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Procedura Civile - Appunti e riassunti, Appunti di Diritto Processuale Civile

Appunti del 2018 sulle lezioni di Procedura Civile con riferimento al libro Madrioli-Caratta

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 15/04/2020

_arvenig
_arvenig 🇮🇹

3.9

(12)

12 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Procedura Civile - Appunti e riassunti e più Appunti in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! 1 8 febbraio 2018 PANORAMICA GENERALE La prima parte del corso cerca di capire come il processo civile si colloca tra le altre discipline studiate (diritto privato, civile) e quale rapporto lega le due diverse sfere dell’ordinamento. Da un lato abbiamo il diritto sostanziale (= l’insieme di norme che regolano i conflitti d’interesse e i rapporti sostanziali, il diritto privato e civile), che siamo abituati a trovare nel codice civile. Abbiamo tutta la parte dell’ordinamento che regola i rapporti privati tra i soggetti attribuendo posizioni di vantaggio (diritti soggettivi) e di svantaggio (obblighi). Nel processo, il diritto sostanziale viene guardato in una prospettiva dinamica, e questo consente di averne una migliore comprensione anche dal punto di vista statico. Se tutto andasse come prescritto dalle regole sostanziali, del processo civile non avremmo bisogno. Il problema è che c’è una percentuale di rapporti di diritto sostanziale che entra in crisi, cioè che si avvia per percorsi patologici perché colui che doveva fare qualcosa non fa quello che doveva fare. Si realizza quindi la violazione del diritto che riconosce una certa norma sostanziale. Quando entra in crisi il rapporto sostanziale, allora sorge il bisogno del processo; infatti, il fenomeno processuale, quindi la tutela giurisdizionale (il processo è lo strumento; la tutela giurisdizionale è un modo per affrontare tutta quella serie di diversi strumenti che hanno come comune denominatore la funzione di tutelare i diritti in sede giurisdizionale; il diritto processuale disciplina questi fenomeni, quindi il processo e le altre forme di tutela giurisdizionale) ha senso perché c’è qualcosa che non va, perché il diritto sostanziale va in crisi, quindi serve la tutela giurisdizionale per garantire il riconoscimento dei diritti soggettivi sostanziali. I conflitti che insorgono nel diritto sostanziale non è detto che si risolvano con il processo; potrebbero anche risolversi con il ricorso alla forza. A quel punto però non ci sarebbe stato bisogno nemmeno di dare regole sostanziali: queste hanno senso solo nella misura in cui ci sono anche gli strumenti per garantirle. L’ordinamento giuridico da una parte toglie alle parti la possibilità di farsi giustizia da sé, ma dall’altra parte dà alla parte lesa la possibilità di chiedere tutela, quindi le conferisce un rimedio affinché la regola sia rispettata. Di regola, il processo interviene solo quando emerge un BISOGNO DI TUTELA, quindi solo a fronte della crisi del diritto sostanziale. L’accesso al giudizio, la tutela giurisdizionale, in senso ampio il diritto di azione (= diritto di potersi rivolgere al giudice per ricevere tutela) sono garantiti anche sul piano costituzionale. Articolo 24: tutti possono agire per la tutela dei propri diritti soggettivi e interessi legittimi. Quindi questo articolo disciplina il diritto individuale alla tutela giurisdizionale (un diritto inviolabile ai sensi dell’art. 2 Cost.). Oltre all’art. 24, lo stesso principio sta all’articolo 6 della CEDU. Abbiamo visto in generale il rapporto tra diritto sostanziale e tutela giurisdizionale. Il processo dovrebbe consentire alla parte lesa di arrivare a un risultato pressoché similare a quello in cui si sarebbe trovato se l’altra parte avesse adempiuto. Quindi è come se il processo dovesse mandare indietro il tempo, e porre la parte lesa in quella posizione in cui si sarebbe trovata se non ci 2 fosse stata la violazione del diritto provocata dall’inadempimento. Giuseppe Chiovenda diceva: “il processo deve dare a colui che agisce tutto quello e proprio quello, per quanto possibile, che ha diritto di ottenere.” Questo è il PRINCIPIO DI STRUMENTALITÀ DEL PROCESSO AL DIRITTO SOSTANZIALE. QUALI SONO I BISOGNI CHE EMERGONO NEL PROCESSO CIVILE? Un bisogno della parte lesa è quello della (1) CERTEZZA GIURIDICA: la controparte infatti potrebbe mettere in discussione il fatto che la parte lesa abbia ragione. Chi ha ragione e chi ha torto? Questo è il primo bisogno che emerge. Rispondendo a questo bisogno però non si risolve la questione. La parte lesa non vuole semplicemente che gli venga riconosciuta la ragione, ma vuole avere il soddisfacimento in concreto del suo diritto, quindi ha bisogno della (2) ATTUAZIONE. Es. mi ritengo titolare di un diritto di credito, e ritengo che il debitore non abbia adempiuto. Non mi basta che il giudice mi dica che ho ragione, voglio i soldi. Ma tra il soddisfacimento del primo bisogno e il soddisfacimento del secondo, è importante valutare la variabile del TEMPO. Infatti nel tempo un inadempimento potrebbe provocare danni molto gravi, se non irreparabili, alla parte lesa, come ad es. un fallimento finanziario. In ogni istituto giuridico vi deve essere sempre una correlazione necessaria tra ASPETTI FUNZIONALI e ASPETTI STRUTTURALI, che sono due lati della stessa medaglia. Ogni istituto risponde a uno scopo, e l’ordinamento lo predispone come strumento in termini congrui a rispondere a quello scopo. Se non è idoneo a rispondere a quello scopo, vuol dire che non è quello lo scopo dello strumento. Quindi i bisogni di certezza e attuazione, che sono bisogni diversi, possono essere soddisfatti da strumenti strutturati in maniera diversa. La certezza e l’attuazione sono le funzioni, ora guardiamo le strutture. Per rispondere all’esigenza di certezza, l’ordinamento deve predisporre un processo, e quindi una tutela, che si suole chiamare TUTELA DICHIARATIVA/COGNITIVA/DI COGNIZIONE. A seconda del termine che usiamo poniamo l’accento sul come raggiungere il risultato oppure sul risultato. Il risultato è la dichiarazione di esistenza del diritto soggettivo; l’obiettivo finale è l’accertamento stabile (c.d. “giudicato”) dell’esistenza del diritto fatto valere e del suo modo d’essere. L’accertamento (struttura) è la risposta al bisogno di certezza (funzione). Parlo di tutela “dichiarativa” se voglio porre l’accento sul risultato, cioè la dichiarazione dell’esistenza del diritto. Se parlo di tutela “di cognizione” voglio porre l’accento sul come arrivo all’accertamento, che è il contenuto di una sentenza, e per arrivare alla sentenza che decide chi ha ragione e chi ha torto bisogna porre in essere un’attività di cognizione: il giudice deve conoscere come si sono svolti i fatti, deve conoscere la fattispecie concreta. Nel far questo il giudice andrà ad accertare i fatti, ad applicare le norme. Il fatto si allega al processo mediante l’affermazione, che però deve rispondere al vero, e in quel caso entra in campo un altro strumento, cioè la prova (es. testimoni). A volte l’accertamento del fatto è molto complicato, servono consulenti tecnici, servono molti testimoni. Il processo di cognizione si articola in primo grado, appello e cassazione. In questa sequela di gradi, quand’è che la parte lesa può finalmente dire che l’esistenza del suo diritto è stata accertata, e quindi potrà avere accesso allo strumento che gli garantisce l’attuazione, ovvero alla TUTELA ESECUTIVA? Dipende. La porta d’accesso della tutela esecutiva è disciplinata 5 situazioni: es. caso della retribuzione del lavoratore. Ci sono casi in cui o si interviene immediatamente oppure l’intervento tardivo ha poco senso. Altro esempio: fideiussione a prima richiesta. Quando vado dal fideiussore, basta che gli chiedo il denaro e lui me lo deve dare senza opporre eccezioni di nessun tipo. Una volta che il fideiussore paga, dopo aver pagato ha diritto di regresso: va dal debitore principale e gli chiede i soldi. In un meccanismo del genere o si impedisce che il fideiussore paghi immediatamente, oppure agire successivamente per dimostrare che non doveva pagare diventa un’impresa impervia. Quindi bisogna garantire la tutela cautelare, altrimenti sarebbe inutile. Però ci vuole un pregiudizio qualificato: ci deve essere quel profilo, spesso collegato con la natura personalistica e non patrimoniale dell’interesse, che giustifica l’intervento immediato. Se poi la sentenza finale disconosce il diritto di chi ha ricevuto la tutela cautelare, questi dovrà restituire le somme ricevute. Articolo 96, responsabilità aggravata: se c’è la responsabilità aggravata (quindi non solo perde la causa, ma emerge che ha resistito al giudizio pretestuosamente), c’è l’obbligo non solo alla restituzione ma anche al risarcimento del danno. È un’ipotesi di responsabilità civile speciale a carattere extracontrattuale. Art. 96 comma 2: “senza la normale prudenza”, quindi si richiede non solo il dolo ma addirittura l’imprudenza nel momento in cui si riceve la tutela cautelare. La sanzione quindi è molto severa. Questi tre elementi sommati insieme garantiscono quel “tutto quello” che il processo deve garantire. TUTELA GIURISDIZIONALE CONTENZIOSA E VOLONTARIA Per un’esigenza di completezza [questa è una questione di procedura2], dobbiamo dire che tutta l’area di cui abbiamo parlato attiene alla tutela giurisdizionale CONTENZIOSA. Che significa contenziosa? Questa qualificazione sta a significare che tutte queste tutele giurisdizionali mirano a proteggere diritti soggettivi. Distinguiamo quest’area dal settore della tutela giurisdizionale VOLONTARIA, anche detta VOLONTARIA GIURISDIZIONE. Qual è la differenza? La differenza è che la tutela contenziosa riguarda diritti soggettivi; come funziona lo schema del diritto soggettivo quando entra nel processo? Questi entrano attraverso una regola che stabilisce il diritto e che il giudice deve applicare al caso concreto. Ci sono dei procedimenti in cui tradizionalmente si dice: l’oggetto non è costituito da diritti soggettivi, ma da interessi. Qui il giudice non accerta regole di condotta che pre- esistono al giudizio (come nel caso dei diritti soggettivi), ma opera una gestione di interessi: valuta l’interesse di volta in volta e provvede. È un’attività che la dottrina ha paragonato all’attività amministrativa. Il giudice non è vincolato a una regola, ma compie valutazioni di opportunità. Es. sentenze che disciplinano l’affidamento dei figli, la responsabilità genitoriale, articolo 320 ecc. Sono tutti quei procedimenti che si ritiene non attengano a diritti soggettivi, ma a interessi. Quando il diritto entra in crisi, quindi “emerge la lite” (Carnelutti), ci sono anche altri strumenti c.d. alternativi di soluzione delle controversie (acronimo inglese: ADR) che mirano a sostituirsi al processo e che negli ultimi anni sono significativamente promossi dal legislatore. Quali sono? Alcuni sono di diritto sostanziale: la rinuncia al diritto (atto unilaterale), oppure la transazione (contratto con reciproche concessioni). Poi ci sono una serie di procedure che cercano di agevolare soluzioni a carattere transattivo: es. i procedimenti di conciliazione (lavoratori), procedure di mediazione 6 obbligatoria e facoltativa (innanzi al mediatore si cerca di ottenere un accordo), le procedure di negoziazione assistita (una forma di procedimentalizzazione delle trattative), e altre ipotesi in cui le parti anziché andare dal giudice rimettono la questione ad un altro soggetto. Es. arbitrato, in cui le parti non sono d’accordo sul merito della controversia ma sono d’accordo nel far decidere quella controversia non ad un giudice, ma ad un soggetto privato. Qui la decisione è eteronoma, giunge da un terzo (o da un collegio arbitrale). I diritti indisponibili non sono soggetti a queste procedure; i diritti semidisponibili (= disponibili solo a certe condizioni) sono ad es. quelli dei lavoratori che possono conciliare solo in determinate condizioni stabilite dalla legge, quindi con le cautele predisposte per far raggiungere alla parte un accordo autentico. CONCETTI GENERALI Il diritto civile e privato sono stati edificati sul concetto di DIRITTO SOGGETTIVO, che è la matrice di tutta la sistematica civilistica. Se prendiamo il diritto processuale civile, i concetti sono stati elaborati innanzitutto con riguardo alla tutela dichiarativa, poi, una volta creato il concetto, questo veniva applicato negli altri settori. L’elaborazione però è nata in quel settore. All’interno di questo “recinto”, il concetto che per molto tempo ha avuto un’importanza decisiva nell’edificazione del sistema del processo civile, è l’AZIONE. Stiamo parlando innanzitutto dell’AZIONE DI COGNIZIONE. Se prendiamo i manuali dell’800 della pandettistica tedesca, vediamo che il diritto soggettivo è concepito come una serie di poteri, tra cui l’azione, concepita come una facoltà afferente al diritto soggettivo. Gradatamente questo tipo di impostazione cambia (in Italia con Chiovenda): l’azione non sta dentro il contenitore del diritto soggettivo, ma sta da sé; pur essendo legata al diritto soggettivo, è una situazione giuridica diversa. L’azione alcuni dicono che sia un diritto, altri dicono che sia un potere. Iniziamo dalla prospettiva di chi dice che sia un diritto: è quel diritto ad avere dal giudice un provvedimento sulla situazione giuridica soggettiva controversa. Quindi è una situazione giuridica soggettiva dell’attore nei confronti del giudice. La prestazione del giudice non ha nulla a che fare con la prestazione sostanziale (es. pagamento denaro): qui la prestazione consiste nella pronuncia di una sentenza. Quindi sicuramente il diritto d’azione è diverso dal diritto soggettivo sostanziale, perché si rivolge al giudice e richiede la pronuncia di una sentenza. Il profilo più complicato è che non solo è distinto, ma è anche AUTONOMO: perché? Perché il diritto di Tizio è che il giudice pronunci un provvedimento che ha ad oggetto il diritto fatto valere (il giudice deve pronunciarsi), ma ciò non significa che il giudice debba dare ragione all’attore. Il diritto d’azione implica che il giudice si pronunci su un diritto soggettivo, ma può riconoscerlo così come disconoscerlo. Quindi l’azione è correlata al diritto soggettivo fatto valere in giudizio, ma è autonoma ad esso, perché non richiede l’esistenza del diritto: il giudice non è obbligato ad accogliere la domanda, può accertare l’esistenza ma anche l’inesistenza del diritto. Se invece ritenessimo che l’azione dipenda dal diritto, dovremmo dire che l’azione spetta solo al titolare effettivo del diritto soggettivo, ma così non è: il giudice se rigetta significa che non c’è il diritto ma a quel punto non ci sarebbe nemmeno l’azione, e sarebbe un paradosso perché la pronuncia c’è stata. Quindi la sussistenza dell’azione dipende dalla mera 7 affermazione dell’esistenza del diritto, poi si vedrà se il diritto c’è o non c’è. A quel punto il giudice ha un potere/dovere di pronunciarsi. Il diritto d’azione è un diritto? In realtà anche l’azione è un potere! Quando il giudice deve pronunciarsi sul diritto soggettivo? Quando il titolare del diritto soggettivo leso si attiva proponendo la domanda. È con la proposizione della domanda che costituisco il potere decisorio del giudice; prima di questo momento il giudice non solo non deve, ma non può fare nulla. Quindi questo potere della parte ha un effetto giuridico, cioè costituisce il dovere del giudice; è un potere, per qualcuno un diritto potestativo. L’azione quindi è un potere prima ancora che un diritto. Questo potere è autonomo dal diritto soggettivo perché prescinde dalla sua effettiva sussistenza. Basta la titolarità meramente affermata. 9 febbraio 2018 Ieri abbiamo iniziato ad esaminare la nozione di “azione”, che abbiamo visto essere stata elaborata nell’ambito del processo di cognizione. Questo concetto è l’omologo del diritto soggettivo sul piano del diritto civile perché è una nozione che è servita agli studiosi per costruire e collocare il processo anche rispetto al diritto sostanziale: l’azione è il potere ad ottenere un provvedimento di merito sul diritto controverso da parte del giudice, quindi è una situazione giuridica soggettiva distinta dal diritto sostanziale ed anche autonoma perché non lo presuppone, o meglio presuppone solo la mera affermazione della sua titolarità.  È un potere / un diritto potestativo per qualcuno che preferisce questo tipo di impostazione  È distinta dal diritto soggettivo in quanto rivolta al giudice  È autonoma dal diritto soggettivo perché non presuppone l’esistenza del diritto soggettivo: l’effettiva esistenza del diritto soggettivo si scoprirà solo all’esito del processo Queste considerazioni trovano conferma in quelle che sono le condizioni dell’azione. L’azione, essendo un potere giuridico e avendo quindi un effetto giuridico (costituisce l’obbligo per il giudice di pronunciarsi) ha la sua fattispecie costitutiva. Quando si dice “effetto giuridico” ci si riferisce quell’effetto che una data fattispecie causale produce sull’ordinamento. L’effetto giuridico è la situazione giuridica soggettiva; l’azione è il potere giuridico che, come fattispecie costitutiva, ha una serie di circostanze dette “condizioni dell’azione”, perché “condizionano” l’esistenza del potere azione. Lo schema logico è: se A+B+C allora X, in cui X è l’azione; A, B e C sono le condizioni dell’azione. 10 paga le spese se soccombente) ma sarà anche parte in senso sostanziale. Ci possono essere distinzioni dal punto di vista soggettivo in base ai casi. Le tre parti possono essere tre soggetti diversi nel caso in cui, ad esempio, i genitori agiscono per il figlio, che è legittimato straordinario rispetto al creditore/debitore. Articolo 2900 c.c. (azione surrogatoria). Qui il creditore è il figlio, che è creditore di un debitore che è a sua volta creditore di un altro. Essendo un’azione surrogatoria, il figlio è legittimato straordinario (anche se il rapporto non è il suo ma è quello del suo debitore), ma visto che è minore deve essere rappresentato dai genitori. Quindi qui vediamo che la parte in senso sostanziale è il debitore del figlio; la parte in senso processuale è il figlio minore; la parte in senso formale sono i genitori del minore. Altro discorso è la c.d. rappresentanza tecnica (quella dell’avvocato), cioè il potere rappresentativo che si conferisce al legale. Gli articoli 82 e 83 disciplinano i casi in cui la parte può stare in giudizio personalmente e quelli in cui serve l’assistenza di un legale. La parte processuale, che è titolare dei poteri processuali, va da un avvocato che lo difende tecnicamente, cioè sottoscrive gli atti. L’atto di citazione viene firmato dal legale, e sotto ci sarà la procura con cui la parte processuale (o formale, in caso di rappresentanti) delega il legale a rappresentarla in giudizio. CASI DI LEGITTIMAZIONE STRAORDINARIA Quand’è che la legge attribuisce solo il potere d’azione a un soggetto diverso dal titolare del rapporto controverso (criterio straordinario)? I casi possono essere diversi. Questo accade innanzitutto quando la natura dell’interesse tutelato non è esclusivamente individuale: l’ordinamento apprezza quell’interesse sostanziale come riferibile non esclusivamente a quel soggetto ma a un ambito soggettivo più ampio o molto ampio. Ci sono ipotesi in cui nel processo civile il pubblico ministero (civile) ha il potere di promuovere il giudizio: articolo 69 che rinvia a disposizioni di diritto sostanziale. In questi casi il pm è legittimato ad agire straordinario. Ci sono poi dei casi, come quello che abbiamo visto, in cui il diritto soggettivo è a carattere indisponibile: lo ricostruiamo come diritto soggettivo, ma in realtà ha una rilevanza pubblicistica, cioè è un interesse che non è puramente individuale ma che ha rilevanza superindividuale/generale/pubblica. Altro esempio: ci sono situazioni in cui è difficile dire se si tutelano diritti soggettivi in senso proprio, perché sono situazioni giuridiche di più ampia latitudine, i c.d. interessi collettivi e/o diffusi. In questi casi, i diritti sono riferibili a una serie indeterminata di soggetti. Quando l’ordinamento dice che l’interesse è di Tizio e basta, sta dicendo che l’ordinamento in quanto tale non ha un interesse suo nella protezione di quell’interesse, ma rimette la tutela esclusivamente nelle mani del titolare, che può rinunciare al proprio diritto in quanto diritto disponibile. Quindi l’azione spetta a Tizio, e se non chiede tutela sta rinunciando implicitamente a quel diritto. Se invece il diritto è riferibile a più soggetti (se sono quindi interessi collettivi o diffusi), allora l’ordinamento ha un suo interesse a tutelarli (attraverso l’azione del pm), oppure rimette ad altri soggetti la possibilità di tutelare quell’interesse (legittimazione concorrente), aumentando così la possibilità che a fronte di una violazione vi sia la richiesta di tutela giurisdizionale. Es. tutela del consumatore: ci sono associazioni deputate ad agire 11 per la tutela di interessi collettivi dei consumatori. In questo caso l’azione non spetta al pm (non parliamo di veri e propri interessi generali ma di interessi collettivi), ma spetta a soggetti che pur essendo privati possono tutelare interessi di ampiezza maggiore. Oppure ci sono casi in cui la portata dell’interesse è più ristretta: non si tratta di interessi riferibili esclusivamente a un soggetto ma la rilevanza ultraindividuale è più ristretta. Parliamo dell’azione surrogatoria. Un creditore (A) vanta un credito nei confronti di un debitore (B) che è a sua volta creditore nei confronti di un terzo soggetto (C). Visto che il debitore (B) deve rispondere con la sua capacità patrimoniale, il fatto che B rimanga inerte nei confronti di C lede la garanzia patrimoniale del creditore A, quindi in realtà la tutela del credito spetta sì a B, ma anche ad A. Quindi se A ha un credito nei confronti di B che ha un credito nei confronti di C, e B rimane inerte nei confronti di C, quello di B è un interesse individuale (è un credito), ma se B rimane inerte e non tutela il proprio credito si verifica qualcosa di diverso e patologico: quell’interesse che era individuale, dal momento in cui B rimane inerte acquista una rilevanza diversa, e diventa riferibile pure ad A. Se B non si attiva produce un danno ad A, che ha un interesse suo (riconosciuto dall’ordinamento all’articolo 2900) a che B agisca nei confronti di C. Quindi in questo caso è chiaro che si parla di interessi individuali (è un diritto di credito), ma serve una norma che riconosca l’interesse di A a che B agisca nei confronti di C. Visto che non possiamo costringere B ad agire nei confronti di C, diamo ad A un potere suo ad agire: A è legittimato straordinario, è il creditore surrogante, e questo in forza del 2900. L’interesse di A ha una rilevanza giuridica: ad A dà fastidio che B non agisca in giudizio  diamo ad A la possibilità di agire in giudizio nel rapporto tra B e C. Quando A agisce nei confronti di C nella sua qualità di legittimato straordinario, chiedendo non la tutela sua ma la tutela di B, proporrà la domanda nei confronti di C, ma a quel punto B che deve fare? In questo processo che riguarda il rapporto B/C, B deve partecipare? Com’è trattato questo rapporto dal punto di vista processuale? Quando arriverà la sentenza (che ha effetti sostanziali), B è vincolato a quella sentenza? Se la sentenza dà torto ad A dicendo che C non deve nulla a B, sicuramente A è vincolato, ma B può nuovamente agire separatamente nei confronti di C dato che non ha partecipato al processo? Far sì che B subisca il giudicato senza aver potuto partecipare al processo violerebbe l’articolo 24 comma 2 Cost. Però fare un processo tra A e C in cui B non sia vincolato sarebbe una perdita di tempo. Quindi qual è la soluzione? Il provvedimento vincola B, ma B è parte necessaria di quel giudizio, ovvero è litisconsorte necessario, come prevede il 2900 comma 2. Si dice che il creditore surrogato è litisconsorte necessario, cioè parte necessaria. Ma allora c’è il litisconsorte necessario ogniqualvolta ci sia un caso di legittimazione straordinaria? Se il pm agisce per la tutela di un diritto indisponibile di un soggetto, quel soggetto debole è parte necessaria? Se l’associazione dei consumatori agisse nella tutela di interessi collettivi dei consumatori, questi sono parte necessaria? La risposta a questi due quesiti è diversa. Nel caso della tutela degli interessi dei consumatori non si tutela l’interesse di qualcuno in particolare, ma di tutti i consumatori, e non si può chiedere che tutti i consumatori siano parte necessaria. Invece se il pm agisce per la tutela di un soggetto debole si tratta di un soggetto specifico, e in quel caso il soggetto debole è parte necessaria: abbiamo l’articolo 24 comma 2, e abbiamo l’articolo 2900 che è una norma importante dal punto di vista sistematico. Quindi in realtà per lungo tempo quando c’erano ipotesi di legittimazione straordinaria che riguardavano poche parti interessate, la dottrina riteneva che vi fosse il litisconsorte 12 necessario. Il discorso è cambiato quando ci si è resi conto (dagli anni ’70 in poi) che vi possono essere delle situazioni in cui la sfera degli interessati è molto ampia, quindi il processo non riguarda 3/4 persone, ma una platea indeterminata di soggetti. Le categorie del processo civile sono state elaborate prima di queste situazioni nuove (tutela dell’ambiente, dei consumatori, ecc.), quindi in mancanza di norme speciali questo era un bel problema. Bisognava adattare norme che riguardavano liti tra due/tre/quattro persone a situazioni molto diverse e caratterizzate da un numero ben maggiore di soggetti coinvolti. Di regola si ritiene che quando vi sono legittimazioni straordinarie, il soggetto titolare del rapporto controverso dedotto in giudizio dal legittimato straordinario sia litisconsorte necessario, e questa fattispecie per tradizione viene etichettata come SOSTITUZIONE PROCESSUALE. Quindi per motivi esclusivamente storici si suole dire che quando un soggetto agisce in nome proprio per la tutela di un diritto altrui, è “sostituto processuale” del soggetto titolare del diritto. Il soggetto titolare del diritto si chiama SOSTITUITO PROCESSUALE, e di regola è parte necessaria del giudizio, ai sensi dell’articolo 102 cpc. Traendo le fila del discorso, la prima condizione dell’azione (legittimazione ad agire) si occupa di riferire il potere d’azione ad un soggetto, e per farlo si usano due criteri. Il criterio ordinario è quello che attribuisce il potere d’azione al titolare meramente affermato del rapporto controverso. I criteri straordinari sono previsti dalla legge di volta in volta, e ce ne sono diversi. Quando un soggetto non è titolare del rapporto giuridico ma può far valere in nome proprio un diritto altrui abbiamo un caso di criterio straordinario legale speciale; colui che è legittimato straordinario, per tradizione, si chiama sostituto processuale (così è stato chiamato da Chiovenda e così è rimasto). Poi va aggiunto che di regola, anche qui per ragioni storiche, quando si ha sostituzione processuale, e quindi quando la giurisprudenza parla di sostituzione processuale, intende dire che il sostituito processuale è anche parte necessaria. Quindi la locuzione “sostituito processuale” implica il fatto che quel soggetto sia anche litisconsorte necessario. Perché? Perché così diceva Chiovenda, e perché fino a un certo punto gli interessi riguardavano una cerchia ristretta di soggetti, quindi si poteva anche ammettere senza difficoltà la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti al processo. A partire dagli anni ’70/’80 assumono rilevanza la tutela dell’ambiente e dei consumatori: come si fa a far partecipare tutti al giudizio? Se chiamiamo questi soggetti “sostituiti processuali” significa che devono partecipare tutti al giudizio, e questo non è possibile. Il legislatore allora non ha più chiamato quei soggetti “sostituti processuali” ma “legittimati straordinari”, espressione che significa semplicemente che un soggetto qualunque può agire per conto di altri, quindi non significa niente, ma questa locuzione non implica tutte le conseguenze che implica la locuzione “sostituto processuale”, quindi non implica nemmeno la necessità di far partecipare i soggetti. Quindi il pm che agisce per conto di un soggetto debole è “sostituto processuale”, mentre l’associazione dei consumatori che agisce nell’interesse di tutti i consumatori è “legittimato straordinario”. C’è chi, per risolvere il problema, preferisce addirittura dire che le associazioni agiscono per un diritto proprio, ma è un interesse collettivo o dell’associazione? Secondo le Sezioni Unite è un interesse collettivo. 15 fatto costitutivo del dovere di pronunciare il provvedimento); il provvedimento giurisdizionale è composto da una serie di poteri conferiti a entrambe le parti affinché con l’esercizio di questi poteri entrambe le parti possano influire sul contenuto della decisione (= sequela/sequenza/serie procedimentale). Il potere di azione se esercitato si tramuta in un atto (atto di citazione/ricorso), costitutivo di altre situazioni giuridiche soggettive, ad es. del potere del convenuto di difendersi in giudizio, che se esercitato diventerà un altro atto (es. la comparsa di risposta o una memoria difensiva), e così via: potere  atto. Questa è la sequela procedimentale. È una concatenazione tra diversi atti: questo è il procedimento. Questi atti sono tutti legati perché ogni singolo atto presuppone l’atto anteriore ed è presupposto dell’atto successivo. Infatti se ad es. in un atto c’è un vizio di invalidità, quel vizio se lo porta dietro l’atto successivo, fino alla sentenza. L’AZIONE DI CONDANNA Abbiamo detto che il concetto di azione si costruisce sull’azione dichiarativa, e poi viene esteso all’azione esecutiva ecc. Invece l’interesse ad agire si costruisce in base ai diversi tipi di azione di cognizione. Infatti ci sono diversi tipi di azione di cognizione: l’azione di cognizione esemplare è l’azione di condanna. Siamo sempre nell’ambito delle azioni di cognizione, quindi parliamo di species di un unico genus: c’è un elemento che appartiene a tutte, ed è quello dell’accertamento, e poi ci sono alcune caratteristiche che appartengono a ciascuna species. L’azione di condanna ha come effetto primario quello dell’accertamento, poi una serie di altri effetti, che sono innanzitutto l’effetto esecutivo: l’azione di condanna è un provvedimento che vale come titolo esecutivo ai sensi del 474 numero 1 laddove si parla di “sentenze”: quelle sentenze sono le azioni di condanna, che contengono l’ordine del giudice, rivolto a una parte, di tenere un certo comportamento, di adempiere a un certo obbligo. Quindi la sentenza all’esito del giudizio di condanna è un titolo esecutivo, quindi possiamo dare la sentenza all’ufficiale giudiziario, e questi deve procedere all’esecuzione forzata. L’azione di condanna quindi è quell’azione che mira ad ottenere una sentenza che abbia un effetto di accertamento e un effetto esecutivo. Ma non solo. L’azione di condanna mira ad ottenere una sentenza di condanna che ha anche un altro effetto, previsto dall’articolo 2818 cc. Questo articolo significa che se ho una sentenza di condanna, posso ottenere un’ipoteca che non avrei ottenuto per altre ragioni, e questa può essere una cosa determinante in alcune situazioni, perché l’ipoteca mi conferisce la possibilità di rifarmi sui beni del debitore con prelazione rispetto agli altri creditori. Quindi la sentenza di condanna mi dà una tutela sul piano esecutivo che non è soltanto quella di poter “aggredire”, ma anche quella di potermi rifare con precedenza. Un altro effetto è quello previsto dall’articolo 2953 cc (un effetto definito “actio iudicati”): se abbiamo un diritto soggetto a prescrizione abbreviata (es. responsabilità precontrattuale si prescrive in 5 anni), una volta riconosciuto in sede giudiziale, i termini di prescrizione diventano quelli ordinari (nell’esempio, la prescrizione diventa di 10). Quindi la parte ha ottenuto la sentenza, ma deve ancora ottenere i soldi, e ha 10 anni per poterli ottenere. L’azione di condanna è un potere di azione definito ATIPICO: ogniqualvolta per diritto sostanziale mi viene riconosciuto un diritto, ho diritto ad agire in giudizio, senza bisogno di un’espressa previsione di 16 legge che mi legittimi ad agire in giudizio al fine di ottenere la condanna della parte inadempiente. Quindi l’azione di condanna è sempre implicita, in nome dell’articolo 24 Cost. (tutti possono agire in tutela dei propri diritti soggettivi). L’AZIONE DI MERO ACCERTAMENTO L’altro tipo di azione di cognizione è l’azione di mero accertamento. Come suggerisce il termine, qui l’azione ha solo (e dunque la sentenza ha solo) l’effetto di accertamento. L’azione di mero accertamento ci si è interrogati se sia atipica e se, laddove sia atipica, si possano individuare i limiti entro i quali è ammissibile. Quindi: a) È atipica o tipica? b) Se è atipica, ci sono dei presupposti per proporla? Questo è un dibattito che ha animato la dottrina della prima metà del ‘900, e gli orientamenti principali erano due. Il primo orientamento dottrinale è quello che va ricondotto al pensiero di Giuseppe Chiovenda, colui che ha introdotto in Italia lo studio del processo in termini moderni. Nella nuova configurazione del diritto processuale civile come qualcosa di diverso dal diritto civile ha influito molto il pensiero di Chiovenda, che per giustificare sul piano dogmatico l’autonomia dell’azione dal diritto sostanziale ritenne di sostenere proprio l’atipicità della tutela di mero accertamento. Cioè, diceva Chiovenda, nella tutela di mero accertamento noi possiamo vedere come il processo dà alle parte un’utilità che non possono ottenere sul piano sostanziale. Quindi il diritto processuale (e l’azione) sono qualcosa di diverso e di autonomo, e nel far questo Chiovenda arrivò a sostenere che l’azione di mero accertamento potesse essere esercitata anche per ottenere l’accertamento di questioni (di fatto o di diritto o miste) che non corrispondessero a diritti soggettivi sostanziali preesistenti. Es. due parti hanno sottoscritto un contratto ma hanno un’incertezza sull’interpretazione di una clausola, e di comune accordo vanno dal giudice per risolvere la questione. Non si discute di un diritto soggettivo attuale, forse ci sarà in futuro, per ora è solo potenziale, quindi quest’azione risponde a un’esigenza di certezza che prescinde dalla violazione di diritti soggettivi. L’utilità del conferimento di certezza è un’utilità che garantisce il processo. Quindi per Chiovenda il mero accertamento è atipico, può essere esercitato sempre e anche in termini del tutto slegati dall’esistenza di diritti soggettivi preesistenti. Seconda parte La tutela d’accertamento è ammissibile in via atipica? La risposta a questa questione è uno degli archi di volta della ricostruzione del diritto processuale civile come autonomo da quello sostanziale nella sistematica di Chiovenda, tanto da arrivare a sostenere che la tutela di mero accertamento potesse riguardare semplicemente lo stato di incertezza del tutto slegata dalla crisi del diritto sostanziale. Con l’arrivo del codice civile e di procedura civile, c’è tutta la c.d. dottrina post-chiovendiana che si interroga nuovamente su questa questione. Nell’ambito di questa dottrina, c’è una tesi che si colloca all’estremo opposto rispetto alla tesi di Chiovenda. Questa è la tesi di Salvatore Satta, che è a favore della tipicità dell’azione di mero accertamento, ovvero questo orientamento dottrinale opera una 17 ricognizione del dato positivo (parte quindi dalle norme di legge) e nella sua opinione la tutela di mero accertamento è a presidio dei diritti assoluti, in particolare del diritto di proprietà. Secondo Satta, questa tipologia di diritti non tollera di essere messa in discussione anche solo da meri vanti o contestazioni. Cioè l’ordinamento riconosce il diritto nella sua assolutezza ritenendo antigiuridiche anche quelle condotte che non si concretizzano in attività materiali che impediscono il perseguimento concreto dell’interesse tutelato, ma che semplicemente pongono in dubbio questi diritti. Es. articolo 949: il proprietario può agire per far dichiarare l’inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa. Già il fatto che si affermino diritti su una cosa pone in crisi il diritto assoluto, che non va in crisi semplicemente quando vi è una violazione dell’obbligo di astensione, ma anche quando un altro soggetto afferma di avere diritti (es. servitù di passaggio) su quei beni. Quindi secondo questa tesi la tutela di mero accertamento è tipica e legata alla tutela dei diritti assoluti. Sempre nella dottrina post-chiovendiana viene rappresentata una tesi a favore dell’ammissibilità in via atipica (e questa è la tesi seguita anche dalla giurisprudenza). [Altre tesi poi si fondano sull’articolo 34, che approfondiremo più in là. Altre ancora si riferiscono a quelle norme che disciplinano la trascrizione delle domande giudiziali con riguardo alle sentenze anche di mero accertamento.] Al di là dell’argomento speso, gli elementi da evidenziare secondo il prof, cercando di trarre una sintesi di un dibattito complicato, sono due. Da un lato, tutto questo nuovo orientamento post-chiovendiano a favore dell’ammissibilità della tutela in via atipica, pur potendo apparire simile alla posizione di Chiovenda, in realtà è diverso. In tutte queste posizioni si cerca di ancorare la tutela di mero accertamento a diritti soggettivi preesistenti: questa tutela deve comunque riguardare rapporti giuridici, situazioni giuridiche soggettive, mai meri fatti o mere questioni (come invece sosteneva Chiovenda). La tutela giurisdizionale è una tutela giurisdizionale dei diritti, quindi anche col mero accertamento si deve tutelare un diritto, quindi ci deve essere sempre una situazione che pregiudica un diritto. Quindi secondo questa lettura ad es. non si può chiedere questo tipo di tutela per capire come va interpretata una clausola. Ci deve essere sempre una situazione giuridica preesistente e bisognosa di tutela. Nel manuale: il mero accertamento è ammissibile quando la controparte pone in essere vanti (= affermo che un diritto è mio e non tuo) o contestazioni (= affermo che non ti devo nulla) di una serietà tale da rendere l’incertezza pregiudizievole per il titolare del diritto soggettivo. Dobbiamo sempre collegare quindi il mero accertamento alla tutela dei diritti; l’interesse ad agire sta nel fatto che l’incertezza è pregiudizievole per il titolare del diritto. Impostata la questione in questi termini, possiamo dire che non abbiamo bisogno di una norma che ammetta la tutela di mero accertamento (che dunque è atipica), ma di volta in volta bisogna verificare la sussistenza di questi requisiti: ci deve essere l’interesse ad agire, quindi la particolare situazione appena delineata (= vanto o contestazione di una serietà tale da rendere l’incertezza pregiudizievole per il titolare del diritto soggettivo). Es. mero accertamento del diritto di proprietà sul bene x. Il proprietario potrebbe agire per ottenere una sentenza di mero accertamento positivo del proprio diritto a fronte della contestazione di una controparte. Quindi lo scopo è l’ottenimento di un accertamento sull’esistenza del diritto di proprietà. Ma il diritto di proprietà è il diritto di godere e disporre di un bene in via esclusiva: dire che io sono 20 preliminare. Se non adempie, ho il diritto di risolvere il contratto e tenermi la caparra, oppure posso procedere ex art. 2932. Quale delle due strade mi tutela meglio? Se è un momento del mercato florido, non avrò interesse ad ottenere una sentenza ex art. 2932; risolvo il contratto e vendo il prodotto a un altro. La sentenza costitutiva ex 2932, che produce effetto solo col passaggio in giudicato, avrà effetto tra molto tempo (devo aspettare tutti e tre i gradi di giudizio), quindi spesso non vale la pena. LA TUTELA INIBITORIA L’azione inibitoria mira a una sentenza con la quale il giudice inibisce certe condotte, o intima ad astenersi da certi comportamenti, o ordina di cessare certi comportamenti. Nel nostro ordinamento ci sono delle ipotesi tipiche di tutela inibitoria (in materia di lavoro, codice del consumo, discriminazione, marchi e brevetti, ecc.), in cui il giudice ordina alla parte di astenersi dal compiere/proseguire un certo tipo di attività. Ci si è chiesti se fosse possibile ritenere anche questo tipo di tutela atipica. Es. danno ambientale: sono proprietaria di un terreno vicino a un’industria, posso chiedere al giudice di obbligare l’industria a non immettere prodotti dannosi nelle falde acquifere? Bisogna capire come configurare questo tipo di azione. Se la configuriamo come azione costitutiva, questa è tipica, quindi non c’è diritto. Se la configuriamo come azione di mero accertamento, dipende dalla sussistenza dei requisiti di cui abbiamo parlato prima. Se la configuriamo come azione di condanna, sicuramente c’è diritto, perché l’azione di condanna è sicuramente atipica. Ma è una condanna? Questo è il vero problema. Per ragioni schiettamente storiche, si credeva che si potesse chiamare “condanna” solo quella sentenza che ha efficacia esecutiva nel senso che è titolo esecutivo, cioè nel senso che sulla base di quel provvedimento io posso dar luogo a una tutela esecutiva diretta (= vado dall’ufficiale giudiziario che fa quello che avrebbe dovuto fare il debitore). Tutte le altre ipotesi in cui l’esecuzione diretta non è possibile, la sentenza non è una “condanna”. E allora, se l’azione inibitoria riguarda obblighi non suscettibili di esecuzione in forma diretta, l’azione inibitoria non è una condanna, e quindi non è atipica. Ma perché non è suscettibile di esecuzione diretta? Nella tutela inibitoria ho un ordine ad astenermi, e questo non è surrogabile. Essendo un obbligo a contenuto negativo e continuativo, è un obbligo ontologicamente infungibile: l’unico soggetto che può garantire l’osservanza di quell’obbligo è il titolare stesso dell’obbligo. Quindi l’azione inibitoria non può essere atipica. In realtà, il fatto che sia eseguibile in via diretta o indiretta l’ordine giudiziale non cambia nulla. Se la sentenza all’esito dell’azione inibitoria non è eseguibile, il soggetto che se ne è avvantaggiato che ci fa? Sicuramente avrà una pretesa risarcitoria più facilmente dimostrabile. Ad un ordine inibitorio corrisponde sempre una sanzione laddove non sia ottemperato l’obbligo inibitorio. Quindi abbiamo un obbligo negativo  non può essere eseguito in via diretta  come possiamo garantire che quell’ordine giudiziale sia attuato? Si “minaccia” la parte che riceve l’ordine di sanzioni laddove non esegua spontaneamente l’ordine giudiziale, cioè si introducono delle c.d. misure coercitive indirette. Quindi la tutela esecutiva qui non è diretta, non si può surrogare il titolare dell’obbligo, ma è indiretta. 21 La misura coercitiva può essere civile o penale (es. in materia di discriminazione o di lavoro è penale, in materia di marchi e brevetti è civile) ed ha natura punitiva, non risarcitoria. Prima la tutela inibitoria era considerata tipica. L’articolo 314-bis, introdotto nel 2009, oggi prevede le misure coercitive. Una volta che abbiamo una misura coercitiva indiretta generale e che possiamo parlare di condanna anche per questa tipologia di obblighi sostanziali (negativi e continuativi), allora possiamo far tranquillamente rientrare la tutela inibitoria tra le tutele di condanna, e quindi possiamo ritenerla atipica. Questa cosa però ancora non è del tutto penetrata a livello giurisprudenziale. Ci rimangono da esaminare alcuni particolari tipi di azione di condanna. Un primo tipo è la c.d. CONDANNA GENERICA, che avremo modo di trovare più in là studiando i diversi tipi di sentenze. È prevista e disciplinata dall’articolo 278, è ritenuta ammissibile in via autonoma (cioè quando chiedo solo la condanna generica) e si verifica quando una parte che ha diritto ad es. al risarcimento del danno o al pagamento di una somma di denaro non liquida chieda di pronunciarsi condanna generica, ovvero solo sull’an (sulla sussistenza) del diritto (condanna “generica”), con riserva di chiedere successivamente la determinazione del quantum. Si chiama condanna “generica” perché “è una mezza condanna” (Carnelutti). Cioè? Innanzitutto una sentenza di condanna può essere spesa come titolo esecutivo, ma la sentenza di condanna generica, siccome non prevede la determinazione del quantum, in realtà è una sentenza di mero accertamento (accerta solo un segmento della fattispecie, cioè l’an) quindi non può essere usata come titolo esecutivo. Allora cosa c’è della condanna? La condanna generica costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale, che è uno degli effetti della condanna. Quindi è una sentenza di mero accertamento, però ha questo particolare effetto in più, tipico della sentenza di condanna. Per questo Carnelutti diceva “mezza condanna”, perché c’è qualcosa ma non c’è tutto della condanna. Per quale ragione dovrei agire per il mero accertamento dell’an e non del quantum? Qual è l’utilità di una sentenza di condanna generica? Per tante ragioni. Ad esempio, nei casi in cui non è tanto controverso il quantum, quanto l’an: sul quantum ci si può mettere d’accordo, magari so che per la sua determinazione serve un accertamento molto complesso, quindi intanto accertiamo l’an, poi per il quantum si vedrà. Intanto ottengo il titolo sull’an, magari faccio un’ipoteca giudiziale, poi per il quantum vedremo. SENTENZA (di condanna/costitutiva) CONDIZIONALE Una sentenza che produce effetto a condizione che si verifichi qualcosa. Ci sono delle ipotesi in cui questo accade, ad es. nel caso del 2932. La sentenza costitutiva in questo caso può essere condizionale. Es. l’acquirente agisce perché il venditore non vuole più concludere il contratto: il giudice accerta la violazione e dispone il trasferimento della proprietà in capo all’acquirente. Però quando si fa il preliminare non si paga tutto, si dà una piccola parte (es. 10.000€ di 150.000€). Il problema però era che ci si poteva trovare in presenza di una sentenza che trasferiva il diritto all’acquirente, e quindi il possesso del bene mediante esecuzione, avendo pagato solo 10.000€. Quindi cosa si inventa la giurisprudenza? Il giudice quando accoglie la domanda trasferisce la proprietà, ma l’acquirente deve pagare tutto il residuo. Allora per mantenere equilibrato il sinallagma anche nella fase autoritativa giurisdizionale, il giudice pronuncia una sentenza con cui trasferisce la 22 proprietà a condizione che sia pagato il prezzo residuo (entro un termine che il giudice dovrà apporre). Ciò significa che l’attore vittorioso, che è anche il promissario acquirente, ha una sentenza che ancora non ha prodotto effetti, ma appena paga ha l’effetto costitutivo e l’effetto esecutivo, quindi in questo caso è una sentenza di condanna condizionale ma anche costitutiva. Sia l’effetto traslativo sia l’effetto esecutivo sono condizionati al pagamento del prezzo. 16 febbraio 2018 Ieri dicevamo che la condanna condizionale si ha quando l’effetto esecutivo (ma in realtà anche l’effetto costitutivo-traslativo nell’esempio che abbiamo fatto) sono condizionati a un evento incerto, a una condizione. Sono casi tipici e specifici; il giudice non può in generale pronunciare sentenze di questo tipo. Nel caso del 2932 la giurisprudenza pacificamente condiziona l’effetto esecutivo e traslativo, alla luce della particolare tipologia del rimedio, all’adempimento del promissario acquirente relativo al pagamento del prezzo residuo. Quindi se paga entro il termine stabilito, la sentenza produce effetto e vale come titolo esecutivo ad ogni effetto; diversamente, se non paga entro il termine la sentenza diviene INEFFICACE; se invece il termine non c’è è un problema e secondo la giurisprudenza occorre chiedere la risoluzione. LA CONDANNA IN FUTURO Un’altra fattispecie, anche questa tipica (= ci può essere quando la legge espressamente lo prevede). La condanna in futuro è molto simile al mero accertamento positivo quando viene usato in via preventiva, perché noi chiediamo al giudice di accertare (ma in questo caso anche di condannare) la parte convenuta prima che si realizzi l’inadempimento. È come il caso del mero accertamento positivo, però qui sono casi espressamente previsti dalla legge in cui si ammette che il giudice possa addirittura condannare. Che significa condannare prima della violazione? Significa che l’attore è in grado di precostituirsi un titolo esecutivo, cioè è in grado di ottenere un titolo esecutivo prima che si verifichi la violazione della controparte. Ciò comporta che quando la controparte eventualmente non osserverà gli obblighi (eventualmente perché potrebbe anche essere adempiente), la parte vittoriosa potrà subito procedere ad esecuzione forzata. Quali sono i casi di condanna in futuro? Hanno tutti una ragione sostanziale che in qualche modo li giustifica. Ad es. articoli 653 e 657: casi in cui la parte locatrice richiede la convalida di licenza di sfratto. Quindi abbiamo un rapporto di locazione che ancora non è terminato, prima della sua cessazione la parte locatrice può chiedere al giudice di pronunciare un provvedimento che poi potrà spendere sul piano esecutivo laddove il conduttore non riconsegni l’immobile al termine del contratto. È un’ipotesi giustificata dal fatto che dal punto di vista statistico questi casi si realizzano spesso. Sono tutte ipotesi tipiche perché si va a mettere nelle mani dell’attore un titolo esecutivo prima della violazione, quindi potrebbe essere che poi così facendo si altera il rapporto tra tutela esecutiva e tutela cognitiva, quindi ad es. potrebbe anche ipotizzarsi il caso in cui il locatore mette in esecuzione il provvedimento nonostante vi sia l’adempimento. Vi sono strumenti di reazione per colui che subisce l’esecuzione ingiusta? Lo vedremo: c’è l’opposizione all’esecuzione e c’è la responsabilità ex art. 96 25 norme del codice di procedura civile. Se il giudice non entra nel merito ma risolve questioni che attengono al processo, emette un provvedimento “di rito”, cioè attiene puramente al processo e non riguarda il diritto sostanziale. Prima di entrare nel merito, il giudice deve verificare che tutto ciò che andava fatto in rito sia stato fatto bene. Per arrivare alla sentenza il giudice deve risolvere una serie di questioni, di punti controversi, e l’attività decisoria del giudice consiste nell’esaminarli dal primo all’ultimo. Prima verifica quelli di rito. C’è giurisdizione? Sì, quindi va avanti. C’è competenza? C’è l’avvocato? C’è stata la notifica alla controparte? L’atto di citazione è scritto bene? Ecc. Una volta accertate positivamente le questioni di rito (o, laddove queste siano accertate negativamente, una volta sanate), si può passare all’esame del merito. Quindi al merito si arriva non solo quando sussiste il diritto d’azione, ma anche quando è correttamente esercitato. Nel “correttamente esercitato” rientrano tutti i casi in cui la domanda viene proposta al giudice competente, ecc. Quindi il potere d’azione potrebbe anche esserci, ma potrebbe essere esercitato male, qualora la domanda venga proposta osservando tutte le regole contenute nel codice di rito. IL POTERE D’AZIONE “NON CORRETTAMENTE ESERCITATO” Questa ipotesi comprende tutte le violazioni delle norme processuali tali da impedire l’esame del merito della causa. Ora vedremo alcune di queste violazioni, le più complesse. Quando la parte agisce in giudizio, deve osservare una serie di prescrizioni, di requisiti a contenuto processuale. Questi requisiti sono di due diversi tipi: 1) Di natura extra-formale 2) Di natura formale I requisiti formali sono quelli che attengono alle regole che disciplinano la forma degli atti processuali e con essa i requisiti di validità dei medesimi. Ovvero quelle regole che prescrivono come deve essere redatto un certo atto e quali sono le conseguenze in termini di invalidità laddove l’atto non sia stato formato correttamente. La disciplina generale dei requisiti formali la troviamo agli articoli 121 ss. con riguardo alla disciplina della forma degli atti in generale; agli articoli 156 ss. invece si trova la disciplina in generale delle invalidità processuali (nullità processuali: dal punto di vista letterale si parla solo di nullità del processo, non di annullabilità). I requisiti extra-formali sono altre regole che governano il comportamento processuale ma che non sono immediatamente riferibili alla forma dell’atto. Sono quelli ad es. a cui abbiamo già fatto riferimento: le condizioni dell’azione sono dei requisiti extra-formali, e oltre ad esse ce ne sono altri. Innanzitutto, la giurisdizione, i cui limiti si apprezzano tanto con riguardo ai giudici speciali (amministrativo soprattutto) quanto con riguardo ai giudici stranieri. Determinato qual è il giudice, bisogna stabilire qual è il tribunale che deve pronunciarsi; in primo grado la competenza è ripartita tra giudice di pace e tribunale (e vi sono anche casi in cui è competente sin dal primo grado la corte d’appello), quindi bisogna capire qual è la regola di 26 competenza verticale (giudice di pace, tribunale o corte d’appello)? Il tribunale ha una competenza generale, il giudice di pace e la corte d’appello hanno delle competenze speciali. Dalla competenza verticale si distingue quella orizzontale: una volta compreso che il giudice competente è quello italiano, compreso che è il tribunale, quale tribunale della Repubblica? E ci sono delle regole di competenza territoriale; potrebbero esserci più fori alternativi. Poi c’è tutta una serie di regole che governano il rapporto tra più processi pendenti: possono essere processi tra loro connessi (elementi in comune, stesse parti). Un’altra questione di diritto è la cosa giudicata: se sulla controversia è stata già pronunciata sentenza, il giudice non si potrà nuovamente pronunciare. Ancora, se le parti hanno deciso di rimettere la loro decisione a giudici privati (arbitri), il giudice ordinario non si potrà pronunciare nel merito, perché le parti hanno deciso di attribuire la decisione della causa agli arbitri. Ancora, il nostro legislatore ha incominciato a introdurre una serie di procedure preliminari stragiudiziali che condizionano l’esercizio dell’azione, ovvero il procedimento di mediazione obbligatoria e la procedura di negoziazione assistita obbligatoria: quando l’attore incappa nell’ambito di applicazione di queste procedure, deve prima esperire il tentativo di mediazione o negoziazione, e una volta fallito quello può andare dal giudice. In questi casi il giudice, verificate la giurisdizione, la competenza, ecc., dovrà anche verificare se è stato esperito il tentativo di mediazione. Altra questione: la parte è capace processualmente? Artt. 75 ss. La parte è assistita dal legale, visto che è obbligatoria la rappresentanza tecnica? Queste sono tutte questioni di rito. RIPARTIZIONE DEI POTERI TRA GIUDICE E PARTI Chiarito in termini generali come funziona l’attività decisoria del giudice dal punto di vista dinamico, adesso dobbiamo esaminare un altro profilo, ovvero concentrarci maggiormente sulla ripartizione dei poteri tra giudice e parti, con particolare riferimento al merito della controversia. In realtà c’è una ripartizione di poteri tra giudice e parti anche con riferimento al rito, ad es. il giudice competente può rilevare la competenza d’ufficio o è la controparte che deve eccepirla? Se l’atto è nullo, può rilevarlo solo la controparte o il giudice d’ufficio? Non esiste una regola assolutamente generale, però tendenzialmente, salvo poi andare a vedere ogni particolare requisito, quando si parla di “rito” è il giudice che può rilevare d’ufficio l’inosservanza della regola. Ad es. le condizioni dell’azione sicuramente sono rilevabili d’ufficio; la giurisdizione è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento (salvo una regola che poi andremo a vedere); per quanto riguarda la competenza ci sono alcune norme la cui eccezione è rimessa solo alla controparte (e se la parte non le eccepisce il giudice originariamente incompetente “diviene competente”), e ci sono altre regole di incompetenza (c.d. incompetenza inderogabile) che il giudice può rilevare d’ufficio, ma entro un certo termine; l’eccezione di cosa giudicata è rilevabile d’ufficio, ma a condizione che qualcuno produca in giudizio la sentenza, sennò il giudice non può sapere che un giudice precedente si è già pronunciato; il mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione/mediazione è rilevabile d’ufficio, ma anche questo entro un certo termine; per quanto riguarda la nullità dell’atto di citazione alcuni profili di nullità sono rilevabili d’ufficio, altri no. Quindi tendenzialmente c’è un regime di rilevabilità d’ufficio che però subisce alcune deroghe, e spesso il potere di rilevazione ufficiosa deve essere esercitato entro un certo termine. Non si può fare un discorso generale, ma bisogna andare a vedere di volta in volta tutti i requisiti. 27 Un discorso generale invece si può fare con riguardo a tutte le questioni attinenti al merito. Il primo interrogativo che occorre porsi è il seguente: abbiamo detto che la legittimazione ad agire riferisce il potere d’azione a colui che si rappresenta come titolare del rapporto sostanziale nell’atto introduttivo. Ma può diversamente il giudice procedere d’ufficio? No, non può procedere d’ufficio, cioè non può promuovere lui stesso il giudizio, perché il nostro processo civile è ispirato al c.d. principio dispositivo, ovvero l’attività giurisdizionale è resa solo su domanda di parte. I riferimenti normativi sono l’articolo 99 cpc, stando al quale chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente. Stesso principio lo troviamo all’articolo 2907 cc (“alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda di parte” … “e quando la legge lo dispone anche su istanza del pubblico ministero o d’ufficio”). Ipotesi di pronunce d’ufficio prima vi erano nella legge fallimentare, ma ormai sono state praticamente tutte eliminate. Perché è esclusa la procedibilità d’ufficio nel processo civile? Per due ragioni. La prima è quella che presidia anche al regime di legittimazione ad agire: se la tutela attiene a un interesse sostanziale individuale, cioè se è riferibile a quel soggetto, è quel soggetto solo che può decidere se vuole la tutela, non gli può essere imposta da un altro, quindi il soggetto ha il monopolio dell’azione. Inoltre, il principio della domanda garantisce la terzietà e imparzialità del giudice: il giudice è quella figura che guarda al processo da una posizione assolutamente terza, e non procede in via inquisitoria. Tuttavia, quando anche all’interno del nostro processo (che di regola mira alla tutela diritti soggettivi apposti a tutela di interessi esclusivamente individuali) l’interesse sostanziale si connota di una rilevanza ultra-individuale o addirittura pubblicistica, la strada che il nostro ordinamento sceglie qual è? Se l’interesse è solo di Tizio, la tutela spetta solo a Tizio; se l’interesse non è solo di Tizio darò il potere d’azione anche ad altri soggetti, aggiungo altri poteri d’azione, e si verifica l’ipotesi di “collegittimazione ad agire”. Quindi l’azione può essere concessa ad es. alle organizzazioni sindacali; se i diritti sono indisponibili, l’azione è concessa anche ad una “parte” che è una parte pubblica, cioè il pubblico ministero, la parte creata dall’ordinamento per tutelare l’interesse pubblico, e ci sono casi in cui il pm può promuovere il giudizio (articolo 69 cpc che rinvia ad altre norme). Poi vi sono dei casi in cui non c’è un soggetto che è propriamente parte, ma questo si determina di volta in volta a seconda delle situazioni. È il caso del 1421, che disciplina la legittimazione ad agire per ottenere la dichiarazione di nullità del contratto. Questa è un’ipotesi molto particolare dal punto di vista sistematico. Un altro interrogativo che potremmo porci è: una volta che è stato iniziato il processo, poi il giudice è vincolato all’oggetto del giudizio o ha margine? La parte non solo ha monopolio sul se promuovere il giudizio, ma anche su quello che ne sarà l’oggetto, ovvero stabilisce i limiti dell’oggetto con la domanda. Questo è un corollario del principio della domanda, ed è il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (articolo 112). Se il giudice è il soggetto terzo che dovrà decidere, lui prima della domanda della parte non sa nulla. Poi a un certo punto arriva l’attore e propone la domanda, determinando l’oggetto del giudizio. A quel punto il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa. Se il giudice non si pronuncia su tutta la domanda ci sarà un vizio, perché non ha adempiuto al suo dovere; se il giudice va oltre ci sarà un altro vizio, perché ha violato l’articolo 112 (vizio di ultrapetizione, cioè va oltre il 30 sostanziale con la decisione processuale. Gli effetti sostanziali e processuali della domanda sono funzionali ad evitare che questo meccanismo si inceppi. Quali sono questi effetti? EFFETTI PROCESSUALI DELLA DOMANDA La litispendenza Secondo due accezioni. 1) Innanzitutto “litispendenza” nel senso che “pende la lite”: quella causa da quel momento sorge. Quando pende la lite? Nel caso di atto introduttivo fatto con citazione, quando questa viene notificata al destinatario (è un atto doppiamente recettizio, deve giungere a conoscenza di entrambi i destinatari, cioè il convenuto e il giudice); nel caso di ricorso, quando questo viene depositato. 2) Ma la litispendenza è anche un concetto più specifico, previsto dall’articolo 39: una volta proposto il ricorso/l’atto di citazione, la stessa domanda con gli stessi elementi soggettivi ed oggettivi dell’azione viene proposta ad altro giudice, quindi in un ufficio giudiziario diverso. In questo caso si applica il criterio della prevenzione (prior in tempore potior in iure), un principio riconosciuto anche a livello europeo, ed esiste anche nei regolamenti del diritto processuale europeo (reg. 1215 del 2012). Comma 1: il giudice successivamente adito, anche d’ufficio, dichiara con ordinanza litispendenza. Quando pende la lite, quel giudice deve decidere quella controversia, e non altri: chi viene investito successivamente della lite (e la potiorità temporale viene determinata dal numero di ruolo) il giudice successivamente adito dovrà pronunciare litispendenza con un provvedimento impugnabile. Altro effetto processuale: la perpetuatio iurisdictionis et competentiae, articolo 5 cpc, corollario del principio previsto dall’art. 25 Cost. sul giudice naturale precostituito per legge: se non ci fosse l’articolo 5 non è che ognuno si sceglie il giudice che gli pare, perché ci sarebbe pur sempre l’articolo 25. Il principio generale è tempus regit actum: se la norma cambia, l’atto successivo viene disciplinato dalla nuova norma. Gli atti processuali, che sono atti giuridici, sono sottoposti a questo principio generale. Il processo è una sequela di poteri ed atti, quindi se propongo l’atto di citazione in base a determinate regole, se queste regole cambiano i successivi atti del processo saranno sottoposti alle regole successive. Ma questo principio nel processo non va tanto bene: si cambiano le regole del gioco in corso d’azione? No, le regole dovrebbero essere il più possibile predeterminate. Naturalmente non tutto si può predeterminare, prevedendo tutti i casi concreti che si possono realizzare in natura, ma il più possibile, affinché il rispetto di queste regole renda condivisibile e giusta la decisione. Le prime fondamentali regole che attengono allo svolgimento del processo sono le regole di determinazione del giudice (giurisdizione e competenza), già coperte dal principio del giudice naturale precostituito per legge. Al di là del giudice naturale ci sono le corti straordinarie, predisposte ad hoc dopo l’evento per decidere come deve essere risolto il contenzioso di quell’evento; sono corti tipiche dei sistemi illiberali, in cui le decisioni vengono pilotate. Nei sistemi democratici, il giudice deve esistere prima ancora che la causa che andrà a dirimere venga in esistenza. Quindi il legislatore 31 all’articolo 5 deroga al principio del tempus regit actum e si applica il regime della perpetuatio: in materia di giurisdizione e competenza si devono applicare le norme vigenti al momento della proposizione della domanda, e lo stato di fatto su cui la giurisdizione e la competenza vengono determinate è quello esistente al momento della proposizione della domanda. Non hanno effetto dunque, sulle regole della giurisdizione e della competenza, modificazioni successive della legge positiva o dello stato di fatto esistente; una volta introdotta la domanda, si applica l’articolo 18 (= il giudice si individua andando a vedere qual è la residenza e il domicilio del convenuto), e se questo articolo dovesse essere cambiato comunque rimarrebbe ultra-attivo, quindi rimarrebbero ferme quella competenza e quella giurisdizione. Allo stesso modo, se il soggetto in corso di giudizio cambia residenza (quindi non cambia la legge positiva, ma cambia lo stato di fatto esistente), la competenza resta la stessa. In applicazione dell’art. 5, queste modifiche non incidono sullo spostamento della lite, che resta incardinata là dove è nata. Se non ci fosse stato l’articolo 5 però c’era comunque il principio del giudice naturale, che sarebbe stato violato laddove cambiando residenza fosse cambiata anche la competenza; il codice è del ’40, e ancora non c’era la Costituzione, quindi è un principio di civiltà che ha preceduto la Costituzione. EFFETTI SOSTANZIALI DELLA DOMANDA Anche questi sono fondamentali per evitare il cortocircuito nel collegamento esistente tra diritto sostanziale e processuale. Nel diritto sostanziale, il corso del tempo (e ci vuole molto tempo per decidere) incide sul diritto (pensiamo alla prescrizione: il diritto non può essere fatto valere sempre, ma dopo un po’ viene meno). Quindi ci deve essere una norma che eviti che il decorso del tempo faccia venir meno il diritto in contesa: un primo effetto sostanziale del processo quindi è l’interruzione della prescrizione. Un altro effetto è un particolare decorso degli interessi, in termini quantitativi, a seguito della modifica, fatta nel 2014, dell’articolo 1284 penultimo comma cc. Questa è una norma fondamentale. Questa norma vuol dire che quando pende la lite cambia il saggio d’interesse, automaticamente. Questo vale per ogni tipo di lite: cognitiva sommaria, non cognitiva, contenziosa, non contenziosa, esecutiva, ecc. Il saggio di interesse cambia e viene agganciato al saggio di interesse previsto da una direttiva europea del 2001, poi trasferita in una legge, sul ritardo derivante dal mancato pagamento delle transazioni commerciali, e aumenta di molti punti rispetto al saggio di interesse ordinario previsto dal 1284. Perché si è deciso di fare questo? Perché visto che i tempi del processo sono molto lunghi e siccome le banche non concedono credito (se non a tassi d’interesse molto elevati), quando si era sottoposti a una causa ci si “finanziava” non pagando il proprio creditore per tutto il tempo del processo, con un saggio di interesse più favorevole rispetto a quello concesso dalle banche. Molte cause quindi si allungavano proprio perché da un punto di vista economico conveniva non pagare. Con questa norma, finalmente, non è più conveniente “finanziarsi” con un giudizio. La proposizione della domanda, aprendo il giudizio, ha un ruolo fondamentale per la prosecuzione dello stesso, determinando in un certo senso anche il contenuto della sentenza. Passiamo quindi al principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (articolo 112). Si passa dalla domanda al potere decisorio del giudice: il 112 è il primo articolo che si occupa specificamente dei poteri del 32 giudice. Il concetto è quello che il giusto processo ha una riserva di legge, e quindi è quello predeterminato dal legislatore. Dove non c’è predeterminazione legislativa c’è la discrezionalità del giudice, foriera inevitabilmente di disuguaglianza (pur tenendo presente che un tasso di discrezionalità è insopprimibile). Si arriva al potere decisorio del giudice perché la domanda informa di sé anche il perimetro dei poteri decisori del giudice: non perché il giudice la debba accogliere, ma perché il giudice decide nei limiti oggettivi e soggettivi determinati dalla domanda, che determina gli elementi identificativi della questione. L’oggetto della sentenza sarà sostanzialmente determinato dall’oggetto della domanda. Il giudice ha un dovere decisorio: il primo dovere del giudice è decidere, nel senso di accogliere o rigettare la domanda. Divieto di non liquet: il giudice non può rifiutarsi di decidere perché la legge da applicare non è chiara (“non liquet” significa “non è chiaro”). Una volta instaurato il giudizio, il giudice dovrà decidere nel senso dell’accoglimento o del rigetto: vediamo quindi che l’onere della prova è fondamentale per “orientare” il giudice verso questa o quella decisione. Se il giudice non decide la causa, si applica la legge sulla responsabilità civile dei magistrati (per omessa integrale pronuncia). Quindi se il giudice non decide la causa non viola l’articolo 112, ma viola la legge 117 del 1988. Tuttavia, il vizio può sussistere quando la pronuncia ha un contenuto oggettivo inferiore/superiore rispetto alla domanda (ultra-petitum quando il contenuto è superiore, extra-petitum quando il contenuto è diverso da quello richiesto). Su questo discorso si innervano ragionamenti più specifici: cos’è che il giudice può valutare in maniera difforme pur rispettando il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato? Il giudice non può individuare d’ufficio nuovi petita (= quello che si chiede) e diverse cause petendi (= ragioni sulla base delle quali si pone la domanda). L’oggetto del giudizio è fatto da petitum e causa petendi. I fatti sono quelli, e il giudice non può cambiarli. Tuttavia il giudice è signore dell’applicazione delle norme (iura novit curia, articolo 113): l’interpretazione giuridica dei fatti la fa il giudice. Quindi nell’atto introduttivo potrei ricostruire dei fatti come “contratto di comodato”, ma il giudice potrebbe interpretarli come contratto di locazione. Questa è una differente ricostruzione giuridica dei medesimi fatti che non incide sul petitum e sulla causa petendi: i fatti sono gli stessi, il contratto è lo stesso, ma il giudice interpreta questi fatti in modo diverso rispetto alle parti. È chiaro che il giudice può rigettare o accogliere implicitamente la domanda. Che significa accogliere la domanda implicitamente? Significa che la pronuncia resa è tale per cui logicamente e giuridicamente necessita, come presupposto, l’accoglimento della domanda presentata. Il rigetto implicito invece sussiste quando la pronuncia presuppone implicitamente il rigetto della domanda proposta. Possono essere proposte più domande: es. risoluzione e risarcimento danni, e il giudice deve pronunciarsi su tutte le domande, anche su quelle accessorie. La domanda inoltre può fondarsi su più questioni (= autonomi capi di una questione che possono fondare di per sé un autonomo giudizio). La norma dice anche che il giudice non può pronunciarsi d’ufficio sulle eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti. Le eccezioni sono tutti quegli argomenti che si pongono giuridicamente e logicamente in contrasto con la domanda avversaria. Qui però, quando si parla del potere decisorio del giudice, si fa riferimento alle eccezioni in senso proprio, cioè le eccezioni di merito (= che 35 che il giudice è comunque tenuto a rispettare? Le ricaviamo dall’articolo 339. Questa norma riguarda l’appellabilità delle sentenze. Se si violano delle norme, bisogna andare a vedere quali sono i rimedi, e i rimedi nei confronti del giudizio di equità stanno scritti nel 339 comma 3. Le sentenze pronunciate secondo equità sono appellabili per: - violazione delle norme costituzionali: il giudice di pace deve rispettare le norme costituzionali - violazione delle norme europee, per quanto di loro competenza (per materia: le norme europee non si occupano di tutto lo scibile giuridico) - violazione delle norme processuali: se il tribunale (art. 114) o il giudice di pace (art. 113 comma 2) decidono secondo equità, quando questo è per legge previsto, si parla di diritto sostanziale. Poi il perimetro procedurale che condurrà il giudice alla decisione è quello del rispettivo rito (il rito disciplinato per il giudice ordinario e quello stabilito per il giudice di pace) - violazione dei principi regolatori della materia, che sono quel nucleo essenziale e fondamentale dei principi che sovrintendono all’istituto di riferimento. Es. il giudice può stabilire che la parte possa non rispettare il limite previsto dalla legge sostanziale per la costruzione di manufatti vicini, ma comunque deve garantire il principio generale di proprietà nei suoi elementi fondanti. Oppure il giudice può stabilire che in quel caso concreto l’usucapione non sia ventennale ma dopo 18 anni; non può però cancellare il concetto di usucapione, un fondamentale modo di acquisto a titolo originario della proprietà. 8 marzo 2018 Avevamo iniziato a parlare di quei principi che ripartiscono quei poteri all’interno del processo, cioè fra giudici e parti, che influiscono su tutto il materiale di causa inteso in senso molto ampio, ovvero tutto quello che entra genericamente all’interno del processo. PRINCIPIO DELLA DOMANDA: è quel principio in ragione del quale la tutela giurisdizionale è apprestata solo su domanda di parte: il giudice rimane in posizione passiva e dunque, in quanto passiva, terza e imparziale rispetto alle parti. Il principio della domanda tutela due aspetti (ratio di questo principio). Da un lato si evita che il giudice che procede d’ufficio, proceda in maniera inquisitoria, cioè il giudice va alla ricerca della verità di sua iniziativa. Un modello che si basa sul principio del contraddittorio come in procedura civile, in un processo nel quale l’accertamento della domanda, quindi un contraddittorio incrociato sull’esercizio dei poteri rilevanti, il giudice è un in una posizione terza. Il principio è tutelato dall’art. 111 co.2 Cost. “il processo si svolge nel contraddittorio fra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale”, quindi la terzietà del giudice è un principio anche costituzionale. Per garantire la terzietà, si dice, le parti propongono la domanda, il giudice è in posizione passiva senz’altro sulla proposizione della domanda, e quindi sull’an dell’attività giurisdizionale. L’altro profilo è che l’ordinamento, nel diritto privato e diritto civile, tendenzialmente tutela diritti soggettivi puri, diritti soggettivi il cui interesse sostanziale è puramente individuale. L’ordinamento, 36 quindi, non ha un interesse suo a dare la tutela. La tutela è rimessa al titolare dell’interesse, come al titolare dell’interesse sono dati poteri dispositivi di quel diritto (es. se io ho un diritto di proprietà, faccio un contratto con il vostro collega e lo vendo. L’ordinamento ha qualcosa da dire? No, anzi mi autorizza, sulla base della mia autonomia privata, a disporre di quel bene). Quando viene leso il mio diritto, e si proietta il diritto nel processo, vale lo stesso principio: l’interesse è dell’individuo ed è l’individuo che può chiedere la tutela giurisdizionale. Vi rendete conto che ci siamo spostati su un altro profilo: quello della legittimazione ad agire. La natura individuale dell’interesse non solo influisce sulla titolarità ad agire (= è il solo titolare del diritto soggettivo che può proporre azione), ma in un certo qual modo influisce anche sul principio della domanda, perché l’ordinamento non ha un suo interesse proprio. Quando emerge un interesse proprio, perché noi la situazione giuridica soggettiva la chiamiamo diritto soggettivo, nonostante l’interesse sostanziale sia non solamente individuale (pensate ai diritti indisponibili: noi li chiamiamo diritti soggettivi ma in realtà ci sarebbe molto da dire se debbano essere chiamati così perché l’interesse non è solo di quel soggetto e basta), allora cosa accade in queste situazioni? Se l’interesse sostanziale non è solo di uno, facciamo la tutela d’ufficio? No! Di regola si creano degli altri co-legittimati, cioè degli altri legittimati ad agire (ad esempio le associazioni dei consumatori, associazioni sindacali), perché quando l’interesse non è solo individuale si attribuisce l’azione anche a un altro soggetto privato, rappresentativo di quell’interesse. Oppure, se l’interesse è molto esteso, cioè generale e lo qualifichiamo pubblico, allora l’azione si attribuisce a una parte fittizia (perché è artificiale, la creiamo apposta. Al pm non interessa l’interesse sostanziale) ed è pubblica e la chiamiamo Pubblico Ministero (PM). Vi possono essere dei casi limite. L’interesse è solamente individuale, l’azione spetta solo al soggetto titolare dell’interesse. Se non è individuale e incomincia ad essere più ampio, allora la legittimazione la diamo ad altri. Se è molto ampio c’è il PM, ma il giudice rimane terzo sempre, è sempre posto in una posizione passiva. Gli unici casi in cui il giudice, invece, è investito lui stesso del bisogno di tutela, sono i casi in materia di minori sull’affidamento e sull’ esercizio della responsabilità genitoriale. Tutte situazioni in cui il giudice può pronunciarsi d’ufficio, anche oltre i limiti della domanda in deroga a quanto abbiamo appena visto. In particolar modo la regola per cui il giudice possa pronunciarsi anche d’ufficio adottando qualunque tipo di provvedimento al di là di quello che chiede un genitore, in materia di affidamento, è l’art. 337 ter co. 2 c.c. Principio della domanda però significa anche principio di corrispondenza del pronunciato, che ne è un corollario: le parti influiscono non solo sul se, ma anche sul cosa e quindi determinano l’oggetto del giudizio. Dopodiché, assieme al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e al principio della domanda, segue immediatamente il principio del divieto di scienza privata. Ovverosia il principio in forza del quale spetta alle parti, di regola, allegare i fatti all’interno del processo, i fatti costitutivi. Ipotizziamo una norma che dice se A + B + C allora x, che potrebbe essere il diritto di cui all’art. 2043 37 (dove si dice che se qualcuno reca un danno ingiusto è tenuto a risarcirlo), e prima del se ci sono tutti i componenti (l’illecito, il nesso, il danno come evento) e poi le conseguenze. A, B e C sono i fatti costitutivi; però i fatti che si allegano non sono solamente i fatti in senso normativo, ma sono delle circostanze storiche che possono essere anche molto complesse. Nel risarcimento del danno, se noi vediamo in senso normativo il fatto, qualcuno dei fatti potrebbe essere il nesso causale. Il nesso causale, cioè il collegamento eziologico fra condotta ed evento, dal punto di vista della norma è un fatto, lo chiamiamo nesso causale. Ma in realtà, il nesso causale potrebbe essere un fatto effettivamente complesso, cioè anche l’accertamento del nesso causale potrebbe richiedere l’accertamento di una serie di altri fatti, che non sono il nesso causale in sé, ma che contribuiscono ad accertarlo. Esempio: se io vivo vicino a una grande impresa che butta fuori tanto fumo e ad un certo punto contraggo una malattia e chiedo al giudice l’inibitoria dell’attività, o il risarcimento per la lesione alla mia salute, io devo dimostrare che sussista un nesso fra le emissioni che l’impresa produce e la lesione della mia salute, ci deve essere il nesso causale. Il nesso causale in senso normativo è un fatto (ad esempio B), ma in realtà per accertare B occorre talvolta allegare all’interno del processo altri fatti. Perché questo accade? Perché nella ricostruzione di questo collegamento potrebbero venire in rilievo altre circostanze. Il soggetto in questione è un fumatore? Gira in motorino in una grande città? Si protegge, mette mascherine? Ha familiarità? Mangia carne, quanta e di che tipo? Questo per dire che nell’accertamento del nesso, tu devi dimostrare questo collegamento e per dimostrare questo collegamento puoi/devi allegare, a seconda della complessità della fattispecie, una serie di circostanze che di per sé non riguardano il fatto proprio (perché non c’è scritto “bistecca cotta alla griglia” nella norma), ma tutto questo insieme di circostanze ti servono per poi poter dire, alla luce di regole non giuridiche ma scientifico-mediche, che l’evento (lesione della salute del soggetto) è dovuto probabilmente (regola del più probabile che non in civile) all’attività dell’industria che gli sta davanti. Nell’accertamento del nesso causale quindi avremo una legge scientifica di copertura che ci dice che ci sono una serie di fattori rilevanti e allora io per accertare il nesso mi devo rifare a norme extragiuridiche, che rinviano a fatti diversi rispetto al fatto normativo della fattispecie, fatti che servono a individuare il fatto principale cioè il fatto che è individuato nella norma. A B e C sono i fatti principali, ovvero sono quei fatti che sono indicati nella norma. Dopodiché ci possono essere altre circostanze storiche che entrano nel processo perché, a diverso titolo e per diversa ragione, sono utili ai fini della dimostrazione dell’esistenza di un fatto principale e questi fatti vengono detti “fatti secondari”. A, B e C sono i FATTI PRINCIPALI, quelli individuati nella norma. Poi possono esserci altre circostanze storiche che entrano nel processo perché utili ai fini della dimostrazione dell’esistenza (o dell’inesistenza) del fatto principale, e sono dette FATTI SECONDARI. Quindi la fattispecie causale è formata da fatti principali, che possono essere allegati solo dalle parti; i fatti secondari entrano nel processo per l’accertamento dei fatti principali, perché attraverso norme extragiuridiche (scientifiche, mediche, massime d’esperienza) il giudice può dire se il fatto principale esiste o non esiste. Esempio: mi arriva una multa da Roma oggi pomeriggio alle 15.30, io impugno il verbale e devo dimostrare che non ero a Roma alle 15.30. Come lo dimostro? Dimostrando che stavo in altro luogo, cioè Macerata. In realtà alle 15.30 non stavo a Macerata, perché la lezione è finita alle 15, ma è altamente improbabile che io con la mia autovettura, secondo una massima d’esperienza comune, nel 40 giudice per accertamenti tributari rispetto al contributo al mantenimento dei figli minori o al mantenimento del coniuge svantaggiato. Quando il giudice ha raggiunto il suo libero convincimento che significa? In fondo è un’intuizione. Nel processo civile vale la regola del più probabile che non. La regola del più probabile che non può funzionare nel nesso causale, dove di fronte ad un fatto che è estremamente difficile accertare, e rispetto al quale non puoi applicare neanche regole statistiche, allora il più probabile che non significa che sulla base di un accertamento anche in concreto oltre che statistico, dice la giurisprudenza, stai sopra a 50. Ma quando vai a fare l’accertamento del fatto, lì è proprio una questione se il giudice è convinto o meno. Ci sono dei casi in cui il giudice è sicuramente convinto perché se tu hai un mezzo di prova legale, in cui lo strumento di prova deve dare la piena prova del fatto e il giudice è vincolato, allora li stai a 100. Ci sono le prove legali e le prove libere. Le prove legali sono quelle previste dalla legge e la cui efficacia è disciplinata dalla legge nel senso che fanno piena prova del fatto. L’atto pubblico. Vado dal notaio e il notaio dichiara nell’atto che si è verificato qualche cosa quello vincola il giudice a quello che l’atto rappresenta, salvo che non si voglia impugnare l’atto con una querela di falso e dire che il notaio ha mentito, ma è un altro paio di maniche voglio rimuovere l’efficacia dell’atto, non si parla più di efficacia probatoria. Poi ci sono prove prettamente libere, in cui le prove vengono valutate dal giudice (dichiarazioni testimoniali). Un notaio è chiamato a testimoniare che non ha dato documenti e quando lo chiami a testimoniare e sta agitato perché balla con la gamba. Quindi poi sta al giudice a capire chi ha davanti e allora quell’intuizione gli deriva dal fatto che il notaio sfrega le mani, si gratta. È convinto quando ritiene che sulla base dei fatti c’è una ragionevole probabilità che quanto è stato affermato è vero, ascoltando i testimoni. È come l’esperienza. Dopo la pausa Eravamo partiti dal principio di iura novit curia per la possibilità che il giudice ha di riqualificare la domanda e quindi non solo riferirsi ad altre disposizioni di legge rispetto a quelle indicate dalle parti, ma anche di dare una diversa qualificazione giuridica alla fattispecie. Nel caso di specie ritenere che la domanda risarcitoria proposta abbia natura contrattuale piuttosto che extracontrattuale e viceversa ha una serie di ricadute assai rilevanti non solo in termini di prescrizione, ma anche in termini di onere probatorio ed eventualmente anche in termini di danni risarcibili. Ovviamente però questo tipo di qualificazione (poi capiremo meglio più avanti) “nei limiti dell’oggetto”: cioè puoi qualificare la fattispecie, ma non alternando l’oggetto del giudizio, cioè “nei limiti dell’oggetto”. Questa frase, detta così, in realtà presuppone una serie di nozioni abbastanza complesse sulla determinazione dell’oggetto. Fermiamoci ora questo principio generale: il giudice è libero di qualificare le norme le disposizioni di legge indicate dalle parti, di qualificare la fattispecie, ma nei limiti dell’oggetto del giudizio. Se non rimanesse nei limiti, violerebbe il principio della domanda. Es. viene proposta una domanda di annullamento ma il giudice si accorge che è una nullità. Una cosa è la domanda di annullamento, un’altra cosa è la domanda di nullità. Anche se si tratta in entrambi i casi di invalidità, l’azione di accertamento della nullità è un’azione diversa da quella dell’annullamento. Il principio dell’onere prova si correla al PRINCIPIO DI NON LIQUET: il giudice, davanti a una situazione di incertezza, non può astenersi dal pronunciarsi, ma deve pronunciarsi. Quindi proprio 41 perché deve pronunciarsi occorre sciogliere questa incertezza e la risolviamo mediante un’applicazione formale della regola di giudizio che abbiamo visto. PRINCIPIO DI NON CONTESTAZIONE (articolo 115): il giudice può porre a fondamento della decisione i fatti provati ed i fatti non contestati. Che significa questo? La non contestazione la possiamo vedere come una sorta di correttivo al principio dell’onere probatorio. Perché? Per una questione di semplificazione dell’accertamento giudiziale, in un processo dispositivo (in cui ogni parte è responsabile dei poteri che esercita o che non esercita e di come li esercita), si dice che laddove la controparte non contesti l’esistenza di un fatto ovvero non contesti che una certa affermazione riguardante una circostanza storica corrisponda al vero, non occorre andare a istruire la causa su quella questione, non occorre andare a perdere tempo in attività processuale per verificare se quel fatto si è verificato perché la controparte non te lo contesta. Es: io dico che Tizio mi deve una certa somma di denaro perché si sono verificati certi fatti, la controparte potrebbe anche difendersi dicendo è vero quello che dice l’attore, i fatti si sono verificati in questa maniera, non contesto i fatti, ma contesto che alla luce di quei fatti io ti debba dare qualcosa, perché ad esempio il diritto è prescritto oppure perché quella certa norma giuridica che tu invochi non è idonea a darti il risarcimento del danno. Cioè io, convenuto, posso non contestare i fatti e contestarli solo in diritto; posso contestare certi fatti e non altri. Questo dipende dal convenuto. Laddove una delle due parti alleghi in giudizio un certo fatto e la controparte non lo contesta, la parte che l’ha allegata è sollevata dall’onere probatorio. E difatti il c.d. fatto non contestato si dice FATTO PACIFICO, un fatto che non è bisognoso di prova. La non contestazione determina questo effetto di assolvere la parte che ha allegato il fatto dall’onere probatorio. L’art. 115 è stato introdotto nel 2009 ed è stato una sorta di attestazione normativa di un orientamento giurisprudenziale già presente. Il 115 dice i fatti non specificatamente contestatati , ma bisogna capire come va interpretata questa norma, cioè bisogna capire quando il fatto non è contestato. Nelle numerose sfaccettature che un giudizio può assumere, ci possono essere delle situazioni non proprio chiare, e la norma ha introdotto un avverbio (specificatamente) che in parte chiarisce. È un avverbio che poi noi possiamo ricollegare ad altre norme del codice di procedura civile, in particolare all’articolo 416, una norma che riguarda il rito del lavoro ma a cui la giurisprudenza aveva già dato grande importanza. Questa norma dice chiaramente cosa si intende per non contestazione. L’art. 416 comma 3 affronta il problema della memoria di costituzione difensiva (cioè l’atto con il quale il convenuto si costituisce nel rito del lavoro). Precisamente recita nella stessa memoria il convenuto deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda[..] . Che significa contestare o non contestare? Non contesto innanzitutto quando ammetto esplicitamente. Cioè quando nell’atto che vado a scrivere o dico esplicitamente “è vero che si sono svolti i fatti in questa maniera” oppure nell’atto vado a inserire una versione dei fatti che è coincidente a quella dell’altra parte. 42 Ma quando non si dice nulla nell’atto del convenuto riguardo una determinata circostanza? Cosa si fa di fronte al silenzio? Oppure, quando ci sono frasi di rito presenti in tutti gli atti (es. “contesta tutto quanto allegato e dedotto dalla controparte”)? Questa è una contestazione talmente generica da non valere alcunché. La si mette nell’atto ma è il modo che si utilizzava negli anni ’80, oramai è pacifico che la contestazione deve essere specifica, che il convenuto deve prendere posizione in termini specifici rispetto alle circostanze della controparte. La contestazione ricorre solo quando la controparte prende posizione in termini specifici rispetto alla circostanza. Se abbiamo una contestazione generica, il fatto non è contestato. Se abbiamo il mero silenzio, nessuna presa di posizione, il fatto non è contestato. Ma fino a che punto generica? Per questa questione, vale il principio giurisprudenziale secondo cui il grado di specificità della contestazione è proporzionale al grado di specificità dell’allegazione. Che significa? Se io ti allego una circostanza in termini specifici (in data 8 marzo, alle ore 12.30 Tizio si trovava in via tal dei tali..) io devo fare una contestazione altrettanto specifica. Dunque per esempio la parte, il convenuto, nell’atto dice “si contesta quanto affermato nel punto 2 della narrativa perché Tizio non era lì”. Contestare non significa necessariamente affermare che i fatti sono andati in altra maniera, ma semplicemente dire che quanto affermato dall’altra parte non corrisponde al vero. E poi dovrà essere lui a provarlo. Contestare significa semplicemente dire “non è così”. Poi com’è non sta a me dire com’è andata. Posso dirlo, ma non necessariamente. Io contesto, poi spetta all’altro dimostrare. Se invece siamo in presenza di atti di controparte molto generici, sarà difficile contestare narrazioni senza riferimenti. A questo punto non si richiede un onere di contestazione specifico, perché si richiederebbe un onere di chiarimento di quello che dice l’altro. Allora si può dire “è difficile contestare in termini specifici stante la genericità delle affermazioni della controparte”. Questo perché almeno poi non vi vengono a dire ma non si è contestato. Qualche altra piccola precisazione. Si ritiene che il fatto non contestato sia non bisognoso di prova, non nel senso che è un fatto provato, ma è un fatto che non richiede dimostrazione probatoria. Poi (questo lo ritiene più la dottrina che la giurisprudenza), visto che la non contestazione, come ho detto all’inizio, è in un certo qual modo un corollario del principio dispositivo (se la controparte non contesta, dispone ai fini dell’accertamento, perché ritiene che quel fatto si sia verificato o comunque non sia bisognoso di prova), si dice che nei giudizi che hanno ad oggetto diritti indisponibili, la non contestazione non opera o opera in misura minore ovvero vale come argomento di prova. Che significa? Se ad esempio siamo in un processo in ambito familiare in cui si discute della violazione delle condizioni di affidamento di un figlio, oggetto che ha senz’altro natura indisponibile (cioè non è 45 se il diritto è mai sorto, perché anche qualora fosse sorto, in ogni caso ora si è prescritto. Questo principio garantisce al giudice la possibilità di seguire questa seconda strada: se il giudice si trova di fronte una questione più liquida, nel senso che lo conduce immediatamente alla soluzione della controversia, deve rispondere a quella questione. Qui non stiamo facendo la storia di quello che è stato, dobbiamo decidere se ora l’attore ha diritto alla somma di denaro, ha diritto alla condanna della controparte. Se il diritto si è prescritto, il diritto ora non esiste, e il suo quantum è pari a zero, quindi è inutile andare ad accertare i fatti costitutivi, chiamare i testimoni, nominare un consulente tecnico, ecc. Esempio: il giudice, dalla comparsa di costituzione vede l’eccezione del convenuto, qualifica la domanda dell’attore (es. responsabilità medica). L’attore agisce dopo 9 anni presumendo si tratti di responsabilità contrattuale; il convenuto si costituisce, contesta la qualificazione giuridica prospettata dall’attore, e sulla base di questo solleva l’eccezione. Il giudice legge l’atto dell’attore, vede quelli che sono i fatti allegati (= affermati ancor prima di dimostrarli), qualifica la fattispecie, e ritiene che sia extracontrattuale ( prescrizione in 5 anni). Siccome il termine di prescrizione è decorso, il giudice rimette in decisione in via anticipata (quindi saltando tutta l’istituzione che avrebbe dovuto fare) e pronuncia una sentenza: “rilevato che l’eccezione sollevata dal convenuto deve ritenersi fondata poiché il rapporto deve essere qualificato come un rapporto extracontrattuale, e tale questione è idonea ad assorbire le altre questioni, per queste ragioni si rigetta la domanda dell’attore, e si condanna l’attore al pagamento delle spese”. Le questioni che astrattamente andrebbero risolte in astratto sono molte, ma in concreto sulla base di una sola di esse possiamo risolvere il quesito logico-giuridico, cioè decidere se il diritto esiste o no ora. Affinché si abbia l’accoglimento della domanda dell’attore, ci deve essere l’esistenza di TUTTI i fatti costitutivi (se ne manca uno, il giudice rigetta) e l’inesistenza di TUTTE le eccezioni del convenuto: basta l’accertamento di una sola eccezione del convenuto per far venir meno la pretesa dell’attore. Il giudicato di rigetto spesso e volentieri infatti si limita ad esaminare una sola questione: non mi interessa verificare se il diritto è mai sorto, perché pure se fosse sorto è venuto meno dopo. Quindi per accogliere la domanda ci devono essere tutti i fatti costitutivi e nessuno dei fatti estintivi, modificativi o impeditivi; basta che sia fondata un’eccezione del convenuto, oppure che non sia dimostrato un fatto costitutivo, per il rigetto della domanda. Se il giudice vede che c’è una questione che risolve immediatamente la causa, non deve esaminare tutte le altre, si concentra su quella. Facendo altrimenti addosserebbe spese inutili anche all’attore: una volta che l’attore perde, dovrà pagare le spese processuali, e le spese che dovrà liquidare all’avvocato del convenuto saranno maggiori se questo non ha semplicemente dovuto scrivere la comparsa, ma ha dovuto fare la prima udienza di trattazione, poi ha dovuto scrivere le memorie, partecipare all’attività del CTU, nominare un CTP, ecc. quando in realtà il diritto era prescritto. Un altro principio importante è il PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO, fondamentale nel nostro processo perché il nostro processo parte dal presupposto che il giudice sia posto in una posizione terza e imparziale, e che l’accertamento della verità materiale sia determinato dall’esercizio dei poteri processuali tra le parti del giudizio. Esistono altri modelli, ma la maggior parte dei modelli occidentali in modo più o meno formale si rifanno al principio tipico del sistema adversary anglosassone, cioè la 46 conflict theory justice: la giustizia emerge dal conflitto tra le parti. Da questo consegue che la sentenza che verrà pronunciata sarà tanto più vicina al vero quanto più gli avvocati saranno in grado di tutelare le ragioni dei propri clienti. Se dimentico di sollevare un’eccezione poi non posso farlo dopo, ci sono delle barriere preclusive, quindi la sentenza che verrà non terrà conto dell’eccezione, e a questo punto si crea una frattura irrimediabile tra verità processuale e verità materiale: questo è il limite di un processo che si basa sul principio del contraddittorio, che è sicuramente un grande passo avanti, perché le parti devono poter partecipare al giudizio (l’essenza intima del diritto al contraddittorio è il diritto ad essere ascoltati, il diritto delle parti di partecipare, il diritto di difesa). Nessuno può subire una modificazione/limitazione della propria sfera giuridica senza poter partecipare alla formazione della decisione che lo colpirà. Dal punto di vista legislativo, partecipiamo al processo di formazione delle leggi grazie ai principi democratici; dal punto di vista giurisdizionale, partecipiamo attraverso il contraddittorio. Nel processo l’attività di incidenza sulla sfera giuridica personale è fortissima ed è individualizzata; quel soggetto che subisce gli effetti della sentenza deve partecipare, quindi gli viene attribuita una situazione giuridica soggettiva ben precisa, ovvero il diritto di difesa (articolo 24 comma 2 Cost.). Il diritto di difesa consiste nell’attribuzione di tutti quei poteri processuali che le parti astrattamente possono utilizzare per influire sul contenuto della decisione, cioè per portare la decisione a proprio favore, nel contraddittorio tra le parti. Quindi le parti devono poter partecipare al giudizio per esercitare i poteri che possono incidere sul contenuto della decisione. Il principio del contraddittorio quindi consiste innanzitutto nel mettere la controparte nella condizione di potersi difendere, ovvero di esercitare il diritto di difesa, ovvero di esercitare tutti quei poteri processuali che dal punto di vista analitico costituiscono quel diritto di difesa. Come si fa a mettere il soggetto in questa posizione? Innanzitutto bisogna mettere la controparte a conoscenza del processo, notificando ad essa l’atto introduttivo del giudizio (articolo 101 comma 1 c.p.c. + articolo 111 Cost.). L’articolo 111 Cost. inizialmente non contemplava il principio del contraddittorio; il secondo comma è stato introdotto con la c.d. riforma del giusto processo del 1999, anche se questo principio era già pacifico e desumibile dall’articolo 24 comma 2, letto anche alla luce delle disposizioni ordinarie, ovvero l’art. 101 c.p.c. L’articolo 101 comma 1 dice che generalmente il giudice (salvo che la legge disponga altrimenti: ci sono particolari casi in cui il diritto al contraddittorio viene momentaneamente postergato, ad es. nel decreto ingiuntivo) non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata (cioè non è stata messa a conoscenza del giudizio) e non è comparsa (da leggersi come: o non è comparsa): quindi posso anche non notificare l’atto / notificarlo sbagliato / indicare una data erronea per l’udienza, ecc. ma se la controparte si costituisce comunque sana il vizio. Quindi innanzitutto principio del contraddittorio significa almeno porre la controparte nella posizione di potersi difendere, e quindi esercitare tutti i poteri processuali che la legge le attribuisce. Poi però il principio del contraddittorio va inteso anche in un’altra maniera: le diverse questioni che saranno oggetto della decisione devono essere sottoposte al contraddittorio delle parti. Prendiamo ad es. la responsabilità medica. Abbiamo detto che il giudice (in base al principio iura novit curia) può riqualificare il rapporto giuridico, e dunque ritenere che la domanda proposta come contrattuale in realtà sia di natura extracontrattuale. Quindi ad es. immaginiamo un processo in cui l’attore propone 47 la domanda, qualificandola come contrattuale, il convenuto si costituisce e non contesta la qualificazione. Il processo va avanti, si fa l’istruttoria, segue la prima udienza, e ai sensi dell’articolo 183 il giudice deve chiedere alle parti i chiarimenti necessari e sollevare quelle questioni di cui è opportuna la trattazione, tutte quelle che siano rilevabili d’ufficio. Si arriva alla fase decisoria e a quel punto il giudice crede che si tratti di responsabilità extracontrattuale, ed è libero di riqualificare anche se siamo nella fase finale. Può quindi rigettare la domanda: l’attore pensava che fosse responsabilità contrattuale, e che dunque il convenuto dovesse provare il corretto adempimento, ma in realtà la natura del rapporto è extracontrattuale e l’attore non ha fatto nulla nel frattempo per dimostrare che la controparte era responsabile. Infatti come sapete, sulla base delle sezioni unite in materia di adempimento, l’obbligato è tenuto a provare il corretto adempimento; questo principio era stato espresso in materia di obbligazioni di pagamento, in cui c’è il termine e o hai pagato o non hai pagato. Ma quando ci sono casi in cui l’obbligo è un obbligo risarcitorio, addossare l’obbligo probatorio al debitore è molto più complesso. Quindi si è fatto tutto un processo pensando che fosse il debitore a dover provare di non essere responsabile, e tutte le parti si sono mosse in questa prospettiva: l’attore si è mosso nella prospettiva che se la responsabilità rimanesse incerta, chi paga? Il convenuto, perché è lui che deve dimostrare che ha adempiuto correttamente. Partendo da questo presupposto quindi l’attore starà “in finestra”. In sintesi, abbiamo un processo in cui abbiamo il convenuto pensa che se non prova di essere stato adempiente, perde, e quindi l’incertezza va a svantaggio del convenuto; l’attore è convinto che nell’incertezza lui avrebbe vinto. Se è responsabilità contrattuale e non si sa perché il paziente è morto, paga il medico; se è extracontrattuale, e non si sa perché il paziente è morto, la domanda viene rigettata. Quando il giudice si trova nella sua stanzetta a decidere, al termine del processo, e si rende conto che non è contrattuale ma è extracontrattuale, è come se prima abbiamo fatto una partita a calcio con le regole del calcio, e poi a un certo punto il giudice dice “no, dovevate applicare le regole della pallacanestro”. Un cambiamento del genere ovviamente andrebbe a vantaggio del convenuto, mentre l’attore ne rimarrebbe sicuramente svantaggiato. In questa situazione sarebbe quindi corretto rimettere la causa davanti alle parti, dando loro la possibilità di (1) argomentare se sia contrattuale o extracontrattuale (non sempre i giudici sono bravissimi a fare tutto), e (2) di allegare i fatti e le prove che non avevano allegato all’inizio partendo da un altro presupposto. L’attore a questo punto potrà allegare altri fatti, formulare altre istanze istruttorie, perché la questione deve essere posta nel contraddittorio. La sentenza che invece è fondata su una questione non esaminata nel contraddittorio tra le parti, è una c.d. sentenza di terza via, cioè che riposa su un argomento che è stato sollevato dal magistrato solo nella sentenza. “Di terza via” perché è distinta sia dalla tesi prospettata dall’attore sia dalla tesi prospettata dal convenuto. Articolo 101 comma 2: “Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione.”. Altro esempio. Tizio ha concluso un contratto con Caio. Tizio agisce in giudizio nei confronti di Caio chiedendo l’annullamento del contratto per errore. Il giudice, visto il contratto, si rende conto che c’è un motivo di nullità (es. difetto di causa), e a quel punto può rilevare la nullità d’ufficio (1421) ma deve farlo in prima udienza. Questo però se ha letto le carte! Se non ha letto le carte, il processo va 50 all’interno della quale può svolgere diversi tipi di difesa. Innanzitutto può limitarsi a sollevare eccezioni di rito, che condurranno inevitabilmente non al rigetto del merito ma eventualmente o al rigetto ?? o a un’attività di sanatoria (se l’atto è nullo c’è la possibilità di rinnovare l’atto; se il giudice è incompetente c’è la possibilità di far proseguire il giudizio davanti al giudice competente; se c’è un difetto di rappresentanza c’è la possibilità di emendare quel difetto; se c’è un difetto di giurisdizione col giudice straniero, invece è difficile che si possa sanare; se c’è un difetto assoluto di giurisdizione, non si può sanare, però tendenzialmente i vizi di rito sono sanabili). Dopodiché potrebbe entrare nel merito: o “in punta di piedi”, semplicemente contestando i fatti allegati dalla controparte, oppure prospettando una diversa qualificazione di diritto che ovviamente condurrebbe all’inesistenza del diritto. Oppure, ancora, potrebbe procedere sul piano allegativo-assertivo, allegando dei fatti ulteriori e diversi rispetto a quelli allegati dall’attore, che per l’efficacia che questi fatti producono all’interno della fattispecie vengono definiti estintivi (perché estinguono il rapporto giuridico già sorto), modificativi (perché modificano il rapporto giuridico già sorto) o impeditivi (perché impediscono che il rapporto giuridico venga in vita). I fatti estintivi, impeditivi o modificativi vengono chiamati eccezioni di merito e nella prassi si dice “sollevare un’eccezione”. Ma la formula “sollevare eccezioni” dal punto di vista tecnico implica due attività distinte: 1) Allegazione mera del fatto: se io affermo all’interno dell’atto un certo fatto, io sto allegando un fatto al processo. “Allegare” significa affermare nel processo una certa circostanza storica. Quando sollevo eccezioni, anzitutto allego (nel merito) un fatto (estintivo, modificativo o impeditivo). Ma oltre ad allegare un fatto, 2) rilevo l’effetto che la legge attribuisce a quel fatto. Questa è una cosa diversa. Se faccio valere la nullità, probabilmente il fatto è già allegato. Se allego una prescrizione, probabilmente il fatto emerge dagli atti (basta guardare la data in cui la domanda è stata proposta e la data di conclusione del contratto). Se io allego il pagamento, questo lo devo allegare, altrimenti il giudice come fa a sapere che ho pagato? E anche se lo sapesse, non dovrebbe tenerne conto per il divieto di scienza privata. Questa distinzione è importante: quando il convenuto solleva l’eccezione, solitamente fa queste due cose insieme. Cioè il convenuto dirà: io ho pagato, e dunque il giudice nelle conclusioni che andrà a scrivere dirà: rigetta parzialmente la domanda. Quando vorrà sollevare l’eccezione di nullità, ad esempio dovrà argomentare dicendo che ad es. manca la causa, e allegherà eventualmente dei fatti, ma fondamentalmente chiederà al giudice di rigettare la domanda perché il contratto è nullo. Questa distinzione dal punto di vista del convenuto non rileva molto, perché il convenuto inevitabilmente allega il fatto e rileva l’effetto, ma è importante per capire come funzionano le eccezioni di merito rilevabili d’ufficio. Quando il giudice solleva eccezione d’ufficio, non significa che il giudice possa allegare il fatto sottostante (c’è divieto di scienza privata). Il giudice, quando rileva un’eccezione d’ufficio, vuol dire che la legge gli attribuisce la possibilità di tener conto dell’effetto ricollegato a quel 51 fatto senza che la parte glielo chieda. Se emerge dagli atti che il diritto è prescritto, il fatto è allegato: abbiamo la data di conclusione del contratto, la data in cui è stato notificato l’atto di citazione, è una semplice operazione matematica. Il giudice quindi il fatto lo vede, ce l’ha di fronte, e c’è una norma del codice civile che attribuisce a quel fatto un certo effetto, cioè un effetto estintivo. Allora il giudice può tener conto di questo effetto? No, perché la norma prevede che la prescrizione sia rilevabile solo dalla parte. Quindi il giudice vede il fatto che è entrato nel processo, ma non può tener conto dell’effetto che la legge ricollega a quel fatto, perché passa solo attraverso la volontà della parte. Errore, violenza e dolo sono fatti costitutivi del diritto all’annullamento; se il giudice verifica dalla narrazione che c’è stata una situazione che integra la violenza, il dolo o l’errore, ma le parti non se ne sono accorte, può rilevarla d’ufficio? No, il giudice vede il fatto, che potenzialmente potrebbe portare a un certo effetto, ma serve che la parte prenda l’iniziativa. La nullità: il giudice vede il fatto (es. manca la causa). Lo può rilevare d’ufficio? Sì, perché c’è una norma che lo prevede. Perché invece non può rilevare d’ufficio l’annullamento? Perché l’ordinamento non ha un suo interesse particolare a dire che quell’atto deve essere annullato: se le parti vogliono convalidarlo e dargli esecuzione, lo possono fare. Quindi il giudice che vede dagli atti che c’è quel fatto non può rilevarlo: il fatto è allegato, ma lui non può tener conto dell’effetto giuridico che la norma attribuisce a quel fatto perché la norma vuole che sia la parte a chiederlo (eccezione rilevabile solo su istanza di parte). Questa formula però (“eccezione rilevabile solo su istanza di parte”) non si lega a niente di quello che realmente succede, perché il fatto è entrato, se tu lo sussumi sotto una norma ha un certo effetto, ma il giudice non lo può fare se non glielo chiede la parte. In altri casi invece (come nella nullità) lo può fare. Di solito si distingue (ma è molto complesso) se il fatto/l’eccezione tuteli un interesse che è una sorta di “controdiritto” del convenuto (come l’annullamento): in quel caso non può il giudice rilevarlo d’ufficio. Un classico esempio di eccezione rilevabile solo su istanza di parte è l’eccezione di compensazione: uno chiede 100, l’altro ha diritto ad avere 50. Il convenuto si difende dicendo che il diritto è prescritto, e nell’atto dice anche “e poi l’attore mi dovrebbe pure dare 50”. Se il giudice accoglie l’eccezione di prescrizione, rigetta la domanda dell’attore. Se ha rigettato per prescrizione, il convenuto ha diritto ai suoi 50 “puliti”, quindi non dà nulla all’attore ma si prende i 50. Se invece il giudice tiene conto della compensazione, i diritti per compensazione si estinguono per le quantità corrispondenti, il credito del convenuto va a zero, il credito dell’attore va a 50. Il convenuto a questo punto è vero che argina la domanda dell’attore, ma ha perso 50: la compensazione è un’eccezione “satisfattiva”, perché si spende (ovviamente matematicamente). L’eccezione di compensazione non solo non può essere rilevata d’ufficio, ma è anche sottratta al principio della ragione più liquida: il giudice la deve esaminare per ultima, perché quando il convenuto si gioca la compensazione, spende il suo controcredito. Il principio della ragione più liquida sta a significare che il giudice può scegliere quello che vuole, quello che più rapidamente lo porta alla decisione. Facciamo un altro esempio. L’attore agisce per 50, il convenuto deve 100. Qui il giudice se esamina la compensazione dice: ma di che stiamo parlando? L’attore ha perso. L’attore vuole una condanna del convenuto a pagare 50; se io vedo che il convenuto deve 100 e basta, senza sollevare altre eccezioni, il giudice cosa fa? 50 va a zero, e dall’altra parte residuerebbero 50, ma non pronuncerà mai una 52 condanna per 50, perché non glieli deve dare, i due diritti si estinguono per quantità corrispondenti (domanda: questo solo se lo chiede il convenuto? Assolutamente sì: non solo se lo chiede, ma pure come ultima questione da esaminare). Caio potenzialmente poteva avere 100: se il diritto era prescritto, lui potenzialmente poteva chiedere tutti i 100. Se invece la prescrizione non la esaminiamo e passiamo direttamente alla compensazione, quei 50 li dà in mano all’attore; non glieli ha dati praticamente, ma all’interno del giudizio è come se li avesse spesi. È vero che non c’è la condanna, ma mi depaupero di quella parte che serve a estinguere il diritto altrui, e quindi questa eccezione non solo, laddove dovesse emergere dagli atti che c’è un controcredito, il giudice non può tenerne conto se la controparte non lo eccepisce, ma inoltre laddove anche dovesse sollevare l’eccezione, il giudice deve esaminarla per ultima, perché gli dà un risultato in termini di tutela che è inferiore rispetto a quella che otterrebbe sulla base di altre eccezioni che conducono al rigetto della domanda autonomamente, senza dover spendere una lira. Ovviamente, il convenuto si tiene per ultima la “carta” della compensazione, prima solleverà qualsiasi altra cosa: il diritto è prescritto, il contratto è nullo, ecc. Certo, affronta un giudizio sapendo che non subirà un’azione esecutiva, perché lì la condanna non ci esce, però si spende una parte. In giurisprudenza, c’è un caso: una sentenza di condanna condannava a 100, il convenuto paga spontaneamente e si fa il computo degli interessi. Si sbaglia nel fare i conti, e manca qualcosa tipo 30 euro. Allora, quando è andato a mettere in discussione e gli hanno fatto opposizione all’esecuzione, il giudice ha detto che in realtà era un esercizio abusivo dell’azione esecutiva agire solo per 30 euro. Formalmente parlando, si ha diritto ad agire per 30 euro. Quindi il convenuto può allegare dei fatti e rilevare gli effetti collegati a quei fatti (questo significa “sollevare un’eccezione di merito”). Quando parliamo di eccezioni rilevabili d’ufficio inevitabilmente parliamo solo del secondo segmento, cioè la rilevazione dell’effetto, perché il fatto deve essere già allegato. Fino a qui il convenuto ha esteso il materiale di causa, ha apportato altri fatti, ma l’oggetto del diritto rimane quello, anche se per il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112: il giudice deve pronunciarsi su tutta la domanda e non può pronunciare d’ufficio eccezioni). Quindi il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato non vale solo per la domanda, ma vale anche per le eccezioni: il giudice non può omettere l’esame di un’eccezione in sentenza, altrimenti questa sarebbe nulla, sarebbe un motivo di appello e poi di ricorso in cassazione. Quindi in realtà il convenuto non allega meri fatti, allega eccezioni, e il giudice si dovrà pronunciare sia sulla domanda sia sulle eccezioni. Nella motivazione della sentenza, ci dovrà essere una parte specifica che esamini es. l’eccezione di prescrizione e la rigetta. Ci dovrà essere una parte specifica che esamini l’eccezione di compensazione e la rigetta. Se questo non accade la sentenza è nulla. È come se le eccezioni fossero “domandine”: sono domande di rigetto sulla base ad es. della prescrizione. Il convenuto è vero che non altera l’oggetto, perché non porta un altro diritto (il diritto soggettivo rimane quello), ma dal punto di vista della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, obbliga il giudice a pronunciarsi anche sulle eccezioni. Quindi le eccezioni “incidono sull’oggetto” (come è scritto nel manuale), ma non sull’oggetto inteso come diritto soggettivo fatto valere (che resta quello), bensì implicano il dovere del giudice di pronunciarsi anche sull’eccezione. 55 diritto sostanziale: il giudice esamina quel diritto nella sua interezza, lo accerta con efficacia di giudicato, e ne deriveranno tutte le dovute conseguenze. Se invece il diritto viene speso come eccezione, l’eccezione viene utilizzata con l’obiettivo unico di ottenere il rigetto della domanda. Ad esempio: diritto potestativo di annullamento, diritto potestativo di risoluzione, contro-credito, sono tutti diritti soggettivi (diritti potestativi o di credito) che si possono spendere vuoi come eccezione, vuoi come domanda riconvenzionale. La differenza dove sta? Che se è speso come eccezione, è diretto unicamente a ottenere il rigetto della domanda dell’attore; se invece è speso come domanda riconvenzionale ha tutti gli effetti della domanda, quindi il giudice dovrà pronunciarsi su quella domanda, su quell’effetto giuridico, con efficacia di giudicato (quindi una volta per tutte), si rischia il pagamento delle spese se si è soccombenti, e tutti gli altri effetti che sono ricollegati alla proposizione di una domanda. Dunque quando allego in giudizio una fattispecie di annullamento (es. l’errore), il diritto all’annullamento che ne deriva lo posso utilizzare o semplicemente per impedire che X sia accertato positivamente (quindi unicamente per ottenere il rigetto), oppure per dedurre in giudizio un nuovo diritto nei confronti dell’attore (= domanda riconvenzionale). In questo ultimo caso la connessione è “in via di eccezione”. Si utilizza questo termine più sfumato (in via di), perché non è che c’è un elemento in comune; è quello stesso diritto che viene utilizzato in un’altra maniera, non entra nel processo come eccezione (quindi così come è fatto) ma come diritto soggettivo. Invece, quando questi particolari diritti vengono fatti valere come eccezioni e non come domande riconvenzionali, visto che hanno questa possibile ambivalenza, si parla di “eccezioni riconvenzionali”, ma non fatevi ingannare dalla dicitura, che non toglie nulla all’essenza del potere: è sempre un’eccezione, “riconvenzionale” indica che si sarebbe potuta scrivere anche come domanda, ma sempre un’eccezione è. Ricapitolando, ci sono alcuni diritti soggettivi che possono entrare nel processo o come eccezioni o come domande riconvenzionali. Si tratta di diritto d’annullamento, risoluzione, contro-credito, ecc. Si può decidere (per qualunque ragione) di utilizzarli semplicemente al fine di impedire l’accoglimento della domanda dell’attore oppure di spiegare una domanda riconvenzionale. Che tipo di connessione c’è tra questa domanda riconvenzionale e l’eccezione che si sarebbe dovuta spendere? Si sta parlando della stessa cosa: è quello stesso diritto, che non viene speso così com’è fatto (quindi come eccezione) ma come domanda. Nel codice hanno scritto che questa domanda è connessa “in via d’eccezione”, nel senso che è legata sul ramo estintivo, impeditivo o modificativo, ma in realtà è quello stesso diritto fatto valere come domanda. Non è legata invece al fatto costitutivo perché questo tipo di domande riconvenzionali (legate in via d’eccezione), se sono legate in via d’eccezione (cioè in realtà sono eccezioni fatte valere come domande), l’accoglimento di questa domanda implica il rigetto dell’altra: sono infatti due diritti incompatibili. Quel diritto infatti, se fosse stato speso come eccezione, avrebbe avuto come scopo quello di paralizzare l’accoglimento della domanda; è logico quindi che se viene fatto valere come domanda, l’accoglimento di questa domanda comporterà inevitabilmente il rigetto dell’altra. Sono due diritti che per diritto sostanziale sono incompatibili: si tratta di credito e contro- credito, oppure di risoluzione (il contratto o è risolto o non è risolto). Questo però solo se parliamo di domande riconvenzionali connesse in via d’eccezione; negli altri casi di domanda riconvenzionale il giudice può accogliere entrambe le domande, perché è diverso il legame di diritto sostanziale tra i due 56 diritti. Infatti, se parliamo di connessione, quei diritti sono connessi per incompatibilità: la domanda riconvenzionale connessa in via d’eccezione è connessa per incompatibilità (poi vedremo meglio che significa). Quindi, l’eccezione mira unicamente ad ottenere il rigetto della domanda; la domanda riconvenzionale mira ad ottenere l’accoglimento e, se è connessa in via d’eccezione, inevitabilmente il rigetto dell’altra. Una precisazione. Il principio è: l’eccezione riconvenzionale è diretta solo al rigetto. Questo vuol dire che quando il giudice esamina l’eccezione, la esamina a una cognizione che è solamente diretta a pronunciarsi sull’altra domanda. Quindi non c’è nessun tipo di pronuncia sul diritto sotteso all’eccezione. Ad esempio: convengo Tizio per il pagamento di 100, quello oppone in compensazione un credito di 200  il giudice rigetta la mia domanda  era un’eccezione, quindi Tizio può agire separatamente per il pagamento dei 200? L’unico fine era quello di ottenere il rigetto, non c’è un giudicato su quel credito. Tuttavia, nonostante non ci sia un giudicato su quel credito, in quanto fatto valere con un’eccezione, si è realizzato l’effetto come se fosse per diritto sostanziale: se Tizio agisse per 200 potrei quindi opporre l’effetto estintivo di 100. Ma questo non perché ci sia stato un giudicato: il giudice del nuovo processo dovrà nuovamente accertare che si è verificato questo effetto estintivo, anche se non è vincolato all’altra sentenza, perché l’altra sentenza sul contro-credito non si è pronunciata. LA DETERMINAZIONE DELL’OGGETTO DEL GIUDIZIO Abbiamo anticipato ieri che, ai fini dell’accertamento positivo del diritto, dobbiamo accertare l’esistenza di tutti i fatti costitutivi e l’inesistenza di tutti i fatti estintivi, impeditivi e modificativi. Diversamente, per accertare l’inesistenza del diritto soggettivo basta accertare l’inesistenza di un fatto costitutivo o l’esistenza di un’eccezione (quindi di un fatto estintivo, impeditivo o modificativo). L’accoglimento implica l’accertamento di tutti i fatti fatti valere in giudizio; per il rigetto basta l’accertamento di uno solo (ragione più liquida). Adesso dobbiamo cercare di comprendere esattamente come si determina l’oggetto del giudizio. Cioè, finora abbiamo detto che l’oggetto è il diritto fatto valere, ed è corretto, ma non è sempre agevole comprendere qual è il diritto fatto valere in giudizio. Ad esempio, agisco in giudizio e chiedo di essere dichiarato proprietario di un appartamento nei confronti di qualcuno, affermando che me lo ha lasciato in eredità un lontano parente. Oppure, agisco per essere dichiarato proprietario di un appartamento, ma dico che l’ho usucapito. È lo stesso diritto o sono diritti diversi? Ancora: agisco nei confronti di Caio per chiedere il pagamento di 100€ perché glieli ho prestati l’altra sera. Oppure, chiedo a Caio 100€ perché glieli ho prestati, ma una settimana fa. È lo stesso diritto o sono diritti diversi? Ancora: agisco per annullamento del contratto per errore, oppure propongo la domanda di annullamento del contratto per dolo. È lo stesso diritto? C’è chi dice sì, c’è chi dice no. Dobbiamo capire come muoverci in queste situazioni. Ma prima di tutto bisogna capire a cosa ci serve saper individuare esattamente l’oggetto del giudizio. Ci serve per capire se è stato rispettato il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, e per capire se il giudice è rimasto nei limiti della domanda. Quando andremo a vedere il giudicato, 57 questo investe il diritto fatto valere e non altri; per capire se il giudicato copra o meno quel diritto bisogna capire qual è stato il diritto accertato. Inoltre, in appello si possono proporre domande nuove, cioè diverse, perché se la domanda è la stessa ma leggermente modificata è diverso, quindi serve capire qual è l’oggetto. Inoltre, se nell’atto di citazione non è indicato bene il diritto fatto valere, l’atto è nullo. Queste sono tutte questioni che affronteremo singolarmente, ma per affrontare queste situazioni dobbiamo prima capire qual è l’oggetto. In linea generale, l’oggetto del giudizio corrisponde al diritto soggettivo fatto valere in giudizio mediante la proposizione della domanda. Questo perché la tutela giurisdizionale è diretta a tutelare diritti soggettivi; il diritto soggettivo in giudizio si fa valere con la proposizione della domanda; la proposizione della domanda va a costituire il potere decisorio; il dovere decisorio ha lo stesso oggetto della domanda per il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato; la sentenza, costituendo un atto di esercizio del dovere decisorio, avrà ad oggetto quello stesso diritto che era l’oggetto della domanda. Quando la sentenza passa in giudicato, l’articolo 2909 c.c. parla dell’accertamento contenuto nella sentenza, l’accertamento di cosa? Del diritto soggettivo. Tutto questo è una sorta di equazione in cui il primo termine è uguale all’ultimo. Questo significa che ad es. se noi abbiamo un giudizio in cui viene fatto valere X dall’attore, e quindi abbiamo una sentenza, questa contiene una motivazione del tipo “per questi motivi accerta e condanna”. X è il diritto che sarà accertato, e quindi lo troviamo nel dispositivo. Nella motivazione il giudice riporterà i fatti storici, quello che è stato proposto dalle parti, esamina le eccezioni. Quindi nella motivazione il giudice prende posizione sui fatti storici (“A è provato perché… B è provato perché… ecc.; per questi motivi condanno il convenuto”). Quando si dice che la sentenza passa in giudicato e l’accertamento fa stato (cioè vincola anche i futuri giudizi), cos’è che è vincolante? È vincolante solo la decisione, quindi ad es. il fatto che Tizio abbia un diritto di proprietà su un certo bene, non sono vincolanti tutti gli accertamenti fatti in motivazione. Quindi quando il 2909 parla di “accertamento” si riferisce all’accertamento autoritativo, non agli accertamenti logici (cognitio incidenter tantum) contenuti in motivazione. Il giudicato vincola il futuro giudizio solo sul diritto soggettivo fatto valere. Questa è la regola generale. Ci sono tuttavia delle eccezioni in ragione delle quali l’oggetto o è un po’ più ampio o e un po’ più ristretto. Il primo esempio lo troviamo all’articolo 34. Possono verificarsi casi in cui la fattispecie costitutiva del diritto X contenga a sua volta al suo interno non un mero fatto, ma un diritto. Quindi può sussistere un diritto X a sua volta costitutivo di un diritto Y. Questo si verifica ad es. in caso di pagamento di una somma e al pagamento dei relativi interessi: questi sono due diritti diversi, ma il secondo c’è solo se c’è il primo. Il risarcimento del danno subito dalla violazione di un diritto di proprietà di un bene presuppone l’accertamento della proprietà del bene. Quando si verifica questa situazione noi abbiamo due diritti connessi per pregiudizialità- dipendenza, perché l’esistenza dell’uno dipende dall’esistenza dell’altro: il diritto dipendente dipende dall’esistenza del diritto pregiudiziale. Il diritto del creditore principale ad agire contro il fideiussore è un diritto che dipende dal diritto di credito che ho nei confronti del debitore principale; il fideiussore non deve nulla se non esiste il diritto di credito principale, quindi sono due diritti connessi per pregiudizialità-dipendenza. 60 è tale quando c’è una regola di condotta: se c’è un obbligo diretto a tutelare un interesse di una persona, quella persona ha un diritto soggettivo. Nel contratto di mutuo non c’è una regola di condotta, quindi è un fatto. Quindi applicando la regola generale, l’accertamento non copre il contratto di mutuo. Questo se noi dovessimo applicare il principio generale. Secondo i principi generali, il giudicato non si dovrebbe estendere anche al contratto di mutuo. Ma c’è un’eccezione. Potremmo applicare a questa fattispecie l’articolo 34? No, il 34 non lo applichiamo perché il 34 parte dall’idea che c’è un diritto soggettivo che dipende da un altro diritto soggettivo: quindi abbiamo due rapporti giuridici connessi per pregiudizialtà-dipendenza, mentre il contratto di mutuo non è un rapporto giuridico di per sé, quindi non lo possiamo sussumere sotto l’articolo 34. Quindi qual è l’eccezione? Si è detto che in realtà quando nel giudizio sul singolo effetto giuridico (Y) discendente da un unico contratto si contesta l’esistenza del contratto, è ragionevole ritenere che l’accertamento investa anche l’esistenza, l’interpretazione o la validità del contratto contestato. Ho detto “è ragionevole”. Ammettiamo che sia contestata l’esistenza del contratto, e che il giudice rigetti la domanda di Y, e ritenga che nulla è dovuto perché il contratto non si è mai concluso, dunque è inesistente. Allora, se ritenessimo che questa decisione non si estende al rapporto, dovremmo ammettere che quando poi Tizio agisce nei confronti di Caio per ottenere non più la terza rata ma la quarta, Caio si troverà a dover nuovamente dimostrare che il contratto non è mai stato concluso. Si creerebbe cioè all’interno del processo una sorta di frattura in una dinamica sostanziale unitaria. Ovvero, il rapporto sinallagmatico tra Tizio e Caio in forza del contratto è che Tizio gli ha dato 100.000 euro, e Caio gliene restituisce 1.000 alla volta: l’equilibrio però non sta nel fatto che gliene restituisce 1.000, ma che gliene restituisce tutti e 100.000. La contraddizione che si verrebbe a creare andrebbe contro il rapporto sinallagmatico. Allora (e questa è l’eccezione) la giurisprudenza dice che in questi casi il giudicato si estende all’antecedente logico necessario, comune ai diversi effetti giuridici. Questo non è conforme ai nostri principi generali, perché il giudicato dovrebbe essere limitato al diritto soggettivo fatto valere. Quando diversi effetti dipendono da un unico antecedente logico necessario, il giudicato si estende anche a quell’antecedente logico, copre quindi anche l’accertamento del contratto, e ciò per evitare che si abbiano diverse sentenze che abbiano un contrasto logico proprio riguardo quel fatto genetico comune. ATTENZIONE: Il giudicato sull’antecedente logico c’è solo quando le parti contestano l’antecedente logico, cioè l’esistenza del contratto. Se invece le parti non contestano l’esistenza del contratto (che quindi è pacifica), il giudice non l’accerta d’ufficio. Quindi la giurisprudenza, usando l’espressione “antecedente logico necessario”, fa capire che non stiamo parlando di un vero e proprio rapporto giuridico, ma comunque questo fatto, in deroga ai principi generali, viene “coperto” dal giudicato. La dottrina invece, seguendo la dottrina tedesca, inventa un altro concetto, del tutto erroneo, cioè quello di “rapporto giuridico fondamentale complesso”. Cioè la dottrina dice che il contratto di mutuo non è un fatto, ma è un rapporto giuridico 61 all’interno del quale rientrano tutti i singoli effetti. Quindi avremmo un rapporto giuridico “fondamentale” perché genetico di tutto, “complesso” perché poi si articola in diversi effetti giuridici. In questo modo la dottrina va a creare quello che non c’è, cioè un rapporto giuridico, per giustificare il fatto che quando deduco in giudizio un singolo effetto, il giudicato si estende anche al rapporto giuridico fondamentale. Ma qual è l’errore logico insuperabile di questa impostazione? Se dico che l’antecedente è un rapporto giuridico fondamentale complesso, che raccoglie in sé tutti i singoli effetti, quando dico che il giudicato si estende anche a quel rapporto dovrei giungere a dire che vado ad accertare anche tutti i singoli effetti: non solo il contratto, ma tutti i singoli rapporti che stanno dentro quel “contenitore”. Invece non li accerto, perché il “contenitore” semplicemente non esiste, è solo un contratto. ALTRA DEROGA: ARTICOLO 429 Un altro caso in cui si vede la deroga al principio della domanda ricorre all’articolo 429 c.p.c. in materia di processo del lavoro: all’articolo 429 comma 3 è previsto espressamente (chiara deroga al principio della domanda) che il giudice, quando il lavoratore agisce per il pagamento della retribuzione, automaticamente deve accertare anche gli interessi e il maggior danno. Vediamo che c’è un’estensione dell’oggetto per espressa volontà di legge, quindi è una deroga all’art. 112. DEROGHE AL PRINCIPIO DELLA DOMANDA: L’OGGETTO PIÙ RISTRETTO Di regola, l’oggetto della domanda e i limiti oggettivi del giudicato riguardano il diritto soggettivo fatto valere con la domanda. Ci sono casi invece in cui questo ambito oggettivo si allarga andando a toccare questioni che non sono quelle fatte valere dalla domanda. Ci sono però anche casi in cui l’oggetto dell’accertamento è più RISTRETTO: non riguarda propriamente diritti soggettivi (e come si fa a capirlo? Si capisce se c’è una regola di comportamento), ma l’accertamento è più limitato e riguarda segmenti di fattispecie costitutive, mere questioni, questioni miste in fatto e in diritto, qualificazioni giuridiche. Sono casi espressamente previsti dalla legge (in quanto derogatori), e un caso, che abbiamo già esaminato è quello dell’azione dichiarativa di nullità, cioè quell’azione con cui una parte propone una domanda che sin dall’origine ha ad oggetto la validità del contratto. La nullità non è un diritto, è una qualità dell’atto, è un regime di invalidità dell’atto, quindi è una questione in fatto e in diritto (questione mista). Giuridicamente parlando, tutto ciò che non è un diritto è una questione. L’azione di nullità quindi è un’azione di mero accertamento, che riguarda qualcosa di diverso da un diritto. Altri casi sono quelli in cui si chiede l’accertamento di uno status: secondo la dogmatica italiana e tedesca per status si intende un rapporto giuridico, ma in realtà è una qualificazione normativa di un fatto, è un elemento della fattispecie, non è un rapporto giuridico (es. essere padre non è un diritto soggettivo, non è in sé una norma di condotta: le norme di comportamento sono quelle che dipendono da questo fatto, qualificato in una certa maniera dall’ordinamento, es. dovere di istruzione, di mantenimento, ecc.). Però secondo la dottrina tradizionale lo status va trattato alla stregua di un rapporto giuridico, di un diritto soggettivo. 62 Ancora, quando si agisce per l’accertamento di un falso, quindi si propone la c.d. querela di falso: ci sono atti pubblici che hanno una certa efficacia probatoria “sino a querela di falso”. Gli atti pubblici in genere hanno pubblica fede: ciò significa che vincolano il giudice, che non se ne può può discostare. La querela di falso è quell’azione particolare che può utilizzare una parte per dimostrare che il notaio ha scritto in falso, es. ha scritto che Tizio voleva vendere a 100.000€ invece voleva vendere a 150.000€. Oppure il notaio ha scritto quello che doveva scrivere, ma poi l’atto è stato adulterato. Con quest’azione si accerta la genuinità di un atto, quindi non si tratta di accertare un diritto soggettivo. Atto pubblico = Tizio e Caio vogliono vendere un immobile; vanno dal notaio ed è lui che scrive interamente il contratto (redige l’atto). Scrittura privata = Tizio e Caio scrivono il loro contratto, oppure lo fanno scrivere ad un terzo soggetto, e poi Tizio e Caio sottoscrivono l’atto facendo proprio il suo contenuto. Scrittura privata autenticata = al momento della sottoscrizione interviene il notaio che identifica i due soggetti che hanno sottoscritto, dicendo che quella firma corrisponde a Tizio, la cui identità il notaio ha previamente accertato. Quindi questo collegamento tra sottoscrizione e contenuto dell’atto ha quella stessa forza che ha l’atto pubblico rispetto alle questioni che rappresenta, cioè quella rappresentazione resiste fino a querela di falso. Altra questione in cui si verifica questa ipotesi dell’oggetto più ristretto è quella della condanna generica. La condanna generica, come abbiamo visto, è quel provvedimento con cui il giudice accerta solo l’an e non il quantum; però abbiamo anche detto che in realtà per accertare l’an deve anche accertare il quantum (come si può accertare l’an se il quantum è pari a zero?). Quindi in realtà la condanna generica accerta solo alcuni fatti, alcune componenti della fattispecie, solo un suo segmento. Discorso simile a quello della condanna generica si ha nell’azione di classe, che consente di pronunciare una sentenza con cui si accerta la responsabilità del convenuto e si fissano i criteri per la liquidazione delle somme. Questa è una condanna generica: si accertano non i diritti, ma un segmento della fattispecie. Altro caso particolare (però ormai abbastanza osteggiato dalla giurisprudenza) è la tematica del c.d. frazionamento del credito. Es. guardiamo la norma sulla competenza del giudice di pace, art. 7: il giudice di pace è competente solo se la lite non supera un certo valore (20.000€). Immaginiamo che Tizio prenda da Caio un gommone e vada sull’isola di Ischia, ma mentre sta andando ad Ischia arriva un altro gommone e fanno il botto  risarcimento del danno di 60.000€  Tizio vorrebbe andare dal giudice di pace perché un suo amico avvocato può seguire cause solo davanti al giudice di pace, ma non può farlo perché il valore della lite è troppo alto. Quindi cosa fa Tizio? Per poter andare dal giudice di pace fraziona il credito in tre cause da 20.000€ ognuna. Quindi Tizio agisce in giudizio deducendo solo una frazione del diritto di credito: 20.000€ (salvo il residuo). Si può fare questa cosa? La Cassazione inizialmente aveva detto che era possibile perché il processo civile è ispirato al principio dispositivo (quindi le parti possono fare del processo ciò che meglio credono). Ma in realtà ci sono molte ragioni che ostano a questo tipo di esercizio dell’azione. Innanzitutto, “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti soggettivi”, e non sta scritto da nessuna parte che si possa agire deducendo pezzi di diritti. Poi c’è il principio della domanda, 65 non è più possibile per decorso infruttuoso del termine, oppure si è andati in appello ma si è perso, la sentenza è un provvedimento ormai stabile. Insomma, in tutti quei casi in cui lo strumento dell’impugnazione è ormai precluso, e quindi la sentenza non è più soggetta ai mezzi di impugnazione ordinari (ovvero quelli che condizionano il passaggio in giudicato), la sentenza non può più andare indietro (cioè non si può più revocare) né in avanti (cioè non si può più pronunciare), perché ormai è un provvedimento stabile. All’interno del procedimento che si articola in diversi gradi, e che ha avuto origine con la proposizione di quella domanda, la sentenza ha un’assoluta stabilità di tipo endoprocedimentale: all’interno di quel procedimento non c’è più modo di toglierla di mezzo. Se però noi andiamo all’articolo 2909 cc, questo articolo si occupa di disciplinare un effetto diverso, ma che ha come presupposto l’effetto appena indicato, cioè il giudicato formale, cioè una stabilità endoprocedimentale del provvedimento. Il 2909 prevede che “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi e gli aventi causa”. Si dice “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato”, ed ogni parola pesa. Questa norma conferisce al contenuto del provvedimento una certa efficacia. Quindi ad es. Tizio, l’attore, perde, e non può chiedere al giudice di revocare la sentenza, ma può appellare; tuttavia, se non lo fa entro i termini, non può più impugnare la sentenza e questa diventa stabile. Allora Tizio inventa un escamotage: non può togliere di mezzo quel provvedimento, ma ciò non significa che non possa ottenerne un altro, quindi propone quella causa ad un altro tribunale. L’articolo 324 infatti di per sé non esclude che si possa ottenere un diverso provvedimento, esclude che si possa revocare il provvedimento già ottenuto. Proprio su questo profilo interviene il 2909: è il contenuto del provvedimento che fa stato, non tanto il provvedimento in senso formale. Quindi questa norma conferisce all’accertamento di merito contenuto nella sentenza un’efficacia vincolante che è ultraprocessuale, quindi non è più legata al procedimento in cui è stata pronunciata la sentenza, ma che si proietta in tutti i procedimenti futuri che potranno avere lo stesso oggetto. Abbiamo il contenitore e il contenuto: il 324 disciplina la stabilità del contenitore, il 2909 disciplina l’efficacia del contenuto una volta che il contenitore è stabile. E si riferisce all’accertamento, che è un termine che ricorre nel nostro codice quando si ha a che fare con la dichiarazione autoritativa relativamente a un rapporto giuridico. Quello che ritroviamo nel dispositivo riguarda il diritto soggettivo fatto valere con la domanda, quindi una sentenza di merito sull’oggetto del giudizio, in una pronuncia di merito sulla domanda, quello è l’accertamento. Quell’accertamento del diritto fa stato fra le parti ad ogni effetto. Di contro, se la sentenza passata in giudicato non contiene l’accertamento ci sarà il 324 ma non ci sarà il 2909, che presuppone che ci sia un accertamento di merito. Es. il tribunale di Roma, a cui propongo la domanda, si dichiara incompetente; la parte propone regolamento di competenza (= mezzo di impugnazione per contestare la decisione sulla competenza, in quanto tale contemplato dall’articolo 324), ma se non impugna quell’ordinanza, l’ordinanza passa in giudicato formale; il contenuto di questo provvedimento riguarda però una decisione di rito, non c’è l’accertamento, quindi la parte è libera di riproporre la domanda, non è vincolata. Immaginate che io vado al tribunale di Roma per una controversia che ha carattere transazionale, e il tribunale di Roma si dichiara privo di giurisdizione: in quel caso pronuncerà una sentenza che sarà oggetto di 66 appello. Se io non la impugno, passa in giudicato formale. Ma poiché quella sentenza non contiene un accertamento di merito, posso riproporre la domanda al tribunale competente. IL GIUDICATO SOSTANZIALE, anche detto AUTORITÀ DI COSA GIUDICATA, articolo 2909 Le sentenze passate in giudicato formale che contengono l’accertamento del diritto passano in giudicato sostanziale. Quelle sentenze che invece contengono solo l’assoluzione e le questioni di rito passano in giudicato formale, ma non producono l’efficacia del giudicato sostanziale. E questo è così perché è previsto dalla legge (art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c.). Ora dobbiamo capire meglio che significa questo giudicato sostanziale, soprattutto nella parte in cui la norma dice che questo accertamento FA STATO AD OGNI EFFETTO. In primo luogo, e questa è una questione travagliata della scienza processualcivilistica, però ci sono alcuni punti fermi che possiamo dare per assodati. Abbiamo una sentenza che nella parte dispositiva detterà una regola di condotta (es. accoglimento della domanda di condanna, Tizio deve pagare; oppure, rigetto della domanda, Tizio non è tenuto a pagare). Prima della sentenza, le parti, per capire chi doveva fare cosa, dove andavano a guardare? Non nella sentenza, ma nella legge, nel codice civile. Quando arriva il provvedimento giurisdizionale e questo passa in giudicato, quell’accertamento recide il legame tra fattispecie concreta e astratta/normativa, perché la regola di condotta la troviamo nella sentenza. Quindi la prima efficacia del provvedimento è un’efficacia normativa: detta la regola del caso concreto. Ma non solo. Se andiamo a vedere non i rapporti sostanziali, ma come questo effetto si sviluppa in provvedimenti giurisdizionali futuri, noi abbiamo un provvedimento che ad es. ha accertato l’esistenza del diritto x, e una parte vorrà ottenere un provvedimento diverso. In questo caso, il giudice successivo laddove venga depositata la sentenza passata in giudicato, dovrà prendere atto che quel rapporto è stato deciso con efficacia di giudicato, quindi non potrà pronunciarsi nuovamente. L’attore vittorioso opporrà il giudicato precedente sollevando un’eccezione di rito (cioè un’eccezione di cosa giudicata), che appunto preclude al giudice di pronunciarsi nuovamente. È un’efficacia che ha natura negativa, cioè impedisce al giudice di pronunciarsi nuovamente. La sentenza si chiude in rito senza nessun tipo di nuovo accertamento (il giudice non deve pronunciarsi). Questa efficacia investe lo stesso diritto soggettivo e quindi è un’efficacia diretta. Però il 2909 dice che il giudicato fa stato AD OGNI EFFETTO. “Ad ogni effetto” significa che si potrebbe verificare il caso in cui un rapporto già deciso sia legato all’oggetto del giudizio successivo. Es. l’oggetto del giudizio successivo (Y) non è lo stesso del giudizio precedente (X). In un caso simile, essendo due diritti diversi, potrebbe accadere che Y e X siano completamente diversi, ma potrebbe pure accadere che non sia così. Quand’è che potrebbe verificarsi questa seconda ipotesi? Quando, ad esempio, X appartenga alla fattispecie costitutiva di Y. Ovvero quando la sentenza passata in giudicato e contenente l’accertamento del diritto X, riguardi X rapporto pregiudiziale a Y. In questo caso, il giudice (successivo) che deve decidere Y e, secondo le nostre regole, meramente conosce di Y, ne può conoscere liberamente o è vincolato all’accertamento? È vincolato all’accertamento, perché il giudicato fa stato ad ogni effetto. Quindi in questo caso, l’efficacia che il giudicato spiegherà nel giudizio successivo non è un’efficacia diretta (perché non investe direttamente l’oggetto del 67 successivo giudizio), ma è un’efficacia mediata o indiretta perché investe (direttamente) una componente della fattispecie costitutiva e mediatamente (ovvero attraverso questa parte, in parte qua), anche l’oggetto. Anche l’efficacia che produrrà il giudicato in questo giudizio, non sarà un’efficacia negativa (che impone al giudice di astenersi), ma sarà un’efficacia positiva, cioè che impone al giudice di conformarsi all’accertamento previamente reso sul diritto. Dunque nel nostro esempio, in cui X è accertato positivamente, il giudice chiamato a decidere una controversia relativa al diritto Y, potrà rigettare la domanda per tutte le possibili ragioni SALVO che negando l’esistenza di X. In parte qua, l’accertamento è precostituito, perché ricevuto dal giudizio che si è già concluso. Quindi in sintesi, se la domanda della parte produce in giudizio un diritto che dipende dal diritto già accertato con efficacia di giudicato, allora in quel caso il giudice non potrà astenersi, ma dovrà conformarsi all’accertamento già reso. Quindi nel nostro caso (in cui partivamo da un accertamento positivo del diritto pregiudiziale), il giudice che dovrà decidere di Y partirà dalla premessa che X sicuramente esiste. Potrà dire che, nonostante esista X, difetta un altro fatto costitutivo o, nonostante esista X, il diritto si è prescritto, ecc. Ma per quanta riguarda X, lì l’accertamento è preso “a scatola chiusa” e vincola il giudice: fa stato fra le parti e ad ogni effetto , cioè anche in futuri giudizi e anche riguardo l’efficacia/ l’effetto diretto (il primo) e l’effetto riflesso o indiretto (il secondo). Per quanto riguarda il primo, abbiamo un’efficacia diretta perché investe lo stesso oggetto. Nel secondo invece abbiamo un’efficacia riflessa perché non colpisce lo stesso oggetto, ma colpisce una parte della fattispecie costitutiva, quindi mediatamente colpisce X. Nel primo caso (efficacia diretta negativa) il giudice non si pronuncia, nel secondo caso (efficacia indiretta positiva) il giudice si conforma. Il primo è un effetto negativo/preclusivo ( sentenza che si chiuderà in rito). Nel secondo caso avremo una sentenza che si chiuderà in merito sulla base anche (ma potrebbe essere anche solo) dell’accertamento di X. Infatti se X è accertato positivamente, il giudice dovrà accertare altro. Ma se X è stato accertato negativamente, non c’è da accertare null’altro. Quando tu ti muovi sulla base di un giudicato che ha negato il diritto pregiudiziale, il giudice prenderà atto che il diritto pregiudiziale è stato dichiarato inesistente e quindi per l’effetto dichiarerà inesistente (ma nel merito) anche il dipendente. Vi ricordate il discorso fra la rata e gli interessi? Tizio ha chiesto prima il pagamento della rata e ha perso. Dopo che ha perso posso andargli a chiedere gli interessi? È di questo che si tratta: se non è stata riconosciuta la rata, come si possono chiedere gli interessi? Sono due diritti connessi per pregiudizialità-dipendenza e quindi è inevitabile che, se l’accertamento è negativo, il diritto dipendente sarà anch’esso negativo, però nella pronuncia di merito. Pronuncia di merito che fa stato ad ogni effetto. Quel “ad ogni effetto” implica anche un altro profilo. Noi abbiamo visto che il materiale di causa si forma grazie al contributo delle parti del giudizio: ognuno allega i fatti che ritiene opportuni e quant’altro. Può ben essere che vi siano fatti che una parte poteva allegare e che non ha allegato. L’atto lo scrive l’avvocato che conferisce quella parte, potrebbe essere che la parte poi si ricordi di una cosa che gli non aveva detto, oppure che l’avvocato si dimentichi di allegare un fatto o di sollevare un’eccezione. Allora il quesito che noi dobbiamo porci in astratto (e poi vediamo come è regolato dall’ordinamento) è: ma quanto abbiamo fin’ora detto può essere posto in discussione laddove si 70 maggiore o per atto dell’avversario”. Questo articolo però si riferisce ai documenti, cioè io so il fatto, l’ho allegato e non riesco a dimostrarlo, ed è un altro problema. Qua il problema è che bisogna trovare il modo per poter ammettere che la stessa affermazione fattuale sia concessa dopo che io ne sia venuto a conoscenza. Però nel nostro ordinamento questo non è previsto. Ritengo che se la questione di costituzionalità fosse posta seriamente sarebbe molto difficile ritenerla infondata: il deducibile dovrebbe ricomprendere anche i fatti che la parte ignorava incolpevolmente, anche se ovviamente deve dimostrarlo. Il fatto sopravvenuto deve far cambiare il segno alla sentenza? Ovviamente parliamo di fatti sopravvenuti che diamo per scontato che siano fatti che assumono rilievo rispetto al deciso, cioè sono fatti che possono avere una portata estintiva, modificativa, innovativa come appunto l’avvenuto pagamento, oppure un fatto che modifica la capacità contributiva dei coniugi. Se ci sono fatti sopravvenuti che non incidono sulla decisione, questi non rilevano. Apriamo un discorso che inevitabilmente finiremo domani. In questo bello schemetto che abbiamo fatto abbiamo dato per assodato che c’è una relazione di identità fra i due oggetti dei due processi, ma è tutto da dimostrare. Perché? Ci sono situazioni molto semplici: se io parlo del diritto di proprietà della casetta sul colle o parlo del risarcimento del danno del gommone davanti all’isola di Ponza, capite che si parla di due diritti diversi che non hanno nulla in comune, seppure gli stessi soggetti. Però, visto che il diritto è vivente, è ambiguo e ci dà la possibilità di manipolarlo con un linguaggio ancora prima che con i concetti, allora ci possono essere delle situazioni più delicate. Ad esempio, pensiamo ad una serie di ipotesi. La controversia rispetto alla casa sul Conero fra Tizio e Caio. Però da una parte si allega ad esempio la successione testamentaria del nonno, dall’altra si allega l’usucapione. È lo stesso diritto, procedimenti diversi. Ancora. Da una parte si chiede la condanna al pagamento di 100 euro sulla base di un contratto di mutuo; dall’altra si chiedono sempre 100 euro, sempre tra le stesse parti, sulla base di un contratto di compravendita. Ancora. In un processo si chiede l’annullamento del contratto per errore, in un altro per violenza. Ancora. Si chiede sempre l’annullamento, da una parte per errore su un elemento, dall’altra per errore su un altro elemento. È lo stesso diritto o sono diritti diversi? Se voi guardate il petitum, il petitum è sempre la proprietà della casa/il pagamento di 100 euro/l’annullamento del contratto. È lo stesso diritto o non è lo stesso diritto? Se è lo stesso diritto, il secondo processo si chiude in rito. Se invece è un diritto diverso, bisognerà procedere. A riguardo la dottrina e la giurisprudenza (ma è un problema sostanzialmente dottrinale) ha elaborato una serie di criteri di individuazione delle domande, o-si può dire-delle azioni o –si può dire- dell’oggetto, cioè dei criteri che ci servono per comprendere se stiamo a parlare di uno stesso o di un diverso diritto. A riguardo, dottrina e giurisprudenza hanno elaborato una serie di CRITERI DI INDIVIDUAZIONE DELLE DOMANDE/DELLE AZIONI/DELL’OGGETTO, cioè dei criteri che ci servono per comprendere se stiamo parlando dello stesso diritto o di un diritto diverso. C’è, in primo luogo, una categoria di domande o di diritti che si definiscono DOMANDE AUTODETERMINATE, cioè che si determinano da sé. Che significa? Che per comprendere qual è l’oggetto del giudizio noi ci riferiamo solamente al contenuto del petitum, al contenuto del rapporto 71 sostanziale dedotto in giudizio (naturalmente le parti sono le stesse). È la prima ipotesi. Se il giudice deve risolvere il quesito “chi è il proprietario ora della bella villa sul Conero?”, al giudice non interessa se per usucapione, per accessione, o per successione mortis causa. Il giudice dice se è o se non è proprietario, poi la ragione è ovviamente fondamentale per accogliere la domanda, ma non per capire chi è il proprietario, il diritto sempre quello: sei o non sei proprietario? La causa petendi rileva ai fini dell’accoglimento (naturalmente), ma non rileva ai fini dell’individuazione, perché la domanda tu la individui solo sulla base del contenuto (autodeterminata). Stiamo parlando del diritto di proprietà su un bene immobile, determinato, è quello. Sei o non sei proprietario di quella casa? Diversamente, nella seconda ipotesi voi non ve la potete cavare con “sei o non sei debitore di 100 euro?”. Qui dipende necessariamente dal titolo. Tizio potrebbe avere diritto a 100 euro per il mutuo e a 100 euro per il prestito, cioè in totale a 200 euro. In queste fattispecie in cui avete una prestazione di genere, cioè un comportamento che non riuscite a determinare di per sé (pagamento di una somma di denaro, la consegna di 100 kg di farina), il fatto costitutivo, la causa petendi contribuisce (dall’esterno rispetto al petitum) a individuare l’oggetto. E quindi queste domande si chiamano DOMANDE ETERODETERMINATE. La domanda parla di 100 euro, ma per quale ragione? Ecco perché “etero”, cioè da fuori. Per esempio arrivo in appello, in appello non si possono proporre domande nuove. Ho perso in primo grado chiedendo 100 per il prestito. In appello mi sveglio e dico “in realtà era un mutuo”, lo posso fare? NO. Perché modificando il fatto costitutivo, in realtà surrettiziamente, modifico la domanda. Sto sempre a chiedere 100 euro, ma sono altri 100 euro, quindi è come se proponessi una domanda nuova (e in appello questo non si può fare). È a questo che serve questa regoletta. Serve per il giudicato, nel senso che se ad esempio io ho perso quel giudizio qui sulla base del mutuo, poi potrò proporre la domanda per il prestito perché sono altre 100 euro. E per quanto riguarda le impugnative negoziali? Noi potremmo in astratto dire (ed è stato detto) che c’è un’unica azione di annullamento a prescindere dal titolo: quindi hai solo una cartuccia (diritto di annullamento), poi decidi tu se vuoi farlo per errore, violenza o dolo, ma è sempre lo stesso diritto. C’è un’altra ipotesi: tu per ogni titolo di annullamento hai un diritto proprio, un diritto diverso. E quindi hai “tre cartucce”: hai il diritto di annullamento per errore, il diritto di annullamento per dolo, e il diritto di annullamento per violenza. Quindi secondo la prima concezione, si tratta di una domanda autodeterminata; per la seconda è eterodeterminata, perché il titolo dell’annullamento incide. Nel primo caso abbiamo un diritto, e il titolo è irrilevante. Nel secondo caso abbiamo tre diritti. Nel primo caso abbiamo un unico giudizio, nel secondo caso abbiamo una mitragliata di giudizi. Questo per farvi capire come il tema dell’individuazione dell’oggetto del giudizio è un tema che risponde a criteri concreti. Quando si parla di beni della vita reali, è un conto; ma quando si parla di effetti giuridici (come l’annullamento, che non ha nulla di concreto, è un effetto giuridico), lì la fantasia dei giuristi non si seda e quindi giunge ad una ricostruzione eterodeterminata estrema a favore della moltiplicazione delle iniziative giudiziarie. 72 16 marzo 2018 Quando andiamo a fondare il nostro ragionamento relativamente all’efficacia diretta, ma anche riflessa, ovviamente noi dobbiamo andare ad individuare una relazione fra gli oggetti in giudizio e l’efficacia diretta deve essere appunto una relazione diretta, cioè di identità. Però io vi ho detto attenzione perché talvolta può essere semplice capire che noi parliamo di due cose totalmente diverse, dall’altra il discorso può diventare più sfuggente. Si utilizzano vari criteri. Autodeterminate che si individuano sulla base del petitum (che è l’oggetto sostanziale) e delle parti ovviamente. Diversamente, nelle domande etero determinate non è sufficiente soffermarsi sul petitum, ma bisogna andare a cercare qualcos’altro, ovvero la causa petendi, il fatto costitutivo. Tanto che il fatto costitutivo proprio per avere questa portata individuatrice viene anche detto “fatto costitutivo individuatore” perché oltre ad essere fatto costitutivo e quindi avere la capacità di costituire quanto meno astrattamente il diritto soggettivo, ha anche una funzione di individuare l’oggetto (fatto individuatore). Esempio tipico della prima categoria sono azioni negative a diritti assoluti, a diritti reali che si correlano a beni determinati. Quando invece la prestazione è un prestazione di genere, è difficile perché quella stessa prestazione può replicarsi più volte nella stessa persona (io ti posso dover dare 100 per un titolo,100 per un altro). Dopodiché ci sta l’azione, le impugnative negoziali. Visto che in questo ambito, noi non abbiamo a che fare con un bene della vita effettivamente reale ma con un bene di utilità di ordine giuridico, è più difficile orientarsi e comprendere se stiamo a parlare di un unico diritto soggettivo, se l’ordinamento ti riconosce un unico interesse all’annullamento, o tanti diversi interessi di annullamento giuridicamente rilevanti a seconda del titolo dell’annullamento oppure, in relazione al fatto costitutivo specifico concreto, per ogni titolo. Quindi noi abbiamo un ampio ventaglio di opzioni dove nell’ambito delle impugnative negoziali ci muoviamo da una prima tesi che ha carattere autodeterminato, in cui sostanzialmente la domanda la si determina solo sulla base dell’effetto che voglio conseguire (petitum) quindi abbiamo un unico diritto di annullamento, e ci spostiamo verso opzioni orientate più in senso etero determinato, in cui rileva il titolo dell’annullamento e potrebbe valere anche addirittura il fatto concreto. Ovviamente a seconda di dove posizioniamo il punto di principio, abbiamo un allargamento o restringimento del dedotto e del deducibile. Perché se io ritengo che ho un unico diritto soggettivo di annullamento, vuol dire che quel diritto soggettivo di annullamento ogni qualvolta lo deduco in giudizio, subisce una preclusione del dedotto e del deducibile che copre tutte le ragioni per le quali posso ottenere l’annullamento. Se invece sto nella opzione contraria dove ho un diritto di annullamento per ogni singolo fatto costitutivo, il deducibile copre solo quel singolo fatto costitutivo: perché appena mi sposto un po’ più di qua e becco un altro fatto costitutivo, non solo trovo un altro fatto costitutivo ma lo riferisco a un altro diritto. Abbiamo visto i limiti oggettivi parlando dell’individuazione dell’azione, abbiamo sostanzialmente concluso la tematica dei limiti oggettivi (abbiamo visto l’oggetto del diritto dedotto, che questo 75 presupposto che il giudicato ha valore assoluto, oramai nel nostro ordinamento costituzionale questo tipo di impostazione non regge più. E direi che, tendenzialmente, il giudicato non produce mai effetti ultra partes. Cioè il giudicato reso – come si sul dire- inter alios (tra altri) non vincola mai colui che è rimasto terzo al giudizio, salvo che non ci siano dei casi particolari. Per esempio, a mio parere (e inizia sia la dottrina e la giurisprudenza gradatamente a seguire questo tipo di impostazione), un diverso tipo di discorso si basa e si ragioni in termini di giudicato favorevole. Cioè è l’istituto che, un po’ in termini anche dispregiativi perché non piaceva a tutta la dottrina classica che vedeva nel giudicato un principio di ordine pubblicistico, è il tema del giudicato secundum eventum litis. Il discorso è che l’estensione nei confronti del terzo che non ha preso parte, cozza con due principi costituzionali laddove quell’accertamento gli venga imposto e gli venga imposto ovviamente anche quando è a lui sfavorevole. Se, invece, l’accertamento non gli viene imposto e lui è libero di giovarsene laddove l’accertamento sia a lui favorevole, il discorso cambia da così a così. Esempio: la mamma agisce nei confronti del papà per chiedere il mantenimento del figlio maggiorenne che non fa niente dalla mattina alla sera. Allora la giurisprudenza dice (l’importante è capire la problematica concreta e non la configurazione giuridica di questa problematica) che la mamma può chiedere autonomamente il mantenimento del figlio maggiorenne (che ha 37 anni). Il padre contesta il mantenimento e, in ipotesi, vince e si accerta che il figlio si deve dare una mossa, e quindi non ha diritto al mantenimento del padre e quindi zero euro. Essendo il diritto al mantenimento un diritto di Gigi, Gigi si alza dal divano, spegne la playstation e va da un avvocato. Allora Gigi agisce in giudizio autonomo nei confronti del padre. Può il padre opporre questo giudicato nei confronti della madre? Per dell’olio sicuramente. Sia se lo costruiamo come se fosse lo stesso diritto, sia se lo costruiamo- come sarebbe più corretto dire- come diritto in parte dipendente da quello della madre (ma non ci stiamo a soffermare su tutte queste problematiche, l’importante è capire la sostanza del problema). Ma in realtà Gigi non ha preso parte a questo processo, e chi lo dice che effettivamente Gigi sta piantato sul divano a giocare con la playstation quando magari in realtà si dà da fare o magari ha avuto qualche problema di salute o altre di quelle situazioni che magari possono capitare nella vita e che quindi non è colpa sua se a 37 anni non è totalmente autosufficiente. Lo deve dire lui. E’ lui che è responsabile di spendere in giudizio i propri poteri processuali e di dire le cose per bene, se poi non ci riesce pazienza. Ma non gli può essere tolto, almeno costituzionalmente, questo diritto. Quindi non può essere opposto il giudicato inter alios, perché lui ha diritto di poter influire sul contenuto della decisione. L’abbiamo visto con il dedotto e il deducibile: se la mamma non ha allegato i fatti che doveva perché non li sapeva, non gli interessava, comunque G. ha diritto ad esercitare il suo diritto, l’azione, il suo diritto di difesa, cioè a potere ad influire sulla decisione prendendo parte al processo in condizioni di parità (art. 111 co. 2) nei confronti del padre. Se però, pensate che la mamma dimostra che ha diritto a 1000 euro, già qua le cose potrebbero cambiare. Ad esempio la madre ottiene una condanna del padre a versare 1000 euro a titolo di 76 contributo al mantenimento del figlio maggiorenne. L’avvocato del padre, che è un tipo molto agguerrito, dice agiamo nei confronti di Gigi e chiediamo una riduzione al mantenimento o addirittura chiediamo un accertamento negativo per cui nulla devi. Allora il padre, in questo caso, agisce nei confronti di Gigi. Il giudicato inter alios si estende alle parti? Abbiamo detto di no. Ma ATTENZIONE perché qui bisogna capire se Gigi ha intenzione e interesse ad avvalersi di quello che è stato detto inter alios o no; perché Gigi potrebbe dire forse non hai capito, perchè se ci stavo io in quel processo non mi dovevi dare 1000 euro, ma 3000. Se la gioca da zero e punta ad ottenere una somma più elevata; anzi Gigi potrebbe dire 1000 li dai a mamma come contributo al mantenimento per le spese di casa, dopodiché tu mi dai tutto il resto e lo versi direttamente a me e non a mamma. Oppure si disinteressa e dice me la gioco fino in fondo. Però, Gigi potrebbe essere nella condizione di dire a me il giudicato va bene, non ho preso parte a quel processo, ma sono io che liberamente ritengo di opporre il giudicato a colui che ha preso parte al processo e ha speso i suoi poteri processuali. Quindi il padre non può dire nulla il giorno che qualcuno gli opponga questo giudicato, perché lui ha detto e fatto tutto quello che poteva (lui era parte). Il figlio se ne avvantaggia, il terzo si avvantaggia di un giudicato a lui favorevole e lo oppone. Quindi è una situazione ben diversa, (del) è un giudicato secundum eventum litis: il terzo, se ha l’interesse, se ne potrà avvalere (ovviamente si avvarrà del giudicato favorevole e non sfavorevole) e lo può opporre alla controparte perché la controparte era parte del processo quindi non c’è nessuna ragione ostativa a opporre il giudicato. La questione è impostata così. Teorie tradizionali: LIEBMAN e DELL’OLIO. Dell’olio: il giudicato vincola tutti. I limiti soggettivi è tanto quanto è assorbito dai limiti oggettivi Liebman da un lato preserva il valore naturale dell’efficacia d’accertamento, ma mentre da un lato consacra il principio, dall’altro lo disconosce adoperando questa distinzione fra effetto dell’accertamento e qualità, ovvero irrettrattabilità, dell’accertamento (cioè cosa giudicata). L’accertamento opera con riguardo a tutti, ma non il giudicato. Quindi quando mi vengono a dire che quell’accertamento mi vincola (perché l’accertamento vale per tutti), ma io, essendo terzo, sono nella condizione di poter dimostrare l’ingiustizia della sentenza resa inter alios. Queste sono le teorie tradizionali. Arriva la costituzione. La costituzione altera questo valore assoluto del giudicato, quest’impostazione imperativistica, statalistica non può più trovare spazio in un ordinamento che ha come valore principale il valore della persona. In particolare, in ambito processuale, il diritto di difesa, diritto al contraddittorio, principio di parità delle parti. Quindi, allo stato attuale, poter dire che il giudicato vincola erga omnes (nei confronti di tutti), a prescindere dai limiti soggettivi direi che è impossibile. Allora bisogna però vedere un po’ più analiticamente una serie di fattispecie e fare una serie di ponderazioni. A prescindere da questo, diverso è dire, perché compatibile con i nostri principi costituzionali, che il giudicato possa estendersi ai terzi laddove questi terzi ne facciano richiesta, laddove questi terzi intendano avvantaggiarsene, perchè il terzo andrà così ad opporre il giudicato a colui che è già stato parte. E quindi la ragione ostativa all’estensione ultra partes del giudicato viene meno in questo caso: perché è il terzo che liberamente, se gli piace il giudicato, se lo acchiappa e lo oppone all’altro che è 77 stato parte; se non gli piace, invece dirà no, io ho diritto ad esercitare tutti i miei poteri processuali perché la costituzione mi garantisce il diritto inviolabile di difesa in ogni stato e grado e quindi l’art. 24 co. 2 (nonché co.1) e 111 co. 2 sono del tutto ostativi alla possibilità di estendere ultra partes gli effetti della sentenza. La prospettiva costituzionale, secondo parte della dottrina ( il professore non è d’accordo su questo punto) il giudicato secundum eventum litis è assolutamente compatibile con i principi costituzionali ed è un punto di contemperamento fra l’esigenza di garantire uniformità, ma ancor più di garantire quel principio che la giurisprudenza ci ammorba dalla mattina alla sera che è il principio della ragionevole durata dei processi perché ri-compiere l’accertamento per l’ennesima volta nei confronti di un soggetto che è già stato parte non ha senso, se la parte che deve essere tutelata è lei che vuole avvantaggiarsi del giudicato. [domanda di un ragazzo: Se il figlio se la gioca e perde. Può opporre successivamente la sentenza (quella della madre)?no. Semmai il discorso è comprendere come sia possibile far coesistere (e questo la cassazione lo deve ancora spiegare) che si svolga qui un processo che non ha nessun tipo di ripercussione eventualmente su questo. La Cassazione qui fa quello che ha fatto con l’art. 28 St. lav.: c’è un problema di rendere libera la madre di agire, perché qual è il problema pratico di questa fattispecie? Perché il problema pratico di questa fattispecie è che c’è gigi che sta dentro casa e non fa nulla e la madre gli paga le bollette, ecc; quindi è vero che è un diritto di Gigi però la madre paga. Allora la cassazione, che ha cercato di salvare capre e cavoli, ritenendo che il diritto al mantenimento è del figlio perché oramai con la riforma dell’affidamento condiviso, che poi è stata modificata dalla riforma …(credo sia il 337 septies, ma sono sicuro) oramai inequivocabilmente chiarisce che il diritto è del figlio oramai maggiorenne. Però la Cassazione, riprendendo l’orientamento precedente ha sostenuto che anche il genitore con il quale il figlio convive stabilmente ha diritto a vedersi riconosciuto un contributo alle spese (che è un diritto diverso dal mantenimento). Invece un’altra cosa è quel frammento del diritto al mantenimento che coincide con il contributo che G avrebbe dovuto dare alla madre per la gestione di casa e quant’altro. Non ci andiamo a incaponire su come va risolto in termini sostanziali processuali questa fattispecie perché la cass la risolve non guardando i principi di diritto, ma guardando all’esigenza pratica, quindi quello che dice la cassazione non regge. Questa questione ci fa capire in maniera chiara, plastica, quali sono le esigenze in gioco. Perché si potrebbe dire per esempio che la madre è sost processuale del figlio e Fa valere in giudizio un diritto del figlio (ovviamente anche per un interesse proprio) però lei è sostituto processuale e quindi il diritto è lo stesso. Perchè la cassazione crea dei diritti che non ci stanno. Perché sul piano sostanziale la cosa corretta è che il figlio sia mantenuto dal padre e che il figlio non vada più a chiedere i soldi alla madre, e semmai contribuisca pure con i soldi che gli ha dato il padre, se noi dobbiamo ragionare in termini di diritto sostanziale. Tizio deve essere mantenuto dal padre, agisce nei suoi confronti, ottiene la somma (1000 euro), 250 li darà alla madre per pagare l’affitto, il gas e per andare in discoteca, ecc non li chiede alla madre, ma ha i soldi del padre. Perché la cassazione non ha detto che la madre era sostituto processuale? La cassazione non ritiene opportuno che si estenda l’eventuale conflittualità fra i coniugi, ex coniugi o comunque i genitori, e il 80 estendere ultra partes l’efficacia diretta. Di fronte a questo interrogativo, ci rendiamo conto che c’è qualcosa di strano, perché se l’oggetto è lo stesso, com’è possibile che un soggetto nel processo successivo sia terzo rispetto al processo precedente? Se è vero che è legittimato ad agire solo il titolare del rapporto sostanziale (questo secondo le regole della legittimazione ordinaria), com’è possibile che questo soggetto (cioè l’attore) non era parte nel processo precedente? Il convenuto, cioè colui che subisce gli effetti della domanda, non può essere altro che il titolare del rapporto sostanziale. Quindi generalmente quest’ipotesi non si può verificare. Si può verificare solo nel caso in cui si deroga alla regola della legittimazione ordinaria: colui che propone la domanda non è il titolare del rapporto sostanziale, e colui che al contrario è titolare del rapporto sostanziale per le più diversificate ragioni non deve prendere necessariamente parte al giudizio, o per sua scelta non ha preso parte al processo. Allora avremo un giudizio che si svolge tra il legittimato straordinario (titolare del potere d’azione, dunque senz’altro parte processuale) e un altro soggetto (il convenuto) che è titolare del rapporto sostanziale dal lato passivo. Ottenuto questo accertamento, successivamente, laddove vi sia un altro giudizio che ha ad oggetto lo stesso rapporto giuridico e che coinvolge il titolare attivo del rapporto, quell’accertamento lo vincola o non lo vincola? Dobbiamo capire se nel nostro ordinamento ci può essere una situazione del genere. La regola generale è che il legittimato ad agire in via straordinaria abbia quelle caratteristiche di sostituto processuale, e dunque il titolare del rapporto sostanziale dedotto in giudizio è di regola parte necessaria in quel processo; essendo parte necessaria, deve prendere parte, e se ha preso parte non potrà essere terzo, quindi non si potrà parlare di “estensione” dell’efficacia, semplicemente perché il terzo è parte. Quando si parla di limiti soggettivi e via dicendo, la giurisprudenza “va nel pallone”, perché la giurisprudenza di solito si occupa di questioni rutinarie; quando si tratta di questioni un po’ più particolari, più “di nicchia”, o arriva la sentenza-trattato delle Sezioni Unite oppure non troviamo posizioni ex professo sulla questione. La dottrina però ha prospettato questa ricostruzione in diverse fattispecie. Es. art. 28 statuto dei lavoratori: il sindacato che agisce per tutelare il rapporto del lavoratore, e lo fa come legittimato straordinario, ma il lavoratore non deve prendere necessariamente parte al processo. Quindi in questo caso c’è la possibilità di estendere ultra partes gli effetti diretti. Ancora, se agisce il genitore (legittimato straordinario) del figlio maggiorenne con cui quest’ultimo convive, e il figlio non è parte necessaria, il figlio è investito dell’efficacia diretta? Queste sono le ipotesi in cui questa problematica si può prospettare. Di solito però l’efficacia diretta è difficile da estendere. Domanda: nell’azione di classe? Nell’azione di classe si verifica questa estensione, ma c’è una norma espressa che lo prevede. Quindi la parte A agisce nei confronti dell’imprenditore, facendo valere il proprio diritto al risarcimento, però l’oggetto sarà formato solo da coloro che aderiscono, cioè da coloro che depongono la dichiarazione in cui diranno “voglio essere incluso”. Questi soggetti tuttavia non acquisteranno la qualità di parte in senso processuale, perché non esercitano nessun tipo di potere processuale, dicono solo “ci sono anch’io”. Tuttavia il giudicato vincolerà (oltre ad A e all’imprenditore) anche gli aderenti. Qui, applicando i criteri tradizionali, abbiamo un’estensione ultra 81 partes dell’efficacia diretta, perché gli aderenti non sono parte in senso processuale. Però è una situazione particolare, perché è espressamente prevista da una norma di legge. ESTENSIONE DELL’EFFICACIA RIFLESSA Può verificarsi che il rapporto pregiudiziale sia accertato con efficacia di giudicato, e poi l’accertamento del rapporto pregiudiziale voglia essere esteso anche all’interno del giudizio che ha ad oggetto il rapporto dipendente. Queste sono ipotesi molto frequenti nella prassi, a differenza delle prime. Iniziamo a dire che il nesso di pregiudizialità-dipendenza sul piano sostanziale si può atteggiare in tante maniere diverse. Dal punto di vista processuale, se non c’è uno non c’è l’altro, ma sul piano sostanziale può essere molto complesso. Un’area in cui tipicamente si verifica questo rapporto di pregiudizialità-dipendenza con soggetti diversi è nella successione a titolo particolare, cioè quando un soggetto dispone del proprio diritto a favore di un altro. Abbiamo il dante causa e l’avente causa: l’avente causa acquista il diritto solo se il dante causa era titolare di quel diritto. Se invece non lo era, non acquista nulla. Questi si chiamano infatti “acquisti a titolo derivativo”. Negli acquisti a titolo derivativo, l’acquisto dipende (1) dalla validità dell’atto di trasferimento; (2) dalla titolarità del dante causa del diritto oggetto di trasferimento. Noi abbiamo A che vende un bene a B, e un processo che si svolge tra A e C relativamente al diritto di proprietà su quel bene. Il trasferimento a B del diritto sul bene può avvenire: 1) prima del processo, 2) in pendenza del processo, 3) dopo il processo. C’è da chiedersi: se noi abbiamo una sentenza che accerta tra A e C che C è proprietario, possiamo opporre questa sentenza a B (avente causa di A) che è rimasto terzo? Dipende dal fatto se tale acquisto a titolo derivativo si sia realizzato prima, durante, o dopo il processo. Cioè: 1) A vende a B prima di essere convenuto in giudizio da C; 2) mentre era convenuto in giudizio; 3) dopo che ha perso nei confronti di C. Impostata la questione in questi termini, il 2909 c.c. ci dice che la sentenza fa stato tra le parti “E GLI AVENTI CAUSA”. E chi sono gli aventi causa ai sensi dell’articolo 2909? Quelli aventi causa successivamente al giudizio. Il 2909, secondo l’opinione più accreditata, si riferisce agli aventi causa divenuti tali dopo il passaggio in giudicato. Quindi la terza “casella temporale” è disciplinata dall’articolo 2909: nel caso in cui A venda a B dopo aver perso nei confronti di C, il giudicato si estende a B, la sentenza fa stato anche nei suoi confronti. 82 La “casella temporale” numero 2 (= vendita in pendenza del processo) invece è disciplinata dall’articolo 111 c.p.c., e la norma all’ultimo comma dice che la sentenza pronunciata vincola anche il successore a titolo particolare “salve le norme sull’acquisto in buona fede dei mobili e sulla trascrizione”. Quando A e C hanno questo processo, A vende a B (quindi l’acquisto si verifica in pendenza di processo), e nel momento in cui vende a B sa già che l’efficacia del giudizio che sta svolgendosi avrà effetti nei confronti di B, perché così è previsto dal 111. “Salve le norme sull’acquisto in buona fede dei mobili e sulla trascrizione”: che significa? Per i beni mobili vige un regime di circolazione particolare, che premia la certezza dei rapporti giuridici: il 1153 disciplina una fattispecie acquisitiva a titolo originario, stando alla quale se l’acquirente è in buona fede, se c’è un titolo astrattamente idoneo al trasferimento e se ottiene il possesso, l’acquisto si considera a titolo originario e non a titolo derivativo. E se l’acquisto è a titolo originario, non importa più se il dante causa era effettivamente titolare o meno del diritto, perché la fattispecie dell’avente causa è del tutto autonoma dalla titolarità del diritto. Quindi se si verifica una fattispecie a titolo originario, il diritto dell’acquirente non è più dipendente dalla titolarità del dante causa, che a quel punto non è più nemmeno “dante causa”, perché l’avente causa non trae il proprio diritto da colui che gli ha venduto il bene. Il diritto che sorge in capo all’acquirente è ormai un diritto nuovo, che non dipende più da colui che poteva essere (come poteva non essere) il titolare del diritto. Questa è una particolarità della nostra disciplina di diritto sostanziale. Invece nell’acquisto a titolo derivato abbiamo una “catena” in cui devono sussistere tutti gli anelli. Se invece il bene è un bene immobile, il suo regime di circolazione conosce l’istituto della trascrizione. Attenzione: questo istituto non serve a determinare la validità del trasferimento! Serve semplicemente a dire: quando ci sono più acquirenti dello stesso bene, chi prevale? Seconda parte IL PRINCIPIO DELLA TRASCRIZIONE Se il diritto sul bene riguarda un bene immobile, la trascrizione è un istituto volto a risolvere i contrasti tra più aventi causa. Il 111 richiama la trascrizione perché regola il conflitto tra l’acquisto e l’effetto della sentenza recuperando i principi della trascrizione. In che termini? Per diritto sostanziale, se A vende a B e poi vende a C, ma C trascrive prima di B, vince C. Il discorso dal punto di vista processuale è simile, ma i riferimenti temporali sono da un lato la trascrizione della domanda, dall’altro la trascrizione dell’atto di disposizione (quindi del contratto). Dopo la notificazione dell’atto di citazione, questo può essere trascritto (la trascrizione non è un requisito di procedibilità); la trascrizione del negozio può avvenire prima o dopo quella della domanda. A agisce nei confronti di C, va dall’avvocato, prepara l’atto di citazione e lo notifica a C. C trova velocemente un acquirente, vende il bene a B e trascrive l’atto notarile due giorni dopo la notifica dell’atto di citazione. A invece trascrive la domanda notificata dopo la trascrizione dell’atto di vendita. La litispendenza, con la notificazione della domanda, dovrebbe essere già iniziata perché è con la notificazione della domanda che inizia il processo: visto che il processo è stato iniziato, 85 si riferisce a più soggetti, quando agisco per l’annullamento dell’atto e arriva la sentenza con efficacia costitutiva, questa espunge l’atto dal mondo giuridico, e quell’atto non c’è più per nessuno. Allora tutti i soci sono litisconsorti necessari? No, l’ordinamento ricostruisce questo meccanismo conferendo all’amministratore (o a chi ha la rappresentanza legale della società) il potere di rappresentare tutti i soci, quindi l’effetto dell’annullamento si produce nei confronti di tutti i membri del soggetto collettivo, ed è un’estensione ultra partes. I LIMITI TEMPORALI Quando abbiamo affrontato il tema della preclusione del dedotto e del deducibile abbiamo detto che il deducibile riguarda tutto quello che si sarebbe potuto dedurre in quel giudizio (= questioni in fatto, quindi circostanze storiche, e in diritto, quindi norme e disposizioni, che si potevano far valere in quel processo), e il giudicato copre tutto quello che avresti potuto dedurre. Nel dare questa definizione però siamo stati generici. Bisogna dire: ma i fatti si possono allegare sempre? No. Se siamo in primo grado, c’è un momento che è la rimessione in causa della decisione: si passa dalla fase istruttoria alla fase decisoria, e il giudice invita le parti a precisare le conclusioni. In quel momento si cristallizza la situazione di fatto e non è più possibile allegare fatti nuovi. Quindi i fatti verificatisi dopo questo momento ma prima della decisione non rientrano nel deducibile, perché in quella fase processuale non si possono allegare fatti nuovi. I limiti temporali del giudicato, per quanto riguarda le questioni di fatto, in questo caso sono riferiti all’ultimo momento in cui si potevano allegare i fatti storici nel processo, che (nel processo ordinario di cognizione) consiste nell’invito del giudice a precisare le conclusioni. Tutti i fatti che si verificano dopo non rientrano nel deducibile (anche se potrei proporre appello ed eventualmente allegare i fatti in appello). Se siamo in cassazione, la corte non ha poteri istruttori, quindi non c’è modo di allegare i fatti storici. Quei fatti potranno essere spesi successivamente per andare a rimuovere eventualmente il giudicato che si è prodotto, perché non rientrano nel deducibile ma sono comunque sopravvenienze: esse si realizzano quando la controversia è pendente, ma in momenti della controversia in cui non si possono allegare i fatti storici, e per questo non rientrano nel deducibile. Il limite temporale della quaestio facti sulla quale si parametra la preclusione del dedotto e del deducibile va individuato nell’ultimo momento utile per poter allegare i fatti storici nel processo, e questo vale per ogni tipo di rito. Discorso diverso va fatto per quanto riguarda le questioni di diritto. Rispetto ad esse opera il principio iura novit curia, quindi il giudice (se è un giudice sveglio) può rilevare egli stesso le innovazioni normative, e l’ultimo momento per farlo è quello della decisione. Se entra in vigore una legge proprio durante la fase decisoria, il giudice può, anzi deve, tenerne conto: in un caso simile il giudice deve rimettere in decisione (111 comma 2). Questione problematica: un nuovo orientamento giurisprudenziale (es. sentenza recente delle Sezioni Unite sul divorzio e l’ammontare dell’assegno divorzile) è un’innovazione normativa? Non esattamente, la legge è sempre la stessa. Nonostante questo, secondo il prof. il nuovo orientamento 86 giurisprudenziale ha un suo peso. E in base a quale argomentazione? La Corte costituzionale, per procedere al sindacato di legittimità costituzionale su una norma, richiede che su quella questione si sia previamente formato il c.d. diritto vivente. Dunque, se la Corte costituzionale richiede il diritto vivente, significa che il diritto vivente esiste. Quindi significa che il precedente giurisprudenziale e un orientamento consolidato sono “diritto vivente”. Però qui c’è un altro profilo a cui prestare attenzione: il profilo temporale. Questi sono rapporti di durata (assegno divorzile). Il fatto che siano rapporti di durata dà luogo a certe situazioni che o vogliamo fare i “geometri del diritto”, oppure dobbiamo necessariamente tenerne conto. Se la sentenza delle Sezioni Unite con cui si stabilisce il nuovo ammontare dell’assegno divorzile viene emessa a maggio e io mi separo ad aprile dovrò pagare ad es. 1000€ al mese al mio ex coniuge, da qui fino alla tomba; se invece mi separo a giugno magari non devo pagare nulla. Vi sembra possibile che l’ordinamento tolleri una situazione del genere? È intollerabile, anche ai sensi della Costituzione (art. 3): due situazioni sono le medesime, sono entrambe dei rapporti di durata, eppure sono trattate in modi completamente diversi. 23 marzo 2018 Abbiamo visto come si coordina un giudizio già concluso e passato in giudicato con un successivo giudizio, allorquando questo successivo giudizio abbia ad oggetto il medesimo rapporto giuridico sostanziale o un diverso rapporto giuridico sostanziale che però è legato al primo da un nesso di pregiudizialità-dipendenza. Da questo punto di vista, il giudicato costituisce uno degli strumenti che il nostro ordinamento appresta per coordinare non solo diverse decisioni, ma anche diversi procedimenti giurisdizionali che abbiano dei gradi di interferenza reciproca. Adesso occorre andare a esaminare tutta una serie di istituti che parimenti cercano di operare un coordinamento tra diversi procedimenti, quando questi procedimenti non si siano già conclusi con una sentenza non passata in giudicato. COORDINAMENTO TRA DUE PROCEDIMENTI NON CONCLUSI CON SENTENZA PASSATA IN GIUDICATO Questi meccanismi di coordinamento riguardano: 1) Ovviamente, i procedimenti che hanno lo stesso oggetto; 2) ma anche i casi nei quali l’oggetto è diverso ma sussiste una relazione (che noi chiamiamo “connessione”) tra i diversi diritti dedotti in causa. In questo senso, il primo istituto da affrontare è la LITISPENDENZA, articolo 39 comma 1. Es: ho due giudici parimenti competenti (ci sono infatti dei fori alternativi); posso proporre la domanda a due giudici, quindi può accadere che una parte avvii la controversia davanti ad uno e l’altra parte davanti all’altro. Quindi può accadere che siano avviati due distinti procedimenti aventi lo stesso oggetto. Come evitare che si svolgano due procedimenti che hanno lo stesso oggetto e che si giunga a due sentenze con lo stesso oggetto? CRITERIO DELLA PREVENZIONE: il giudice competente 87 è il primo che è stato adito, mentre il secondo dichiara litispendenza e ordina la cancellazione della causa. Va tra l’altro precisato che questa norma si applica nel caso in cui la domanda sia proposta a uffici giudiziari differenti: se l’ufficio giudiziario è il medesimo opera l’articolo 273 comma 1. Per determinare se la causa/l’oggetto/il diritto dedotto in giudizio è il medesimo, si applicano i criteri di identificazione delle azioni. Può verificarsi che le due cause pendano davanti a uffici giudiziari diversi, però una in 1° grado e l’altra in appello; in questo caso si parla di “litispendenza attenuata” e la regola che la giurisprudenza predispone è di sospendere la causa di 1° grado (regola della sospensione necessaria: articolo 295). Per determinare chi sia il giudice previamente adito, occorre comprendere quale causa sia stata iniziata prima, e se abbiamo a che fare con un procedimento avviato mediante citazione a udienza fissa, la prevenzione si misura sulla base della notificazione dell’atto di citazione; se invece il procedimento si introduce con ricorso, si dà rilievo al deposito del ricorso, e non alla notificazione. Articolo 39 comma 2: fattispecie simile, ovvero la CONTINENZA, che in realtà è una forma di litispendenza. Il problema di questa norma è che non c’è una definizione di continenza nel codice, ed è anche difficile capire questo concetto, perché le ipotesi sono due: o abbiamo lo stesso rapporto giuridico (lo stesso diritto soggettivo), o abbiamo un rapporto giuridico diverso, quindi quand’è che una causa “contiene” un’altra? Non è semplice: o il diritto è lo stesso, e dunque la causa è la stessa, o è diverso. Es. se chiedo un risarcimento per 5000€ e da un’altra parte propongo la domanda per chiedere un risarcimento per 30.000€, non stiamo parlando di due cause diverse, è sempre lo stesso diritto, cioè il diritto al risarcimento, ma occorre comprendere per quale ammontare. In questa incertezza, in realtà se ne ha un’applicazione non molto appagante sul piano tecnico. Un caso tipico è l’esempio che vi ho fatto: da una parte si chiede il risarcimento del danno per una somma, dall’altra si chiede il risarcimento del danno per una somma maggiore. In questi casi si dice che una causa contiene l’altra. Il concetto di continenza qui in realtà serve per capire quale delle due cause rimane in piedi: visto che il diritto è lo stesso ma il valore è diverso, può emergere un problema di competenza. Nell’esempio di prima, è competente il giudice di pace o il tribunale? La competenza dell’uno e dell’altro dipende dall’ammontare della somma. Quale criterio applica l’articolo 39 comma 2? Sempre il criterio della prevenzione: decide la causa il giudice previamente adito. Però la norma tiene conto della possibilità che il giudice previamente adito (es. il giudice di pace) non sia competente anche per la seconda causa, allora in questi casi il giudice previamente adito si spoglia della causa, e la causa sarà decisa da quello successivamente adito ma competente per la causa più grande. Quindi la continenza è una forma particolare di litispendenza, ma ha un rilievo diverso perché c’è questa regola particolare che cerca di risolvere il problema dell’eventuale incompetenza del giudice previamente adito. LITISPENDENZA E CONNESSIONE Quindi nella litispendenza, e direi anche nella continenza, noi abbiamo una relazione di identità tra le due cause: la causa è la stessa. 90 incontro a un processo in cui il giudice si indirizza in maniera diversa. È quanto di più naturale può accadere nel processo. Vista questa relazione, l’ordinamento cerca, per quanto possibile, di apprestare una serie di regole processuali dirette a realizzare una trattazione e una DECISIONE CONGIUNTA delle diverse controversie, ovvero un simultaneus processus (= non facciamo tanti processi separati, facciamone uno in cui si risolvono tutte le diverse controversie, così da non avere un contrasto né pratico, né logico, né puramente fattuale e di accertamento.). Ovviamente l’esigenza di trattazione congiunta è maggiore quando la connessione è maggiore, è minore quando la connessione è più debole. Quando la connessione è più debole rischiamo di mettere insieme due controversie che sotto un altro profilo sono molto diverse l’una dall’altra, es. una è molto semplice e si decide rapidmente, l’altra è molto complessa e richiede molto tempo: in questo caso si aggraverebbe la causa più semplice, quindi se la connessione non è molto forte è opportuno trattarle separatamente, risolvendo in minor tempo quella più semplice. Quindi, affrontando questo discorso in linea generale, ci rendiamo conto che ci sono diversi obiettivi che il nostro ordinamento può perseguire, e occorre comprendere come, sul piano della disciplina normativa, la legge processuale appresta dei meccanismi che sappiano rispondere con elasticità al diverso atteggiarsi delle situazioni. Tuttavia, esaminando la disciplina normativa, ci rendiamo conto che essa non è sempre organica e sistematicamente ordinata, quindi non è sempre facile trarre delle regole di ordine generale. IL CUMULO OGGETTIVO È quando il nostro ordinamento processuale consente, tra le stesse parti, di proporre più domande, quindi di dedurre più oggetti all’interno del giudizio. Articolo 104: è una regola di ordine generale; la mera connessione soggettiva consente di proporre più domande. L’attore cioè può, nello stesso processo, proporre più domande nei confronti del convenuto (ovviamente solo se il giudice è competente per tutte le cause). Questo purché sia osservato l’art. 10 comma 2. L’articolo 10 al secondo comma dice che quando sono proposte più domande, ai fini della competenza per valore, le diverse domande si sommano tra di loro. Quindi ad es. se fosse stata proposta un’unica domanda sarebbe stato competente il giudice di pace; siccome ne propongo due, sommate tra di loro queste comportano la competenza del tribunale. Le altre norme che affrontano la possibilità di proporre più domande tra le stesse parti all’interno del medesimo giudizio le troviamo agli articoli 31 ss. Articolo 31: la domanda accessoria è tipicamente la domanda sugli interessi, quindi una domanda connessa per pregiudizialità-dipendenza. La parte che voglia proporre entrambe le domande, dovrà proporle davanti al primo giudice, con una deroga che coinvolge anche la competenza territoriale. Gli articoli 32 e 33 non ci interessano. 91 L’articolo 34 riguarda ancora i rapporti connessi per pregiudizialità-dipendenza. Anche in questo caso c’è la possibilità di avere una deroga per materia o per valore, perché quando si estende l’oggetto anche alla pregiudiziale si passa al giudice superiore. Articolo 35: abbiamo ancora pregiudizialità-dipendenza, ma abbiamo una pregiudizialità-dipendenza per incompatibilità. Cioè abbiamo un processo in cui viene proposto un controcredito in via d’eccezione  l’attore contesta la sussistenza del controcredito  a questo punto il giudice è tenuto ad accertarlo (deroga al principio della ragione più liquida). Il 35 cosa dice? Se la causa principale la posso decidere rapidamente, seguo una strada; se la causa principale invece è complessa, ne seguo un’altra, sempre ovviamente nel caso in cui il giudice non sia competente anche a decidere la causa relativa al controcredito (altrimenti il problema non si pone: la norma prevede anche in questo caso delle deroghe alle norme sulla competenza e cerca di consentire il simultaneus processus). Quindi se è contestato il controcredito, scatta il meccanismo; questo meccanismo però scatta solo se il giudice non è competente a decidere sul controcredito, altrimenti deciderà entrambe le controversie. Se non è competente a risolvere anche la causa opposta in compensazione, allora occorre distinguere: se la causa principale si accerta facilmente (e quindi “la domanda è fondata su un titolo non controverso o facilmente accertabile”), il giudice decide la causa principale e rimette le parti (relativamente al credito opposto) in compensazione davanti al giudice competente. In questo caso avremo una sentenza di condanna sulla causa principale che non avremmo probabilmente ottenuto laddove fosse stata esaminata la causa relativa al controcredito. Allora la norma, proprio per questa ragione, prevede la possibilità che l’esecuzione della sentenza sia soggetta ad adeguata prestazione di cauzione. Esempio: io chiedo 100, mi viene opposto 1000. Quando oppongo 1000, è perché non voglio pagare niente. Ipotesi 1: il giudice è competente a decidere sia 100 che 1000  deciderà tutto lui, non si pone il problema. Ipotesi 2: il giudice non è competente a decidere 1000  esamina solo 100  è facilmente risolvibile? o non lo è?  se riesce a risolvere rapidamente la causa da 100, decide quella, e rimette quella da 1000 davanti a un altro giudice, il giudice competente (es. giudice di pace rimette al tribunale la causa opposta in compensazione). Però cosa succede se opera in questi termini? Lui va a pronunciare una sentenza di condanna per 100 (che quindi potrà essere spesa sul piano esecutivo) quando in realtà, se avesse esaminato la causa opposta in compensazione, probabilmente nessuna sentenza sarebbe stata pronunciata. Infatti se il giudice esamina l’altra causa e vede che sono dovuti 1000, non pronuncerà mai la sentenza di condanna per 100, anzi. Allora qual è il rischio? Il rischio è che io ti condanno a pagare 100, intanto viene messa in esecuzione quella sentenza, e poi tu dovrai nuovamente andare a recuperare quei 100 che hai dato e non avresti dovuto dare. Per evitare di ledere il diritto di difesa della parte che ha sollevato l’eccezione di compensazione, c’è la cauzione: la parte che ottiene la condanna al pagamento della somma dovrà prestare qualche cauzione, es. andare in un istituto di credito e farsi rilasciare una fideiussione a prima richiesta a favore del convenuto. La regola generale è quella per cui, secondo il principio della domanda, il giudice deve pronunciarsi anche sulle eccezioni: qui invece si opera una frattura, perché abbiamo un giudice che si pronuncia sulla domanda (ed eventualmente condanna), e che rimette ad un altro giudice l’esame dell’eccezione (cioè il controcredito). Qual è il “problema” di questa norma? Che parla di un’eccezione, cioè l’eccezione di compensazione (come tale finalizzata esclusivamente al rigetto della domanda), e nello 92 stesso tempo parla di “competenza”; tuttavia la competenza del giudice non si commisura mai sulle eccezioni (per quanto possa essere grande il loro valore), ma solo sulla domanda. Tuttavia, dato che il codice dice che la causa deve essere rimessa al giudice competente, ciò significa che quando vado a contestare l’eccezione di compensazione, la legge la tratta come se fosse una domanda riconvenzionale. Quindi la contestazione determina il trattamento dell’eccezione come se fosse una domanda riconvenzionale. Attenzione, questo non accade se l’eccezione non è contestata, né se è assorbita (cioè non esaminata); se invece è contestata ed esaminata, allora viene trattata come se fosse una domanda, quindi con efficacia di giudicato. Quando il giudice non è competente per decidere sull’eccezione, nel caso in cui la causa principale sia facilmente risolvibile e viene in ipotesi pronunciata una condanna per 100, allora qual è il problema? Che io separo ciò che non andava separato, e il convenuto potrebbe essere esposto a dover pagare 100 per poi ottenerli indietro. Allora il legislatore dice: ok, consento di dissolvere subito la causa principale, però il giudice dovrà imporre all’attore (ovvero condizionare l’efficacia esecutiva della sentenza) al pagamento o alla prestazione di una cauzione. Cosa accade se invece il giudice si rende conto che pure questa causa è complessa? Tutto il “pacchetto” va al giudice superiore, e non ci sarà questa frazione. Articolo 36: riguardo questa norma c’è un contrasto tra dottrina e giurisprudenza. La giurisprudenza ritiene che questa norma si applichi solo quando c’è un contrasto di competenza, mentre la dottrina ritiene che questa norma indichi i criteri generali (quindi a prescindere dalla competenza) di ammissibilità della domanda riconvenzionale. Quindi per la dottrina (il prof non è d’accordo) il convenuto può proporre le domande riconvenzionali che siano connesse per il titolo in via d’eccezione e non altre, anche nei confronti di un giudice potenzialmente competente per tutte le cause riconvenzionali; quindi l’articolo 36, prima ancora che una regola di competenza, è un limite di ammissibilità di tutte le domande riconvenzionali. Per la giurisprudenza invece il 36 si applica solo quando c’è un problema di competenza; quindi, di regola le parti sono libere di proporre tutti i tipi di domande riconvenzionali che ritengono, anche non connesse (cioè che siano connesse solo in via soggettiva). Dunque quando la domanda riconvenzionale sia connessa nei termini detti e il giudice della causa principale non è competente anche per quella riconvenzionale, si potrà verificare o la rimessione al giudice competente per entrambe oppure quel frazionamento che abbiamo visto poco fa (= il giudice della causa principale e di agevole soluzione decide quella e rinvia ad altro giudice solo per la riconvenzionale, o le rimette entrambe all’altro giudice competente per entrambe qualora la causa principale sia complessa). Queste norme affrontano il problema del cumulo nel caso in cui ci troviamo davanti a un giudice e le parti vogliano proporre altre domande rispetto alla causa principale davanti a quel medesimo giudice. C’è poi un’altra norma nel nostro codice (articolo 40) che si occupa del caso in cui le due domande connesse siano proposte davanti a giudici diversi. Le norme viste decidono i casi in cui l’attore sin dall’inizio proponga più domande connesse; oppure il caso in cui l’attore proponga una domanda e il convenuto risponde. Il 40 invece si occupa del caso in cui una parte proponga la domanda davanti a un giudice e l’altra parte proponga la domanda connessa davanti a un altro giudice (quindi è una fattispecie processuale diversa). La regola è quella 95 più convenuti che ricevono la domanda da parte di un unico attore, o infine quando più attori propongono la domanda nei confronti di più convenuti. Il litisconsorzio può essere facoltativo o necessario. “Litisconsorzio” significa comunanza di causa, significa che la causa pende tra più parti. È facoltativo quando le parti scelgono, secondo criteri che possiamo definire di opportunità, di avanzare la domanda nei confronti di più convenuti, oppure quando sono più attori che la propongono nei confronti di un unico convenuto. È necessario invece quando necessariamente la domanda deve essere proposta da più persone o contro più persone: se ciò non avviene la domanda, come vedremo in seguito, è viziata, quindi il processo non può arrivare a conclusione. In questa prima parte analizzeremo il LITISCONSORZIO FACOLTATIVO. Il litisconsorzio facoltativo può essere: - Iniziale, quando fin dall’inizio il processo parte con più soggetti; - Successivo, quando poi intervengono diversi soggetti. IL LITISCONSORZIO FACOLTATIVO INIZIALE L’articolo di riferimento è l’articolo 103 comma 1. Questo articolo richiama quello che ho già detto: “più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo ”. Questo articolo è importante perché detta la regola: quando più parti possono agire o essere convenute nello stesso giudizio? Quando esiste una connessione per l’oggetto o per il titolo, e queste sono le prime due ipotesi. Poi ce n’è una terza (c.d. connessione impropria), cioè quando la decisione dipende totalmente o parzialmente da identiche questioni.  Connessione per l’oggetto e per il titolo Quando una causa può essere connessa per l’oggetto? Che cos’è l’oggetto del processo? L’oggetto sarebbe il bene della vita, cioè quello che l’attore vuole conseguire proponendo la domanda in giudizio. Es. c’è una casa di cui è controversa la proprietà. Tizio agisce in giudizio affinché venga riconosciuta la proprietà della sua casa nei confronti del convenuto Caio. Qual è l’oggetto di questo processo? La casa. In questo stesso esempio, qual è il titolo che l’attore potrebbe far valere in giudizio? Il diritto di proprietà: il titolo non è altro che la causa che giustifica la sussistenza del diritto, quindi l’accoglimento della domanda che l’attore propone.  Connessione impropria Questo è un tipo di connessione più “leggera” rispetto alle altre due. La connessione è impropria quando bisogna risolvere identiche questioni. Il concetto di “questione” è un minus rispetto all’oggetto del processo e al titolo per il quale si fa valere la domanda; è un “frammento” di questo processo. Voi sapete che per poter accertare un diritto c’è bisogno che sussistano tutti i fatti costitutivi del diritto e che non sussistano le fattispecie modificative, impeditive ed estintive di questo diritto: la questione potrebbe essere una singola ipotesi all’interno di un fatto costitutivo. Es. un lavoratore è stato assunto da un datore di lavoro, quindi c’è un contratto di lavoro che regola il loro 96 rapporto. Ma se per uno stesso datore di lavoro lavorano più lavoratori, è probabile che tutti abbiano sottoscritto il medesimo contratto di lavoro, che avrà le stesse clausole. Se sorge un problema interpretativo circa una clausola di questo contratto, siamo di fronte ad una classica questione da risolvere per poi andare avanti e dimostrare la sussistenza di quel diritto, e se più lavoratori hanno sottoscritto lo stesso contratto ci saranno tante identiche questioni: tutti i lavoratori che vogliono far causa al datore di lavoro, per poter vincere dovranno prima dimostrare che quella clausola si interpreta come vogliono loro, e non come sostiene il datore di lavoro. Queste sono le c.d. identiche questioni. Questo è il litisconsorzio iniziale. Però, proseguendo la lettura della norma, noi sappiamo che questo processo inizia con più parti, ma proprio perché il litisconsorzio è facoltativo non è detto che poi tutte queste parti arrivino in fondo insieme. Articolo 103 comma 2. Questo comma indica dei presupposti in base ai quali questo processo, seppure parta con litisconsorzio, poi arriva solo con due parti. La prima ipotesi è quando la continuazione della causa ritarderebbe o renderebbe più gravoso il processo: possiamo pensare ad un processo che sia tra più parti e che conseguentemente abbia anche più oggetti. Se un processo ha più oggetti, potrebbe essere che una domanda sia più semplice da risolvere e un’altra più complicata; potrebbe essere che un diritto è pacifico tra le parti mentre un altro è controverso, e quindi ci saranno da assumere testimonianze e fare istruzioni probatorie, ed è per questo che il giudice ha la possibilità di scindere le cause, e ognuna andrà per la sua strada. Stesso discorso quando renderebbe più gravoso il processo; il ritardo è dovuto all’assunzione di prove rispetto ad una domanda e non rispetto all’altra, la gravosità “contiene” la possibilità che il processo ritardi, ma potrebbe anche accadere che ci siano altre ipotesi che portano il giudice a decidere di separare i due processi. IL LITISCONSORZIO FACOLTATIVO SUCCESSIVO Il caso è quello in cui una domanda da parte dell’attore nei confronti del convenuto a un certo punto muta, poiché qualcuno interviene nel processo (dopo che questo è iniziato). Quindi abbiamo un terzo che, intervenendo nel processo, diventa parte, e diventando “parte” (non importa se attore o convenuto) si assiste a un aumento del numero di parti (dalle due iniziali a un numero X). In questi casi il litisconsorzio è successivo e si ha per INTERVENTO: gli articoli 105, 106, 107 ci fanno capire i tre tipi di intervento ammissibili nel nostro ordinamento.  ARTICOLO 105, INTERVENTO C.D. VOLONTARIO Questo articolo si compone di due commi, e possiamo fare una prima distinzione tra il primo e il secondo comma. Qual è la differenza? È lo stesso tipo di intervento? No, questi due commi parlano di due tipi diversi di intervento. L’intervento disciplinato al primo comma è l’intervento di chi fa valere in giudizio un suo diritto nei confronti di tutte le parti o solo di alcune di esse, quindi è un intervento volontario da parte di un soggetto che fa valere un proprio diritto, e ci illustra due ipotesi: (1) diritto fatto valere contro tutti, quindi contro tutti quelli che sono già parti del processo (sia l’attore che il convenuto); (2) diritto fatto valere solo nei confronti di una di esse. Il secondo comma invece parla dell’intervento del terzo che 97 vuole sostenere le ragioni di alcuna delle parti: qui non c’è un diritto che il terzo fa valere in giudizio quando interviene. Il terzo interviene per appoggiare una delle parti. È per questo motivo che in dottrina si distingue tra primo e secondo comma, e si dice che il primo comma tratta di ipotesi di intervento volontario innovativo: il terzo che interviene fa valere un suo diritto, e se questo diritto si aggiunge a quello che era già l’oggetto del processo noi abbiamo un mutamento in senso ampliativo del processo (non è più la controversia tra A e B per la proprietà della casa, ma sarà la controversia che vedrà contrapposti tre soggetti, in cui il terzo soggetto fa valere un suo diritto autonomo, quindi il processo si allarga, l’oggetto si allarga, e anche la cognizione del giudice si allarga). Il secondo comma tratta invece di un intervento che viene definito non innovativo, cioè semplicemente si sostengono quelle che potrebbero essere le ragioni dell’accoglimento della domanda dell’attore/del rigetto della domanda. INTERVENTO VOLONTARIO INNOVATIVO (COMMA 1) Il primo comma quindi in realtà tratta di due situazioni diverse: (1) il caso in cui il terzo, intervenendo, fa valere un diritto indipendente e autonomo nei confronti di tutti, oppure (2) il caso in cui il terzo fa valere un diritto solo nei confronti di una delle parti. Il primo caso del 105 è un intervento innovativo ad escludendum o principale, perché diventano tutti contro tutti. Es. la casa in contesa tra i soggetti A e B: ci sono ragioni a sostegno del fatto che la compravendita sia viziata, ci sono ragioni a sostegno del fatto che la compravendita sia legittima, e quindi di conseguenza si sta discutendo se questa casa appartenga ad A o a B. A un certo punto arriva C e fa valere un diritto che elimina la contesa tra gli altri due: se vince C in questo processo, la casa è sua, e A e B perdono. C potrebbe far valere un diritto di usucapione che ha maturato, un acquisto a titolo originario (diversamente dalla compravendita, modalità di acquisto a titolo derivativo). Chi ha comprato la casa con un contratto di compravendita, a fronte di un’usucapione maturata, soccombe. Che succede se C non interviene? Ci sarebbe qualche problema per lui? Poniamo che C abbia usucapito, quindi è lui il proprietario, e lo è a titolo originario; sposta qualcosa se non interviene nel processo? Subisce dei pregiudizi? No, non potrà subire dei pregiudizi perché comunque la casa è sua, e non potrà subire pregiudizi perché ci sono principi costituzionali che tutelano il suo diritto di azione e difesa in giudizio: un processo che accerta la qualità di proprietario in capo a B o in capo ad A ma nel quale C non ha preso parte non potrà vincolarlo, perché si violerebbe il principio del contraddittorio nei confronti di C. Ma non solo: l’accertamento comunque sarebbe limitato a un acquisto a titolo derivativo, e sappiamo che l’acquisto a titolo originario per diritto sostanziale prevale. Quindi questa possibilità di intervento, a vedere bene, è solo una facoltà, e chiaramente è una possibilità che il legislatore dà a C per ragioni pratiche: è vero che C sarà sempre e comunque proprietario, ma prima che si instauri un nuovo processo, che si chiamino in causa A e B, che si faccia valere l’usucapione possono passare decenni, e quindi il legislatore consente a C di intervenire sin da subito. L’importante però è sapere che anche nel caso in cui C decida di non intervenire, oppure proprio non sappia dell’esistenza del processo, non subirà alcun pregiudizio, o perché potrà sempre instaurare un altro processo, oppure perché promuove un’opposizione di terzo (articolo 404 comma 1, che faremo più in là). Il concetto importante quindi è questo: si può intervenire, ma se non si interviene c’è comunque la possibilità di recuperare la tutela che non si è avuta in quel momento.
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