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Procedura Civile Balena 1, Sintesi del corso di Diritto Processuale Civile

Procedura Civile Balena 1, Principi di Processuale civile anno 2019/20

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 06/06/2020

david-torrieri
david-torrieri 🇮🇹

4.5

(75)

6 documenti

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Scarica Procedura Civile Balena 1 e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! IL DIRITTO PROCESSUALE CIVILE E LA FUNZIONE GIURISDIZIONALE Le fonti del diritto processuale civile sono: la Costituzione, le carte internazionali dei diritti vigenti in Italia, il Codice di procedura civile con le relative disposizioni attuative e la normativa sull’ordinamento giudiziario. Il diritto processuale civile e la giurisdizione Il diritto processuale è la branca del diritto che disciplina l’insieme dei procedimenti con i quali si esercita la giurisdizione, che costituisce una delle funzioni essenziali dello Stato insieme a quella legislativa e amministrativa. Il diritto sostanziale regola in astratto tutti i conflitti tra soggetti con l’attribuzione di posizioni di vantaggio (diritti, poteri, facoltà) o svantaggio (doveri, obblighi, soggezioni); il diritto processuale disciplina l’intervento del giudice quando sia necessario per rendere concreto ed effettivo l’assetto degli interessi prospettato dal legislatore sostanziale. Si tende a dire che il diritto processuale è strumentale rispetto al diritto sostanziale. Strumentalità significa che il diritto processuale mira a consentire l’attuazione del diritto sostanziale in assenza di cooperazione dell’obbligato, ma tale strumentalità non significa una posizione secondaria, infatti l’impostazione più corretta è quella secondo la quale vi è interdipendenza tra diritto processuale e sostanziale. Sul piano oggettivo il c.p.c. riconduce alla giurisdizione due fenomeni, la giurisdizione contenziosa e quella volontaria. Quest’ultima è molto vicina, dal punto di vista funzionale, all’attività amministrativa dello Stato; - vi sono organi che, pur essendo estranei alla giurisdizione (es. Autorità garante delle comunicazioni o della concorrenza e del mercato), si vedono attribuire funzioni consistenti nella composizione di conflitti e controversie tra privati o irrogazione sanzioni per violazione dei precetti, che sono tipiche dell’attività giurisdizionale. Sembra preferibile, quindi, privilegiare l’aspetto soggettivo, per cui è attività giurisdizionale quella che il legislatore ha espressamente qualificato come tale e che promana dal giudice. Art. 102 Cost.: “la funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati ordinari istituti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario” ed è escluso, quindi, ogni altro organo non appartenente alla magistratura. Questo non significa, però, che ogni atto emanato da un ufficio giudiziario abbia natura giurisdizionale, perché è frequente che alcuni organi accentrino funzioni giurisdizionale ed amministrative insieme, come ad esempio il presidente del tribunale che pur investito di compiti puramente giurisdizionali, esercita attività amministrativa in materia di direzione ed organizzazione degli uffici. L’attività giurisdizionale si distingue in giurisdizione contenziosa e giurisdizione volontaria. La giurisdizione contenziosa Obiettivo tipico dell’attività giurisdizionale è quello di attuare il diritto sostanziale nel caso in cui sorgano conflitti intersoggettivi. Il diritto sostanziale attribuisce situazioni giuridiche soggettive attive (diritti, poteri, facoltà ecc) e corrispondenti situazioni giuridiche soggettive passive (doveri, obblighi, soggezioni, oneri), es chi ha subito un danno ingiusto ha il diritto di vederselo risarcire da colui che l’abbia determinato con un proprio comportamento doloso o colposo ex art 2043 cc. Nella maggior parte dei casi il titolare del diritto riesce a realizzare il vantaggio a lui assicurato dal diritto sostanziale, grazie al comportamento dell’obbligato che effettua la prestazione di dare o fare, o si astiene da compiere atti che possono turbare il godimento dei diritti altrui; in altri casi, invece, questo non avviene per il sorgere di contrasti circa l’applicazione delle norme sostanziali o per la c.d. crisi di cooperazione da parte del soggetto obbligato, il quale cioè omette di tenere il comportamento dovuto che sarebbe necessario per realizzare l’interesse del titolare del diritto. In questi casi il conflitto potrebbe essere ricomposto autonomamente dalle parti utilizzando strumenti offerti proprio dal diritto soggettivo (es. transazione) oppure è possibile che vi sia l’inerzia del soggetto che potrebbe reagire (es creditore insoddisfatto) e rimanga inerte di fronte al illegittimo comportamento dell’altra parte; in questi casi l’ordinamento non interviene sul modo di risoluzione del conflitto perché gli interessi coinvolti sono privati e solo le parti possono invocarne la tutela. La giurisdizione interviene quando in presenza di un conflitto, il titolare del diritto ne lamenti la lesione chieda tutela all’ordinamento (chiede cioè di assicurargli la soddisfazione del proprio interesse), facendo a meno della cooperazione del soggetto obbligato. Si rende così necessario il ricorso al processo nel quale il giudice, organo pubblico autonomo, indipendente ed imparziale, accerta l’esistenza del diritto leso verificando i presupposti ai quali la norma sostanziale subordina il diritto stesso, e successivamente il giudice è chiamato ad assicurare che il diritto stesso, possa essere attuato pur contro la volontà del soggetto che l’aveva leso. Tale giurisdizione è detta contenziosa perché presuppone un l’esistenza di un conflitto intersoggettivo ed ha come obiettivo la risoluzione in via autoritativa del conflitto stesso. Il diritto d’azione (art. 24 Cost.) ed i suoi possibili condizionamenti La funzione della giurisdizione contenziosa è secondaria e strumentale al diritto sostanziale e la sua giustificazione stà nel c.d. divieto di autotutela disciplinato dagli artt. 392 e 393 c.p., per i quali è sanzionato ogni esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza a cose o persone. La giurisdizione contenziosa trova riconoscimento nella nostra Cost.: - art. 24 “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”. - art. 113 “contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa”. La Cost., quindi, consacra un autonomo diritto, c.d. diritto di azione che ha natura strumentale rispetto ai diritti attribuiti dal diritto sostanziale il che significa che: al riconoscimento di un diritto da parte di una norma sostanziale, si accompagna automaticamente, il riconoscimento di adire l’autorità giudiziaria per ottenerne la tutela (c.d. atipicità del diritto d’azione). Il diritto di ricorrere al giudice, però, potrebbe essere subordinato a condizioni, modalità o limitazioni (c.d. giurisdizione condizionata) e, in questo caso, si deve stabilire se questa “compressione” del diritto d’azione sia compatibile con quanto previsto dalla Cost. L’orientamento della C.C. è quello del bilanciamento degli interessi coinvolti, con la valutazione della ragionevolezza della limitazione in rapporto ad altri principi cost., principalmente quello dell’uguaglianza sostanziale (art. 3 c. 2 Cost.). La tutela giurisdizionale c.d. differenziata All'art. 24 Cost., in combinazione col fondamentale principio di eguaglianza consacrato nell'art. 3 Cost. si riconduce l'effettività della tutela giurisdizionale, a cui si dovrebbe conformare l'attività del legislatore processuale. Dalla riforma del processo del lavoro, 1973, la dottrina ha ritenuto che la tutela giurisdizionale differenziata, cioè la previsione di forme e strumenti processuali più o meno diversificati a seconda delle varie situazioni soggettive dedotte in giudizio, fosse non solo legittima, ma anche doverosa alla luce dei principi costituzionali, poiché tenendo conto delle peculiarità dei diritti per i quali veniva invocata la tutela, fa si che tale tutela risulti concretamente utile all'attore per conseguire le utilità e i vantaggi assicurategli in astratto dal diritto sostanziale. (tutela giurisdizionale c.d. Differenziata) La diversificazione degli strumenti processuali è del tutto legittima ma deve confrontarsi in concreto con il principio di eguaglianza consacrato dall'art. 3, 2°co., Cost., che impone di valutare la ragionevolezza del trattamento processuale differenziato, e con il principio della parità delle armi tra le parti recepito dall'art. 111 co 2° Cost. riformato. Cognizione ordinaria e sommaria La tutela cognitiva può esercitarsi in varie forme e modi, occorre distinguere tra cognizione ordinaria e sommaria. Si parla di cognizione ordinaria come di cognizione piena ed esauriente, con riferimento a tutti i processi caratterizzati da un complesso di esaurienti garanzie, così che la decisione sia fornita di massima affidabilità ed attendibilità, e le sia attribuibile l'autorità di cosa giudicata a norma dell'art. 2909 c.c.. Tali garanzie riguardano sia l'attività delle parti, assicurando la piena realizzazione del principio del contraddittorio, sia all'attività del giudice, consentendo l'approfondita conoscenza dei fatti rilevanti per la decisione e prevedendo un sistema di rimedi (impugnazioni) contro eventuali errori dello stesso giudice. Occorre tener presente che il concetto di cognizione ordinaria è diverso da quello di processo ordinario. Il processo ordinario è il processo-tipo per la tutela di qualsiasi diritto per cui non sia previsto un rito diverso e rappresenta uno dei tanti processi a cognizione ordinaria previsti dall’ordinamento. La cognizione sommaria è quella che invece non fornisce eguali garanzie di attendibilità ed affidabilità del risultato finale, e può derivare da modalità semplificate di attuazione del contraddittorio o dalla sua esclusione (es: processo di ingiunzione, si arriva a provv. Condanna senza che il debitore sia sentito); dal tipo di prove che il giudice può utilizzare per formare il proprio convincimento; dal fatto che il provvedimento di accoglimento della domanda si fondi esclusivamente su un comportamento processuale del convenuto, che di regola non sarebbe sufficiente per decidere (es: convalida di sfratto, se il convenuto omette di comparire); dalla circostanza che l'accertamento del giudice riguardi alcuni soltanto dei fatti rilevanti per la decisione. Il provvedimento tipicamente idoneo al giudicato è la sentenza, quindi la circostanza che per la definizione del processo sia prevista la pronuncia di una sentenza lascia intendere che debba fondarsi su una cognizione piena ed esauriente. La riforma del 2009 ha previsto che l'attore possa liberamente utilizzare, in luogo del processo ordinario, un diverso rito che lo stesso legislatore definisce “procedimento sommario di cognizione” che si conclude con una ordinanza pienamente idonea ad acquisire l'autorità della cosa giudicata ai sensi dell'art. 2909 c.c.. L'aggettivo sommario sta ad indicare non una cognizione qualitativamente meno approfondita ed affidabile di quella ordinaria, ma una semplificazione del procedimento. Le forme di tutela sommaria vanno sempre valutate in base alla loro compatibilità con gli art. 3 e 24 Cost., soprattutto dal punto di vista della tollerabilità della compressine che ne deriva al diritto di difesa del convenuto. La funzione della tutela sommaria, cautelare e non cautelare, ed il suo rapporto con la tutela ordinaria La tutela sommaria si distingue tra tutela sommaria cautelare e non cautelare. Differenza funzionale: La tutela sommaria cautelare è caratterizzata da un'accentuata strumentalità rispetto al processo a cognizione piena e al processo di esecuzione forzata. I provvedimenti cautelari servono essenzialmente ad impedire che, nel tempo occorrente a concludere il processo di cognizione, il diritto azionato subisca un pregiudizio non più rimediabile o che intervengano modificazioni tali da rendere sostanzialmente inutile per l'attore l'accoglimento della domanda (es si può ricorrere al sequestro conservativo per evitare che il debitore nelle more del processo possa svuotare il proprio patrimonio). La tutela sommaria non cautelare risponde invece a generiche esigenze di economicità della tutela giurisdizionale: offre una scorciatoia rispetto alla cognizione ordinaria quando ricorrono particolari situazioni che potrebbero rendere eccessivo o superfluo un provvedimento a cognizione piena ed esauriente (es quando l’attore dispone di una prova scritta del proprio credito). Differenza di contenuto (eventuale): Il provvedimento sommario non cautelare deve poter surrogare quello a cognizione piena, si ha quindi un'anticipazione degli effetti che deriverebbero da una sentenza di accoglimento della domanda. Il provvedimento cautelare ha contenuto vario, che non coincide necessariamente con quello a cognizione piena. Altra differenza è quella relativa al regime di stabilità del provvedimento (eventuale): A) Per quanto riguarda le relazioni fra la tutela sommaria non cautelare e la tutela ordinaria bisogna considerare che il più delle volte i procedimenti sommari sono del tutto autonomi, quanto all'instaurazione, rispetto al processo a cognizione piena ed esauriente, sebbene possano recuperare, su iniziativa del convenuto, le garanzie proprie della cognizione ordinaria. In questi casi è possibile che il convenuto rimanga inerte, dimostrando di non avere interesse ad una decisione a cognizione piena, ed allora il provvedimento sommario produce effetti simili a quelli di una sentenza passata in giudicato e offrendo quindi all’attore una tutela definitiva, corrispondente a quella che avrebbe potuto ottenere attraverso il processo ordinario; in questi casi si parla di provvedimenti sommari decisori. B) Può verificarsi che dopo la pronuncia del provvedimento sommario richiesto in via autonoma, per l'instaurazione del processo a cognizione piena non siano previsti termini perentori o sia escluso che la mancata reazione del convenuto attribuisca al provvedimento sommario l'autorità di accertamento e la stabilità proprie della sentenza passata in giudicato: in questo caso gli effetti del provvedimento sommario non sono limitati nel tempo, sicché l'autore riceve una tutela potenzialmente definitiva. Per ora l'unica fattispecie riconducibile a tale reazione è il procedimento possessorio ex art. 703. C) In altri casi il procedimento sommario, anziché nascere autonomamente, si innesta come procedimento incidentale in un processo di cognizione già instaurato, per anticipare gli effetti della sentenza di accoglimento della domanda, il processo è destinato a concludersi con una sentenza che sostituirà il provvedimento sommario, in questi casi si parla di provvedimenti anticipatorii. La tutela sommaria non cautelare quindi nasce sempre come tutela provvisoria, destinata ad essere rimpiazzata e superata dal successivo provvedimento a cognizione piena, idoneo al giudicato; ma se le parti rinunciano ad istaurare o a coltivare il processo a cognizione piena, può ambire a diventare definitiva; talvolta come nell’ipotesi di cui al punto A, addirittura nella stessa misura in cui è definitiva una sentenza passata in giudicato. La tutela cautelare invece dovrebbe produrre effetti per un tempo limitato, solo per il periodo occorrente ad instaurare o portare a compimento il processo a cognizione piena. In linea di principio quindi il provvedimento cautelare non dovrebbe mai sopravvivere al processo di cognizione piena né dovrebbe fornire una tutela definitiva, equivalente a quella ordinaria. Dopo la riforma del 2005 tale principio si applica solo ai provvedimenti cautelari conservativi, e non anche a quelli anticipatori; questi sono infatti assoggettati ad un regime simile a quello dei provvedimenti anticipatorii non cautelari: punti B e C. (la tutela cautelare è provvisoria perché produce effetti per un tempo limitato. - la tutela non cautelare nasce come provvisoria, cioè può essere superata da un successivo provvedimento a cognizione ordinaria, ma se le parti rinunciano ad instaurare il processo a cognizione piena, può fornire all’attore una tutela definitiva*). La tutela esecutiva La tutela esecutiva serve a garantire al titolare del diritto la concreta realizzazione del suo interesse, ossia il conseguimento del bene giuridico riconosciutogli dal diritto sostanziale, in via coattiva, attraverso un complesso di attività che possono essere meramente materiali ed implicare l'uso della forza, oppure possono produrre delle modificazioni giuridiche della sfera del soggetto esecutato. Condizione necessaria e sufficiente è il possesso di un titolo esecutivo da parte del creditore procedente. La nozione di titolo esecutivo però comprende solo e soltanto documenti che il legislatore considera esplicitamente tali. Norma di riferimento è l'art. 474, che enumera tre diverse categorie di titoli, giudiziali e stragiudiziali, ma non contiene un'elencazione esaustiva, rinvia semplicemente a “i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva”. Es di titoli giudiziali (cioè formati all'interno del processo di cognizione) sono le sentenze di condanna passate in giudicato, ma anche sentenze non ancora passate in giudicato o provvedimenti diversi dalla sentenza, che si basano su una cognizione meramente sommaria circa l'esistenza del diritto. La tutela esecutiva si esercita attraverso una pluralità di procedimenti, ordinari o speciali, a seconda del tipo di diritto cui occorre dare attuazione. L'espropriazione forzata serve a realizzare un diritto avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro; l'esecuzione in forma specifica, attraverso varie modalità, consente l'attuazione coattiva di un obbligo di rilasciare un immobile, di consegnare un bene mobile o di fare o disfare qualcosa. In ogni sua forma l'esecuzione forzata vera e propria implica un'attività di tipo sostitutivo e surrogatorio rispetto a quella del debitore: il suo limite è dato dagli obblighi che non ammettano una tale sostituzione, quindi infungibili, per i quali è essenziale ed irrinunciabile la cooperazione dell'obbligato. La tutela cautelare La tutela cautelare appronta una tutela essenzialmente provvisoria, finalizzata ad evitare che il diritto medesimo subisca, nel tempo occorrente per portare a compimento un processo di cognizione/ esecuzione, un danno o comunque un pregiudizio in tutto o in parte irreversibile ed irrimediabile, si da rendere inutile la tutela giurisdizionale. La tutela cautelare serve quindi ad assicurare l’esperimento del processo di cognizione nonché, eventualmente della successiva esecuzione forzata, ed è utilizzabile ancor prima che il processo di cognizione sia stato instaurato (misura cautelare ante causam). Si hanno due fasi, una di cognizione ed una invece di attuazione del provvedimento; tali fasi sono inscindibilmente collegata tra loro, la prima è priva di autonomia e serve solo a verificare la sussistenza delle condizioni cui è subordinata la concessione della misura cautelare. Tali condizioni sono il fumus boni iuris e il periculum in mora. Il periculum in mora indica che la misura cautelare presuppone una situazione di pericolo per il diritto tutelato; in generale può derivare dalla possibilità che la situazione di fatto venga alterata o modificata in modo irreversibile, pregiudicando la successiva attuazione coattiva del diritto (rispondono le misure cautelari conservative, dirette a cristallizzare la situazione), oppure dalla possibilità che, tenuto conto della natura e della funzione del diritto da tutelare, la sua soddisfazione tardiva risulti inutile per il creditore, o arrechi a questo un danno non compiutamente rimediabile ex post (si ricorre ai provvedimenti cautelari di tipo anticipatorio, in grado di produrre effetti in tutto o in parte analoghi a quelli che deriverebbero da una sentenza di accoglimento della domanda, anticipando il risultato che il titolare del diritto può sperare di conseguire al termine del processo ordinario di cognizione e di esecuzione). La condanna generica Di regola nel pronunciare la condanna il provvedimento del giudice deve determinare l’oggetto della prestazione cui il debitore è tenuto (in caso di inadempimento poi può seguire l’esecuzione forzata). Tuttavia, l’art. 278 co 1° prevede che: “quando è già accertata la sussistenza di un diritto, ma è ancora controversa la quantità della prestazione dovuta, il giudice, su istanza di parte, può limitarsi a pronunciare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione.”. La sentenza di condanna generica si limita ad accertare l'an del diritto alla prestazione (se sia dovuta o no), senza determinare invece il quantum, che sarà oggetto di una successiva sentenza. Trattandosi di una sentenza (anche se non definitiva), pone un punto fermo ed incontrovertibile (salvo impugnazione) sull'astratta sussistenza del diritto, che in molti casi costituisce il punto più controverso della causa. Secondo poi l'art. 2818 c.c. la sentenza che porti alla condanna al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente è titolo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale sui beni del debitore, e in tal caso è lo stesso creditore a poterne autonomamente determinare l'ammontare nell'apposita nota da presentare al conservatore dei registri immobiliari. La pronuncia della condanna generica non esclude che la successiva sentenza sul quantum accerti come eguale a zero la prestazione realmente dovuta e vanifichi ogni concreto effetto della prima sentenza (es negando che si sia verificato alcun danno). La condanna provvisionale L’art. 278 co 2° prevede che: il giudice su istanza di parte e alle stesse condizioni cui è subordianta la pronuncia della condanna generica, possa anche condannare il debitore al pagamento di una provvisionale, “nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova”. La sentenza di condanna provvisionale, a differenza di quella generica, è una condanna a tutti gli effetti che, per il quantum in essa accertato, non potrebbe essere rimessa in discussione, ad opera della sentenza definitiva di giudizio, e allo stesso tempo costituisce titolo per l'esecuzione forzata. Ci sono poi ipotesi in cui il legislatore prevede la pronuncia di condanne provvisionali con ordinanza anziché con sentenza, ad es. l'art. 423 co 2° nel processo del lavoro “il giudice può, su istanza del lavoratore, disporre con ordinanza il pagamento di una somma a titolo provvisorio quando ritenga il diritto già accertato e nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova”. In questi casi a differenza dell’ipotesi contemplata dall’art 278 si tratta di provvedimenti sommari, i quali quindi possono essere modificati dalla successiva sentenza a cognizione piena. La condanna con riserva di eccezioni In alcune ipotesi il legislatore prevede la condanna con riserva di eccezioni, il legislatore infatti prevede che: di fronte a determinate eccezioni del convenuto che non si prestano ad una pronta risoluzione, il giudice possa scindere l'oggetto della sua cognizione e decidere, accogliendo eventualmente la domanda e pronunciando condanna, senza tenere conto di tali eccezioni, che verranno esaminate in una fase successiva del giudizio. Si ha quindi una vera e propria condanna sommaria, essa conseguentemente deve considerarsi provvisoria e caducabile in relazione all'esito della successiva fase del processo deputata a valutare i fatti allegati dal debitore. La condanna in futuro Di regola la sentenza di condanna presuppone una lesione attuale del diritto, e dunque che si sia già verificato l'inadempimento. Vi sono però ipotesi in cui sono ammesse espressamente azioni miranti ad ottenere una condanna destinata ad operare in futuro, se e quando l'inadempimento dovesse realmente verificarsi. Es art. 657 consente al locatore di promuovere azione di rilascio, attraverso lo speciale procedimento per convalida di licenza o di sfratto, ancor prima che il contratto di locazione sia scaduto, così da procurarsi un provvedimento di condanna ed un titolo esecutivo che potrà utilizzare quando, allo scadere del termine, il conduttore non rilasci spontaneamente l'immobile. Il vantaggio che deriva all'autore dalla condanna in futuro è in primo luogo l'esistenza di un titolo esecutivo, con indubbia efficacia dissuasiva dell'inadempimento del debitore, quindi, qualora l'inadempimento si verifichi, il creditore non ha bisogno di altro tempo per poter accedere al processo esecutivo. La condanna in futuro, prescindendo dall'intervenuta violazione del diritto, non può impedire al debitore, nel momento in cui l'attore pretenda di porla in esecuzione, di contestare la sussistenza del proprio inadempimento. La condanna in futuro costituisce uno strumento eccezionale, circoscritto alle sole ipotesi espressamente previste dalla legge. Infine, possiamo dire che la dottrina riconduce alla categoria della condanna in futuro altre ipotesi, in cui la sentenza si pronuncia in relazione ad obblighi (dare, fare o non fare) aventi carattere periodico o continuativo, e accerta un inadempimento già attuale e, oltre a stabilire le misure risarcitorie o ripristinatorie dirette a porvi rimedio, detta anche i comportamenti positivi o negativi, cui il debitore sarà tenuto in futuro. Per Balena anche al di fuori delle ipotesi previste dalla legge, l’inadempimento parziale di un obbligo periodico o continuativo giustifica l’estensione della condanna anche al periodo successivo alla pronuncia del provvedimento. L’azione e la sentenza costitutiva L'art. 2908 c.c. prevede che il giudice, nei casi previsti dalla legge, possa costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. L'azione costitutiva quindi è quella che può condurre alla nascita di un diritto o di uno status, oppure alla modificazione o all'estinzione di rapporti giuridici preesistenti. Tale azione è caratterizzata dalla tipicità, cioè è consentita nei soli casi espressamente previsti dalla legge. L'esempio più noto è l'art. 2932 c.c. che consente, in caso di inadempimento dell'obbligo di concludere un contratto (solitamente assunto in un contratto preliminare), la pronuncia di una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso. Si definiscono azioni costitutive non necessarie quelle in cui l'effetto costitutivo- modificativo-estintivo perseguito dall'attore potrebbe ottenersi al di fuori dal processo, attraverso la collaborazione del debitore: es: art. 2932 c.c. Tali azioni conducano ad una sentenza che non si limita ad accertare il diritto dedotto in giudizio e l’inadempimento del obbligo, ma determina essa stessa la modificazione giuridica idonea a realizzare l’interesse dell’attore vittorioso. Le azioni costitutive necessarie sono quelle miranti ad una modificazione (concernente un diritto indisponibile) che le parti non avrebbero alcuna possibilità di conseguire per altra strada, attraverso la propria autonomia negoziale, neppure se entrambe lo volessero. Es: impugnazione matrimonio. Le sentenze c.d. determinative Oltre alle sentenze di mero accertamento, costitutive e di condanna, parte della dottrina utilizza l'ulteriore categoria delle sentenze determinative: ipotesi che si determinano quando il giudice è chiamato ad integrare o a specificare il contenuto di un diritto o, correlativamente, di un obbligo che virtualmente già preesiste, sul piano sostanziale, al suo intervento, ma non è compiutamente determinato (es deve stabilirsi la misura degli alimenti in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli). IL DIRITTO E L’AZIONE: La relatività del concetto di azione Il legislatore non discorre di azione in modo univoco, non di rado lo utilizza come sinonimo di diritto soggettivo. Tuttavia, possiamo che ormai è riconosciuta la reciproca autonomia tra diritto soggettivo e azione: quest’ultima appartiene alla categoria dei diritti soggettivi pubblici e si sostanzia, per quel che concerne l’azione di cognizione nel diritto di ottenere dall’autorità giudiziaria un provvedimento su una determinata domanda. La concezione oggi più diffusa definisce l'azione come il diritto ad ottenere un provvedimento di merito, ossia una pronuncia che decida sulla fondatezza della domanda, anche, se del caso, in modo sfavorevole all'attore, e quindi rigettandola. L'esistenza del diritto d'azione viene con tale definizione svincolata dalla concreta esistenza del diritto dedotto in giudizio dall'attore e dipende invece da due elementi, detti condizioni dell'azione: la legittimazione e l'interesse ad agire. Le c.d. condizioni dell’azione di cognizione e i presupposti processuali La legittimazione ad agire, detta anche legitimatio ad causam, e l'interesse ad agire sono gli elementi costitutivi del diritto d'azione, e dunque del diritto ad ottenere una pronuncia sul merito della causa, cioè sulla fondatezza della domanda. Se ne deduce che la decisione che neghi l'una o l'altra di queste condizioni dell'azione non sia essa stessa una decisione di merito e rientri, invece, tra le pronunce meramente processuali. Non va comunque trascurato che un provvedimento di questo tipo si traduce pur sempre nella negazione di un diritto pertanto è da ritenere che anch’esso partecipi dell’efficacia decisoria propria delle sentenze di merito. La categoria dei presupposti processuali abbraccia una quantità di requisiti eterogenea, che, a seconda dei casi, possono riguardare l'instaurazione stessa del processo (giurisdizione e competenza del giudice, capacità processuale richiesta alle parti, esistenza di un valido atto introduttivo) oppure la possibilità che esso prosegua verso la decisione sul rapporto giuridico controverso. Le condizioni dell’azione possono sopravvenire nel corso del processo poiché devono sussistere al momento della decisione. I presupposti processuali devono necessariamente preesistere all’instaurazione del processo. La “ragionevole durata” del processo Sempre in tale articolo si prescrive che la legge assicuri la ragionevole durata del processo. È una disposizione di mero indirizzo, priva di ricadute nel processo. Il legislatore è intervenuto con la legge Pinto, 89/2001, che disciplina, attraverso una specifica normativa processuale che attribuisce la competenza, in unico grado, alla corte d'appello, il diritto ad una equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole previsto dall'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1955. Il principio del “giusto processo regolato dalla legge” Art. 111 co 1 Cost. “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”. Tale principio potrebbe dirsi rispettato solo quando il processo fosse congegnato, complessivamente, in modo tale da rendere l'accertamento, che il giudice deve porre a fondamento della propria decisione, il più possibile attendibile e conforme alla realtà dei fatti (verità materiale); oppure quando fosse munito degli strumenti occorrenti per far concretamente conseguire alla parte, che ha invocato tutela giurisdizionale ed ha ottenuto il riconoscimento del proprio diritto, tutte e proprio quelle concrete utilità che il legislatore sostanziale le aveva in astratto garantito. Questo comma pone dei limiti: deve ritenersi esclusa, per il processo giurisdizionale, la possibilità di affidare genericamente al giudice la regolamentazione del processo. Ogni eventuale deroga, rispetto al principio di precostituzione legislativa ed uniforme della disciplina processuale, per un verso deve risultare giustificata dall'effettiva esigenza di tenere conto delle possibili peculiarità del processo, e per altro verso deve essere sufficientemente precisata e circoscritta quanto ai presupposti del potere attribuito al giudice, onde evitare che tale potere possa sconfinare nella discrezionalità assoluta. L’obbligo della motivazione e La garanzia del ricorso per cassazione Art. 111 co 6° Cost. “Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”. Deve ritenersi che il legislatore si riferisca solo a quelli aventi contenuto decisorio. Art. 111 co 7° Cost. “Contro le sentenze e contro i provvedimenti pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge”. Art. 111 co 8° “Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione.” Questi due commi presuppongono l'obbligo di decidere secondo la legge (sostanziale e processuale); obbligo ribadito anche all'art. 113 c.p.c. per cui il giudice, nel pronunciare sulla causa, deve seguire le norme del diritto, salvo che la legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità. Una pronuncia della Corte costituzionale ha ritenuto illegittimo, per contrasto con gli art. 24 e 101 Cost., l'art. 113 co 2 c.p.c. Nella parte in cui non prevede che il giudice di pace, pur decidendo secondo equità, sia vincolato all'osservanza dei principi informatori della materia. Successivamente il legislatore, modificando l'art. 339 c.p.c. Ha ammesso l'appello nei confronti delle sentenze di equità del giudice di pace, anche se esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie, o dei principi regolatori della materia. LA DOMANDA E LE DIFESE DEL CONVENUTO I fatti principali I fatti rilevanti ai fini della decisione della causa si possono distinguere in fatti principali e fatti secondari. I fatti principali sono quelli che rilevano in via diretta per l'accertamento dell'esistenza o dell'inesistenza del diritto dedotto in giudizio, appartengono alla fattispecie legale ed astratta cui la domanda fa riferimento e condizionano, in positivo o in negativo, la fondatezza della domanda stessa, quindi la loro individuazione va compiuta in base ad un'analisi, più o meno complessa, di natura strettamente sostanziale. Ad esempio il diritto alla risoluzione del contratto per vizi della cosa venduta presuppone: che sia stato concluso un contratto di compravendita, che tale contratto non sia nullo, che la cosa sia affetta da vizi che la rendono inidonea all’uso cui è destinata o ne diminuiscono in modo apprezzabile il valore, che il vizio sia stato denunciato al venditore entro 8 gg dalla scoperta, che il compratore al momento del contratto abbia ignorato i vizi della cosa e che questi non fossero facilmente riconoscibili, che le parti abbiano pattuito l’esclusione della garanzia, che non sia trascorso un anno dalla consegna. I fatti principali si distinguono, secondo una classificazione suggerita dall'art. 2697 c.c. e basata sul diverso ruolo che ad essi compete nella fattispecie legale di riferimento, in:  fatti costitutivi, cioè quelli dal cui concorso la disciplina sostanziale fa dipendere la nascita del diritto dedotto in giudizio; (es l’avvenuta conclusione del contratto di compravendita ecc)  fatti impeditivi, cioè che paralizzano l'efficacia dei fatti costitutivi, impedendo loro di determinare la nascita del diritto (facile riconoscibilità dei vizi o la conoscenza di tali vizi da parte del compratore sono fatti impeditivi del diritto alla garanzia);  fatti estintivi, cioè idonei a determinare l'estinzione del diritto anteriormente nato (fatti estintivi dell’obbligazione sono l’adempimento, la novazione ecc;  fatti modificativi, che producono la modificazione di un diritto già sorto (modifica del termine p es). Di regola, per poter accogliere una domanda, il giudice dovrà verificare tanto la sussistenza di tutti i fatti costitutivi occorrenti, in relazione alla fattispecie dedotta in giudizio, per la nascita del diritto azionato, quanto l'insussistenza di tutti i fatti impeditivi, estintivi o modificativi eventualmente allegati dal convenuto oppure rilevabili dallo stesso giudice d'ufficio. Al contrario, perché possa addivenirsi al rigetto della domanda, è sufficiente accertare l'inesistenza di alcuno soltanto dei fatti costitutivi richiesti dalla disciplina sostanziale, oppure, viceversa, l'esistenza di alcuno soltanto dei molteplici fatti impeditivi, estintivi, modificativi. Il giudice gode di ampia discrezionalità nella scelta del motivo sul quale fondare il rigetto: in presenza di una pluralità di questioni concernenti l'inesistenza di alcuni fatti costitutivi o, al contrario, l'esistenza di fatti impeditivi, estintivi o modificativi, non solo non è tenuto a risolvere tutte queste questioni, ma non è neanche vincolato al rispetto di alcun ordine logico predeterminato nell'esame delle stesse. Solitamente i fatti principali sono fatti semplici cioè non hanno valenza autonoma, ma rilevano solo per l'esistenza o l'inesistenza di un determinato diritto (es il decorso del termine di prescrizione non potrebbe essere autonomamente accertato, se non al fine di dichiarare l’inesistenza per sopravvenuta estinzione del diritto. Non raramente accade che il fatto principale sia a sua volta un fatto-diritto o situazione giuridica, da cui dipenda la costituzione, modificazione o estinzione del diritto oggetto del processo (es uno dei fatti costitutivi del diritto agli alimenti potrebbe consistere nell’esistenza di un rapporto di filiazione tra il creditore e il debitore); sono ipotesi in cui il fatto potrebbe costituire esso stesso l'oggetto di un autonomo giudizio. I fatti secondari I fatti secondari sono quelli che rilevano solo in via indiretta per l'esistenza o l'inesistenza del diritto dedotto in giudizio, poiché sono estranei alla fattispecie legale invocata dall'attore ed operano sul terreno meramente probatorio, consentendo al giudice di affermare, attraverso un procedimento logico deduttivo, l'esistenza o inesistenza o un modo di essere di un fatto principale. Es nel giudizio in cui fosse chiesto l’annullamento di un contratto, in quanto stipulato da persona incapace di intendere e di volere, i fatti secondari potrebbero riguardare ad esempio episodi immediatamente anteriori o successivi alla conclusione del contratto, idonei a dimostrare il vizio di mente del contraente. L’introduzione dei fatti nel processo Esiste il divieto, per il giudice, di utilizzare la c.d. scienza privata, cioè di usare una sua eventuale conoscenza diretta dei fatti rilevanti per la causa (non importa se principali o secondari), sia quando tali fatti sono già stati allegati nel processo e debbono essere oggetto di prova, sia a fortiori, quando non vi siano ancora stati introdotti. Per quanto riguarda i fatti secondari, si riconosce al giudice la possibilità di utilizzare, d'ufficio, tutto ciò che sia stato comunque acquisito al processo (anche attraverso dichiarazioni di terzi es testimone), e che risulti dagli atti della causa. Per quanto concerne invece i fatti principali, si ritiene che il monopolio della loro introduzione nel processo spetti, in linea di principio, alle parti, le quali vi provvedono rispettivamente tramite la domanda (per i fatti costitutivi) o tramite l'eccezione (quando si tratti di fatti impeditivi, estintivi o modificativi). Per quanto riguarda i fatti impeditivi, estintivi o modificativi rilevabili d'ufficio, vale, come per i fatti secondari, la possibilità, per il giudice, di tenere conto di tutto ciò che comunque risulti dagli atti della causa. Si profila quindi una contrapposizione tra fatti costitutivi (la cui allegazione sarebbe riservata all’attore in virtù del suo potere di formulazione della domanda) e gli altri fatti principali che sarebbero normalmente rilevabili d’ufficio. La domanda giudiziale Dagli art. 2907 c.c. e 99 c.p.c. si evince che la domanda giudiziale è l'atto di parte con cui si fa valere un diritto, cioè con cui si chiede al giudice un provvedimento a tutela di una determinata situazione soggettiva. La prima ed essenziale funzione della domanda è determinare l'oggetto stesso del processo, e quindi quello del futuro giudicato. In base al principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, all'art. 112 c.p.c. (espressione del principio dispositivo cui si informa il processo civile), la domanda individua rigidamente i confini della decisione: il giudice è infatti vincolato a pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa. Costituirebbe un vizio della sentenza sia l'omessa pronuncia, sia l'ultrapetizione, quando il provvedimento del giudice vada oltre alla domanda (chiedo condanna a 1000 euro e la sentenza mi dà una somma maggiore), sia infine l'extrapetizione, che si ha quando il giudice pronunci in assenza di una domanda o su un oggetto diverso da quello della domanda. Lo stesso principio induce a ritenere che la parte, qualora nel giudizio siano state proposte una pluralità di domande, può vincolare il giudice, salvi limiti derivante dall'anteriorità logico-giuridico di una di esse, a seguire un determinato ordine nel loro esame. Le eccezioni in senso stretto riguardano fatti che sono riservati alle parti non soltanto per quel che concerne l'introduzione nel processo, ossia l'allegazione, ma anche quanto alla possibilità, per il giudice, di porli a base della decisione: es. prescrizione (il rilievo d’ufficio è escluso dall’art. 2938 c.c.), se dall’esame degli atti il giudice dovesse appurare che l’inerzia del titolare del diritto si è protratta per il termine di prescrizione, non potrebbe rigettare la domanda se la parte interessata non faccia valere tale fatto estintivo. Le eccezioni in senso lato invece, hanno ad oggetto fatti il cui effetto impeditivo, estintivo o modificativo, una volta che essi siano stati allegati o acquisiti al processo, deve essere senz'altro rilevato dal giudice d'ufficio, al fin di pervenire al rigetto della domanda. Dalla riforma del 1990 le eccezioni in senso stretto sono ammesse nella sola fase iniziale del processo di primo grado, mentre quelle in senso lato sono consentite pure in appello. Eccezioni e domande riconvenzionali. Si contraddistinguono solamente per avere ad oggetto non un fatto semplice, ma un fatto-diritto, cioè un controdiritto che il destinatario della domanda ben potrebbe far valere in un autonomo giudizio, ma che utilizza, invece, al solo fine di ottenere il rigetto della domanda stessa (es. oggetto del processo è la domanda di rilascio di un immobile che l’attore usucapito la ritiene essere detenuto senza titolo dal convenuto, quest’ultimo potrebbe eccepire di averne usucapito la proprietà). Fino a quando si rimane nell'ambito della mera eccezione riconvenzionale, l'oggetto del processo non subisce alcuna estensione ed il giudice è chiamato a conoscere del controdiritto del convenuto al solo fine di decidere sulla fondatezza della domanda dell'attore. IL GIUDICE E GLI UFFICI GIUDIZIARI NOZIONI BASILARI DI ORDINAMENTO GIUDIZIARIO: Giudici ordinari, giudici speciali e sezioni specializzate Il termine giudice può indicare, a seconda dei casi, l'ufficio giudiziario nel suo complesso, oppure il magistrato persona fisica che opera in veste di giudice monocratico o collegiale, nell'ambito di un determinato ufficio giudiziario. L'art. 102 co 1° Cost. stabilisce che “La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario” e al co 2° “Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali”. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura.”. Per distinguere tra giudice ordinario e giudice speciale, risulta decisivo il criterio soggettivo formale, derivante dalla circostanza che un determinato organo giurisdizionale sia incluso nel novero degli organi giudiziari considerati ordinari dalle norme sull'ordinamento giudiziario e sia altresì composto da magistrati appartenenti, in base a quelle stesse norme, all'ordine giudiziario (quindi il giudice speciale vene destinato a specifiche materie mente invece il giudice ordinario ha competenza generica). Tali norme sono contenute nel r.d. 12/1941 (“Ordinamento giudiziario”). L'art. 1 r.d. 12 /1941 attribuisce l'amministrazione della giustizia, nelle materie civile e penale, ai seguenti organi giurisdizionali: giudice di pace, tribunale ordinario, Corte di appello, Corte suprema di cassazione, tribunale per i minorenni, magistrato di sorveglianza, tribunale di sorveglianza. La giurisdizione amministrativa e ogni altra giurisdizione speciale viene rinviata a leggi speciali. Tra i giudici speciali si ricordano: il tribunale amministrativo regionale (T.A.R.) che è organo di giustizia amministrativa di primo grado, ma ha pure, in importanti materie, competenza esclusiva, ossia estesa ai diritti soggettivi; le commissioni tributarie (provinciali o regionali); il tribunale superiore delle acque pubbliche, che ha sede a Roma ed opera come giudice d'appello contro le decisioni dei tribunali regionali delle acque pubbliche; i commissari liquidatori degli usi civici. Le sezioni specializzate invece non sono organi giudiziari autonomi, ma articolazioni interne degli organi giudiziari ordinari, caratterizzate da una specifica competenza e, conseguentemente, dalla possibile partecipazione, per un tempo determinato ed in veste di magistrati onorari esperti della materia, di cittadini estranei alla magistratura togata, ossia professionale. Costituiscono sezioni specializzate: le sezioni agrarie, istituite presso tribunali e corti d'appello, che giudicano con la partecipazione di due esperti, sulle controversie in materia di contratti agrari ecc; Nell’art. 1 c.p.c si afferma che: “La giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, è esercitata dai giudici ordinari secondo le norme del presente codice”, ossia da quei giudici elencati all'art. 1 ord. giud. Dopo la riforma 51/1998 che soppresse le preture, i giudici ordinari cui è attribuita la giurisdizione civile sono, prescindendo dal tribunale per i minorenni: il giudice di pace, il tribunale, la Corte di appello e la Corte di cassazione. Il giudice di pace Il giudice di pace, è un giudice onorario e dunque non professionale.Per il giudice di pace è richiesta una laurea in giurisprudenza ed è previsto un compenso, rapportato alla quantità di lavoro effettivamente svolto, mentre i conciliatori prestavano la propria opera gratuitamente e non era previsto titolo di studio. Al giudice di pace è attribuita competenza civile di primo grado relativamente alle cause considerate dal legislatore di minore importanza. Nelle cause in cui il valore non eccede 1100 euro è previsto che la decisione sia pronunciata, di regola, secondo equità anziché secondo diritto. Il tribunale Il tribunale è rimasto l'unico giudice togato (di regola composto da magistrati professionali, legati da uno stabile rapporto di servizio con l'amministrazione) normalmente competente in primo grado. Conosce inoltre, quale giudice di secondo grado, delle impugnazioni portate contro le sentenze del giudice di pace. A norma dell'art. 42 ord. giud. ha sede in ogni capoluogo determinato da un'apposita tabella ed il suo ambito territoriale coincide con il circondario. Si tratta di un organo normalmente monocratico, che giudica in composizione collegiale nei soli casi previsti espressamente dalla legge. Il tribunale è diretto dal presidente e può essere costituito in più sezioni, ciascuna delle quali e disegnata a trattare affari civili, penali ecc. La corte d’appello La corte d'appello ha sede nei comuni capoluogo dei distretti indicati nella tabella prevista all'art. 52 ord. giud. e costituisce un giudice sempre collegiale, composto da tre magistrati, detti consiglieri. Ad essa compete di regola la giurisdizione nelle cause di appello contro le sentenze del tribunale, salve alcune ipotesi eccezionali in cui è investita di competenza in unico grado. Può essere costituita in più sezioni, ognuna presieduta da un proprio presidente, una delle quali incaricata esclusivamente della trattazione delle controversie in materia di lavoro e previdenziale, ed un'altra, per i minorenni, incaricata di giudicare sulle impugnazioni proposte contro i provvedimenti del tribunale per i minorenni. Attualmente le corti d'appello sono 26, più tre sezioni distaccate. La Corte di cassazione La Corte suprema di cassazione ha sede in Roma ed ha giurisdizione sull'intero territorio nazionale. Ha il compito di assicurare, quale organo supremo della giustizia, l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni (art. 65 ord. giud.). È costituita in più sezioni e decide sempre collegialmente, col numero invariabile di 5 votanti oppure, quando giudica a sezioni unite, coll'intervento di 9 magistrati, appartenenti alle singole sezioni civili. Ad essa sono addetti un primo presidente, dei presidenti di sezione ed un certo numero di consiglieri. La sua funzione tradizionale è quella della c.d. nomofilachia, cioè garantire osservanza e corretta applicazione del diritto oggettivo da parte dei giudici di merito, ma la funzione più importante è quella di assicurare uniformità di interpretazione del diritto, con la risoluzione dei contrasti giurisprudenziali che si dovessero manifestare tra i giudici di merito. Le decisioni della corte hanno notevole efficacia conformativa sulla giurisprudenza di merito, soprattutto quando danno luogo ad orientamenti consolidati. Quando una stessa questione giudiziaria venga risolta in modo difforme da sezioni diverse, il primo presidente può investire di questo le Sezioni unite per ottenere una decisione autorevole. Le garanzie costituzionali dell’ordinamento giudiziario La Costituzione dedica la Sezione I del Titolo IV della Parte II alle garanzie riguardanti l'ordine giudiziario e la magistratura. Art. 101 co 2° Cost. “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”, esclude l'esistenza i rapporti gerarchici nella magistratura e istituisce una relazione immediata fra il singolo giudice e la legge che è chiamato ad applicare. Il nostro ordinamento non riconosce efficacia vincolante a precedenti giurisprudenziali come nei paesi di common law. Art. 104 co 1° Cost. “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” e l'art. 105 Cost “Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme sull'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”, attribuiscono le funzioni di autogoverno ad un apposito organo costituzionale, il Csm, esso stesso autonomo ed indipendente sia dall'esecutivo sia dal legislativo, cui sono riservati in via esclusiva tutti i provvedimenti che interessano la carriera del magistrato. Art. 106 co 1° Cost. “Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso”. Art. 106 co 2° Cost. “La legge sull'ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli”. Art. 107 co 1° Cost. “I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall'ordinamento giudiziario o con il loro consenso”. Art. 108 co 1° Cost. “Le norme sull'ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge.”. Pone una riserva di legge sulle norme dell'ordinamento giudiziario. I rapporti tra giudice ordinario e pubblica amministrazione L'art 41 co 2° “La pubblica amministrazione che non è parte in causa può chiedere in ogni stato e grado del processo che sia dichiarato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione il difetto di giurisdizione del giudice ordinario a causa dei poteri attribuiti dalla legge all'Amministrazione stessa, finché la giurisdizione non sia stata affermata con sentenza passata in giudicato”. Si parla di difetto di giurisdizione del giudice ordinario a causa di poteri attribuiti dalla legge all'amministrazione stessa, si lascia intendere che il giudice ordinario difetterebbe di giurisdizione quando fosse chiamato ad imporre alla p.a. un provvedimento o un comportamento che invece rientra nella sfera di discrezionalità dell'amministrazione. Si tratta di ipotesi in cui vengono dedotte davanti al giudice situazioni soggettive (interessi semplici) che non sono tutelabili in via giurisdizionale, non avendo la consistenza né di diritti né di interessi legittimi. I limiti della giurisdizione italiana Fino al 1995 per delimitare la giurisdizione italiana si utilizzava il criterio della cittadinanza del convenuto e si negava che la giurisdizione italiana potesse essere derogabile dalle parti, o che fosse preclusa dalla previa instaurazione della stessa causa davanti al giudice di un altro stato. La legge 218/1995 ebbe come obiettivo avvicinare la disciplina comune a quella della Convenzione di Bruxelles. La tecnica del rinvio recettizio fa sì che debba intendersi riferito, a partire dal 1° marzo 2002, al regolamento 44/2001, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale. Il legislatore utilizza i “criteri di collegamento” per definire i limiti della giurisdizione italiana; la sussistenza di uno di tali elementi è condizione necessaria e sufficiente perché il giudice italiano possa conoscere della controversia, prescindendo dalla cittadinanza dell'attore: anche allo straniero si ritiene che compete il diritto d’azione ai sensi dell’art 24 cost, indipendentemente dalla condizione di reciprocità richiesta dall’art 16 delle preleggi del cc. I criteri di collegamento generali, validi cioè per ogni controversia senza alcun riferimento al suo oggetto, sono: il domicilio o la residenza del convenuto in Italia; l'esistenza in Italia di un suo rappresentante autorizzato a stare in giudizio a norma dell'art. 77 c.p.c.; l'accettazione, preventiva o successiva, della giurisdizione italiana. I criteri di collegamento speciali operano solo per determinate categorie di controversie con riguardo al loro oggetto: quando si tratti di una delle materie comprese nella Convenzione di Bruxelles, si prescinde dal fatto che il convenuto sia domiciliato nel territorio dello stato contraente. Per la giurisdizione volontaria, la giurisdizione nazionale sussiste quando: i criteri di competenza per territorio attribuirebbero l’affare al giudice italiano, il provvedimento richiesto concerne un cittadino italiano, o persona residente in Italia, o riguarda situazioni o rapporti cui è applicabile la legge italiana. In materia cautelare v'è giurisdizione italiana quando il giudice nazionale ha giurisdizione per il merito, nonché quando il provvedimento dev'essere eseguito in Italia. L'art. 4 l. 218/1995 consente che la giurisdizione italiana sia derogata a favore di un giudice straniero o di un arbitrato estero a condizione che la deroga sia provata per iscritto e la causa verta su diritti disponibili. Tale deroga è inefficace se il giudice straniero o gli arbitri convenzionalmente designati declinano la giurisdizione o non possono conoscere della causa. Il regime del difetto di giurisdizione L'eventuale difetto di giurisdizione del giudice ordinario rispetto ad un giudice speciale o alla pubblica amministrazione è rilevabile anche d’ufficio senza particolari limiti temporali, in ogni stato e grado del processo (art. 37). Il difetto di giurisdizione può essere sollevato per la prima volta anche nel giudizio di legittimità davanti alla Corte di cassazione, a meno che sulla medesima questione non si sia già formato il giudicato, derivante dalla mancata impugnazione di una sentenza del giudice di merito che aveva espressamente pronunciato sulla giurisdizione. Nel caso invece in cui la causa esorbiti dai limiti della giurisdizione italiana dobbiamo distinguere: secondo l'art. 11 l.218/1995 il vizio è egualmente rilevabile d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo, quando: 1) il convenuto è rimasto contumace; 2) la controversia verte su azioni reali aventi ad oggetto beni immobili situati all'estero; 3) la giurisdizione italiana è esclusa per effetto di una norma internazionale. Se il convenuto si costituisce, è lui l'unico a poter eccepire il difetto di giurisdizione del giudice adito, a condizione che non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana. Sussiste accettazione tacita quando il convenuto si costituisca senza eccepire il difetto di giurisdizione nel primo atto difensivo. La sentenza declinatoria della giurisdizione implica l’esclusione di un presupposto processuale e pertanto pone fine al processo (salvo quanto detto nel par successivo). L’eventuale “translatio iudicii” tra giudice ordinario e giudice speciale La legge 69/2009, integrata da due interventi della Corte di cassazione e della Corte costituzionale, ha sancito il principio della possibile continuazione del processo dopo una sentenza declinatoria della giurisdizione, sempre che la giurisdizione appartenga ad una diversa giurisdizione italiana, e vengano in rilievo i rapporti tra il giudice ordinario e quello speciale, o tra diversi giudici speciali. La riforma obbliga il giudice (qualunque giudice) che dichiari il proprio difetto di giurisdizione, ad indicare contestualmente, se esistente, il giudice nazionale che ritiene munito di giurisdizione. Se la domanda viene riproposta a tale giudice entro il termine perentorio di 3 mesi dal passaggio in giudicato della sentenza declinatoria, “nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall'instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute”. La tempestiva riproposizione della domanda fa sì che il processo si consideri iniziato fin dal momento in cui era stato erroneamente adito il giudice privo della giurisdizione, è quindi lo stesso processo che continua davanti al nuovo giudice. Il nuovo giudice, a differenza delle parti, non è vincolato, di regola, all'indicazione contenuta nella sentenza del giudice originariamente adito, a meno che tale sentenza non provenga dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, ma non è neanche libero di declinare puramente e semplicemente la giurisdizione: se non condivide può solo sollevare d'ufficio con ordinanza la questione davanti alle Sezioni unite, fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito, perché queste si pronuncino in modo definitivo sulla giurisdizione. Se invece tale termine perentorio (3 mesi) non viene rispettato, il processo si estingue e gli effetti della domanda restano definitivamente travolti, ferma restando la possibilità di riproporre la stessa azione in un giudizio nuovo ed autonomo. Il regolamento “preventivo” di giurisdizione Art. 41 co 1 cpc° “Finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte può chiedere alle Sezioni unite della Corte di cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione di cui all'art. 37”. Si parla di regolamento preventivo di giurisdizione, alludendo al fatto che consente alle parti, invece di attendere che il giudice si pronunci sulla giurisdizione e poi impugnare la relativa sentenza, di investire direttamente della questione la Cassazione. L'ambito di applicazione dell'art. 41 è limitato ai processi a cognizione piena, con esclusione dei procedimenti di esecuzione forzata e di quelli a cognizione sommaria o cautelari. Tale regolamento fa riferimento ai rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali, e ai rapporti tra giudice ordinario e pubblica amministrazione*. Si ritiene che il regolamento sia applicabile anche alle questioni concernenti i limiti di giurisdizione italiana. La giurisprudenza più recente* ritiene che il regolamento non faccia più rifeirmento ai rapporti tra g. ord. e P.A. poichè, in questo caso, non vi sarebbe difetto di giurisdizione ma una ipotesi di rigetto della domanda nel merito perché si è in presenza di un mero interesse di fatto (interesse semplice). Il regolamento, non essendo un'impugnazione, può esser chiesto da entrambe le parti, compresa da quella che ha adito il giudice. Il più recente orientamento delle Sezioni unite ritiene che la proponibilità del regolamento sia esclusa, oltre che da una sentenza di merito, anche da qualunque sentenza, definitiva o non definitiva, su questione processuale, quindi anche da ogni sentenza sulla giurisdizione. L'istanza di regolamento si propone con ricorso e il relativo procedimento è regolato dall'art. 364, cioè dalla disciplina ordinaria del giudizio di cassazione. La sua proposizione, comprovata dal deposito di una copia del ricorso, già notificato alle altre parti, nella cancelleria del giudice di primo grado investito della causa di merito, produce la sospensione del relativo giudizio, finché non intervenga la decisione delle Sezioni unite, la quale, se riconosce la giurisdizione del giudice ordinario, consente alle parti di riassumere il processo entro un termine perentorio di 6 mesi dalla comunicazione della sentenza. Il giudice sospende il processo, con ordinanza, solo quando non ritiene l'istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione non manifestamente infondata. Il regolamento su questione di giurisdizione sollevata dal prefetto L'art. 41 co 2° consente alla sola pubblica amministrazione, che non sia parte in causa, di chiedere in ogni stato e grado del processo, fino a quando non si sia formato un giudicato positivo sulla giurisdizione, che le Sezioni unite dichiarino il difetto di giurisdizione del giudice ordinario a causa dei poteri attribuiti dalla legge all'amministrazione stessa. Il prefetto può provocare, con proprio decreto, la necessaria sospensione del giudizio di merito, escludendo ogni preventiva valutazione del giudice adito circa la fondatezza/ammissibilità della richiesta di regolamento. Il potere-dovere di sospendere tale giudizio compete al capo del relativo ufficio giudiziario, e non al giudice di merito. Le Sezioni unite vengono investite della questione di giurisdizione solo a condizione che una delle parti proponga ricorso nel termine perentorio di 30 giorni dalla notificazione del decreto di sospensione, termine la cui scadenza dovrebbe determinare l'estinzione o l'improcedibilità del giudizio di merito. Il regime dell’incompetenza L’art 38 distingue tra il rilievo dell’incompetenza ad opera del convenuto (l’unica parte legittimata a sollevare tale eccezione) e quello d’ufficio. Quando sia adito un giudice incompetente, ed è il convenuto a opporre eccezione di incompetenza, questa deve essere sollevata, ai sensi dell'art. 38, a pena di decadenza, qualunque sia il criterio che si assume violato, nel suo primo atto difensivo e rispettando il termine di costituzione in giudizio. L'eccezione di incompetenza per territorio deve sempre indicare anche l'ufficio giudiziario che si ritiene competente, altrimenti l'eccezione si ha ritiene non formulata. Nel caso di competenza per territorio derogabile, l'individuazione del diverso giudice competente mira a consentire che le parti costituite vi aderiscano, rendendo superflua una decisione sulla questione: il giudice con ordinanza dispone la cancellazione della causa dal ruolo e, se questa è riassunta entro tre mesi, la competenza dell'ufficio giudiziario individuato non può più essere messa in discussione. Per quel che concerne invece il rilievo d’ufficio dell’incompetenza esso è consentito entro la prima udienza di trattazione; dopo questo momento il vizio resta praticamente sanato ed irrilevante. La competenza va valutata, in linea di principio, in base a quello che risulta dagli atti o tutt'al più, qualora sia necessario, assunte sommarie informazioni, senza un'autonoma istruttoria. Sentenza declinatoria della competenza e prosecuzione del processo La decisione sulla competenza può essere dichiarativa, quando affermi la competenza del giudice adito, oppure declinatoria, dove dichiari l'incompetenza di tale giudice, definendo il processo davanti a lui. In entrambi i casi il provvedimento sarà impugnabile: attraverso le impugnazioni ordinarie se abbia contestualmente deciso il merito della causa, altrimenti solo con il regolamento di competenza, che investe della questione direttamente la Corte di cassazione. Il codice del 1940 ha escluso che la sentenza di incompetenza ponga necessariamente fine al processo e che l’attore debba riproporre ex novo la domanda dinanzi al giudice reputato competente: art. 50, se la causa, dopo la pronuncia di incompetenza, viene tempestivamente riassunta davanti al giudice dichiarato competente entro il termine fissato nella sentenza del giudice a quo (dichiarato incompetente), il processo continua davanti al nuovo giudice (giudice ad quem) con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda (es. effetto conservativo dell’interruzione della prescrizione). La pronuncia di incompetenza, quando non sia impugnata dall'attore tramite istanza di regolamento di competenza, rende incontestabile tanto l'incompetenza del giudice dal quale proviene, quanto la competenza del giudice in essa indicato, a condizione che la causa sia tempestivamente riassunta nei termini di cui all’art 50 e che non si tratti di incompetenza per materia o per territorio inderogabile. Quindi il secondo giudice è vincolato all'indicazione resa dal giudice precedentemente adito che l'abbia ritenuto competente sulla causa. Quando invece egli ritenga d'essere incompetente per materia o territorio inderogabile, l'art. 45 esclude che possa a sua volta declinare la competenza, spogliandosi del processo, ma gli consente di investire della questione la Corte di cassazione, chiedendole d'ufficio il regolamento di competenza. Occorre tener presente che se la causa non venisse riassunta tempestivamente, il processo di estinguerebbe e la pronuncia di incompetenza perderebbe ogni efficacia. IL PRINCIPIO DELLA PERPETUATIO IURISDICTIONIS L’attribuzione della giurisdizione e della competenza dipende da criteri fissati dal legislatore che prendono in considerazione elementi che potrebbero mutare nel tempo (es. residenza e domicilio del convenuto che rilevano sia per la competenza che per la giurisdizione). Art. 5 cpc “La giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo”, questo è il principio della perpetuatio iurisdictionis. Risponde al principio costituzione secondo cui nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. Le sole ipotesi di modificazioni normative cui si ritiene inapplicabile l'art. 5 sono quelle che si traducano nell'immediata soppressione dell'ufficio giudiziario presso il quale pende la causa, o che derivino dalla dichiarazione d'incostituzionalità di una delle norme distributive della giurisdizione o della competenza. Il mutamento della domanda originaria, come la proposizione di domande nuove in corso di causa, può implicare il sopravvenire del difetto di giurisdizione o dell'incompetenza, spogliando conseguentemente della causa il giudice adito. L’ASTENSIONE, LA RICUSAZIONE E LA RESPONSABILITA’ DEL GIUDICE: Il rapporto tra l’astensione e la ricusazione del giudice e le ipotesi di astensione, obbligatoria e facoltativa L’Art. 111 co 2° Cost. recepisce una figura di giudice terzo ed imparziale. L’Art. 51 prevede determinate situazioni in cui l'obiettività del magistrato e la sua equidistanza dalle parti potrebbero essere compromesse, così che al giudice è attribuito l'obbligo o la facoltà di astenersi dal trattare e decidere la causa. Nelle sole ipotesi di astensione obbligatoria è consentito alle parti di proporre istanza di ricusazione del giudice, quando questi abbia omesso di astenersi. Se il giudice omette di astenersi e le parti non provvedono a ricusarlo nei termini loro concessi, l'inosservanza dell'art. 51, anche se si tratti di astensione obbligatoria, rimane priva di ripercussioni sulla validità del processo. Quando si ha un caso di astensione facoltativa il magistrato interessato non può astenersi di propria iniziativa, ma deve chiedere autorizzazione al capo dell'ufficio. Le fattispecie di astensione obbligatoria riguardano situazioni in cui il giudice ha un qualche interesse nella cause, o ne ha già conosciuto in altra occasione ed eventualmente in altra veste, o ha determinati rapporti con una delle parti o dei rispettivi difensori. Secondo l'art. 51 ha l'obbligo di astenersi: 1) se ha interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto, occore distinguere tra: - interesse diretto, ipotesi più grave in assoluto per la quale si ritiene che la mancata astensione, se non sia fatta valere con istanza di ricusazione, rende nulla la sentenza. La mancata astensione, anche se non sia fatta valere tramite l'istanza di ricusazione, rende nulla la sentenza; - interesse indiretto, ogni altra ipotesi in cui al giudice possa derivare vantaggio o svantaggio, anche se solo morale, dall’esito del giudizio. 2) se egli stesso o il coniuge è parente fino al quarto grado o legato da vincoli di affiliazione, oppure è convivente o commensale abituale di una delle parti o dei difensori; 3) se egli stesso o il coniuge ha causa pendente o grave inimicizia o rapporti di debito o credito con una delle parti o dei difensori; 4) se ha dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o ha deposto in essa come testimone, oppure ne ha conosciuto come magistrato in altro grado del processo o come arbitro o vi ha prestato assistenza come consulente tecnico; 5) se è tutore, curatore, amministratore di sostegno, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti; oppure è amministratore o gerente di un ente, di un'associazione anche non riconosciuta, di un comitato, di una società o stabilimento che ha interesse nella causa. 6) In ogni altro caso in cui esistono gravi ragioni di convenienza, l'astensione è rimessa all'iniziativa del magistrato. La ricusazione Quando ricorra una delle fattispecie di astensione obbligatoria, ciascuna delle parti ha la possibilità di proporre istanza di ricusazione del giudice, in termini temporali ristretti. Il ricorso, contenente i motivi specifici e l'indicazione dei mezzi di prova, deve essere depositato in cancelleria non oltre due giorni prima dell'udienza, quando l'istante sia già a conoscenza dell'identità del giudice o dei giudici chiamati a trattare o a decidere a causa, in caso contrario, prima dell'inizio della trattazione o della discussione (art. 52). Scaduto questo termine, le parti non hanno più alcuna possibilità di far valere il motivo di ricusazione neppure in via di impugnazione della sentenza successivamente pronunciata. La decisione sulla richiesta di ricusazione compete al presidente del tribunale se è ricusato un giudice di pace, oppure al collegio se sia ricusato uno dei magistrati del tribunale o della corte. Deve essere sentito il giudice ricusato e devono assumersi, ove occorra, le prove offerte. La decisione è presa con ordinanza non impugnabile, che potrà dichiarare inammissibile o infondata la ricusazione oppure accogliere il ricorso, designando il magistrato che dovrà sostituire quello ricusato. L'ordinanza deve essere comunicata dal cancelliere alle parti, affinché queste possano provvedere alla riassunzione della causa entro il termine perentorio di sei mesi. La responsabilità civile dei magistrati La l. 117/1988 ha esteso la responsabilità ad ipotesi di colpa grave e ha escluso la possibilità che l'azione risarcitoria sia proposta direttamente nei confronti del magistrato, cui fa scudo lo Stato. Possono dare luogo a risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale: - un comportamento, un atto o un provvedimento posto in essere dal magistrato (anche onorario) con dolo; - un comportamento, un atto o un provvedimento posto in essere dal magistrato con colpa grave. La colpa grave può derivare solo da una una violazine manifesta della legge o del diritto ue; dal travisamento di fatti o prove; l’affermazione di un fatto la cui esistenza è esclusa dagli atti del procedimento; la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; - il diniego di giustizia, che ricorre, in linea di principio, quando il magistrato rifiuti, ometta o ritardi il compimento di atti del suo ufficio, a condizione che sia trascorso il termine previsto dalla legge e siano trascorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dal momento in cui la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento. Non può mai essere fonte di responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quelle di valutazione del fatto e delle prove. Quando sussista un'ipotesi di responsabilità, l'azione risarcitoria va proposta nei confronti dello Stato, che ne risponde civilmente, più precisamente nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri, a meno che il danno non derivi da un fatto costituente reato (in tal caso è possibile l’azione diretta contro il magistrato). L'azione contro lo Stato non è consentita prima che siano esperiti i mezzi di impugnazione e gli altri rimedi predisposti dall'ordinamento per eliminare l'atto o il provvedimento da cui deriva il danno, ed è soggetta ad un termine di decadenza di due anni, decorrenti dal momento in cui è divenuta esperibile. La competenza è del tribunale del capoluogo de distretto della Corte d’appello. Al giudizio promosso nei confronti dello Stato resta estraneo il magistrato della cui responsabilità si discute, egli non può mai essere chiamato ma può solo spiegarvi intervento volontario. La litispendenza internazionale Quando la contemporanea pendenza di due o più cause identiche davanti ad uffici giudiziari diversi, coinvolge, oltre al giudice italiano, giudici di un altro Stato, si ha litispendenza internazionale, regolata dalla l. 218/1995. Secondo l'art. 7 quando, nel corso del giudizio, sia eccepita la previa pendenza tra le stesse parti di domanda avente il medesimo oggetto e il medesimo titolo davanti a un giudice straniero, il giudice italiano, se ritiene che il provvedimento straniero possa produrre effetto per l'ordinamento italiano, sospende il giudizio. Solo le parti possono sollevare la questione. Prima di poter dichiarare la litispendenza, il giudice deve verificare, che sussistano le condizioni richieste per il riconoscimento del futuro provvedimento straniero. In questa fase si deve accertare che il giudice straniero possa conoscere la causa secondo i principi sulla competenza giurisdizionale propri dell'ordinamento italiano; e dunque che sussista in suo favore uno dei criteri di collegamento giurisdizionale previsti dalla legge italiana. La dichiarazione della litispendenza internazionale non chiude definitivamente il processo, ma lo sospende al fine di evitare che il processo straniero non pervenga poi ad una decisione di merito o che questa non sia riconoscibile in Italia. Il giudizio in Italia può riprendere tramite riassunzione ad istanza della parte interessata, se il giudice straniero declina la propria giurisdizione o se il provvedimento straniero non è riconosciuto nell'ordinamento italiano. Quando la giurisdizione straniera appartenga ad uno Stato membro dell'Unione Europea, il Reg. 44/2001 stabilisce che, qualora davanti a giudici di Stati membri differenti e tra le stesse parti siano state proposte domande aventi il medesimo oggetto e il medesimo titolo, il giudice successivamente adito deve sospendere d'ufficio il procedimento finché sia accertata la competenza del giudice adito in precedenza; e poi, una volta che sia intervenuto tale accertamento, deve senz'altro dichiarare la propria incompetenza a favore del primo. *Si ha un riconoscimento automatico delle decisioni emesse in un altro Stato membro. La giurisprudenza della Corte di giustizia ha adottato un concetto di litispendenza endocomunitaria più ampia di quello recepito nel diritto interno, ritenendo che la nozione di “medesimo oggetto” non possa essere limitata all'identità formale delle domande, cioè alle cause assolutamente identiche, ma debba abbracciare anche le ipotesi in cui tali domande, proposte davanti a giudici di Stati diversi, differiscano, per il rispettivo oggetto e siano tra loro contrapposte ed incompatibili, pur traendo origine dal medesimo rapporto. LA CONNESSIONE DI CAUSE La connessione in generale Si parla di connessione di cause quando due o più domande (e quindi due o più cause) hanno in comune uno o più elementi identificativi (soggetti, petitum, causa petendi), senza essere, però, identiche (altrimenti si avrebbe litispendenza). In presenza di un tale nesso il legislatore consente a determinate condizioni, il cumulo e la trattazione congiunta delle diverse cause in un unico giudizio (simultaneus processus). Ad esempio il creditore ereditario che agisce contro più coeredi per ottenere, nei limiti della propria quota, l’adempimento del debito del decuis. In questo caso sia vrà pluralità di domande, soggettivamente diverse dal lato passivo, fondate sullo stesso titolo (essendo unico il rapporto obbligatorio sottostante), ma differenti quanto all’oggetto (petitum). Quando i nessi tra più cause sono particolarmente stretti, il legislatore prevede delle deroghe agli ordinari criteri di competenza, dirette a consentire che un unico giudice possa conoscere di tutte le cause pur quando esse, separatamente considerate, andrebbero proposte davanti a diversi uffici giudiziari. Si possono distinguere diverse forme di connessione. La connessione meramente soggettiva L'ipotesi di connessione più tenue è la connessione soggettiva, che riguarda solo i soggetti attivi e passivi, delle domande, le quali differiscono per ogni aspetto oggettivo. È prevista dall'art. 104 co 1°, che consente di proporre contro la stessa parte, nel medesimo processo, più domande anche altrimenti non connesse, purché sia osservata la norma dell'art. 10 co 2°. Si consente, ad iniziativa dell'attore, il cumulo di più domande in un unico processo; cumulo detto “oggettivo” perché riguarda più cause diverse fra le stesse parti. Vengono in rilievo ragioni di economia processuale o di comodità delle parti, quindi non si prevede nessuna deroga ai criteri ordinari di competenza, diretta a favorire il simultaneus processus, che sarà concettualmente attuabile solamente quando uno stesso ufficio giudiziario risulti competente, per materia e per territorio, per tutte le cause. Quanto alla competenza per valore il problema non si pone poiché l’art 10 2 comma, espressamente richiamato dall’art 104, prevede che il valore complessivo della causa si determini sommando le domande proposte contro la stessa parte. Il che sta a significare che il cumulo oggettivo di cause può investire di queste ultime un giudice diverso da quello che sarebbe stato competente a conoscerle separatamente (es due domande che per competenza dio valore apparterrebbero al giudice di pace ma che sommate tra loro devono proporsi al tribunale). Occorre tener presente che un cumolo oggettivo può attuarsi anche per domande contrapposte delle parti, cioè quando taluna di esse sia formulata dal soggetto contro cui erano state proposte altre domande (vedere domande riconvenzionali). La connessione oggettiva impropria Si definisce connessione oggettiva impropria il rapporto tra due o più cause la cui decisione “dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni”. Si cerca di assicurare che le questioni comuni trovino una soluzione uniforme per le varie cause, ma la trattazione separata non presenta nessun rischio di contrasto di giudicati, quindi non è prevista nessuna deroga agli ordinari criteri di competenza; la realizzazione del simultaneus processus resta subordinata all'eventualità che sia individuabile uno stesso ufficio giudiziario competente per tutte le cause. Le identiche questioni possono essere, indifferentemente, questioni di fatto o di diritto. La connessione oggettiva propria La connessione oggettiva propria è quella che deriva dalla comunanza dell'oggetto oppure dal titolo dal quale dipendono le domande (art. 103). Il legislatore prende in considerazione l'ipotesi in cui più cause riguardano parti diverse; ne deriva la possibilità che le cause in tal modo connesse vengano cumulativamente proposte in un unico processo; si parla in tal caso di cumulo soggettivo, proprio perché le cause coinvolgono parti diverse. La realizzazione del simultaneus processus si ottiene anche attraverso una deroga ai criteri ordinari della competenza territoriale: l'art. 33 stabilisce che le cause contro più persone che a norma art. 18 e 19 dovrebbero essere proposte davanti a giudici diversi, se sono connesse per l'oggetto o per il titolo possono essere proposte davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di una di esse. La norma fa riferimento ai soli fori generali, quindi la deroga è ammessa esclusivamente in danno del foro genarle di un convenuto ed in favore del foro genarle di un altro convenuto. Per determinare l'oggetto si fa riferimento al petitum mediato, al bene della vita di cui si chiede l'attribuzione; per questo si deve intendere che l'identità non va intesa in senso formale ed assoluto, ma come equivalenza dell'obiettivo cui le diverse domande tendono. Tale equivalenza caratterizza le ipotesi di concorso di azioni, nelle quali più domande, pur basandosi su fatti costitutivi diversi, mirano ad un risultato sostanzialmente coincidente. La proposizione di più domande in un unico processo (contro la stessa o contro parti diverse) dà luogo, di regola, ad un cumulo alternativo, in tal caso l'accoglimento di una domanda è palesemente incompatibile con l'accoglimento dell'altra, in quanto è da considerare identico il rispettivo oggetto. Non è chiaro cosa debba intendersi per identità del titolo. L'impressione è che il legislatore abbia inteso riferirsi all'identità del rapporto giuridico sostanziale rispettivamente dedotto in giudizio, anche quando per taluna delle cause tale rapporto corrisponda ad una parte soltanto della causa petendi. Es il creditore ereditario che agisce per l’adempimento contro più coeredi, ciascuno dei quali risponde pro quota, sulla base dell’unico rapporto obbligatorio. Quando la comunanza riguarda singoli fatti, non riconducibili ad un rapporto sostanziale unico, deve ritenersi che si tratti di connessione impropria, priva di ogni riflesso sulla competenza. Infine, possiamo dire che la connessione potrebbe riguardare nel contempo l’oggetto e il titolo. Ciò si verifica quando viene dedotto in giudizio un rapporto giuridico che il diritto sostanziale mostra di reputare unitario anche se plurisoggettivo: per es un diritto reale di cui siano titolari più persone, oppure un’obbligazione solidale. La connessione c.d. qualificata e la pregiudizialità-dipendenza Le ipotesi contemplate agli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c. sono riconducibili al concetto di connessione qualificata; sono caratterizzate da un peculiare rapporto di subordinazione di una causa ad un'altra, in un rapporto di pregiudizialità dipendenza. Il fenomeno della pregiudizialità in senso stretto, detta pregiudizialità tecnica, attiene ad una particolare relazione sostanziale tra rapporti giuridici, consistente nel fatto che l'esistenza o l'inesistenza o l'estinzione di un diritto o di uno status dipende, per l'appunto sul piano sostanziale, dall'esistenza o inesistenza, tra le stesse parti o tra parti diverse, di un altro rapporto giuridico, che appartiene alla fattispecie costituiva oppure a quella impeditiva- modificativa- estintiva del primo (es vi è pregiudizialità dipendenza tra la domande di pagamento di un credito del decuis e la domandi di accertamento della qualità di erede. La pregiudizialità- dipendenza dà luogo ad una connessione particolarmente intensa, cui corrisponde, quando le cause non vengano trattate congiuntamente, un rischio piuttosto alto di giudicati (logicamente) contraddittori, legato all'eventualità che l'esistenza del medesimo rapporto pregiudiziale venga affermata in un processo e negata nell'altro. In caso di contestazione sorge una causa pregiudiziale, che va a cumularsi a quella originaria e può esorbitare la competenza del giudice adito. Quindi tale forma di connessione al pari di quella prevista dall’art 34, consente di derogare alla sola competenza per territorio e a quella per valore di un giudice inferiore, non anche alla competenza per materia o funzionale. Se, grazie anche a tali deroghe è lo stesso giudice originariamente adito a poter decidere sul controcredito contestato, il simultaneus processus si realizzerà dinanzi a lui; in caso contrario l’art 35 richiama la soluzione indicata nell’art 34, prevedendo che tutta la causa (il cumulo delle cause) sia rimessa al giudice superiore. Rispetto all’art 34 però il giudice qui ha una possibilità ulteriore: infatti se la domanda principale è fondata su un titolo non controverso o facilmente accertabile, che non esige una complessa attività istruttoria, può decidere su di essa e rimettere al giudice superiore la sola decisione concernente l'esistenza del controcredito, eventualmente subordinando l'esecuzione della propria sentenza di condanna alla prestazione di una cauzione. La domanda riconvenzionale L'art. 36 disciplina le sole domande riconvenzionali che dipendono dal titolo dedotto in giudizio dell'attore o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione. Tali domande possono essere cumulate alla domanda principale e decise nello stesso processo, purché non eccedano la competenza per materia o valore del giudice adito. In caso contrario il giudice applica le disposizioni dei due articoli precedenti; questo significa che, se la domanda principale è fondata “su titolo non controverso o facilmente accertabile”, potrà decidere su di essa e rimettere al giudice superiore la sola causa concernente la riconvenzionale; altrimenti gli rimetterà entrambe le cause. Il concetto di riconvenzionale abbraccia non solo la domanda formulata dal convenuto nei confronti dell’attore (controdomanda facendo valere un diritto diverso da quello oggetto della domanda principale anche se ad esso collegato), ma anche quella proposta da taluno dei convenuti nei confronti di un altro convenuto; ed infine tutte le domande provenienti di chi è già parte nel processo e diretto contro un altro soggetto che ha in precedenza già acquisito la qualità di parte. Fermo restando che la deroga alla competenza è applicabile nei soli casi di vera e propria connessione oggettiva previsti dall'art. 36, la prevalente giurisprudenza, contrastata dalla dottrina, ritiene che, ai soli fini dell'ammissibilità del cumulo, sia sufficiente un qualunque collegamento obiettivo tra la domanda principale e quella riconvenzionale. Le modalità di realizzazione del simultaneus processus Il cumulo può realizzarsi in momenti e con modalità differenti, sia all'inizio, per scelta dell'attore (es se formula più domande contro lo stesso convenuto in tal caso cumolo oggettivo) o contro una pluralità di convenuti (cumulo soggettivo), oppure nel corso del giudizio: in conseguenza del sorgere di una nuova causa es riconvenzionale tra le stesse parti, oppure in seguito all’allargamento anche soggettivo del giudizio, che derivi dalla chiamata o dall’intervento volontario di un terzo. Può avvenire anche che le cause connesse siano state promosse autonomamente, in separati processi: in questi casi la disciplina è diversa a seconda che esse pendano o no davanti allo stesso ufficio giudiziario. Cause separatamente proposte davanti ad uffici giudiziari diversi Se le cause connesse vengono instaurate separatamente dinanzi ad uffici giudiziari diversi, l'art. 40 consente, a certe condizioni (tra cui che si tratti di ipotesi di connessione qualificata contemplate dagli art 31-36) che la loro trattazione congiunta possa attuarsi attraverso la fusione di più processi davanti ad uno di tali uffici. Il giudice dichiara la connessione con ordinanza, fissando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa accessoria davanti al giudice della causa principale, e negli altri casi davanti a quello preventivamente adito. Il che lascia intendere che a spogliarsi della causa devva essere il giduice della causa accessoria nell’ipotesi di cui all’art 31 e quello adito successivamente in tutti gli altri casi. Davanti a tale giudice, la connessione può essere eccepita, da ciascuna parte, oppure rilevata d'ufficio solamente entro la prima udienza; lo stesso giudice deve comunque rifiutare la dichiarazione di connessione quando lo stato della causa principale o preventivamente proposta non consentirebbe l'esauriente trattazione e decisione delle cause connesse (art. 40 co 2°). L'art. 40 co 6° prevede che, in caso di connessione qualificata tra cause spettanti al giudice di pace e cause di competenza del tribunale, le relative domande possono essere proposte davanti al tribunale affinché siano decise nello stesso processo. Quando le cause venissero proposte invece separatamente, il giudice di pace dovrebbe pronunciare anche d'ufficio la connessione a favore del tribunale, implicando che in tal caso il rilievo della connessione non è soggetto alle limitazioni temporali, ma resta consentito per tutta la durata del processo davanti al giudice onorario. Cause separatamente proposte davanti allo stesso ufficio giudiziario Nell'ipotesi in cui le cause connesse siano proposte separatamente davanti allo stesso ufficio giudiziario, la fusione delle cause si realizza semplicemente attraverso la loro riunione. La riunione qui è falcoltativa. L'art. 274 prevede che, qualora le cause connesse pendano davanti allo stesso giudice, questi possa, anche d'ufficio, disporne direttamente la riunione. Se invece le cause connesse pendono davanti ad altro giudice o ad altra sezione dello stesso tribunale, il giudice istruttore o il presidente della sezione che ne abbiano notizia devono riferirne al presidente, il quale, sentite le parti, ordina con decreto che le cause siano chiamate alla medesima udienza davanti allo stesso giudice o alla stessa sezione per i provvedimenti opportuni (cioè per l'eventuale riunione). Una disciplina speciale riguarda le materie del lavoro (art. 409) e della previdenza e assistenza obbligatorie (art. 442), nonché in generale le controversie davanti al giudice di pace, per le quali il legislatore mostra di voler dare maggiore rilievo alle esigenze di economia processuale perseguite attraverso la trattazione congiunta delle cause connesse. Per tali ipotesi, l'art. 151 disp. att. Prevede una duplice deroga dell'art. 274: in primo luogo stabilendo che la riunione sia obbligatoria, tranne quando renda troppo gravoso o ritardi eccessivamente il processo, ogni volta che le cause si trovino nella stessa fase processuale; in secondo luogo estendendo tale riunione anche alle cause connesse soltanto per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende, totalmente o parzialmente, la loro decisione. La connessione di cause soggette a riti diversi L'art. 40 detta una serie di criteri miranti a stabilire, per ogni possibile combinazione di riti differenti, quale sia quello prevalente, da utilizzare per tutte le cause cumulate. Tale disciplina si ritiene applicabile solo ai processi a cognizione piena, e prende in considerazione solo la connessione qualificata (art. 31, 32, 34, 35, 36), con esclusione della connessione oggettiva semplice dell'art. 33. I criteri previsti ai commi 3° e 4° sono:  se una delle cause connesse è soggetta al rito ordinario, è questo che viene preferito e che deve essere pertanto utilizzato anche nelle cause che sarebbero soggette ad un rito diverso;  se però una delle cause rientra tra quelle di cui agli art. 409 e 442 (se si tratta cioè di una causa di lavoro oppure di una controversia in materia di previdenza e assistenza obbligatoria, è il rito risultante dagli art. 414 ss. a prevalere su ogni altro, incluso quello ordinario;  quando nessuna delle cause sia soggetta al rito ordinario o rientri fra quelle di cui agli artt. 409 e 442, troverà applicazione il rito speciale previsto per la causa in ragione della quale viene determinata la competenza, oppure, in subordine, quello previsto per la causa di maggior valore. Questi criteri valgono solo quando le più cause connesse siano state cumulativamente proposte o successivamente riunite. In caso di eventuale violazione di tali criteri, il giudice, anche quando il vizio sia scoperto in appello, deve limitarsi a disporre il passaggio dal rito ordinario a quello speciale, o viceversa. Si esclude che l'errore sul rito abbia conseguenze fatali per il processo, e che sia causa di nullità degli atti in esso compiuti. Il potere di separazione delle cause cumulate Gli art. 103 co 2° e 104 co 2° attribuiscono al giudice il potere discrezionale di disporre, nel corso dell'istruzione o in fase di decisione, la separazione delle cause fino a quel momento trattate congiuntamente, quando tutte le parti ne facciano istanza o, anche d'ufficio, quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe più gravoso il processo. Ciascuna delle cause torna a svolgersi autonomamente, davanti al giudice inferiore che fosse eventualmente competente rispetto a taluna di esse. LE PARTI E I DIFENSORI La nozione di parte Nell'accezione che rileva maggiormente, si intende “parte” il soggetto che agisce nel processo in nome proprio e nei cui confronti si produrranno gli effetti, favorevoli o sfavorevoli, dei provvedimenti del giudice (si prescinde quindi dalla titolarità del rapporto giuridico controverso). È parte il sostituto processuale, che agisce in nome proprio ma facendo valere un diritto dichiaratamente altrui, mentre il sostituito, cioè il titolare del diritto stesso, lo diviene solo se e quando sia chiamato effettivamente a partecipare al giudizio instaurato dal legittimato straordinario. È parte il terzo che intervenga nel processo, anche nelle ipotesi in cui si limiti a sostenere le ragioni di una delle parti, senza far valere alcun proprio diritto. La qualità di parte si acquista: 1) per aver dato vita al processo attraverso l’atto introduttivo (attore); 2) per essere stato destinatario della domanda (convenuto); 3) in conseguenza di intervento, volontario o coatto; 4) per essere succeduto ad una delle parti originarie e 59 anche per il solo fatto di essere indicati come parte nel provvedimento del giudice (il quale si pronuncia nei confronti di uno soggetto che non ha partecipato al giudizio) La rappresentanza e la difesa tecnica Secondo l'art. 82 davanti al tribunale e alla corte d'appello è sempre necessario che le parti stiano in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente, cioè iscritto all'albo degli avvocati. Le deroghe riguardano i casi in cui è consentito alla parte stare in giudizio personalmente, ad es. quando abbia la qualità necessaria per esercitare l'ufficio di difensore con procura presso il giudice adito, cioè sia essa stessa avvocato. Davanti al giudice di pace è ammessa la difesa personale nelle cause in cui il valore non ecceda 1110 euro; negli altri casi è richiesto o il ministero oppure l'assistenza di un difensore, salvo che il giudice, in considerazione della natura ed entità della causa, non autorizzi la parte a stare in giudizio di persona. Davanti alla Corte di cassazione è prescritto il ministero di un avvocato iscritto all'apposito albo. Occorre distinguere le funzioni di rappresentanza e assistenza: quando svolge funzioni di rappresentanza, il difensore agisce in sostituzione della parte, compiendo gli atti del processo in nome e per conto della parte stessa, in forza di una procura che questa gli ha conferito. È una vera e propria rappresentanza, definita “tecnica”; consiste nel compimento di tutti gli atti processuali occorrenti in relazione ad una determinata azione oppure per resistere ad essa. Il contenuto della procura è tipico, mentre i poteri concretamente spettanti al difensore sono in questo caso definiti direttamente dalla legge (art. 84). Deve ritenersi che il difensore goda di notevole discrezionalità tecnica nella scelta degli strumenti processuali e delle strategie difensive più consone agli interessi del rappresentato, la cui volontà non potrebbe per questo aspetto vincolarlo (salvo, sul piano deontologico, l'obbligo di una corretta e puntuale informazione) che non sia la revoca del mandato. Il difensore-assistente invece è quello che affianca la parte per fornire la propria consulenza giuridica e perorare le tesi difensive del patrocinato. Opera in base ad un mandato conferitogli dal cliente, per il quale non sono previste forme particolari. L’ordinamento della professione di avvocato Per ottenere l'iscrizione in un albo di avvocati (istituito presso ogni tribunale), condizione indispensabile per l'esercizio delle relative funzioni, è necessario la laurea in giurisprudenza e il superamento dell'esame di abilitazione, cui è possibile accedere dopo un 18 mesi di pratica presso uno studio legale e la frequenza degli uffici giudiziari. L'avvocato è tenuto a risiedere nel capoluogo del circondario del tribunale cui è assegnato, salvo venga autorizzato a risiedere in altra località del medesimo circondario. La procura Il difensore-rappresentante deve sempre essere munito di procura scritta, redatta secondo le formalità previste all'art. 83. La procura può essere generale, quando sia conferita per un numero indefinito di controversie, anche future, oppure speciale, quando si riferisca ad una causa determinata. In linea di principio la procura dovrebbe essere rilasciata con atto pubblico o con scrittura privata autenticata. Limitatamente alla procura speciale però l'art. 83 co 3° consente che sia apposta in calce o a margine di taluni atti processuali e che, l'autografia della sottoscrizione della parte sia certificata dallo stesso difensore destinatario del mandato. Tali atti sono quelli iniziali di qualunque procedimento: la citazione, il ricorso, il controricorso, la comparsa di risposta o d'intervento, il precetto, la domanda di intervento nell'esecuzione, dalla riforma del 2009 anche la memoria di nomina del nuovo difensore, in aggiunta o in sostituzione del difensore originariamente designato. Tale elencazione però non ha carattere tassativo secondo l'opinione prevalente; si esige che si tratti di atti depositati contestualmente alla costituzione in giudizio della parte, in modo da assicurare che in questo modo il mandato sia stato già conferito. La procura speciale si considera apposta in calce, e quindi valida, anche quando sia rilasciata su foglio separato che sia però congiunto materialmente all'atto cui si riferisce. Tale procura (speciale) si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo, quando nell'atto non è espressa volontà diversa. Il nuovo testo dell'art.182 ha previsto che i vizi della rappresentanza tecnica, al pari di quelli della legittimazione processuale, possano sanarsi in qualunque momento con efficacia retroattiva, a condizione che la procura sia rilasciata o rinnovata entro il termine perentorio assegnato dal giudice. L'art. 85, pur consentendo in ogni momento tanto la revoca della procura, ad opera della parte che l'aveva conferita, quanto la rinuncia ad essa, da parte dello stesso difensore, statuisce che né l'una né l'altra hanno effetto nei confronti dell'altra parte finché non sia avvenuta l'effettiva sostituzione. I poteri del difensore L'art. 84 attribuisce al difensore-procuratore il potere di compiere e ricevere, nell'interesse della parte rappresentata, tutti gli atti del processo che per legge non sono espressamente riservati alla parte medesima. Si sottrae inoltre al difensore il compimento di atti che importino disposizione del diritto in contesa, se non ne ha ricevuto espressamente il potere: ad esempio non può, transigere o conciliare la controversia, quando la parte non gli abbia attribuito esplicitamente tali poteri, con la stessa procura conferitagli per il giudizio o con atto separato. Alcune norme specifiche richiedono poi una procura ad hoc per determinati atti, ritenuti dal legislatore particolarmente delicati, o idonei ad incidere sulla prosecuzione della causa, se non addirittura, seppur indirettamente, sullo stesso diritto controverso. Il difensore con procura diviene, dal momento della costituzione in giudizio, il destinatario naturale di tutte le notificazioni e le comunicazioni dirette alla parte da lui rappresentata. IL PROCESSO CON PLURALITA’ DI PARTI IL LITISCONSORZIO ORIGINARIO: Il concetto di litisconsorzio Litisconsorzio indica la presenza nel processo di una pluralità di parti (più di due). Si parla di litisconsorzio attivo, passivo o misto, a seconda che la pluralità di parti riguardi chi ha proposto la domanda, i destinatari della stessa o entrambi. Il litisconsorzio può essere originario, se si determina fin dal momento di instaurazione del processo, o successivo, quando si realizza nel corso del giudizio, in conseguenza dell'intervento di nuove parti o di un fenomeno di successione processuale. Può essere facoltativo, quando il processo può instaurarsi tra più parti, o necessario, quando deve instaurarsi tra più parti. Il litisconsorzio facoltativo originario L'art. 103 consente che più parti agiscano o siano convenute nello stesso processo quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l'oggetto o per il titolo dal quale dipendono (litisconsorzio facoltativo originario proprio, perché presuppone una connessione oggettiva propria), o quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni (litisconsorzio facoltativo originario improprio). La facoltatività è riferita alla genesi del cumulo soggettivo di cause, rimessa alla volontà dell'attore (o degli attori). Il litisconsorzio necessario L'art. 102 co 1° prevede il litisconsorzio necessario: “se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo.” e al co 2° qualora ciò non avvenga (se cioè il processo non sia stato instaurato fra tutti i litisconsorti necessari) il giudice deve ordinare l'integrazione del contraddittorio in un termine perentorio da lui stabilito. La scadenza di tale termine perentorio conduce all'estinzione del processo. La dottrina parla di questa norma come “norma in bianco” in quanto omette di precisare quand'è che la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, e quindi quali ipotesi possa configurarsi il litisconsorzio necessario. Vi sono anche ipotesi in cui la necessità del litisconsorzio è prevista dalla legge; ad es. art. 784, che impone di proporre domande di divisione nei confronti di tutti gli eredi o condomini nonché degli eventuali creditori opponenti. Litisconsorzio necessario determinato dalla deduzione di un rapporto unico plurisoggettivo Il litisconsorzio necessario trova applicazione in diverse fattispecie, suddivisibili in tre diversi gruppi. 1) Anzitutto la necessità del litisconsorzio può discendere da ragioni sostanziali, cioè dalla circostanza che il processo abbia ad oggetto un rapporto giuridico unico ma plurisoggettivo. La dottrina dominante nega che l'art. 102, in relazione alle ipotesi in cui la causa verte su un rapporto plurisoggettivo, costituisca una mera applicazione del principio del contraddittorio, e sia quindi preordinato a tutelare il diritto di difesa dei litisconsorti necessari; l'art. 2909 c.c. concernente i limiti soggettivi del giudicato, esclude che la sentenza possa fare stato nei confronti di soggetti contitolari del rapporto giuridico oggetto della decisione, che non abbiano acquistato la qualità di parte nel processo; quindi la sentenza resa a contradditorio non integro non potrebbe nuocere ai litisconsorti pretermessi (cioè rimasti estranei al giudizio). L’intervento principale Nell'intervento principale (ad opponendum) il terzo propone una propria domanda contro tutte le parti originarie, facendo valere un diritto autonomo rispetto a quello già dedotto in giudizio e con esso incompatibile: autonomo nel senso che prescinde, sul piano sostanziale, dall'esistenza del diritto vantato da ciascuna delle parti; incompatibile perché non coesiste con esso, riguardando lo stesso bene della vita. Si tratterà quindi di connessione per identità dell'oggetto. Ad esempio, il terzo che interviene in un giudizio in cui le parti si contendono la proprietà di un certo bene, ed esercita a propria volta un’azione di rivendica dello stesso bene, sostenendo di averne acquistato la proprietà in base ad un titolo autonomo ad es per averlo usucapito. Il diritto del terzo ben potrebbe essere tutelato in un altro autonomo processo, senza dover temere alcun pregiudizio giuridico della sentenza nel frattempo pronunciata tra le parti; sicché, se il terzo decide di intervenire, è solo per ragioni di economia processuale oppure, in qualche caso, per evitare che l'accoglimento della domanda tra le parti possa rendergli di fatto più difficoltosa la successiva realizzazione del proprio diritto. L’intervento adesivo autonomo Nell'intervento adesivo autonomo il terzo, pur vantando anche in questo caso un diritto che non è subordinato rispetto a quello controverso tra le parti, propone una domanda nei confronti di taluna soltanto di esse, assumendo una posizione del tutto compatibile con quella dell'altra parte. La connessione in queste ipotesi può riguardare, a seconda dei casi, il solo titolo o il titolo e l'oggetto della domanda originaria. Si tratta di ipotesi nelle quali il terzo avrebbe potuto agire o essere convenuto fin dal primo momento insieme alle parti originarie, senza poter comunque essere pregiudicato, de iure, dalla decisione che dovesse essere pronunciata senza la sua partecipazione al giudizio. L’intervento adesivo dipendente Nell'intervento adesivo dipendente il terzo non fa valere nel processo un proprio diritto, né propone una sua domanda, ma si limita invece a sostenere le ragioni di una delle parti, avendovi un proprio interesse (art. 105 co 2°). E' opinione diffusa che tale intervento presupponga una di pregiudizialità-dipendenza tra il diritto dell'interveniente e quello oggetto del giudizio fra le parti, sì che il terzo possa essere interessato all'esito di tale giudizio, dal quale potrebbe indirettamente derivargli un vantaggio oppure un nocumento giuridicamente rilevante; fermo restando che il diritto del terzo rimane estraneo, di per sé, al processo e viene allegato dall'interveniente esclusivamente come titolo della sua legittimazione, ossia per giustificare l'interesse ad intervenire. È preferibile ritenere che l'interesse prescritto dall'art. 105 sussiste per il solo fatto che, in ragione del nesso sostanziale esistente tra il rapporto giuridico di cui è titolare il terzo e quello controverso tra le parti, vi sia la mera possibilità che l'interveniente consegua un vantaggio dalla decisione di accoglimento o di rigetto della domanda. Ad esempio legittimato all’intervento è certamente, nella causa tra locatore e conduttore in cui si discuta della nullità o della risoluzione del contratto di locazione, il sub-conduttore, che sarebbe comunque soggetto agli effetti della relativa sentenza. I poteri dell’interveniente adesivo dipendente Nell'intervento principale e in quello adesivo autonomo non sorgono problemi riguardo al diritto di impugnare la sentenza, giacché in tali casi l'interveniente propone una propria domanda e, relativamente ad essa, è parte ad ogni effetto. L'interveniente adesivo dipendente, invece, salvo che non sia eccezionalmente investito di legittimazione straordinaria ad agire per l'accertamento del rapporto pregiudiziale cui è estraneo, ha una legittimazione meramente secondaria, potendo solo partecipare al giudizio che sia stato instaurato da uno dei titolari del rapporto. Tradizionalmente si esclude che possa autonomamente impugnare la decisione resa sul rapporto pregiudiziale, quando non l'abbiano fatto le parti titolari del rapporto stesso. L’intervento coatto: il presupposto della “comunanza di causa” *art 106 cpc: Ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritiene comune la causa o dal quale pretende essere garantita. Presupposto per la chiamata in causa del terzo è che la causa sia a lui comune. L'intervento coatto deve ritenersi utilizzabile nelle seguenti situazioni:  in presenza di una connessione per alternatività e/o incompatibilità tra il rapporto giuridico oggetto del processo e quello di cui sarebbe titolare il terzo, cioè quando l'esistenza del diritto o dell'obbligo attribuito al terzo, e quindi la fondatezza della domanda proponibile dall'interveniente o nei suoi confronti, escluderebbe la fondatezza della domanda originaria, essendo sostanzialmente identico il rispettivo petitum, ossia il bene giuridico perseguito (es il destinatario agisce contro l’assicuratore per i danni subiti dalla merce trasportata e poi, avendo questi dedotto l’inoperatività della copertura assicurativa propone domanda di risarcimento nei confronti del vettore). Una sottospecie di tale connessione ricorre quando il terzo sia indicato quale titolare attivo o passivo, del rapporto dedotto in giudizio. Sono queste le ipotesi in cui il convenuto o sostiene che il vero obbligato non è lui, ma un altro soggetto oppure, senza negare la propria obbligazione afferma che il vero titolare del diritto dedotto in giudizio non è l’attore ma un terzo. In entrambe le situazioni la chiamata in causa del terzo ha dei vantaggi: nel primo caso consente all’attore di proporre una domanda alternativa di condanna del convenuto o del terzo; nel secondo caso evita al convenuto il rischio di essere condannato nei confronti dell’attore e di dover successivamente pagare anche il terzo.  quando il terzo (al di fuori dalle ipotesi di litisconsorzio necessario) sia indicato quale contitolare del rapporto plurisoggettivo già oggetto del processo, così che le parti originarie potrebbero avere interesse ad estendere nei suoi confronti gli effetti del futuro giudicato;  quando il terzo sia titolare di un rapporto giuridico dipendente da quello oggetto del processo: in questi casi l’intervento coatto potrebbe rappresentare uno strumento di tutela del terzo oppure, un mezzo per estendere nei suoi confronti l’efficacia riflessa della sentenza. L’intervento coatto, tranne che nella terza ipotesi, deve rendere possibile un allargamento oggettivo del processo, che conduca il giudice a decidere anche sul rapporto facente capo al terzo. Inoltre, tale intervento, siccome può essere chiesto da una qualunque delle parti oppure può essere ordinato dal giudice, in ogni caso deve condurre, di per sé, all'accertamento con efficacia di giudicato del rapporto facente capo al chiamato, pur quando nessuna esplicita domanda sia stata formulata in tal senso. Perché possa aversi una sentenza di condanna del terzo o a favore del terzo è, invece, indispensabile una specifica domanda, proveniente dalle parti o dal terzo. L’intervento per ordine del giudice Art 107 cpc: Il giudice, quando ritiene opportuno che il processo si svolga in confronto di un terzo al quale la causa è comune, ne ordina l'intervento. In caso di intervento per ordine del giudice, ex art. 107, la chiamata del terzo, che comunque conduce ad un'estensione del futuro giudicato nei suoi confronti, viene fatta dipendere da una valutazione di opportunità rimessa al giudice. Questo lo contraddistingue dall'ordine di integrazione necessaria del contraddittorio ex art. 102. Per quanto riguarda i presupposti e gli effetti dell’intervento coatto vale quanto detto nel par precedente. LO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO LITISCONSORTILE: Il litisconsorzio “unitario” e il litisconsorzio necessario c.d. processuale *da valutare Il cumulo soggettivo viene direttamente imposto dalla legge all'art. 2378 co 5° c.c. che, con riferimento all'impugnazione delle delibere di società di capitali, stabilisce che tutte le impugnazioni relative alla medesima deliberazione, anche se separatamente proposte, devono essere istruite congiuntamente e decise con unica sentenza. È quindi necessario che, dove più soci abbiano impugnato, le più cause confluiscano in un unico giudizio, che deve attenere una trattazione ed una decisione unitarie. La dottrina ha definito tale situazione litisconsorzio “unitario”, essendo facoltativo dal punto di vista genetico (cioè non necessario ex art. 102 la partecipazione di tutti i soggetti del rapporto soggettivo dedotto in giudizio), ma necessario una volta che, avendo agito (o essendo stati convenuti) più contitolari del rapporto, il cumulo sia stato concretamente realizzato. La giurisprudenza ha coniato la figura del litisconsorzio necessario processuale, si fa riferimento all’ipotesi in cui, morta una parte, la causa debba essere proseguita da o nei confronti dei suoi eredi, che sarebbero litisconsorti necessari nel successivo corso del giudizio, indipendentemente dal tipo di diritto in esso dedotto. La sentenza, ex art. 2909 c.c. avrebbe effetto nei confronti dei successori universali della parte venuta meno, e quindi sarebbe nulla se pronunciata senza la loro partecipazione. Interferenze tra le attività processuali dei singoli litisconsorti: Nel caso di litisconsorzio necessario o unitario trattandosi di una causa sostanzialmente unica che deve essere decisa in modo uniforme a tutte le parti, è inevitabile che gli effetti dell’attività del singolo litisconsorte si comunichino agli altri. Nel caso di cumulo scindibile invece alla pluralità di parti corrisponde anche una pluralità di cause, tra di loro connesse, le quali restano distinte e provviste di autonomia; quindi anche gli effetti dell’attività compiuta dal singolo litisconsorte dovrebbero prodursi esclusivamente rispetto alla causa di cui egli è parte. GLI ATTI PROCESSUALI LA FORMA DEGLI ATTI IN GENERALE: Forma, contenuto e volontà nell’atto processuale Il processo è una serie di atti correlati e teleologicamente preordinati a rendere possibile la pronuncia di un provvedimento giurisdizionale finale rispetto al quale quindi sono strumentali. La nozione di atto processuale abbraccia tutti gli atti che si inseriscono in tale sequenza procedimentale, determinando effetti nel processo, che consistono nella nascita, modificazione o estinzione di poteri, oneri o doveri a loro volta processuali in quanto aventi ad oggetto il compimento di altri atti processuali (es dalla notificazione dell’atto di citazione discende l’onere di costituzione). Per tutti gli atti del processo, siano di parte o d'ufficio, il legislatore detta regole precise circa ai requisiti di forma e contenuto. L’attuazione del processo telematico ha inoltre fatto sì che alla tradizionale forma scritta si sia affiancata quella del documento informatico. È opinione corrente infine che proprio la puntuale regolamentazione formale degli atti processuali escluda ogni possibile rilevanza dei vizi della volontà. Le regole generali concernenti la forma degli atti Il principio fondamentale, all'art. 121 e poi ripreso dall'art. 131, è la libertà di forme: “Gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo”, intendendo con scopo la funzione oggettiva che l'atto stesso assolve nel processo (non l’obiettivo perseguito dall’attore). Essendo la scelta vincolata e limitata dallo scopo dell'atto, si dovrebbe parlare di strumentalità delle forme, piuttosto che di libertà di forme. L’ art. 125 detta una disciplina generale di contenuto minimo degli atti di parte, stabilendo che, salva diversa previsione normativa, la citazione, il ricorso, la comparsa, il controricorso ed il precetto devono indicare: l'ufficio giudiziario, le parti, l'oggetto, le ragioni della domanda, le conclusioni o l'istanza rivolta al giudice, e inoltre devono recare sia nell'originale che nelle copie da notificare, la sottoscrizione della parte (se sta in giudizio personalmente) o del suo difensore- procuratore. L'art. 126 regola il contenuto del processo verbale nel quale vengono documentate, quando prescritto, le attività e le operazioni compiute dagli organi giudiziari (giudice, cancelliere, ufficiale giudiziario) o comunque alla loro presenza. Tale verbale deve contenere l'indicazione delle persone intervenute e delle circostanze di luogo e di tempo nelle quali gli atti che documenta sono compiuti, la descrizione delle attività svolte e delle rilevazioni fatte, le dichiarazioni ricevute. Il verbale deve essere sottoscritto dal cancelliere e, se all'attività documentata nel verbale hanno partecipato altri soggetti, deve di regola dare loro lettura del verbale stesso. Una disciplina specifica riguarda le udienze, cioè i momenti del processo deputati alla trattazione della causa, nel contraddittorio tra le parti, ad opera del giudice monocratico o collegiale. Il codice prevede che il processo si snodi fra un’udienza e l’altra, cominciando da quella che l’attore deve indicare nell’atto introduttivo del giudizio e proseguendo poi con quelle che il giudice è tenuto di volta in volta a fissare. Riguardo lo svolgimento delle udienze (la cui direzione è affidata a seconda dei casi al giudice singolo o al presidente del collegio), il legislatore assicura la pubblicità, a pena di nullità, della sola udienza di discussione della causa; le altre udienze non sono pubbliche, e per ciascuna causa dovrebbero essere ammessi esclusivamente i difensori e le parti, le quali possono interloquire solo dopo aver ottenuto dal giudice l'autorizzazione. Per ogni udienza è prescritta, ad opera del cancelliere, la redazione di un apposito verbale, sotto la direzione del giudice, che poi lo sottoscrive unitamente al cancelliere. In questo verbale le parti ed i difensori possono dettare direttamente le proprie deduzioni solo dietro autorizzazione del giudice. La trasmissione degli atti processuali a mezzo telefax Il principio per cui tutti gli atti processuali devono recare la sottoscrizione autografa della parte o del difensore da cui provengono trova una parziale deroga nella l. 183/1993, la quale consente a, determinate condizioni, di utilizzare, in luogo dell'originale, copie foto-riprodotte di atti del processo trasmessi a distanza da un avvocato ad un altro avvocato. Tale copia è considerata conforme ed equivalente all'originale se: la procura è stata conferita tanto all'avvocato che ha redatto e trasmesso l'atto quanto a quello che l'ha ricevuto; l'originale reca l'indicazione e la sottoscrizione leggibile dell'avvocato estensore e tali elementi risultano anche nella copia; l'originale deve essere dichiarato conforme all'atto trasmesso da parte dell'avvocato che l'ha redatto e trasmesso; la copia deve essere sottoscritta dall'avvocato ricevente. I TERMINI: I termini processuali, le preclusioni e la rimessione in termini Occorre distinguere tra termini e preclusioni. La preclusione riguarda esclusivamente le attività delle parti e indica la perdita di un potere processuale derivante da varie possibili cause; ad es. l'aver precedentemente compiuto un'attività incompatibile con la conservazione del potere in questione, o la consumazione del potere conseguente al suo esercizio, o la scadenza del termine entro cui poteva essere esercitato. Alla parte resta precluso il compimento dell'attività oggetto del potere estintosi, pena l'invalidità degli atti posti in essere in violazione della preclusione. I termini invece possono riguardare indifferentemente sia l'attività delle parti sia quella dell'ufficio e possono determinare, una volta scaduti, la decadenza dal potere di compiere certe attività processuali o conseguenze diverse. I termini processuali si possono distinguere: in base alla fonte tra termini legali, cioè previsti dalla legge, e giudiziali, stabiliti dal giudice nei soli casi in cui la legge espressamente glielo consente; in base alla funzione tra termini acceleratori, miranti a far sì che una determinata attività venga compiuta entro un certo momento, e quelli dilatori, tendenti ad assicurare che un'attività processuale venga posta in essere non prima di un certo momento. La violazione di un termine dilatorio rende in ogni caso invalido l'atto intempestivo, l'inosservanza di un termine acceleratorio non produce invece sempre le stesse conseguenze, bisogna distinguere se il termine sia perentorio o ordinatorio: solo il termine perentorio è stabilito a pena di decadenza. I termini perentori non possono in alcun caso essere abbreviati o prorogati, nemmeno su accordo delle parti, per i termini ordinatori è consentita al giudice l'abbreviazione o la proroga, anche d'ufficio, purché prima della scadenza, fermo restando che la proroga non può avere una durata superiore al termine originario ed è ammessa di regola una volta sola, salvo per motivi particolarmente gravi e con provvedimento motivato. L'opinione più diffusa ritiene che la scadenza del termine ordinatorio non possa mai determinare, di per sé, alcuna decadenza. I termini, di regola, sono ordinatori, salvo la legge stessa li dichiari espressamente perentori (art. 152). Se ne deduce che le decadenze e le preclusioni sono tipiche, potendosi ammettere nei soli casi in cui il legislatore le abbia esplicitamente comminate. Le conseguenze negative derivanti dalla scadenza di un termine perentorio o dal maturare di una preclusione sono superabili solo nei casi in cui la legge consenta la rimessione in termini. La riforma del 2009 ha codificato nell'art. 153 co 2° il principio secondo cui la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini. Il computo dei termini Per il computo dei termini bisogna ricordare che, quando si tratti di termini ad ore o a giorni, non si tiene conto, solitamente, dell'ora o del giorno iniziale (dies a quo), mentre si computa quello finale (dies ad quem), a meno che la legge non discorra espressamente di termine libero, nel qual caso dovrebbe includersi nel termine pure l'ora o il giorno finale. Per il computo dei termini a mesi o ad anni si osserva il calendario comune. Quando si tratti di un termine espresso in mesi, il termine spirerà nel giorno del mese di scadenza corrispondente al dies a quo del mese iniziale; se poi nel mese di scadenza dovesse mancare il giorno corrispondente, il termine scadrà nell'ultimo giorno del medesimo mese di scadenza (se l’interruzione viene dichiarata il 31 ottobre il termine scade il 30 aprile dell’ano successivo). I giorni festivi si computano nel termine; se però il dies ad quem viene a coincidere con un giorno festivo o con un sabato, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo. Il termine processuale può essere fissato anco con riferimento ad un determinato momento o fase del processo es il regolamento dii giurisdizione può essere proposto finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado. La sospensione feriale dei termini La l. 742/1969 stabilisce che il decorso dei termini processuali relativi alle giurisdizioni ordinarie ed a quelle amministrative è sospeso di diritto dal 1° agosto al 31 agosto di ciascun anno, e riprende a decorrere dalla fine del periodo di sospensione. La sospensione dei termini non si applica, per espressa previsione normativa, ad alcuni procedimenti che il legislatore ha considerato particolarmente urgenti, sì da prevederne la trattazione anche durante il periodo feriale: le controversie individuali di lavoro e quelle in materia di assistenza e previdenza obbligatoria; le cause relative ad alimenti; i procedimenti per l'adozione di ordini di protezione familiare, di sfratto o di opposizione all'esecuzione; i procedimenti cautelari; quelli concernenti la dichiarazione o la revoca dei fallimenti, e le cause dichiarate urgenti con provvedimento ad hoc. I PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE: Generalità I modelli formali previsti per i provvedimenti del giudice sono la sentenza, l'ordinanza e il decreto; la legge prescrive, di regola, quale modello deve essere concretamente utilizzato nelle diverse situazioni. Nel caso manchi tale prescrizione, l'art. 131 co 2° prevede che il provvedimento sia dato in qualsiasi forma idonea al raggiungimento dello scopo. La sentenza La sentenza è un provvedimento decisorio prescritto dal legislatore ogni volta in cui si debba decidere sulla domanda o su una qualunque questione, attinente al merito della causa o del processo (p es sulla giurisdizione), dalla quale potrebbe derivare la definizione del processo stesso. In relazione all'oggetto si distingue tra sentenza di merito e sentenze processuali. La sentenza di merito è quella che pronuncia sulla fondatezza della domanda, accogliendola o rigettandola; la sentenza processuale verte esclusivamente su questioni attinenti al processo. Altra distinzione è tra sentenze definitive e non definitive, basata essenzialmente sulla circostanza che la sentenza, sia essa di merito o processuale, concluda o no il processo, quanto meno davanti al giudice adito. Ad es. è definitiva la sentenza con cui il giudice accoglie o rigetta l'unica domanda oggetto del giudizio, o declina la giurisdizione o afferma di non poter decidere nel merito; è non definitiva la sentenza che accoglie o rigetta alcuna soltanto delle domande cumulate nel processo. Le notificazioni in generale La notificazione è un procedimento preordinato, attraverso l'attività di un soggetto qualificato, a conseguire la certezza legale della conoscenza di un atto da parte di uno o più soggetti determinati, ogniqualvolta tale certezza sia necessaria perché si producano, in tutto o in parte, gli effetti propri dell'atto stesso (es per l’atto di citazione), o altri effetti relativi al processo in cui l'atto si inserisce (la notificazione della sentenza fa decorrere il termine per l’impugnazione). Tale risultato viene raggiunto consegnando o trasmettendo direttamente al destinatario una copia conforme dell'atto da notificare, e allo stesso tempo documentando debitamente la relativa attività nell'originale dell'atto stesso. Di regola le notificazioni sono eseguite dall'ufficiale giudiziario (art. 137), il quale ha una competenza generalmente circoscritta al mandamento ove ha sede l'ufficio cui è addetto, e può provvedere alle sole notificazioni da eseguire in tale ambito territoriale. Se però si avvale del servizio postale, può eseguire senza alcuna limitazione la notifica di tutti gli atti stragiudiziali, nonché degli atti relativi ad affari di competenza delle autorità giudiziarie della sede cui è addetto. Perché il procedimento di notificazione abbia inizio, è sempre necessaria l'istanza di parte (o la richiesta del pubblico ministero o del cancelliere), la quale non è soggetta a formalità particolari e può quindi essere proposta verbalmente, dalla parte stessa o dal suo difensore con procura o da qualunque altro suo incaricato. Lo svolgimento del procedimento deve essere documentato, almeno nei suoi tratti essenziali, in un'apposita relazione, che l'ufficiale giudiziario deve stilare in calce all'originale e alla copia dell'atto (relata di notifica). Tale relazione, datata e sottoscritta dallo stesso ufficiale giudiziario, certifica (prova fino a querela di falso) l'esecuzione della notifica, la persona alla quale è consegnata la copia e le sue qualità, nonché il luogo della consegna, o le ricerche fatte dall'ufficiale giudiziario, i motivi della mancata consegna e le notizie raccolte sulla reperibilità del destinatario (art. 148). Secondo l'art. 160 la notificazione è nulla quando non siano state osservate le disposizioni circa la persona alla quale deve essere consegnata la copia, o vi sia incertezza assoluta sulla persona a cui è fatta o sulla data. L'art. 291 consente che l'invalida notifica dell'atto di citazione sia rinnovata, su ordine del giudice ed entro il termine perentorio dallo stesso fissato, e che la rinnovazione impedisca ogni decadenza; tale disciplina non può utilizzarsi quando la notificazione sia inesistente, per non essersi materialmente concluso il relativo procedimento. Il procedimento di notificazione e la sua invalidità La Corte costituzionale negli anni '90, relativamente alle notifiche a mezzo posta, affermò il principio secondo cui la notifica deve intendersi eseguita, per il notificante, fin dalla data di consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario indipendentemente dal momento in cui questo lo spedisce. In seguito, affermò che il principio affermato per la notifica a mezzo posta deve valere per tutte le forme di notificazione disciplinate dagli artt. 138 ss. Se ne deduce che ogniqualvolta per l'esecuzione della notifica siano previsti termini perentori a carico del notificante, la tempestività della stessa debba valutarsi con riguardo al giorno in cui l'atto è stato consegnato all'ufficiale giudiziario. Si tratta di una mera anticipazione degli effetti della notifica, subordinata alla circostanza che il procedimento arrivi realmente a compimento; tale anticipazione serve ad evitare che il ritardo nell'esecuzione della notifica faccia intercorrere la parte richiedente in una decadenza. Per ogni altro fine la notificazione produrrà effetti dal giorno in cui il procedimento notificatorio deve considerarsi concluso. Rispetto al destinatario, gli effetti della notifica si producono solo quando, in base alle disposizioni che regolano le singole forme di notificazione, il relativo procedimento possa dirsi completato. La notificazione “in mani proprie” o presso il domiciliatario, e quella presso la residenza, la dimora o il domicilio del destinatario L'art. 138 prevede che l'ufficiale giudiziario debba di regola eseguire la notifica mediante consegna della copia nelle mani proprie del destinatario, presso la casa di abitazione oppure, se non è possibile, ovunque lo trovi nell'ambito della circoscrizione dell'ufficio giudiziario al quale è addetto (consegna diretta). L'eventuale rifiuto, documentato nella relazione dell'ufficiale giudiziario, equivale a notificazione regolarmente eseguita in mani proprie. Art. 141 prevede la notificazione presso il domiciliatario: se il destinatario abbia eletto domicilio presso una persona o un ufficio, la notifica può effettuarsi presso tale luogo: vuoi attraverso la consegna diretta della copia nelle mani della persona o del capo dell'ufficio (che equivale a consegna in mani proprie del destinatario), vuoi nelle mani di uno dei soggetti indicati dall'art. 139. Art. 139, il destinatario dell'atto deve essere di regola ricercato nel comune in cui ha la residenza, indifferentemente presso la casa di abitazione o presso il diverso luogo in cui abbia l'ufficio o eserciti l'industria o il commercio. Solo quando sia sconosciuto il comune di residenza, la notificazione si fa nel comune di dimora e, se anche questo è ignoto, nel comune di domicilio. Nell'ambito dei possibili consegnatari, l'ufficiale giudiziario deve preferire una persona di famiglia, o, se estranea, addetta alla casa, all'ufficio o all'azienda, che non sia minore di quattordici anni o palesemente incapace, ovvero in palese conflitto di interessi col destinatario. Se queste non ci sono o rifiutano l'atto, la copia deve essere consegnata al portiere dello stabile e, quando manchi, ad un vicino di casa che accetti di riceverla; in questi casi è richiesta la sottoscrizione di una ricevuta e l'invio al destinatario di una lettera raccomandata in cui gli si dà notizia dell'avvenuta notificazione. Quando non sia possibile provvedere alla notifica con le modalità indicate dall'art. 139, poiché l'ufficiale giudiziario non trova nei predetti luoghi alcun possibile consegnatario, o perché quelli trovati sono palesemente incapaci o rifiutano di ricevere l'atto, l'art. 140 prevede che la notifica si esegua depositando la copia nella casa comunale; affiggendo avviso di tale deposito alla porta dell'abitazione o dell'ufficio o dell'azienda presso cui si è tentata senza successo la notifica; spedendo al destinatario una raccomandata con avviso di ricevimento al fine di informarlo dell'avvenuto deposito. La notificazione all’estero L'art. 142 prevede che al destinatario non avente residenza né domicilio (anche solo elettivo) o dimora nel territorio della Repubblica, che non vi abbia costituito un procuratore autorizzato a stare in giudizio ex art. 77, la notificazione possa effettuarsi tramite la spedizione di una copia dell'atto al destinatario a mezzo posta raccomandata e la consegna di una seconda copia al pubblico ministero, affinché questi ne curi la trasmissione al Ministero degli esteri per il recapito al destinatario. Compiute tali formalità, la notifica si ha per eseguita nel ventesimo giorno successivo, indipendentemente dalla prova dell'effettiva ricezione dell'atto da parte dell'interessato. Tale disposizione trova applicazione solo nei casi in cui risulta impossibile eseguire la notificazione in uno dei modi consentiti dalle convenzioni internazionali e dalla legge consolare. La notificazione al destinatario irreperibile Quando siano sconosciuti residenza, dimora e domicilio del destinatario, e questi non abbia un procuratore abilitato a stare in giudizio a norma dell'art. 77, l'art. 143 consente di eseguire la notificazione attraverso il deposito di una copia dell'atto nella casa del comune dell'ultima residenza del destinatario oppure, quando questa sia ignota, nella casa del comune del suo luogo di nascita. Quando non si conosca neppure il luogo di nascita, la copia viene consegnata al pubblico ministero, che dovrebbe tentare di farla pervenire al destinatario. La notificazione si ha per eseguita nel ventesimo giorno successivo a quello in cui sono compiute le formalità prescritte. La notificazione a soggetti diversi dalla persona fisica L'art. 145 prevede che la notifica alle persone giuridiche, alle società prive di personalità giuridica, alle associazioni non riconosciute e ai comitati si esegua, di regola, nella loro sede, mediante consegna della copia al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa oppure al portiere dello stabile in cui è la sede. Se poi nell'atto da notificare sono indicate le generalità della persona fisica cui compete la rappresentanza dell'ente, possono liberamente utilizzarsi anche le modalità contemplate agli artt. 138, 139 e 141, eseguendo la notificazione nelle mani proprie del rappresentante, oppure nella sua residenza o dimora o domicilio, anche elettivo. La notificazione alle pubbliche amministrazioni L'art. 144 circa la notificazione ad amministrazioni dello Stato, rinvia espressamente alle disposizioni delle leggi speciali che prescrivono la notificazione presso gli uffici dell'Avvocatura dello Stato; in particolare la l. 1611/1933 prevede che gli atti introduttivi di giudizi promossi nei confronti di un'amministrazione dello Stato devono essere notificati all'amministrazione medesima, nella persona del Ministro competente, presso l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l'autorità giudiziaria davanti alla quale è portata la causa. Gli atti processuali, incluse le sentenze, devono essere notificati presso l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l'autorità giudiziaria presso cui pende la causa o che ha pronunciato la sentenza. L’Avvocatura dello Stato deve quindi considerarsi in linea di principio domiciliataria ex lege di tutte le notificazioni dirette ad amministrazioni dello Stato. La nullità della notificazione non eseguita in questo modo deve considerarsi sanabile, con effetti retroattivi, sia attraverso la costituzione in giudizio dell'amministrazione, sia attraverso la rinnovazione della notificazione stessa. La notificazione a mezzo posta L'art. 149 prevede la notificazione a mezzo del servizio postale, che per il notificante si perfezione fin dal momento della consegna del plico all'ufficiale giudiziario. Il ricorso a tale forma di notificazione è obbligatoria, per l'ufficiale giudiziario, quanto agli atti da notificare fuori dal comune in cui ha sede il proprio ufficio, ed è invece facoltativa negli altri casi; a meno che non sia la parte a chiederne espressamente, oppure l'autorità giudiziaria a disporre, che la notifica sia eseguita di persona. L'ufficiale giudiziario si limita a scrivere la relazione di notifica, in cui deve essere menzionato l'ufficio postale attraverso il quale avviene la spedizione della copia, e alla presentazione a tale ufficio della copia dell'atto da notificare, in una busta chiusa sulla quale vengono apposti, oltre alle indicazioni concernenti il destinatario, il numero del registro cronologico sul quale l'ufficiale giudiziario annota gli atti da notificare, la sottoscrizione dello stesso ufficiale giudiziario e il timbro del relativo ufficio. Unitamente alla busta deve essere presentato l'avviso di ricevimento che, una volta restituito al mittente, verrà allegato all'originale dell'atto e costituirà l'insurrogabile prova dell'avvenuta notificazione. PEC: Recentemente il legislatore ha consentito all’ufficiale giudiziario, in assenza di un espresso divieto di legge, di eseguire la notifica tramite posta elettronica certificata anche, se occorre, previa estrazione di copia informatica del documento cartaceo. In questo caso dunque la notifica si effettua mediante trasmissione di una copia informatica dell’atto, sottoscritta con firma digitale, all’indirizzo di posta elettronica del destinatario, e si perfeziona nel momento in cui il gestore della pec rende disponibile il documento informatico nella casella di posta elettronica del destinatario, indipendentemente dall’avvenuta lettura del messaggio e dell’atto da parte del destinatario stesso. La nullità di una parte di atto non colpisce le altre parti che ne siano indipendenti; quando il vizio impedisca un determinato effetto dell'atto, questo può tuttavia produrre gli altri effetti ai quali sia idoneo. Il principio di conversione dei motivi di nullità in motivi d’impugnazione Il provvedimento del giudice, specie quello che pone fine al processo (in genere la sentenza) può essere nullo tanto per vizi propri, formali o non formali (es sentenza priva di motivazione); quanto per vizi di atti dai quali dipende (quindi per estensione della nullità). Art. 161 “La nullità delle sentenze soggette ad appello o a ricorso per cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi di impugnazione”. Tale principio è noto come “conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione” o “assorbimento dell'invalidità nell'impugnazione”. Quindi la nullità della sentenza non è deducibile con rimedi ad hoc, ma può esser fatta valere, al pari di ogni altro possibile vizio della decisione, attraverso le impugnazioni ordinarie, rispettandone i limiti e le regole. Scaduti i termini per l'impugnazione ordinaria e passata in giudicato la sentenza, nessuna nullità, anche assoluta, è più rilevabile: il giudicato opera come sanatoria delle nullità. Infine possiamo dire che tale principio, si estende anche alle sentenze non soggette né ad appello né a ricorso in cassazione, e anche agli altri provvedimenti del giudice (ordinanza e decreto attraverso i rimedi previsti dal legislatore). La sentenza non sottoscritta Unica eccezione (non trova quindi applicazione il principio detto prima), prevista dall'art. 161 co 2°, è il caso in cui la sentenza manchi della sottoscrizione del giudice. Le Sezioni Unite hanno precisato che si fa riferimento alla sola ipotesi di difetto totale di sottoscrizione; mentre la mancanza di soltanto alcune delle firme è pur sempre motivo di nullità, ma non si sottrae alla conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione, restando conseguentemente sanata dal passaggio in giudicato. La nullità della sentenza non sottoscritta è l'unica che sopravvive al giudicato e può esser fatta valere, oltre che con le impugnazioni ordinarie, anche attraverso un’autonoma azione esercitata in un nuovo processo e mirante a far dichiarare l'assoluta invalidità ed inefficacia della sentenza, senza poter condurre ad una nuova decisione della causa. Inesistenza e nullità assoluta della sentenza La sentenza è inesistente nel caso manchi un provvedimento idoneo ad inserirsi in un procedimento giurisdizionale e comunque a produrre alcuno degli effetti tipici della sentenza. La sentenza inesistente non può neppure essere oggetto di impugnazione. Il concetto di inesistenza dovrebbe riguradare i soli casi in cui ci si trovi al cospetto di un atto che, pur potendolo divenire, non è ancora una sentenza, non essendosi compiuto con il deposito in cancelleria e la pubblicazione, l’inter previsto dalla legge. Nel caso di mancata sottoscrizione della sentenza si ha invece una nullità assoluta, non sanabile con il passaggio in giudicato e rilevabile sine die. Il problema dei provvedimenti resi in forma erronea L'impiego di una forma erronea non implica, di per sé, la nullità del provvedimento, la validità di questo presuppone la sussistenza dei requisiti di forma-contenuto minimi prescritti per il modello che il giudice avrebbe dovuto adottare. Ciò implica che mentre sarà sempre salvabile la sentenza resa in luogo del decreto o dell’ordinanza; l’ordinanza o il decreto pronunciati in luogo della sentenza saranno nulli quanto meno in relazione al requisito della sottoscrizione (sono dettate regole diverse vedere quanto detto nei rispettivi paragrafi). Per quanto concerne la questione relativa al regime di stabilità e ai rimedi che devono trovare applicazione: l’opinione maggioritaria preferisce attenersi al principio della prevalenza della sostanza sulla forma del provvedimento, nel senso che è l’effettivo contenuto del provvedimento l’elemento determinante per stabilirne il regime di stabilità e i rimedi. LE SPESE DEL PROCESSO I costi del processo Relativamente alle spese del processo, il nostro ordinamento si ispira a due principi: l'onere di anticipazione e la condanna della parte soccombente alla rifusione delle spese sostenute dalla parte vincitrice. La materia è regolata dal d.p.r. 115/2002 t.u. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia. L’onere di anticipazione delle spese L'art. 8 d.p.r. 115/2002 stabilisce che ciascuna parte deve provvedere alle spese degli atti processuali che compie e di quelli che chiede ed è comunque tenuta ad anticipare quelle occorrenti per gli atti necessari al processo quando l'anticipazione è posta a suo carico dalla legge o dal magistrato. Fra le spese oggetto di anticipazione va menzionato il contributo unificato di iscrizione a ruolo e dovuto, per ciascun grado di giudizio, dalla parte che per prima si costituisce in giudizio o che, nei processi esecutivi di espropriazione forzata, fa istanza per l'assegnazione o la vendita dei beni pignorati. L'importo varia a seconda del tipo di procedimento o, quando si tratti di processi contenziosi, in proporzione al valore della causa. La condanna della parte soccombente Per la ripartizione finale e definitiva delle spese il codice utilizza il criterio della soccombenza, stabilendo che il giudice, ogniqualvolta pronunci sentenza con la quale chiude il processo davanti a sé, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa (art. 91) (si tratta quindi di responsabilità oggettiva per il debitore in quanto prescinde dalla colpa). Quando vi sia una pluralità di parti soccombenti, il giudice può ripartire le spese tra loro in proporzione del rispettivo interesse nella causa, o condannarle in solido, quando abbiano un interesse comune. Se poi la sentenza non precisa nulla a tal proposito, la condanna si intende ripartita per quote eguali (art. 97). Di regola la condanna alle spese può pronunciarsi solo a carico di chi riveste la qualità di parte in senso processuale, non anche nei confronti del soggetto che eventualmente sta in giudizio in sua vece. Tuttavia l'art. 94 prevede che eccezionalmente gli eredi con beneficio d'inventario, i tutori, i curatori ed in generale coloro che rappresentano o assistono la parte in giudizio possano essere condannati personalmente, anche in solido con la parte rappresentata o assistita, in presenza di gravi motivi che il giudice è tenuto a specificare nella sentenza. Deroghe al criterio della soccombenza e compensazione delle spese È consentito al giudice escludere, nella condanna, la ripetizione delle spese, sostenute dalla parte vincitrice, che ritenga eccessive o superflue. Una parte, indipendentemente dalla soccombenza (quindi anche se vittoriosa), può essere condannata al rimborso delle spese, anche non ripetibili, provocate all'altra dalla violazione del dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità, enunciato nell'art. 88. La deroga più rilevante al criterio della soccombenza è però rappresentata dalla compensazione delle spese. L'art. 92 co 2° consente di compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti, quando vi è soccombenza reciproca oppure nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. Il che significa che in queste ipotesi il giudice può decidere che le spese fino a quel momento anticipate o sopportate da ciascuna delle parti rimangano, in tutto o in parte, a carico delle stesse. Il criterio della soccombenza è inutilizzabile nel processo esecutivo (le spese sono a carico di colui che subisce l’esecuzione) e tutte le volte in cui il processo di cognizione si chiude senza una decisione. L’ingiustificato rifiuto di una proposta conciliativa La riforma del 2009 ha introdotto l'ipotesi in cui la parte che aveva proposto la domanda rifiuta, senza giustificato motivo, una proposta conciliativa formulata dall'avversario o dallo stesso giudice, e poi vede accogliere la propria domanda in misura non superiore alla proposta stessa: in questo caso l'art. 91 prevede che tale parte, ancorché formalmente vittoriosa, sia condannata al pagamento delle spese processuali maturate dopo la formulazione della proposta, facendo salvo quanto disposto all'art. 92, cioè la possibile compensazione, totale o parziale, delle spese rispettivamente sostenute dalle parti (tutto ciò vale anche nel caso in cui il giudizio sia stato preceduto da un procedimento di mediazione v. pag 316). La responsabilità aggravata L'art. 96 prevede un vero e proprio obbligo di risarcimento del danno per responsabilità aggravata in due ipotesi: quando risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave (lite temeraria), il giudice, su istanza della parte vittoriosa, condanna il soccombente, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, da liquidarsi, anche d'ufficio, nella sentenza; quando venga accertata l'inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l'esecuzione forzata, e inoltre l'attore o il creditore procedente, risultato alla fine soccombente, abbia agito senza la normale prudenza. Sulla base di tali presupposti, il giudice, su istanza della parte danneggiata, condanna il responsabile al risarcimento dei danni, liquidandone l'importo, anche d'ufficio, nella sentenza. Il comma 3° prevede che, in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata. A differenza di quanto previsto al comma 1°, la condanna può essere pronunciata d'ufficio (mentre quella di cui al primo comma presuppone l’istanza della parte danneggiata): mentre la condanna per lite temeraria ha natura risarcitoria, questa è una vera e propria sanzione civile che potrebbe aggiungersi alla prima oppure pronunziarsi indipendentemente da essa.
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