 ○ Caso particolare: azioni solidali (art. 1306 c.c.), il giudicato può essere esteso ultra partes ma solo secundum eventum litis . Il giudicato può essere fatto valere dal terzo se è a lui favorevole nei confronti di colui che è stato parte. ○ Caso particolare: impugnativa delle delibere assembleare (art. 2377, comma 7 c.c.), norma che si occupa dell’annullamento della delibera assembleare. Si produce un'estensione dell’ effetto costitutivo di rimozione che la sentenza produce . Se viene annullata la delibera non può rimanere efficace solo tra le parti, ma è necessario un uniformazione, dunque l’annullamento si proietta anche in capo agli altri (es. soci o condomini). ● Efficacia riflessa : In linea generale di per sé lede l’art. 24 e dunque non è ammissibile (stesso discorso fatto sopra per l’efficacia diretta). Es. A agisce nei confronti di B che è il fideiussore , poi B agisce nei confronti di C in regresso (la fideiussione è in rapporto di pregiudizialità dipendenza incrociata). Il terzo non viene investito dalla prima pronuncia. ECCEZIONI ○ Caso particolare ( art. 1595 c.c. ): Particolari rapporti connessi per pregiudizialità dipendenza permanente , questo nesso è diverso dall’altro, affinchè l’avente causa acquisti il diritto, il dante causa deve essere titolare del diritto nel momento in cui trasferisce, questo è un nesso di pregiudizialità dipendenza istantanea . Il nesso di pregiudizialità dipendenza permanente invece il diritto dipendente dipende dall’esistenza del diritto pregiudiziale nel tempo, es. i rapporti di sublocazione, affinché questo esista il rapporto di locazione deve permanere nel tempo e non sono quando si stipula il contratto di sublocazione. Se abbiamo una sentenza che accerta che non esiste il contratto di locazione anche se successiva alla stipula del contratto di sublocazione questa produce effetto per ragioni di diritto sostanziale . ○ Caso particolare (acquisti a titolo derivativo): Una di queste eccezioni si verifica nel caso di pregiudizialità dipendenza che coinvolge più soggetti, spesso si verifica negli acquisti a titolo derivativo , dunque chi acquista a titolo derivativo è titolare di un diritto che dipende dal diritto del dante causa → “ nemo plus iuris ad alium transferre potest quam ipse habet ” (nessuno può trasferire ad altri più diritti di quanti detenga), dunque atto di trasferimento valido e se il dante causa è titolare del diritto. Particolare titolo della pregiudizialità dipendenza. Es. nel giudizio tra Tizio e Caio sulla proprietà di x, Caio dispone del suo bene a favore di Sempronio, dunque vi è una lite sulla proprietà del bene x. L’atto dispositivo viene messo nell’asse del tempo su tre diversi momenti: 62 giurisdizione - sotto il profilo concreto ora in esame - si pone essenzialmente come un sistema di limiti alla regola per cui tutte le cause civili spettano alla giurisdizione dei giudici ordinari . I quali limiti - che rilevano anche al fine di garantire il «giudice naturale precostituito per legge» ( art. 25 Cost. ) - si riferiscono, da un lato, agli organi diversi dai giudici ordinari italiani, ai quali spettano i poteri decisori della concreta controversia, e cioè: i giudici di altri Stati (ivi compresi gli arbitri che hanno sede all'estero), gli organi dello Stato italiano che non sono giudici (ad es., la Pubblica Amministrazione), nonché i giudici italiani non ordinari (ad es., i giudici amministrativi). Dall'altro lato, tali limiti concernono i criteri in base ai quali i suddetti poteri decisori debbono essere attribuiti a taluno di questi organi. In premessa, tuttavia, va evidenziato un criterio d'ordine generale enunciato dall' art. 5 c.p.c . e secondo cui la giurisdizione (come anche la competenza) si determina con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda , restando senza conseguenze gli eventuali mutamenti successivi, di diritto o di fatto, rilevanti ai fini della determinazione della giurisdizione (e della competenza) del giudice: è questa la c.d. perpetuatio jurisdictionis . 32. I limiti della giurisdizione, in particolare I limiti all'esercizio della giurisdizione dei giudici civili possono derivare: a) dalla mancanza di domicilio o residenza in Italia del convenuto; b) dai rapporti con i giudici speciali amministrativi; c) dall'esigenza di salvaguardare le attribuzioni specifiche della P.A. a) Con riguardo alla mancanza di domicilio o residenza in Italia del convenuto. Ferma la possibilità per lo straniero di farsi attore davanti ai giudici italiani per tutelare propri diritti senza limite alcuno (art. 24, 1° comma, Cost.: «tutti possono agire in giudizio ...», non solo i cittadini), viene in rilievo solo la posizione del convenuto straniero, rispetto al quale l'esercizio della giurisdizione italiana è condizionato, in termini generali, al suo domicilio o residenza in Italia. Infatti, la L. 31 maggio 1995 n. 218 , di riforma del diritto internazionale privato, innovando rispetto all'originaria impostazione del codice, ha attribuito rilevanza solo al domicilio o alla residenza in Italia del convenuto. Sotto altro profilo, viene in rilievo il caso in cui il convenuto sia addirittura uno Stato straniero . A questo riguardo si deve ritenere recepita nell'ordinamento italiano (che, per l'art. 10, 1° comma, Cost., «si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute») la consuetudine internazionale che, in omaggio alla sovranità dello Stato, esclude che esso possa, come tale - ossia nell'esercizio della sua sovranità -, essere convenuto davanti al giudice ordinario di un altro Stato, pur potendo davanti a quel giudice agire come attore o comunque essere convenuto nei casi in cui operi come un normale soggetto di diritto privato. Escluso, dunque, il caso particolare dello Stato straniero, agli effetti della sussistenza della giurisdizione civile italiana non è più rilevante la qualità di cittadino o di straniero del convenuto, in quanto la L. 218/1995, abrogando gli artt. 3 e 4 del c.p.c., ha eliminato ogni riferimento alla cittadinanza delle parti, per riferirsi soltanto al criterio del domicilio o della residenza in Italia del convenuto straniero. Per la legge italiana che - in armonia col c.d. principio di territorialità di cui all'art. 12 L. 218/1995 - è quella che disciplina il processo in Italia, questo criterio si traduce nell'enunciato secondo il quale « la giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia o vi ha un rappresentante che sia autorizzato a stare in giudizio a norma dell'art. 77 del codice di procedura civile e negli altri casi in cui è prevista dalla legge » ( art. 3, 1° comma, L. 218/1995 ). Occorre rilevare 65 che quest'enunciazione è destinata a trovare applicazione solo laddove non vi siano convenzioni o accordi internazionali che regolino diversamente il profilo della giurisdizione ( art. 2 L. 218/1995 ). In effetti, il 2° comma dell'art. 3 fa un esplicito richiamo ai criteri specifici di riconoscimento della giurisdizione nei confronti del convenuto straniero stabiliti dalla Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 per le controversie civili e commerciali (escluse, però, stato e capacità delle persone, regime patrimoniale tra i coniugi, testamenti e successioni, procedure concorsuali, sicurezza sociale e arbitrato). In questo caso, la giurisdizione italiana sussiste allorché il convenuto sia domiciliato nel territorio dello Stato, quando si tratti di materie comprese nel campo di applicazione della Convenzione . Rispetto alle altre materie, invece - stabilisce sempre il 2° comma del citato art. 3 -, la giurisdizione sussiste in base ai criteri stabiliti dal c.p.c. per la competenza per territorio; ossia, in queste «altre materie», perché sussista la giurisdizione italiana è sufficiente che sussista la competenza per territorio del giudice italiano. Il richiamo a tali criteri, peraltro, implica un indiretto riferimento all'interpretazione che ne ha dato e ne darà la Corte di giustizia dell'UE. L' art. 4 della stessa legge ammette la possibilità che, anche in assenza di detti criteri di collegamento, la giurisdizione italiana sussista se le parti l'abbiano convenzionalmente accettata e tale accettazione sia provata per iscritto ovvero quando il convenuto compaia nel processo e non eccepisca nel primo atto difensivo il difetto di giurisdizione. D'altra parte, l' art. 5 esclude comunque la giurisdizione italiana rispetto ad azioni reali aventi ad oggetto beni immobili situati all'estero. Con specifico riferimento allo spazio giudiziario europeo , la materia era stata già disciplinata dalla Convenzione di Bruxelles del 1968 e dalla Convenzione di Lugano del 1988. Tale disciplina - il cui campo di applicazione è limitato alla materia civile e commerciale - è stata in parte modificata dal Reg. 44/2001, a sua volta sostituito, poi, dal Reg. 1215/2012, che, con l'efficacia normativa diretta negli ordinamenti dei singoli Stati, propria dei Regolamenti, hanno introdotto alcune ulteriori semplificazioni per quanto riguarda il riconoscimento dell'efficacia e dell'esecutorietà delle sentenze dei singoli Stati membri. Con riguardo alla giurisdizione o competenza giurisdizionale dei giudici degli Stati membri dell'Unione , il Reg. 1215/2012 stabilisce, anzitutto, la regola generale ( art. 4 ), per la quale tutte le persone aventi il domicilio in uno degli Stati membri possono essere convenute davanti ai giudici di quello Stato, quale che sia la loro nazionalità . Aggiunge, inoltre, alcune regole speciali ( artt. 7, 8 e 9 ), per le quali in taluni casi le persone domiciliate in uno Stato membro possono essere convenute davanti ai giudici di un altro Stato membro . In particolare, possono essere convenute: 1) in materia contrattuale , davanti al giudice del luogo in cui l'obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita (guarda nota n. 22, pag. 166 - anche quando si tratti di azioni di nullità o annullamento del contratto). 2) in materia di responsabilità per fatto illecito , davanti al giudice del luogo in cui è avvenuto (o può avvenire) l'evento dannoso. 3) in materia di azioni civili nascenti da reato , per le quali il responsabile può essere citato innanzi al giudice davanti al quale è esercitata l'azione penale 4) in materia di agenzia o succursale , davanti al giudice in cui essa è situata. Fissa, ancora, alcune ipotesi di competenza esclusiva ( art. 24 ), da applicare a prescindere dal domicilio del convenuto e alcune regole, che disciplinano le possibili modificazioni della competenza giurisdizionale per ragioni di connessione fra cause o per ragioni di garanzia o per la proposizione della domanda riconvenzionale, al fine di favorire la trattazione unitaria delle diverse domande ( art. 8 ). 66 Infine, prevede che, in ipotesi di litispendenza , ossia di contemporanea pendenza della stessa domanda davanti a giudici appartenenti a Stati membri diversi, prevalga la domanda proposta per prima (criterio della prevenzione) ( art. 29 ) e che possa aversi la deroga alla competenza giurisdizionale (ad esclusione di quella esclusiva), in forma espressa, mediante clausola da stipulare per iscritto ( art. 25 ), o tacita, per effetto del mancato rilievo da parte del convenuto comparso, a meno che non sia comparso al solo fine di eccepire il difetto di giurisdizione ( art. 26 ). Sempre con riferimento allo spazio giudiziario europeo e sempre in materia civile e commerciale , vanno inoltre richiamati alcuni Regolamenti speciali, come il Reg. 1/2003 in materia di c.d. antitrust, nonché, per le materie matrimoniali e di potestà genitoriale , il Reg. 2201/2003, il quale estende la sua disciplina a tutte le decisioni in materia di responsabilità genitoriale, indipendentemente da qualsiasi nesso con un procedimento matrimoniale . In particolare, quest'ultimo Regolamento individua la competenza giurisdizionale sulla base della residenza abituale dei coniugi e della loro cittadinanza e prende in considerazione anche le ipotesi di litispendenza e di connessione (artt. 17 e 19). Inoltre, devono essere richiamati il Reg. 1346/2000, successivamente modificato dal Reg. 848/2015, sulla competenza giurisdizionale in materia di insolvenza transfrontaliera; il Reg. 1206/2001 in tema di cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri nel settore dell'assunzione delle prove ed al quale pertanto verrà dedicato qualche cenno quando ci occuperemo dell'assunzione dei mezzi di prova all'estero; il Reg. 1393/2007 relativo alla notificazione e alla comunicazione negli Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziali; il Reg. 4/2009 in materia di «obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità». Una maggiore attenzione andrà dedicata, invece, al Reg. 805/2004 sul titolo esecutivo europeo (t.e.e.) per i crediti (civili o commerciali) non contestati, al Reg. 1896/2006, che disciplina il procedimento ingiuntivo europeo (i.p.e.), al procedimento europeo per le controversie transfrontaliere di modesta entità, disciplinato dal Reg. 861/2007, come modificato dal successivo Reg. 2421/2015, al Reg. 655/2014, che disciplina il procedimento per il rilascio dell'ordinanza europea di sequestro conservativo di conti bancari. b) Con riguardo ai giudici speciali amministrativi. Il secondo ordine di limiti riguarda il fatto che una delle parti - e normalmente il convenuto - sia la Pubblica Amministrazione e si tratti di far valere situazioni diverse dai diritti. Abbiamo detto “normalmente il convenuto” perché la P.A., quando opera come tale (e perciò salvi i casi in cui entra in rapporto di diritto privato con altri soggetti) non ha di regola bisogno di agire in veste di attore, poiché essa, per tutelare i propri diritti, dispone di strumenti più efficaci della tutela giurisdizionale. Ed infatti, i suoi atti, che si presumono legittimi, sono esecutori , ossia possono essere portati ad esecuzione, anche coattiva, direttamente da parte dei suoi propri organi. Perciò, l'ipotesi normale è che il bisogno di tutela giurisdizionale si presenti contro la P.A. quando accade che questa, con i suoi atti, violi diritti o, come stiamo per vedere, altre diverse situazioni giuridiche, dei privati. Se la P.A. con i suoi atti viola diritti soggettivi , essa può essere generalmente convenuta davanti al giudice ordinario come qualsiasi altro soggetto giuridico. Questa è una delle più importanti conquiste del moderno Stato di diritto, realizzata in Italia con la L. 20 marzo 1865 n. 2248 all. E , sull'abolizione del contenzioso amministrativo (art. 2). Tuttavia, la P.A. può, con i suoi atti, violare non diritti soggettivi, ma altre situazioni giuridiche dei cittadini; situazioni meno qualificate sul piano giuridico, ma che tuttavia si rivelano bisognevoli di tutela proprio in relazione al fatto che di fronte ad esse sta non un soggetto qualunque, ma la P.A., che, per l'ampiezza dei suoi poteri, potrebbe praticamente soffocare talune legittime aspettative dei cittadini. Senza entrare più dettagliatamente nella materia, tradizionalmente lasciata allo studio del diritto amministrativo, basterà qui tener presente che queste 67 Sempre nell'ambito dei giudici speciali ai quali è affidata anche la tutela giurisdizionale di diritti soggettivi una posizione tutta particolare compete, nella materia tributaria, alle Commissioni tributarie di primo e di secondo grado (provinciali e regionali), configurate dal D.Lgs. 545/1992. La natura giurisdizionale di tali Commissioni, che già la Corte costituzionale aveva riconosciuto alle commissioni configurate dal D.P.R. 636/1972, viene riconosciuta sia per il rilievo che la disciplina del processo davanti a tali Commissioni è strutturata in modo conforme a quella del processo ordinario, con tutte le relative garanzie, e sia per il prevalere, ormai netto, dell'opinione che ravvisa la natura di diritti soggettivi nelle situazioni sostanziali oggetto del giudizio delle stesse Commissioni. Da tutto ciò si desume che le Commissioni in questione non sono organi di giurisdizione amministrativa, ma di giurisdizione speciale. Ancora, fra i giudici speciali ai quali è affidata anche la tutela di diritti soggettivi si possono menzionare i Tribunali regionali delle acque pubbliche , peraltro ritenuti, dai più, come sezioni specializzate delle corti d'appello, e i Commissari regionali liquidatori di usi civici . Quanto alle sezioni specializzate , menzionate nell'art. 102, 2° comma, Cost., abbiamo già osservato che esse non sono giudici speciali, ma organi degli uffici giudiziari ordinari, caratterizzati, sul piano strutturale, dalla loro particolare composizione. A questa categoria appartengono le sezioni specializzate agrarie presso i tribunali e le corti d'appello in materia di determinazione dei canoni e di proroga dei contratti agrari; i tribunali per i minorenni (in secondo grado: le sezioni speciali delle corti d'appello) che, a parte le attribuzioni in materia penale e amministrativa, hanno competenza civile per alcuni procedimenti che riguardano i minori e per la dichiarazione di decadenza dalla responsabilità genitoriali; le sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale, istituite con D.Lgs. 168/2003, poi sostituite nel 2012 dalle sezioni specializzate per l'impresa , e le sezioni specializzate in materia di immigrazione e protezione internazionale , istituite dal D.L. 13/2017. Quanto, infine, alle c.d. Autorità garanti, l'esclusione della loro natura giurisdizionale le qualifica come autorità amministrative, le cui decisioni sono pertanto assoggettate al controllo giurisdizionale di legittimità da parte del giudice amministrativo. d) Con riguardo alla giurisdizione dei tribunali ecclesiastici. Un particolarissimo ordine di limiti era determinato, nel passato, dall'art. 34 del Concordato del 1929 con la Santa Sede, che riservava ai tribunali ecclesiastici la giurisdizione in materia di nullità dei matrimoni c.d. concordatari, ossia celebrati davanti ai ministri del culto cattolico ed aventi efficacia civile. Tuttavia, si ritiene che, a seguito dell'entrata in vigore del nuovo Concordato del 18 febbraio 1984, ratificato con L. 121/1985, si sia avuto il definitivo superamento della suddetta riserva a favore di una sorta di concorso della giurisdizione italiana e di quella ecclesiastica, regolato dal criterio della prevenzione. e) Con riguardo alle attribuzioni della Pubblica Amministrazione. Infine, i poteri della P.A. operano come limite per così dire normale ai poteri giurisdizionali dei giudici ordinari, non già nel senso che alla P.A. siano eccezionalmente attribuiti poteri giurisdizionali, ma nel senso che i poteri propri della P.A. escludono i poteri giurisdizionali dei giudici ordinari e viceversa, sicché può accadere che anche davanti ai giudici ordinari il potere di questi sia contestato proprio sotto il profilo del difetto della sua natura giurisdizionale e dell'interferenza, invece, con le attribuzioni esclusive della P.A. 70 33. Derogabilità della giurisdizione e rilevabilità del difetti di giurisdizione. La litispendenza internazionale. Quanto alla possibilità di deroga della giurisdizione ad opera delle parti, occorre distinguere fra le regole di ripartizione della giurisdizione nei confronti dei giudici stranieri e quelle che riguardano i soli giudici interni. In termini generali , inderogabilità significa impossibilità di sottrarre la giurisdizione al giudice ordinario ad opera delle parti d'accordo tra loro. D'altra parte, e sempre in termini generali , va tenuto presente che l'accordo tra le parti per derogare la giurisdizione potrebbe realizzarsi anche indirettamente, con l'astensione della parte convenuta dal proporre quell'eccezione; il che significa che l'inderogabilità rimane veramente tale se e nei limiti in cui il rilievo del difetto di giurisdizione sia configurato dalla legge non come eccezione in senso stretto, ma come effettuabile anche d'ufficio dal giudice . Nel caso contrario, infatti, la conseguente attribuzione alla parte convenuta della facoltà di scegliere se sollevare o non sollevare l'eccezione di difetto di giurisdizione significa in sostanza consentire ad una, sia pure indiretta e successiva, deroga alla giurisdizione; ossia una deroga che si attua nel momento in cui chi non solleva l'eccezione, in tal modo accetta la giurisdizione del giudice davanti al quale è stato convenuto. Perciò, alla disciplina dell'inderogabilità o derogabilità della giurisdizione (e, come vedremo, anche della competenza) appartengono anche le norme che si riferiscono al meccanismo della rilevabilità del relativo difetto . Ebbene, nel nostro sistema, con riferimento alle giurisdizioni straniere, l'orientamento per l'inderogabilità convenzionale alla giurisdizione, espresso direttamente dall'abrogato art. 2 c.p.c., è da ritenersi ormai rovesciato, per effetto sia del sopraggiungere di diverse Convenzioni internazionali, sia dell'introduzione dell' art. 4, 2° comma , L. 218/1995 . Tale disposizione prevede la derogabilità convenzionale a favore di giudici stranieri e di arbitrati stranieri , purché provata per iscritto e purché la causa verta su diritti disponibili. Il 3° comma dello stesso art. 4 aggiunge che la deroga è inefficace (e quindi permane la giurisdizione italiana) se il giudice straniero (o gli arbitri stranieri) declina la sua giurisdizione o se, comunque, non può conoscere dalla causa. D'altra parte, la giurisdizione straniera può essere derogata anche tacitamente a favore di quella italiana , come risulta direttamente dal 1° comma del summenzionato art. 4, che preclude al convenuto comparso in giudizio l'eccezione di difetto di giurisdizione non proposta col primo atto difensivo e come, d'altra parte, risulta indirettamente dal disposto dell'art. 11 della stessa L. 218/1995, secondo cui il difetto di giurisdizione italiana può essere rilevato, in qualunque stato e grado del giudizio, dal convenuto costituito «che non abbia accettato espressamente o tacitamente la giurisdizione italiana». Tale difetto di giurisdizione, invece, deve essere rilevato d'ufficio , sempre in qualunque stato e grado del giudizio , nelle cause che concernono beni immobili situati all'estero o nei casi in cui il convenuto sia rimasto contumace , nonché nei casi in cui la giurisdizione italiana sia esclusa per effetto di una norma internazionale . Sempre con riguardo alle giurisdizioni straniere, rimane da vedere quali siano le conseguenze sulla giurisdizione dei giudici italiani della previa pendenza della medesima causa innanzi a un giudice straniero. In proposito, l' art. 7 della L. 218/1995 attribuisce rilievo alla c.d. litispendenza internazionale , disponendo che, nell'ipotesi di previa pendenza innanzi al giudice straniero (pendenza da valutarsi secondo la legge dello Stato in cui il processo si svolge) di domanda tra le stesse parti e avente il medesimo oggetto e il medesimo titolo, il giudice italiano, se ritiene che il provvedimento straniero possa produrre effetto per l'ordinamento italiano, sospende il giudizio . Ed aggiunge che, una volta sospeso il giudizio pendente davanti al giudice italiano, se il giudice straniero declina la propria 71 giurisdizione o se il provvedimento straniero non è riconosciuto nell'ordinamento italiano, il giudizio innanzi al giudice italiano prosegue, previa riassunzione ad istanza della parte interessata. Inoltre, l' art. 8 della medesima L. 218/1995 dispone che, per la determinazione della giurisdizione italiana, si applica l'art. 5 c.p.c. (c.d. perpetuatio jurisdictionis), aggiungendo che la giurisdizione sussiste se i fatti e le norme che la determinano sopravvengono nel corso del processo. Infine, gli artt. 9 e 10 della più volte menzionata L. 218/1995 dispongono circa la giurisdizione italiana a fronte di quella straniera con riguardo, rispettivamente, alla giurisdizione volontaria e alla materia cautelare. Rispetto alla prima, l' art. 9 prevede che la giurisdizione italiana sussiste, oltre che nei casi specificamente contemplati dalla legge e in quelli in cui è prevista la competenza per territorio di un giudice italiano, quando il provvedimento richiesto concerne un cittadino italiano o una persona residente in Italia o quando esso riguarda situazioni o rapporti ai quali è applicabile la legge italiana. In materia cautelare, l' art. 10 dispone che la giurisdizione italiana sussiste quando il provvedimento deve essere eseguito in Italia o quando il giudice italiano ha giurisdizione nel merito. Art. 37 “Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo. Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo o dei giudici speciali è rilevato anche d'ufficio nel giudizio di primo grado. Nei giudizi di impugnazione può essere rilevato solo se oggetto di specifico motivo, ma l'attore non può impugnare la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui adito.” Venendo ora ai rapporti tra giurisdizioni interne all'ordinamento italiano, ossia ai rapporti tra la giurisdizione dei giudici ordinari e quella dei giudici amministrativi e speciali, nonché ai rapporti con i poteri di altri organi dello Stato (e cioè la P.A.), la sola norma che viene in rilievo a questo riguardo è l' art. 37 c.p.c. (completamente riformato!). Le questioni di giurisdizione a cui la presente norma fa riferimento sono soltanto quelle che originano da ipotesi di difetto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione e dei giudici speciali; tutte le altre questioni di giurisdizione, diverse da quelle qui indicate, danno luogo ad una comune quaestio iuris, la cui errata soluzione integra gli estremi di una violazione di legge, denunciabile attraverso il sistema ordinario dei mezzi d’impugnazione. 34. Le questioni di giurisdizione. Il regolamento di giurisdizione. La “translatio iudicii" in conseguenza del difetto di giurisdizione. Art. 41: “Finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte può chiedere alle sezioni unite della Corte di cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione di cui all'articolo 37. L'istanza si propone con ricorso a norma degli articoli 364 e seguenti, e produce gli effetti di cui all'articolo 367. La pubblica amministrazione che non è parte in causa può chiedere in ogni stato e grado del processo che sia dichiarato dalle sezioni unite della Corte di cassazione il difetto di giurisdizione del giudice ordinario a causa dei poteri attribuiti dalla legge alla amministrazione stessa, finché la giurisdizione non sia stata affermata con sentenza passata in giudicato.” 72 passaggio dall'uno all'altro. Di conseguenza, in caso di pronuncia di difetto di giurisdizione occorreva l'avvio del giudizio ex novo, con gravi conseguenze, specie con riguardo al maturarsi delle decadenze. L' art. 59 della L. 69/2009 , tuttavia, raccogliendo gli auspici espressi da più parti, ha introdotto una norma che, pur restando estranea al corpo del codice, costituisce un cardine del sistema della tutela giurisdizionale, consentendo di superare il problema della translatio judicii in caso di rilevato difetto di giurisdizione del giudice adito. Da questa disposizione deriva, in sintesi: ● l'obbligo per il giudice ordinario o speciale, che si dichiari privo di giurisdizione, di indicare il giudice, se esistente, che ritiene munito di giurisdizione; ● le pronunce sulla giurisdizione della Cassazione sono comunque vincolanti anche in altri processi; ● entro il termine massimo di tre mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia sul difetto di giurisdizione le parti possono riassumere il processo davanti al giudice indicato come munito di giurisdizione; ● il rispetto del termine perentorio per la riassunzione della domanda innanzi al giudice ivi indicato fa salvi gli effetti sostanziali e processuali della precedente domanda, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute . ● ferme le disposizioni sul regolamento di giurisdizione proponibile ad opera delle parti, che comunque non potrà essere esperito dopo la riassunzione della causa, il giudice davanti al quale la causa è riassunta può sollevare d'ufficio [fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito e con ordinanza da comunicare alle parti] la questione di giurisdizione davanti alle sezioni unite, se queste non si sono già pronunciate; ● l'inosservanza dei termini fissati per la riassunzione, invece, determina l'estinzione del processo; ● le prove precedentemente raccolte sono valutabili solo come «argomenti di prova» (art. 116, 2° comma, c.p.c.) nel processo riassunto. Si tratta dello stesso meccanismo previsto dall' art. 50 c.p.c. per la riassunzione a seguito della pronuncia di incompetenza; ma con la differenza che là e non qui , si enuncia la continuazione del processo innanzi al nuovo giudice. Sembrerebbe, dunque, esclusa la continuazione dello stesso giudizio, come parrebbe confermato sia dalla riproposizione della domanda, sia dall'enunciazione secondo cui restano ferme le preclusioni e le decadenze intervenute. Non è chiaro se questa salvezza si riferisca solo alle preclusioni intervenute prima della domanda proposta al giudice poi dichiaratosi privo di giurisdizione, o comprenda anche quelle intervenute durante la pendenza del giudizio innanzi a tale giudice. Tuttavia, se quest'ultima dovesse ritenersi la reale voluntas legis, ci si dovrebbe domandare quali sarebbero gli “effetti sostanziali e processuali» che la domanda avrebbe prodotto se fosse stato subito adito il giudice poi dichiarato provvisto di giurisdizione. L'opinione di chi scrive è nel senso che, secondo la logica dell'attuale intervento legislativo, la salvezza di cui si tratta debba intendersi riferita alle sole preclusioni e decadenze intervenute prima della proposizione della domanda innanzi al giudice poi dichiaratosi privo di giurisdizione, restando escluse quelle intervenute dopo; soluzione, questa, che non è incompatibile con l'ambigua lettera della norma sul punto. Va, infine, preso atto che, con riferimento alla sola ipotesi del difetto di giurisdizione rilevato davanti al giudice amministrativo, il medesimo fenomeno della translatio ha trovato specifica disciplina - per alcuni aspetti non secondari divergente dall'art. 59 L. 69/2009 - nell'art. 11 del D.Lgs. 104/2010. Dal confronto di questa disposizione con l'art. 59 L. 69/2009 emerge - oltre alla possibilità per il giudice ad quem di sollevare, anche d'ufficio, il conflitto di giurisdizione - sia il silenzio sul 75 destino delle prove assunte davanti al giudice poi dichiaratosi privo di giurisdizione (senza che questo impedisca, tuttavia, l'applicazione del 5° comma dell'art. 59 già richiamato), sia due rilevanti novità: a) l'espressa previsione dell'applicabilità, da parte del giudice davanti al quale il processo venga riproposto, della rimessione in termini con riguardo alle decadenze ed alle preclusioni già intervenute (5° comma); b) la prevista perdita di efficacia dei provvedimenti cautelari pronunciati dal giudice poi dichiaratosi privo di giurisdizione, decorsi trenta giorni dalla pubblicazione della pronuncia declinatoria della giurisdizione (6° comma), salva, in ogni caso, la possibilità per le parti di riproporre la domanda cautelare davanti al giudice munito di giurisdizione. Sezione seconda - LA COMPETENZA 35. La competenza e i suoi diversi criteri Il problema della competenza sorge, come quesito ulteriore, dopo la soluzione in senso affermativo del quesito sulla giurisdizione. Poiché gli uffici giudiziari civili sono diversi, occorre stabilire a quale tra essi spetti il potere di decidere una determinata causa. È questo il problema della competenza , che è dunque un problema di distribuzione del potere giurisdizionale tra i diversi uffici giudiziari civili; più precisamente, un problema di ripartizione della giurisdizione; ed in questo senso va intesa la comune affermazione secondo cui la competenza sarebbe la misura della giurisdizione, o meglio quella frazione di giurisdizione che in concreto spetta ad un determinato ufficio giudiziario rispetto ad una determinata causa . È chiaro che, con riferimento specifico alla suddetta “determinata causa”, la competenza si presenta come un requisito processuale, che riguarda l'attitudine del processo a pervenire alla pronuncia sul merito o, più in generale, come presupposto processuale di procedibilità, ai fini dell'emanazione del provvedimento finale . Le regole della competenza sono strutturate con riguardo ai criteri in base ai quali si presenta la pluralità di uffici giudiziari. Perciò per conoscere quelle regole bisogna cominciare a vedere come si articola questa pluralità di uffici giudiziari. A questo riguardo, il rilievo fondamentale sta nella constatazione che nell'ordinamento giudiziario italiano da un lato, esistono diversi tipi di uffici giudiziari , configurati, cioè, con caratteristiche intrinseche e strutturali diverse per quanto riguarda la loro composizione (ad es., giudici unipersonali, come il giudice di pace e il tribunale in composizione monocratica, e giudici collegiali, come il tribunale in composizione collegiale, la corte d'appello e la Corte di cassazione) e per quanto riguarda il loro funzionamento. Dall'altro lato, esistono tanti uffici giudiziari dello stesso tipo , poiché ciascuno degli uffici giudiziari di tipo diverso - tranne la Corte di cassazione - è presente nell'organizzazione giudiziaria dello Stato, in tanti esemplari, distribuiti, ciascuno con un proprio ambito, in tutto il territorio nazionale. Questi due diversi criteri di composizione dell'organizzazione giudiziaria danno luogo, per il legislatore, a due diversi problemi di distribuzione della competenza . Quello della distribuzione ( verticale ) tra uffici giudiziari di tipo diverso (che sono: il giudice di pace, il tribunale, la corte d'appello e la Corte di cassazione) e quello della distribuzione ( orizzontale ) tra i diversi uffici giudiziari dello stesso tipo a seconda della loro dislocazione nel territorio: un ufficio del giudice di pace in ciascuno dei comuni di cui alla tabella A allegata alla L. 374/1991, con competenza territoriale sul circondario ivi indicato; un tribunale in ciascun circondario; una corte d'appello in ciascun distretto; una sola Corte di cassazione con sede a Roma. Anche con riguardo alla competenza, opera il criterio generale che abbiamo già visto a proposito della giurisdizione, ossia la regola - enunciata dall' art. 5 - secondo cui si deve aver riguardo alla legge 76 vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, restando senza conseguenze gli eventuali successivi mutamenti; e ciò anche ai fini dell'individuazione del giudice competente per l'impugnazione. Estranee alla disciplina della competenza sono invece - per esplicita scelta legislativa - le regole di ulteriore distribuzione «interna» dei tribunali fra composizione monocratica e collegiale. 36. La competenza per materia e valore Il primo problema di competenza - quello della distribuzione tra uffici giudiziari di tipo diverso - è risolto dal codice in base a due criteri diversi, che si sovrappongono tra loro: quello del valore e quello della materia. Perciò, molto opportunamente, il codice riunisce sotto un unico titolo le regole relative alla competenza per valore e per materia, intitolando la sezione seconda del capo primo «della competenza per materia e valore». Il criterio del valore consiste nel riferimento ad un determinato livello (espresso in termini monetari) del valore economico dell'oggetto della controversia; il che postula anche la necessità di applicare altri determinati criteri di valutazione, per l'ipotesi in cui l'oggetto della controversia non consista in una somma di denaro. Il criterio della materia consiste, invece, nel riferimento alla natura o al tipo di diritto su cui si controverte: diritto reale piuttosto che obbligatorio, questioni possessorie, questioni di stato o di famiglia, locazioni, rapporti di vicinato, ecc. Ciascuno di questi due criteri viene incontro a diverse ragioni di opportunità: quello del valore, all'opportunità di attribuire le controversie di maggior valore al tribunale, il quale, essendo composto solo con giudici c.d. «togati» o di carriera, è di funzionamento meno agile del giudice di pace, ma dà maggiori affidamenti di ponderatezza; quello della materia, all'opportunità di attribuire controversie, il cui oggetto ha esigenze particolari di rapidità e sveltezza, al giudice di pace, e viceversa di attribuire sempre al tribunale le altre cause. In considerazione di tutto ciò, l'ordinamento italiano, come in generale quello di tutti i paesi moderni, si ispira ad entrambi i criteri facendoli insieme. Il modo con cui si realizza questo operare contemporaneo può essere sintetizzato in questa regola: il criterio del valore è generale, nel senso che opera quando non esistano regole che stabiliscano diversamente con riguardo alla materia; mentre, quando ciò avvenga, il criterio della materia prevale su quello del valore . Inoltre, alcune delle norme che regolano la competenza secondo la materia contengono un'ulteriore ripartizione della competenza in determinate materie, secondo il criterio del valore, e viceversa. Questa reciproca integrazione tra i due criteri appare palese già nel primo degli articoli dedicati dal codice a questo tema: l' art. 7 , ossia la norma che determina la competenza del giudice di pace . Nel 1° comma dell'art. 7 viene indicato in 10.000 euro il limite generale di valore per la competenza del giudice di pace, ma non senza precisare - in base al criterio della materia - che ciò vale solo per le cause relative a beni mobili e sempre che non siano attribuite alla competenza di altro giudice. Dal 31 ottobre 2025 il valore passerà a 30.000. Lo stesso art. 7, poi, introduce - nei suoi commi 2º e 3° - alcune ipotesi di competenza per materia del giudice di pace; non senza un'ulteriore coordinamento di alcune di queste materie col criterio del valore. Cominciando con le ipotesi or ora accennate, vediamo che il 2° comma dell'art. 7 riserva al giudice di pace le cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli o di natanti (nei confronti sia dei danneggianti che delle società assicuratrici), nei limiti di 25.000 euro. Dal 31 ottobre 2025 il valore passerà a 50.000. Senza limiti di valore (« qualunque ne sia il valore ») è invece l'attribuzione della competenza al giudice di pace delle cause nelle materie elencate nel 3° comma dello stesso art. 7 e cioè: 77 come giudice di primo grado, e la corte d'appello - salvo taluni casi eccezionalissimi, nei quali opera come giudice di primo grado - opera solo come giudice di secondo grado: perciò essa, salve le eccezioni ora accennate, non è destinataria di particolari regole di competenza. Ciò che a maggior ragione vale per la Corte di cassazione, alla quale compete soltanto il controllo di legittimità nei confronti di tutte le sentenze (art. 360 c.p.c. e art. 111 Cost.). 37. La competenza per territorio Il secondo problema che il legislatore ha risolto nel disciplinare la competenza - quello della sua distribuzione tra i vari uffici giudiziari dello stesso tipo che sono dislocati nelle diverse circoscrizioni territoriali - è risolto dal codice in base all'unico criterio della competenza per territorio, ossia il criterio che emerge logicamente dal fatto che, proprio a questi effetti, l'intero territorio nazionale è diviso in varie ed autonome circoscrizioni. Il nostro codice ha risolto il problema ispirandosi, in linea di principio, al criterio soggettivo, ossia con riferimento ai soggetti della controversia, ma temperando poi questa scelta con l'introduzione di un gran numero di eccezioni ispirate per lo più a criteri oggettivi, ossia con riferimento al petitum o alla causa petendi . E queste ultime, come spesso accade all'eccezione rispetto alla regola, prevalgono sulle prime. L'applicazione del criterio soggettivo si è espressa nella formulazione degli artt. 18 e 19, ove si introducono i cosiddetti fori generali delle persone fisiche e delle persone giuridiche: l'attributo «generale» di questi fori mette bene in evidenza che questo è un criterio di principio e solo di principio. Tra i due soggetti, l'attore e il convenuto, il codice ha scelto il secondo. Ciò in conformità all'orientamento di tutte le moderne legislazioni e in base al criterio che è l'attore a turbare, in certo senso, la quiete giuridica, e che il convenuto, che subisce questo turbamento, deve avere in compenso il vantaggio di minori spostamenti territoriali. Quanto al modo di collegamento tra il convenuto e il territorio, il codice ha posto sullo stesso piano la residenza e il domicilio, lasciando così all'attore la scelta nel riferimento all'uno o all'altro, mentre ha posto in posizione subordinata la dimora. « Salvo che la legge disponga altrimenti , - recita dunque l' art. 18 , 1° comma - è competente il giudice del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio (fori elettivamente concorrenti) , o, se questi sono sconosciuti, quello del luogo in cui il convenuto ha la dimora ». Il 2° comma aggiunge poi, in via residuale, che « se il convenuto non ha residenza né domicilio né dimora nella Repubblica, o se la dimora è sconosciuta, è competente il giudice del luogo in cui risiede l'attore» . Quanto alle persone giuridiche , l 'art. 19 , 1° comma , si riferisce alla loro sede (« salvo che la legge disponga altrimenti, qualora sia convenuta una persona giuridica, è competente il giudice del luogo dove essa ha sede »), aggiungendo, in via alternativa, il riferimento al luogo dove la persona giuridica ha uno stabilimento e un rappresentante autorizzato a stare in giudizio per l'oggetto della domanda. Agli effetti della competenza, le associazioni non riconosciute e, in generale, gli enti privi di personalità giuridica, hanno sede nel luogo dove svolgono la loro attività in modo continuativo (art. 19, 2° comma ). Accanto al criterio generale, ossia quello dei fori generali, operano le regole eccezionali della indicazione di fori speciali che sono determinati, come si diceva, in applicazione di criteri per lo più oggettivi, con riferimento al petitum o alla causa petendi della domanda. Tra i fori speciali che si riferiscono al petitum , va particolarmente tenuto presente il disposto dell' art. 21 , secondo cui le cause relative a diritti reali su beni immobili e le cause in materia di locazione e comodato di immobili e di affitto di aziende, nonché le cause relative ad apposizione di termini ed osservanza delle distanze stabilite dalla legge, dai regolamenti o dagli usi riguardo al piantamento degli alberi e delle siepi, appartengono alla competenza del giudice del luogo dove è 80 posto l'immobile. Se l’immobile è compreso in più circoscrizioni territoriali è competente ogni giudice nella cui circoscrizione si trova una parte dell’immobile. A proposito di questa norma, nel suo riferimento ai diritti reali, si deve notare che, poiché oggetto della controversia qui sono appunto i diritti reali (su beni immobili) restano escluse le controversie che, pur concernendo beni immobili, hanno in realtà per oggetto diritti obbligatori su tali beni immobili: per es., l'azione di adempimento o di risoluzione o di simulazione relativa concernente contratti su beni immobili. Sono, invece, comprese nella portata di questa norma le rivendiche e in generale le azioni di mero accertamento relative a diritti reali su beni immobili. Lo stesso art. 21, nel suo 2° comma , stabilisce che per le azioni possessorie e per le denunce di nuova opera e di danno temuto è competente il giudice del luogo nel quale è avvenuto il fatto denunciato. Invece, sono determinati con riferimento alla causa petendi : il foro relativo alle cause ereditarie (il giudice del luogo dell'aperta successione: art. 22), quello relativo alle cause fra soci e condòmini e anche quelle fra condomini e condominio (il giudice dove ha sede la società o dove si trova l'immobile: art. 23), quello relativo alle gestioni tutelari e patrimoniali (il giudice del luogo di esercizio della tutela o dell'amministrazione: art. 24) e quello relativo alle cause di opposizione all'esecuzione (il giudice del luogo dell'esecuzione: art. 27). A questo criterio si possono ricondurre anche le regole particolari della competenza per territorio nel processo del lavoro ed in quello relativo alle controversie previdenziali e assistenziali. C'è poi un foro speciale legato ad un criterio soggettivo : quello di cui all' art. 25 , che contiene una regola preferenziale per l'Amministrazione dello Stato (c.d. foro erariale ). Poiché questa è, come vedremo, difesa in giudizio dall'Avvocatura dello Stato, nelle cause in cui sia parte l'Amministrazione dello Stato è competente il giudice del luogo dove ha sede l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato nel cui ambito territoriale (distretto) si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie. Ad es., poiché il tribunale di Varese appartiene al distretto dell'Avvocatura dello Stato che ha sede a Milano, una causa che sarebbe di competenza del tribunale di Varese diviene, per effetto dell'art. 25, di competenza del tribunale di Milano. L'applicabilità di questa regola ai giudizi innanzi al giudice di pace viene generalmente esclusa, per effetto dell'art. 7, 2° comma, R.D. 1611/1933, che la escludeva davanti ai conciliatori. Ancora con riferimento a un criterio soggettivo, va tenuto presente il c.d. foro del consumatore , ossia la deroga alle regole dei fori generali, che risulta dall'art. 33, 2° comma, lett. u, D.Lgs. 206/2005 (c.d. codice del consumo) e che privilegia il luogo di residenza o di domicilio elettivo del consumatore. Ovviamente nel momento in cui viene proposta la domanda e non in quello di conclusione del contratto; residenza e domicilio sono entrambi da considerare fori del consumatore. Ugualmente è privilegiato il «luogo di residenza o di domicilio del consumatore» nella vendita c.d. «a distanza», fissato dall'art. 63 D.Lgs. 206/2005. Un criterio soggettivo sta, infine, alla base del disposto dell' art. 30 bis che disciplina la competenza (esclusiva) nelle cause in cui è parte un magistrato . Nell' esecuzione forzata , la competenza per territorio è disciplinata dagli artt. 26 e 26 bis in base ad un criterio di specialità imperniato sul luogo dell'esecuzione. Più precisamente: 1. per l'esecuzione forzata su cose mobili o immobili (espropriazione e consegna o rilascio) è competente il giudice del luogo in cui le cose si trovano; se le cose immobili soggette all'esecuzione non sono interamente comprese nella circoscrizione di un solo tribunale, si applica l'art. 21 che, conduce alla competenza di ogni giudice nella cui circoscrizione si trova una parte dell'immobile ; 2. per l'espropriazione forzata di crediti è competente il giudice del luogo dove risieda, sia domiciliato, abbia la dimora o la sede il debitore (salvo che il debitore non sia una Pubblica Amministrazione di quelle indicate dall'art. 413, 5° comma, perché in tal caso competente è il 81 giudice del luogo dove ha sede l'Avvocatura dello Stato nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede); 3. per l'esecuzione forzata degli obblighi di fare o non fare è competente dice del luogo dove l'obbligo deve essere eseguito. Si è già visto che il foro speciale prevale su quelli generali (!!!) . Ciò si desume sia dal fatto che le norme che concernono i fori generali (artt. 18 e 19) iniziano con la proposizione «salvo che la legge disponga altrimenti», e sia dal fatto che le norme che introducono le regole dei fori speciali, indicano questi ultimi come i soli fori competenti, che perciò si dicono fori esclusivi . Non così, invece, nel caso dell' art. 20 , ove, sotto la rubrica di « foro facoltativo per le cause relative a diritti di obbligazione», si precisa questa facoltatività nel senso che, per le cause suddette, è anche competente - in alternativa al foro generale - il giudice del luogo dove l'obbligazione è sorta o deve essere eseguita. «Anche», nel senso che esiste una possibilità di scelta tra più uffici giudiziari, i quali sono tutti competenti: la facoltà di scelta tra di essi, spetta a chi inizia la causa, mentre il convenuto non ha che da prendere atto di questa scelta; ciò differenza di quanto accade per i fori esclusivi, ove la competenza del foro speciale esclude quella del foro generale nel senso che il foro competente è solo quello speciale. Perciò, nel caso del foro esclusivo, qualora l'attore avesse invece adito il foro generale (e naturalmente, sempre nell'ipotesi che questo non coincida col foro speciale) il convenuto potrebbe eccepire l'incompetenza. Un altro esempio di foro facoltativo si può ravvisare anche nella fattispecie prevista dall' art. 30 di elezione di domicilio in un determinato luogo. Estranee alla disciplina della competenza (ma anche della litispendenza e continenza) - come già detto - sono le regole di ripartizione fra sede principale e sezione distaccata (o fra diverse sezioni distaccate), come risulta anche dall'art. 83 ter disp. att. c.p.c., secondo cui le relative questioni possono essere sollevate non oltre la prima udienza e vanno eventualmente risolte dal presidente con decreto non impugnabile, senza che possano integrare un vizio deducibile in sede di impugnazione. 38. La derogabilità o prorogabilità della competenza. Modalità e termini per rilevare l'incompetenza. Le regole concernenti la derogabilità o prorogabilità della competenza sono quelle che introducono o escludono il potere delle parti di accordarsi esplicitamente o implicitamente sull'attribuzione della competenza ad un giudice che altrimenti sarebbe incompetente. E perciò questo fenomeno va tenuto ben distinto da quello della competenza facoltativa, ove non si postula alcun accordo tra le parti, ma solo una scelta da parte dell'attore, tra più giudici che sono tutti già competenti. Nel caso della deroga o proroga, invece, un giudice che era incompetente diviene competente per effetto dell'accordo di deroga. Come si vide per la giurisdizione, anche qui la deroga può risultare o da un accordo anteriore al processo, oppure da un accordo, esplicito o implicito, successivo all'inizio del processo, tenendo presente che siffatti eventuali accordi sono rilevanti soltanto quando siano consentiti dalla legge. Ed infatti, la regola generale - codificata nell' art. 6 - suona appunto nel senso che « la competenza non può essere derogata per accordo delle parti, salvo che nei casi stabiliti dalla legge ». Pertanto, occorre: a) vedere se esistano regole, e quali siano, che prevedano l'accordo preventivo circa la deroga delle regole sulla competenza; b) esaminare le regole che concernono la reazione del soggetto che è stato convenuto davanti ad un giudice incompetente, onde vedere se nell'eventuale sua mancata reazione si possa ritenere implicito un accordo indiretto, al quale la legge riconosca efficacia. 82 Abbiamo visto, nel precedente §, che le pronunce sulla competenza possono assumere la forma dell'ordinanza (se relative soltanto alla competenza), ma talora la forma della sentenza (se relative anche al merito). Si tratta ora di vedere quando e come tali provvedimenti siano impugnabili. Per quanto concerne le pronunce con sentenza, abbiamo già accennato, e meglio vedremo a suo luogo (vol. II, § 74), che il normale mezzo per impugnare la sentenza di primo grado che si pronuncia anche sulla competenza è l'appello. Anche il giudizio d'appello termina poi con una sentenza, che è impugnabile con ricorso per cassazione, alla quale pertanto spetta la parola definitiva. Si svolge, insomma, un lungo e articolato giudizio, la cui conclusione potrebbe essere negativa rispetto alla competenza, con evidente inutile dispendio di attività processuale. Perciò, accanto all'appello, il nostro ordinamento configura un mezzo specificamente riservato proprio alla pronuncia sulla competenza, e che è (o dovrebbe essere) immune da quest'inconveniente. Questo specifico mezzo di impugnazione è il regolamento di competenza, la cui caratteristica è quella di dar luogo immediatamente ad un giudizio innanzi alla Corte di cassazione, ossia innanzi a quel giudice che può dire subito la parola definitiva sulla questione di competenza. Inoltre, questo giudizio ha la caratteristica di svolgersi con notevole semplicità di forme e quindi con una relativa rapidità. Prima di esaminare la disciplina di questo regolamento occorre soffermarsi sulla forma dei provvedimenti impugnabili con lo stesso. Dal complesso della disciplina già esaminata emerge palese l'orientamento del legislatore nel senso di concentrare nell'ordinanza la forma dei provvedimenti sulla competenza. Non sembra però che da ciò si possa desumere che, anche agli effetti del regolamento di competenza, il provvedimento impugnabile con questo mezzo sia sempre e soltanto l'ordinanza. Presumibilmente, questo è l'orientamento che il legislatore ha mostrato di prediligere, non senza tuttavia prevedere un'esplicita eccezione nei casi di regolamento facoltativo di cui all'art. 43, ove l'alternativa in cui si concreta la facoltatività è quella dell'impugnazione «nei modi ordinari». I quali «modi ordinari» consistono, nei confronti di una pronuncia sul merito, nell'appello e nel ricorso per cassazione. Con la conseguenza che è tuttora possibile l'impugnazione col regolamento di competenza nei confronti di un provvedimento in forma di sentenza e che, d'altra parte, sono possibili pronunce sulla competenza con le forme della sentenza. Queste possibilità sembrano confermate anche dalla disciplina dei provvedimenti del collegio dell'art. 279 e dalla quale disciplina emerge, sia pure indirettamente, la possibilità di una pronuncia con sentenza sia sulla competenza che sul merito. Veniamo ora alla disciplina del regolamento. Il regolamento di competenza è un mezzo di impugnazione, tranne che in un caso particolarissimo (ossia il regolamento d'ufficio, che tra poco vedremo). Ed infatti, esso consiste in un'iniziativa giudiziaria di parte (salvo soltanto il suddetto particolarissimo caso) contro una pronuncia (sulla competenza) nella quale la parte che impugna sia rimasta soccombente , e tende ad una riforma di quella pronuncia; appartiene alla categoria dei mezzi di impugnazione che si chiamano ordinari perché la loro proponibilità condiziona il passaggio in giudicato della sentenza. D'altro canto, la proposizione del regolamento di competenza consente alla Corte di cassazione anche il controllo d'ufficio sulla sussistenza della giurisdizione, sempre che su questa non si sia formato il giudicato (esplicito o implicito). Ciò, in forza dei concorrenti principi di pregiudizialità (logica) della questione di giurisdizione rispetto a quella di competenza, di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di attribuzione costituzionalmente riservata alla stessa Cassazione di tutte le questioni di giurisdizione e di competenza. Premesso che il regolamento di competenza non è proponibile contro i provvedimenti del giudice di pace (art. 46), occorre tener presente che esistono due tipi di regolamento di competenza: il regolamento necessario ed il regolamento facoltativo. 85 L' art. 42 chiama regolamento necessario di competenza quello che può essere proposto contro i provvedimenti che pronunciano solo sulla competenza (... pronunciando sulla competenza, non decide il merito della causa...). Ed è «necessario» nel senso che esso è l'unico mezzo col quale i provvedimenti che pronunciano soltanto sulla competenza, in primo o in secondo grado , possono essere impugnati. Quando, insomma, il provvedimento pronuncia soltanto sulla competenza (sia perché il giudice dichiari la propria incompetenza o sia perché, pur affermando la propria competenza, riserva al seguito del processo la pronuncia sul merito), l'unico mezzo per impugnarlo è il regolamento necessario. In questi casi il provvedimento impugnabile solo col regolamento avrà la forma dell'ordinanza se pronunciato in sede di trattazione, ai sensi degli artt. 38, 39 o 40. Lo stesso discorso vale anche nell'ipotesi che il giudice abbia scelto di percorrere la via della rimessione in decisione, ai sensi dell'art. 187,3° comma. Anche in questo caso, infatti, il provvedimento, anche se in grado di appello, sarà - se pronuncia soltanto sulla competenza - sempre un'ordinanza impugnabile solo col regolamento di competenza. Nell'ambito del quale, d'altra parte, rientra anche l'eventuale contestazione della violazione della disciplina sulla tempestività dell'eccezione di incompetenza e/o sul rilievo d'ufficio, quale risulta dall'art. 38. Se il regolamento viene proposto , la Cassazione «statuisce sulla competenza» (art. 49) o rigettando il ricorso (nel qual caso resta ferma la competenza di quel giudice che la pronuncia impugnata aveva indicato come competente) oppure accogliendolo, e così determinando in modo definitivo qual è il giudice competente. Se invece il regolamento non viene proposto , scatta il meccanismo insito nella necessarietà del mezzo: poiché non è stato proposto l'unico mezzo possibile, la pronuncia non è più impugnabile in alcun modo e perciò resta ferma la competenza di quel giudice che la pronuncia aveva indicato come competente. Questo significa che quest'ultimo giudice (dinanzi al quale la causa verrà riassunta, attraverso l'iter e nel termine che tra poco vedremo), non potrà - se ed in quanto sia avvenuta la suddetta riassunzione tempestiva - contestare la propria competenza e dovrà senz'altro pronunciare sul merito: così dispone l'art. 44. La norma fa riferimento alle ipotesi in cui il giudice, chiamato a pronunciarsi in ordine ad ipotesi di competenza per valore e territorio derogabile o di litispendenza, continenza e connessione, abbia dichiarato la propria incompetenza. In questo caso, se le parti non propongono il regolamento, la competenza non potrà più essere contestata, nemmeno come eccezione, innanzi al giudice dichiarato competente. Questa norma, tuttavia, oltre a condizionare la suddetta incontestabilità alla riassunzione nel termine, aggiunge che tale incontestabilità si verifica «salvo che si tratti di incompetenza per materia o di incompetenza per territorio nei casi previsti dall'art. 28» , i quali ultimi sono, come si ricorderà, quelli di competenza territoriale inderogabile o funzionale. In questi casi, dunque, l' art. 44 esclude l'incontestabilità, e così eccezionalmente consente al giudice indicato come competente nella pronuncia non impugnata di dichiararsi a sua volta incompetente, se ed in quanto si ritenga tale e purché ciò avvenga entro il termine di cui all'art. 38 (vale a dire, entro l'udienza di cui all'art. 183). Se ciò accade, si verifica allora quella situazione che il codice (art. 45) chiama « conflitto di competenza », consistente nel fatto che due giudici ritengono ciascuno la competenza dell'altro o di un altro giudice, e che è precisamente quella situazione particolarissima alla quale si era accennato sopra come all'unico caso in cui il regolamento di competenza non ha le caratteristiche del mezzo di impugnazione. L' art. 45 prevede, infatti, che in questi casi, e soltanto in questi casi, il giudice innanzi al quale la causa è stata riassunta nel termine di cui all'art. 50, e che si ritiene a sua volta incompetente, possa richiedere d'ufficio il regolamento di competenza. Ciò avviene attraverso la pronuncia di un'ordinanza con la quale il giudice dispone la rimessione del «fascicolo d'ufficio» alla cancelleria della Corte di cassazione (art. 47, 4° comma - MODIFICATO). Il termine ultimo per proporre il regolamento di 86 competenza è la prima udienza di trattazione. L’ordinanza può essere pronunciata senza limiti di tempo, purché la relativa questione sia stata sollevata e riservata entro la prima udienza di trattazione. L'art. 42 affianca alle pronunce che decidono solo sulla competenza - agli effetti dell'assoggettamento al regolamento necessario - le pronunce previste dagli artt. 39 e 40 (litispendenza e connessione) e «i provvedimenti che dichiarano la sospensione del processo ai sensi dell'articolo 295» (quindi non quelli che la negano). L' art. 43 chiama regolamento facoltativo di competenza quello che può essere proposto contro i provvedimenti che hanno pronunciato sulla competenza e, insieme, sul merito . È «facoltativo» nel senso che, in questo caso, il regolamento non è l'unico mezzo di impugnazione proponibile, ma concorre con i «modi ordinari» (ossia, in pratica, per lo più con l'appello), quando insieme con la pronuncia sulla competenza si impugna quella sul merito. In sostanza, la parte che è rimasta soccombente sulla questione di competenza può scegliere (qui sta appunto la facoltatività) tra il regolamento (col quale naturalmente può impugnare solo quel capo della sentenza che concerne la competenza) oppure l'impugnazione nei modi ordinari, con la quale, impugnando la pronuncia sul merito, può impugnare anche la pronuncia sulla competenza. Questo «capo» della sentenza che concerne la competenza potrebbe anche rimanere implicito. Ciò accade quando il giudice, essendo tenuto a rilevare d'ufficio l'eventuale incompetenza non la rileva oppure quando non pronuncia sulla proposta eccezione, pronunciando invece senz'altro sul merito, così implicitamente ritenendo (erroneamente) la propria competenza. In tal caso è ammissibile il regolamento facoltativo di competenza. Ma naturalmente l'una impugnazione non può essere proposta contemporaneamente all'altra: se è proposto subito il regolamento, l'impugnazione ordinaria potrà investire soltanto il merito; se invece viene proposta subito l'impugnazione ordinaria, ciò non impedisce alle altre parti di chiedere il regolamento (art. 43, 2° comma), ma in tal caso il giudizio sull'impugnazione ordinaria resta sospeso (art. 48) o, se non ancora proposto, restano sospesi i termini, che riprendono a decorrere dalla comunicazione dell'ordinanza della Cassazione che si pronuncia sul regolamento (art. 43, 3° comma). Ché se poi - infine - la pronuncia non venisse impugnata affatto, il giudicato sul merito supererebbe e toglierebbe significato alla questione di competenza sanando ogni eventuale vizio inerente ad essa. Questo regime riguarda anche i provvedimenti di secondo grado poiché il codice si riferisce ai provvedimenti, senza indicare il grado; con la precisazione, peraltro, che questa possibilità potrebbe rimanere esclusa qualora i provvedimenti di secondo grado sulla competenza venissero ritenuti pronunce su questioni pregiudiziali di rito, come la Cassazione tende a ritenere. Nell'individuare i provvedimenti contro i quali è proponibile il regolamento di competenza, occorre tenere presente che, come già rilevato, gli artt. 42 e 43 si riferiscono ora alle ordinanze , ciò che peraltro non esclude il possibile riferimento anche alle sentenze nei casi, già visti, nei quali la pronuncia investe anche il merito. Restano così incluse anche le sentenze di secondo grado. Il procedimento davanti alla Corte di cassazione per il regolamento si svolge in modo non molto dissimile dal procedimento ordinario per cassazione. Qui basterà, oltre che ricordare il già accennato effetto sospensivo di cui all'art. 48, salvo il compimento degli atti urgenti, tener presente che il regolamento-impugnazione si propone con ricorso da notificarsi alle parti che non vi hanno aderito sottoscrivendo il ricorso stesso; che il ricorso deve contenere l'indicazione del giudice che si ritiene competente e il motivo di censura; che il termine per la suddetta proposizione (di trenta giorni) decorre, salvo il caso della già avvenuta proposizione dell'impugnazione ordinaria (nel qual caso decorrerebbe - per le altre parti: v. art. 43, 2° comma - dalla notificazione di quest'ultima), dalla comunicazione dell'ordinanza e non - come normalmente avviene - dalla sua notificazione (la ragione 87 1. Connessione soggettiva e conseguente cumulo oggettivo (art. 104 c.p.c.) : nel caso di connessione meramente soggettiva (pluralità di domande che devono essere proposte dallo stesso soggetto contro lo stesso soggetto e che non sono altrimenti connesse, non presentando alcuna comunanza nel titolo e nell’oggetto), l’art. 104 c.p.c. consente (ma non impone) di proporre tutte le domande soggettivamente connesse nel medesimo processo (c.d. cumulo oggettivo), purché sia osservata, quanto al valore, la norma dell’art. 10, secondo comma, c.p.c. 2. Connessione oggettiva non qualificata e conseguente cumulo soggettivo (artt. 103 e 33 c.p.c.) : nel caso di connessione (esclusivamente) oggettiva (pluralità di domande con comunanza nell’oggetto o nel titolo ma non nei soggetti) l’art. 103 c.p.c. consente, in generale e a prescindere dal contenuto specifico della connessione, che le diverse parti possano agire o essere convenute nel medesimo processo (c.d. cumulo soggettivo); in questo caso, a norma dell’art. 33 c.p.c., il cumulo può avvenire dinanzi al giudice del luogo di residenza o domicilio di uno dei convenuti, quand’anche, in applicazione delle normali regole sulla competenza per territorio, le cause, dirette contro più persone, avrebbero dovuto essere proposte davanti a giudici diversi. 3. Connessione oggettiva qualificata per accessorietà (art. 31 c.p.c.) : l’accessorietà è il rapporto che intercorre tra due cause connesse oggettivamente (ma anche soggettivamente), nel senso che la decisione su una di esse (quella c.d. accessoria) dipende dalla decisione sull'altra (quella c.d. principale). Ad es., l'accoglimento della domanda di pagamento degli interessi dipende dall'accoglimento della domanda di restituzione di una somma data a mutuo: perciò la prima è accessoria rispetto alla seconda. Ancora: l'accoglimento della domanda di risarcimento dei danni per violazione della misura di uso dei servizi del condominio (azione accessoria) dipende dalla decisione su questa violazione (azione principale). Per questo genere di rapporto, la regola generale è nel senso che: con riguardo al territorio, il giudice competente per la causa principale è competente anche per la causa accessoria (art. 31, 1° comma, prima parte), mentre con riguardo alla competenza per valore, la norma in esame esige il rispetto della regola dell'art. 10, 2° comma. 4. Connessione oggettiva qualificata per garanzia (art. 32 c.p.c.) : si ha connessione per garanzia quando il soggetto contro il quale viene proposta una domanda (domanda principale) propone a sua volta un’altra domanda nei confronti di un terzo (domanda di garanzia) chiedendo che sia da questi risarcito del pregiudizio derivante dalla sua eventuale soccombenza. L’art. 32 c.p.c. prevede che la domanda di garanzia può essere proposta al giudice (territorialmente) competente per la causa principale affinché sia decisa nello stesso processo; tuttavia, qualora essa ecceda la competenza per valore del giudice adito, questi rimette entrambe le cause al giudice superiore assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione. Con riguardo alla connessione per garanzia, va precisato che la giurisprudenza di legittimità ritiene che l’art. 32 c.p.c. si applichi alle ipotesi di garanzia propria (quando la causa principale e quella di garanzia hanno lo stesso titolo o sussiste una connessione oggettiva tra i titoli delle due domande o quando sia unico il fatto generatore della responsabilità prospettata: ad es., garanzia per evizione nella compravendita). Va tenuto presente che - secondo i più recenti approdi della Cassazione - la suddetta particolare possibilità di derogare alle regole della competenza sussiste anche nei casi di garanzia impropria , che si verifica quando la domanda di garanzia, anziché dipendere dal medesimo titolo, dipende da un titolo connesso solo in via di fatto (tipico l'esempio di vendite «a catena» della stessa merce). 5. Connessione qualificata per pregiudizialità (art. 34 c.p.c.) : per questioni pregiudiziali l’art. 34 c.p.c. (a differenza della diversa accezione utilizzata dagli artt. 187 e 279 c.p.c.) fa 90 riferimento alle questioni (non di rito ma) di merito che, pur potendo costituire oggetto di autonomo accertamento, si inseriscono nell’iter logico-giuridico della decisione sulla domanda principale per modo che la soluzione della questione pregiudiziale costituisce un antecedente logico necessario (presupposto) della decisione della domanda principale (ad es., rispetto ad una domanda di prestazione previdenziale fondata sull’invalidità è pregiudiziale l’accertamento dello status di invalido). Quando la questione pregiudiziale deve essere decisa con efficacia di giudicato, il giudice, se la questione pregiudiziale appartiene per materia o per valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa (e dunque anche la domanda principale) al giudice superiore, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui. 6. Connessione qualificata per compensazione (art. 35 c.p.c.) :se è opposto in compensazione un credito che è contestato e che eccede la competenza per valore del giudice adìto, l’art. 35 c.p.c. prevede che il giudice debba distinguere a seconda che la domanda sia fondata o meno su titolo non controverso o facilmente accertabile: in caso positivo, il giudice può decidere sulla domanda proposta (per la quale è competente) e rimettere le parti al giudice superiore per la sola decisione relativa all’eccezione di compensazione; viceversa, in caso negativo, il giudice rimette tutta la causa al giudice superiore, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione. 7. Connessione qualificata per riconvenzione (art. 36 c.p.c.) : la stessa regola viene prevista dall’art. 36 c.p.c. per l’ipotesi in cui venga proposta una domanda riconvenzionale che eccede la competenza per materia o per valore del giudice adìto con la domanda principale: in questa ipotesi, infatti, il giudice rimette tutta la causa al giudice superiore, secondo il meccanismo già previsto dagli artt. 34 e 35 c.p.c., con conseguente deroga agli ordinari criteri di determinazione della competenza per materia e per valore in relazione alla domanda principale Le disposizioni viste finora si riferiscono al fenomeno della connessione sotto il profilo della facoltà della parte che agisce di cumulare le azioni connesse nello stesso processo; e cioè concernono il momento anteriore all'inizio dell'unico processo nel quale vengono esercitate insieme tutte le azioni connesse. Esse vanno perciò coordinate con altre disposizioni dettate con riferimento ad un momento successivo all'inizio del processo, che cioè si riferiscono allo stesso fenomeno da un altro punto di vista: quello del giudice (o dei diversi giudici) al quale (o ai quali) siano già state proposte le azioni connesse. Art. 40 (Connessione) 1. Se sono proposte davanti a giudici diversi più cause le quali, per ragione di connessione, possono essere decise in un solo processo , il giudice fissa con ordinanza alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa accessoria davanti al giudice della causa principale, e negli altri casi davanti a quello preventivamente adito. 2. La connessione non può essere eccepita dalle parti né rilevata d'ufficio dopo la prima udienza, e la rimessione non può essere ordinata quando lo stato della causa principale o preventivamente proposta non consente l'esauriente trattazione e decisione delle cause connesse. 3. Nei casi previsti negli articoli 31, 32, 34, 35 e 36, le cause, cumulativamente proposte o successivamente riunite, debbono essere trattate e decise col rito ordinario, salva l'applicazione del solo rito speciale quando una di tali cause rientri fra quelle indicate negli articoli 409 e 442. In caso di connessione ai sensi degli articoli 31, 32, 34, 35 e 36 tra causa sottoposta al rito semplificato di cognizione e causa sottoposta a rito speciale diverso da quello previsto dal primo periodo, le cause debbono essere trattate e decise con il rito semplificato di cognizione. 4. Qualora le cause connesse siano assoggettate a differenti riti speciali debbono essere trattate e 91 decise col rito previsto per quella tra esse in ragione della quale viene determinata la competenza o, in subordine, col rito previsto per la causa di maggior valore. 5. Se la causa è stata trattata con un rito diverso da quello divenuto applicabile ai sensi del terzo comma, il giudice provvede a norma degli articoli 426, 427 e 439. 6. Se una causa di competenza del giudice di pace sia connessa per i motivi di cui agli articoli 31, 32, 34, 35 e 36 con altra causa di competenza del tribunale, le relative domande possono essere proposte innanzi al tribunale affinchè siano decise nello stesso processo. 7. Se le cause connesse ai sensi del sesto comma sono proposte davanti al giudice di pace e al tribunale, il giudice di pace deve pronunziare anche d'ufficio la connessione a favore del tribunale. Anche qui il criterio che ispira la regola alla quale il giudice deve attenersi è quello dell'opportunità della trattazione congiunta, con la differenza che qui tale opportunità deve essere previamente valutata dal giudice. Se le cause connesse pendono davanti allo stesso giudice , questi ne può ordinare la riunione, anche d'ufficio (art. 274); il che naturalmente deve avvenire (come si è già visto) anche ed a maggior ragione - qualora si tratti addirittura della stessa causa (litispendenza) (art. 273); se pendono davanti a giudici diversi , la competenza spetta a quello adito per primo (c.d. criterio della prevenzione ), a meno che le cause connesse siano in rapporto di accessorietà , nel qual caso è competente per entrambe il giudice competente per la causa principale. E tanto il giudice della causa accessoria, o quello adito successivamente, ordina la riassunzione della causa innanzi al giudice della causa principale o a quello adito preventivamente ( art. 40, 1° comma ), sempre naturalmente che sussistano i presupposti che consentono l'eventuale spostamento della competenza. Il rilievo della connessione (anche d'ufficio) non può avvenire oltre la prima udienza, mentre, d'altra parte, la riunione non può essere ordinata se la causa principale o preventivamente proposta si trova già in una fase troppo avanzata ( art. 40, 2° comma ). Ed anche questa pronuncia è impugnabile con regolamento necessario di competenza (art. 42). La trattazione congiunta delle cause connesse potrebbe, in ipotesi, essere ostacolata da eventuali differenze di «rito». Di questo si occupano i commi 3°, 4° e 5° all'art. 40. È invece opportuno esaminare qui ulteriori due commi (6° e 7°) dell'art. 40, che prevedono una diversa figura di connessione, imperniata sul criterio della prevalenza della cognizione del tribunale (composto da giudici «togati») rispetto a quella del giudice di pace (ufficio ricoperto da giudici «non togati»). Anche l'operare di questo criterio è disciplinato con riguardo alle vedute due diverse angolazioni: quella del momento anteriore all'inizio del processo e quella del momento successivo a tale inizio. Sotto il primo profilo, il 6° comma dispone che «se una causa di competenza del giudice di pace sia connessa per i motivi di cui agli articoli 31, 32, 34, 35 e 36» - ossia per tutte le particolari e già viste ipotesi di connessione prese in considerazione dal codice, esclusa solo la connessione semplice e quella impropria di cui all'art. 33 e all'art. 103, 1° comma - «con altra causa di competenza del tribunale, le relative domande possono essere proposte innanzi al tribunale affinché siano decise nello stesso processo». Ciò, naturalmente, salva l'applicabilità delle regole di cui al 1° comma (anche tra diversi giudici di pace) e dello stesso art. 33. Sotto il secondo profilo, il 7° comma disciplina l'ipotesi che cause connesse secondo i veduti criteri siano proposte l'una (o le une) davanti al giudice di pace e l'altra (o le altre) davanti al tribunale, stabilendo che, in queste ipotesi, è sempre (ossia quale che sia il giudice preventivamente adito e quale che sia l'eventuale rapporto di accessorietà) il giudice di pace che deve assumere l'iniziativa per la riunione, ossia «deve pronunziare anche d'ufficio la connessione a favore del tribunale». Questa pronuncia con ordinanza avverrà naturalmente con le modalità di cui al 1° comma di questo art. 40 e nei limiti temporali di cui al 2° comma, ma dubbi sorgono circa l'applicabilità dell'ulteriore limitazione prevista dallo stesso 2° comma con riguardo allo stato della causa. L'opinione che sembra prevalere e che trova fondamento nella generalità di quest'ultima regola, è in senso affermativo. 92 di connessione tra cause assoggettate al rito ordinario e cause assoggettate a riti speciali diversi da quello del lavoro o previdenziale, si ha attrazione a favore del rito ordinario. Il 4° comma dell'art. 40 prevede, poi, l'ipotesi che le cause connesse siano tutte assoggettate a differenti riti speciali. Per queste ipotesi, la norma dispone che le cause connesse siano trattate e decise «col rito previsto per quella di esse in ragione della quale viene determinata la competenza» e soltanto in subordine, «col rito previsto per la causa di maggior valore». Infine, il 5° comma dispone che, se «la causa» (una delle cause cumulate) «è stata trattata con un rito diverso da quello divenuto applicabile ai sensi del 3° comma, il giudice provvede a norma degli artt. 426 e 427», ossia delle norme che, nel processo del lavoro, prevedono il passaggio dall'uno all'altro rito. La decisione sul rito applicabile, se non espressamente impugnata, preclude il riesame successivo per il formarsi del giudicato interno. Si può concludere sul punto che le sole ipotesi nelle quali la connessione non consente la trattazione congiunta o il simultaneus processus è, oltre a quella della connessione solo soggettiva tra cause sottoposte a riti diversi, quella dell'appartenenza delle cause a diversi criteri di competenza per materia. Sezione terza - ASTENSIONE E RICUSAZIONE DEL GIUDICE. GLI UFFICI COMPLEMENTARI E GLI AUSILIARI DEL GIUDICE 42. Astensione e ricusazione del giudice Si vide a suo tempo che la posizione di assoluta indifferenza ed equidistanza del giudice dalle posizioni delle parti assurge ad elemento caratteristico strutturale dell'attività che il giudice stesso svolge. E pertanto, ben si comprende come il codice si preoccupi di dettare talune norme (quelle sull'astensione e la ricusazione del giudice) destinate a garantire comunque tale imparzialità nel quadro di una più ampia normativa che configura diverse ragioni di incompatibilità per l'esercizio delle funzioni giudiziarie. Tecnicamente ciò avviene attraverso la sottrazione al giudice (naturalmente avendo riguardo alla persona fisica del magistrato che riveste la funzione di giudice) del potere-dovere di giudicare in quelle cause nelle quali, in ragione della presenza di specifici interessi personali in causa o di determinati rapporti con una delle parti, si potrebbe obiettivamente dubitare di tale imparzialità. Tale sottrazione può avvenire o a seguito di un'iniziativa spontanea del giudice (astensione), peraltro dovuta, oppure attraverso una specifica contestazione ad opera della parte che ha motivo di dubitare dell'imparzialità del giudice (ricusazione). Ma, né il giudice che si astiene, né la parte che lo ricusa può fondarsi su considerazioni soggettive o su generici sospetti; al contrario, il codice compie un'elencazione tassativa di situazioni o rapporti, stabilendo che: ● solo in presenza di una di tali situazioni o rapporti il giudice deve astenersi (art. 51, 1° comma); ● in presenza di altre gravi ragioni di convenienza egli può chiedere l'autorizzazione ad astenersi (art. 51, 2° comma); ● che la ricusazione può essere chiesta solo quando sussista un motivo di astensione obbligatoria (art. 52, 1° comma). I motivi di astensione obbligatoria sono elencati nell' art. 51, 1° comma : interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto; parentela sua o del coniuge o rapporti di commensalità abituale o convivenza con una delle parti o con alcuno dei difensori; causa pendente o grave inimicizia sua o del coniuge con una delle parti o alcuno dei suoi difensori; aver dato consiglio o prestato patrocinio o consulenza tecnica o deposto come testimone nella causa o averne conosciuto 95 come magistrato in altro grado del processo o come arbitro, nonché, per quanto concerne il giudice di pace, avere avuto o avere rapporti di lavoro autonomo o di collaborazione con una delle parti o essere tutore o curatore o amministratore di sostegno di una delle parti. Che cosa accade se il giudice, pur trovandosi in una delle situazioni di cui all'art. 51, 1° comma, non si astenga? Premesso che la parte che dubita della sua imparzialità può comunque proporre la ricusazione ai termini dell'art. 52 e supposto che non sia avvenuta neppure la ricusazione, ma il giudice si sia pronunciato, la soluzione non è univoca poiché la giurisprudenza distingue tra interesse diretto del giudice (che è in pratica quello di cui alla prima parte del n. 1 dell'art. 51) e interesse indiretto (in tutti gli altri casi dell'art. 51, 1° comma). Nel primo caso il motivo di astensione può essere invocato come motivo di impugnazione del provvedimento, anche se non fatto valere con la ricusazione; negli altri casi, invece, la possibilità di far valere il motivo di astensione come motivo di impugnazione solo laddove la parte abbia in precedenza avanzato istanza di ricusazione. Accanto ai motivi di astensione obbligatoria, l' art. 51, 2° comma , indica poi, come motivo di astensione facoltativa, previa autorizzazione del capo dell'ufficio, gravi ragioni di convenienza. Mentre l'iter dell'astensione si esaurisce nella richiesta al capo dell'ufficio giudiziario dell'autorizzazione ad astenersi e nel suo accoglimento, l'istanza di ricusazione dà luogo ad una sorta di procedimento incidentale, che inizia con un ricorso (sottoscritto dalla parte o dal difensore) indirizzato al presidente del tribunale, ove l'istanza riguardi il giudice di pace, o al collegio (del quale ovviamente non può far parte il giudice ricusato) del tribunale, della corte d'appello e della Corte di cassazione, ove riguardi uno dei componenti il collegio (art. 53). Questo procedimento si conclude con un'ordinanza non impugnabile, con la quale viene eventualmente designato il giudice che deve sostituire quello ricusato, mentre, nel caso di dichiarazione di inammissibilità o di rigetto, l'ordinanza provvede sulle spese e può condannare ad una pena pecuniaria non superiore a 250 euro (art. 54). Il ricorso per ricusazione sospende il processo (art. 52, 3° comma), con la conseguente sottrazione al giudice ricusato di ogni potere sia decisorio che ordinatorio. La Cassazione, tuttavia, è orientata a negare l'automaticità della sospensione, riconoscendo che il giudice ricusato, all'esito di una sommaria delibazione, possa negare la sospensione in caso di carenza ictu oculi dei requisiti. Il codice non precisa le modalità da osservare per la riassunzione (da effettuarsi nel termine perentorio di sei mesi dalla comunicazione dell'ordinanza di ricusazione: art. 54, 4° comma) e che dovrebbero esser quelle della comparsa di cui all'art. 125 disp. att. c.p.c. Come già detto, la proposizione della domanda di ricusazione condiziona la possibilità di far valere in sede di impugnazione il vizio della sentenza pronunciata dal giudice in una situazione di astensione obbligatoria. In correlazione con l'imparzialità del giudice e più precisamente a tutela dell'effettività di tale imparzialità, vanno visti i limiti alla responsabilità civile dei giudici, limiti già configurati dagli artt. 55 e 56, poi abrogati da un referendum del 1987 e sostituiti dalla L. 117/1988, la quale, a sua volta, è stata modificata dalla L. 18/2015. Il problema della responsabilità dei giudici non può che risolversi nella delicata ricerca del giusto punto di equilibrio tra due opposte esigenze, e cioè, da un lato, quella che si fonda sul rilievo che il chiamare i giudici a rispondere del loro operato allo stesso modo di ogni altro dipendente e funzionario dello Stato, può implicare un condizionamento, diretto o indiretto, nell'esercizio di una funzione che esige imparzialità e distacco; e dall'altro lato, quella che si fonda sul rilievo che in ogni sistema democratico l'esercizio di un potere - qual è indubbiamente quello dei giudici - non può non implicare un certo grado di responsabilità. Nel sistema attualmente vigente, i limiti a tale responsabilità investono direttamente l'estensione allo Stato della responsabilità dei giudici per il loro operato nell'esercizio delle loro funzioni, ai termini dell'art. 28 Cost. Infatti, la disciplina - dopo le modifiche introdotte nel 2015 - si sostanzia, in primo luogo, nella configurazione di un'azione diretta verso lo Stato, assoggettata a determinati limiti, 96 e, in secondo luogo, in una successiva azione, anch'essa limitata, di rivalsa dello Stato verso la persona del magistrato. Prima di passare ad un succinto esame dei limiti che la L. 117/1988 prevede per l'una e per l'altra azione, occorre precisare che questa disciplina non riguarda il caso in cui il comportamento del magistrato consista in un fatto costituente reato, poiché per tale ipotesi, l'art. 13 della stessa legge dispone che il danneggiato ha diritto al risarcimento nei confronti sia dello Stato che del magistrato secondo le norme ordinarie, ossia senza particolari limiti. Ciò premesso e venendo ai comportamenti dei magistrati non costituenti reato, ancorché illeciti, l'art. 2 della citata legge dispone che l'azione diretta verso lo Stato è prevista per il risarcimento di un danno ingiusto conseguente ad un comportamento, ad un atto o ad un provvedimento giudiziario in quanto sia posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni, esclusa peraltro l'attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove. Il danno risarcibile è il danno patrimoniale, mentre il danno non patrimoniale è risarcibile solo in caso di provvedimenti implicanti la privazione della libertà personale, e quindi esclusi, di regola, i provvedimenti pronunciati in sede civile. La nozione di colpa grave, a questi specifici effetti, è, nella dizione della legge, imperniata sulla «negligenza inescusabile», che si sia concretata in una violazione manifesta della legge, nonché del diritto dell'Unione europea, nel travisamento del fatto o delle prove, ovvero nell'affermazione di fatti la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento, ovvero nel- l'emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione (art. 2, 3° comma, L. 117/1988). Aggiunge, peraltro, lo stesso legislatore che, ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge, nonché del diritto dell'Unione europea, si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate, nonché dell'inescusabilità e della gravità dell'inosservanza. Ed inoltre, che, nel caso di violazione manifesta del diritto dell'Unione europea, si deve tener conto anche della mancata osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nonché del contrasto dell'atto o del provvedimento con l'interpretazione espressa dalla Corte di giustizia. La medesima responsabilità è prevista anche come conseguenza del «diniego di giustizia» che, per l'art. 3 della legge, sussiste in caso di «rifiuto, omissione o ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio» e sempre in quan to sia decorso inutilmente un termine di trenta giorni (prorogabile per non oltre tre mesi) dal deposito in cancelleria di un'istanza della parte per ottenere il provvedimento, istanza che ovviamente non può essere depositata se non dopo che sia trascorso il termine di legge per il compimento dell'atto. Legittimato passivo nell'azione di risarcimento del danno contro lo Stato - azione che non può essere proposta se non quando siano stati esperiti tutti i possibili mezzi di impugnazione e rimedi contro il provvedimento sospetto e comunque non oltre tre anni da quando è proponibile - è il Presidente del Consiglio dei Ministri. La competenza spetta al tribunale del luogo ove ha sede la corte d'appello del distretto più vicino a quello in cui è compreso l'ufficio giudiziario al quale apparteneva il magistrato al momento del fatto (art. 4 della legge). La proposizione della domanda presupponeva - prima delle modifiche del 2015 una pronuncia di ammissibilità della stessa da parte del tribunale, che, invece, è stata soppressa in sede di riforma. Ora, invece, il giudizio può essere direttamente instaurato. In tale giudizio il magistrato, del cui comportamento si tratta, non può essere chiamato in causa, ma può intervenire in ogni fase e grado del procedimento ai termini dell'art. 105, 2° comma (intervento adesivo dipendente) (art. 6 della legge). In caso di accoglimento della domanda, lo Stato, dichiarato responsabile e condannato al risarcimento, esercita, attraverso il Presidente del Consiglio dei ministri, entro due anni dall'avvenuto risarcimento, l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato con un autonomo giudizio (art. 7 della legge), nel quale la decisione pronunciata nel giudizio di responsabilità contro lo Stato non è 97
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved