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Procedura Civile Balena 2, Sintesi del corso di Diritto Processuale Civile

Procedura Civile Balena 2, Il processo ordinario anno 2019/20

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
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Caricato il 06/06/2020

david-torrieri
david-torrieri 🇮🇹

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Scarica Procedura Civile Balena 2 e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! LA MEDIAZIONE E LA NEGOZIAZIONE ASSISTITA Il procedimento di mediazione La mediazione è l’attività svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, anche con formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa. La parte che intende accedere alla mediazione deve depositare la relativa istanza presso uno degli organismi abilitati, iscritti in un apposito registro istituito presso il Ministero della giustizia, nel luogo del giudice territorialmente competente per la controversia, indicando l’organismo adito, le parti, l’oggetto e le ragioni della pretesa. In caso di più domande relative alla stessa controversia prevale quella anteriore. Nel caso in cui si tratti di mediazione obbligatoria è necessaria l’assistenza di un avvocato. In seguito alla presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell’organismo designa un mediatore e fissa l’incontro tra le parti. La domanda e la data del primo incontro sono comunicate all’altra parte con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante. Dal momento di tale comunicazione, la domanda di mediazione produce, limitatamente alla prescrizione, gli stessi effetti della domanda giudiziale. Il procedimento si svolge senza formalità presso la sede dell’organismo di mediazione ed ha una durata non superiore a 3 mesi; le pari devono partecipare ad ogni incontro con l’assistenza di un avvocato; al primo incontro il mediatore deve invitare le parti e i rispettivi avvocati ad esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione. Se taluna delle parti non partecipa senza giustificato motivo al procedimento stesso, tale comportamento consente al giudice dell’eventuale successivo giudizio di desumere argomenti di prova in suo danno. Nella stessa ipotesi inoltre, se si tratta di mediazione obbligatoria e la parte si costituisce nel successivo giudizio, il giudice la condanna al versamento in favore del bilancio dello Stato, di una somma di importo pari al contributo unificato per il giudizio. È imposto un dovere di riservatezza a chiunque presta la propria opera o il proprio servizio nell’organismo o comune nell’ambito del procedimento di mediazione; è sancita l’inutilizzabilità di tutte le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione, salvo il consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni. Le spese del procedimento di mediazione grava solidalmente sulle parti che hanno prestato adesione al procedimento. Se le parti raggiungono un accordo amichevole, il mediatore redige un processo verbale sottoscritto dalle parti e dallo stesso mediatore, il quale certifica le sottoscrizioni delle parti oppure la loro impossibilità di sottoscrivere. Se però nell’accordo è contenuto un contratto o un diverso atto soggetto a trascrizione, quest’ultima è subordinata alla circostanza che le sottoscrizioni del verbale siano autenticate da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato. Se invece l’accordo non è raggiunto, il mediatore può formulare una propria autonoma proposta di conciliazione; ed è anzi tenuto a farlo qualora le parti gliene facciano richiesta. Una volta che la proposta sia stata comunicata per iscritto alle parti, queste devono far pervenire sempre per iscritto l’accettazione o il rifiuto della stessa. La conclusione del procedimento di mediazione deve essere formalizzata con la redazione di un processo verbale: in cui venga indicato l’accordo oppure si darà atto della mancata riuscita della conciliazione. Nel caso in cui si raggiunge un accordo e le parti sono assistite da un avvocato, questi devono attestare e certificare la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico ed il verbale in cui l’accordo è consacrato costituisce titolo esecutivo aprendo la strada, a qualunque forma di esecuzione forzata nonché all’iscrizione di ipoteca giudiziale. Se invece una o più parti non sono state assistite da un avvocato, il verbale acquista efficacia di titolo esecutivo attraverso l’omologazione, su istanza di parte ad opera del presidente del tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo di mediazione adito, il quale dovrà accertare la regolarità formale del verbale e la non contrarietà dell’accordo all’ordine pubblico o a norme imperative. La mediazione obbligatoria L’obbligo del previo esperimento della mediazione è previsto in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e da diffamazione a mezzo stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, ad esclusione delle azioni collettive e di classe. In queste materie l’esperimento della mediazione è configurato come condizione di procedibilità della domanda giudiziale, il che significa che l’eventuale sua mancanza non preclude la proposizione della domanda stessa, ma impedisce al processo di proseguire finché il procedimento di mediazione non sia stato instaurato ed esaurito, o comunque fino a quando non sia decorso il termine di tre mesi che rappresenta la sua durata massima. Più esattamente la condizione di procedibilità si considera avverata già dopo il primo incontro delle parti davanti al mediatore anche se questo si conclude senza accordo. Lo svolgimento della mediazione non preclude la concessione dei provvedimenti urgenti e cautelari, né la trascrizione della domanda giudiziale. L’eventuale improcedibilità, derivante dal mancato esperimento della mediazione, può essere eccepita dal convenuto o rilevata d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza, occorre distinguere due ipotesi: a) che la mediazione non si stata esperita, quindi il relativo procedimento non sia stato iniziato. b) che la mediazione sia stata richiesta ma il procedimento non sia ancora concluso, e non siano neppure decorsi i 3 mesi dal deposito della domanda di mediazione che rappresentano la sua durata massima. Nell’ipotesi b) si ha semplicemente la fissazione di una nuova udienza successiva rispetto alla durata massima del procedimento di mediazione. Nell’ipotesi a) il giudice assegna alle parti un termine di 15 gg per la presentazione della domanda di mediazione e rinvia la causa ad una udienza successiva alla scadenza del termine entro cui deve concludersi il relativo procedimento. Inoltre, se alla nuova udienza cui il giudice ha rinviato la causa non risulti avvenuta l’instaurazione del procedimento di mediazione, il processo dovrà definirsi con una declaratoria di improcedibilità della domanda, che rivestirà di regola la forma della sentenza, impugnabile nei modi ordinari. Se invece le parti documentino l’avvenuta conciliazione la conclusione del processo andrà sancita con una pronuncia di cessazione della materia del contendere. La mediazione obbligatoria per ordine del giudice Il giudice valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione, purché il provvedimento sia adottato prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni oppure, nei processi in cui tale udienza non è prevista prima, prima della discussione della causa. L’effetto di tale ordine è quello di subordinare la procedibilità della domanda giudiziale anche in sede d’appello al previo esperimento della mediazione. I modelli dell’atto introduttivo: la citazione ed il ricorso Secondo l'art. 163 co 1°, “La domanda si propone mediante citazione a comparire a udienza fissa”. La domanda può essere però proposta anche con ricorso, ad esempio nel rito del lavoro. L'atto di citazione si dirige essenzialmente e direttamente nei confronti del convenuto, deve quindi contenere, oltre agli elementi che si concretano nella c.d. edictio actionis, che cioè individuano le domande sottoposte al giudice (soggetti, petitum, causa petendi), quelli necessari per provocare e consentire la partecipazione del convenuto stesso al processo (la c.d. vocatio in ius), compresa l'indicazione dell'udienza in cui dovrà avvenire la prima comparizione delle parti. Il ricorso invece ha come naturale e immediato destinatario il giudice e mira, col deposito in cancelleria, ad investire della causa l'ufficio giudiziario, sicché esige esclusivamente la determinazione della domanda. La vocatio in ius e l'instaurazione del contraddittorio fra le parti conseguono ad una distinta e successiva attività dello stesso giudice, che fissa con decreto la data dell'udienza di comparizione o l'audizione delle parti, nonché ad un'ulteriore attività dell'attore, che deve poi provvedere alla notificazione dell'atto introduttivo e del decreto di fissazione dell'udienza. Il principio del contraddittorio esclude che l'introduzione della causa con ricorso possa rendere inutile l'instaurazione del contraddittorio, eccezion fatta per i casi in cui la decisione inaudita altera parte sia prevista dal legislatore. Le conseguenze dell’errore sulla forma dell’atto introduttivo e sul rito della causa Nei casi in cui l'attore utilizzi un modello diverso da quello prescritto dalla legge, la giurisprudenza si mostra indulgente, ammettendo una certa equipollenza e fungibilità dei due modelli e dei diversi riti, ed escludendo che l'erronea adozione dell'uno in luogo dell'altro sia motivo di nullità o impedisca al processo di pervenire alla decisione di merito. Tale fungibilità trova un limite nel caso in cui l'instaurazione del giudizio fosse assoggettata ad un termine di decadenza, in questo caso la tempestività dell'atto introduttivo deve essere valutata non alla luce del modello erroneamente utilizzato, ma secondo quello che avrebbe dovuto correttamente impiegarsi. Quindi se il processo doveva promuoversi con ricorso, la domanda formulata con citazione si considera proposta solo dal momento in cui la citazione stessa viene successivamente depositata nella cancelleria del giudice adito, e non dal giorno della notifica al convenuto; se invece è stato utilizzato ricorso in luogo della prescritta citazione, il giudizio si ha per iniziato dal momento in cui questo, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza, viene notificato all'altra parte, e non dal giorno del deposito dell'atto introduttivo in cancelleria. L'atto compiuto in forma erronea è nullo ed il vizio sanabile solo ex nunc, senza effetti retroattivi. Gli atti processuali compiuti nelle forme proprie di un rito errato sono considerati di per sé pienamente validi, e dopo che il giudice abbia disposto il mutamento di rito non devono essere rinnovati. Il contenuto dell’atto di citazione L'atto di citazione, ex art. 163, deve contenere:  l'indicazione del tribunale davanti al quale la domanda è proposta;  nome, cognome, codice fiscale e residenza dell'attore; nome, cognome, codice fiscale e residenza o domicilio o dimora del convenuto e delle persone che rispettivamente li rappresentano o li assistono. Se sia parte una persona giuridica, un'associazione non riconosciuta o un comitato, è richiesta la denominazione o la ditta, con l'indicazione dell'organo o ufficio che ha la rappresentanza in giudizio;  la determinazione della cosa oggetto della domanda, cioè il petitum, inteso come mediato ed immediato;  esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni. I fatti costituenti le ragioni della domanda, di regola, si identificano con i fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio;  indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l'attore intende valersi e in particolare dei documenti che offre in comunicazione. Sono consentite anche in un momento successivo del processo;  nome e cognome del procuratore ed indicazione della procura, quando questa sia già stata rilasciata. Il procuratore deve comunque sottoscrivere l'atto di citazione, e la procura può e della parte;  indicazione del giorno dell'udienza di comparizione; invito al convenuto a costituirsi nel termine di 20 giorni prima dell'udienza indicata ai sensi e nelle forme stabilite dall'art. 166, oppure di 10 giorni prima in caso di abbreviazione dei termini, e a comparire, nell'udienza indicata, dinanzi al giudice designato ai sensi dell'art. 168-bis, con l'avvertimento che la costituzione oltre i suddetti termini implica le decadenze di cui agli artt. 38 e 167. Una volta che sia completa e sottoscritta, ex art. 125, la citazione deve essere consegnata dalla parte o dal procuratore all'ufficiale giudiziario, affinché questi provveda alla sua notificazione. La notificazione rappresenta condizione indispensabile perché l'atto introduttivo produca gli effetti sostanziali e processuali. La scelta della data della prima udienza ed i termini minimi di comparizione In linea di principio è lo stesso attore a dover scegliere ed indicare la data dell'udienza di prima comparizione. Tale scelta non è totalmente libera: il presidente del tribunale adito, entro il 30 novembre di ogni anno, stabilisce i giorni della settimana e le ore destinate, nel successivo anno giudiziario, esclusivamente alla prima comparizione delle parti. L'art. 163-bis prescrive che tra il giorno della notificazione della citazione e quello dell'udienza di prima comparizione intercorra un termine libero non minore di 90 o 150 giorni, a seconda che il luogo della notificazione si trovi in Italia o all'estero. Tale termine può essere abbreviato fino alla metà nelle cause che richiedono pronta spedizione, su istanza dell'attore e con decreto motivato del presidente del tribunale steso in calce all'originale e alle copie della citazione. Quando il termine assegnato dall'attore nella citazione ecceda il termine minimo, il convenuto, costituendosi prima della scadenza del termine minimo, può chiedere al presidente del tribunale una congrua anticipazione della prima udienza, nel rispetto del predetto termine minimo. Il presidente provvede con decreto che dovrà essere portato a conoscenza dell'attore almeno 5 giorni liberi prima della nuova data, attraverso una comunicazione del cancelliere. La data indicata nell'atto di citazione rappresenta la data prima della quale non potrebbe tenersi l'udienza di prima comparizione. LA COSTITUZIONE DELLE PARTI: La costituzione in giudizio delle parti La costituzione è l'atto attraverso il quale la parte, che ha già assunto tale qualità per aver proposto una domanda giudiziale o per esserne soggetto passivo, rende effettiva la propria partecipazione al processo, accreditando eventualmente il proprio difensore-procuratore presso il giudice adito. Con la costituzione il procuratore diviene, a norma art. 170, il naturale destinatario di tutte le notificazioni e le comunicazioni virtualmente diretta alla parte, per le quali la legge non disponga altrimenti. Alla costituzione in giudizio, personale o a mezzo di procuratore, è subordinata la possibilità di esercitare concretamente i poteri processuali attribuiti alla parte, in particolare le attività di allegazione e d'impulso istruttorio. Una volta compiuta, la costituzione vale, in linea di principio, per l'intero grado di giudizio indipendentemente dall'effettiva partecipazione alle singole fasi del processo: la contumacia, cioè la situazione derivante dalla mancata costituzione di una parte, non va confusa con la mera assenza della parte stessa (già costituita) ad una o più udienze o all'esperimento di un determinato mezzo istruttorio. La costituzione si attua con il deposito in cancelleria del fascicolo di parte, contenente: l’originale del primo atto processuale della stessa parte (citazione per l’attore, comparsa di risposta per il convenuto), le copie da destinare al fascicolo d'ufficio, la procura, e i documenti eventualmente offerti in comunicazione. La costituzione dell’attore L'art. 165 disciplina la costituzione dell'attore, che deve avvenire entro i 10 giorni successivi alla notificazione della citazione, 5 se abbia usufruito dell'abbreviazione dei termini di comparizione ex art. 163-bis. Si effettua con il deposito in cancelleria del fascicolo, che dovrà contenere anche l'originale della citazione, comprovante l'avvenuta notificazione. Se la citazione deve essere notificata a più parti, il termine di costituzione decorre dalla prima notifica, ma l'originale della citazione può essere inserito nel fascicolo entro dieci giorni dall'ultima notifica. Quando l'attore si costituisce personalmente deve anche dichiarare la propria residenza o eleggere domicilio nel comune in cui ha sede il giudice adito. La costituzione del convenuto L'art. 166 disciplina la costituzione del convenuto, che deve costituirsi almeno 20 giorni prima dell'udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione o, in caso di abbreviazione dei termini, almeno 10 giorni prima dell'udienza fissata. Anche quando la data dell'udienza dovesse essere posteriore a quella indicata dall'attore, il termine di costituzione deve essere calcolato in relazione a questa data; fa eccezione solo l'udienza di prima comparizione differita ex art. 168-bis co 5°, qui il termine si calcola con riferimento alla nuova data effettiva dell'udienza. Il termine indicato dall’art 166 allo scadere, fa scattare importanti preclusioni, una costituzione tardiva impedirebbe al convenuto alcune attività difensive non trascurabili. La costituzione del convenuto si attua mediante deposito del fascicolo di parte che dovrà contenere anche la copia della citazione notificata al convenuto e la comparsa di risposta. Le attività che possono essere compiute dal convenuto solo con la comparsa di risposta sono:  proposizione di domande riconvenzionali, comprese quelle formulate nei confronti di un altro convenuto, nonché le domande di accertamento incidentale con cui il convenuto chiede che una questione pregiudiziale venga decisa con efficacia di giudicato;  la proposizione di eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio;  la chiamata di un terzo, a norma art. 106. il convenuto costituendosi al più tardi all'udienza di prima comparizione, potrebbe dedurre il vizio al fine di ottenere che il giudice fissi una nuova udienza nel rispetto dei termini. Se il convenuto non si costituisce spontaneamente, il giudice è tenuto, in qualunque momento si accorga della nullità, a disporre d'ufficio la rinnovazione della citazione, a cura dell'attore, fissando a tal fine un termine perentorio e una nuova udienza. Se la rinnovazione avviene, essa consente al processo di continuare e gli effetti della domanda si producono fin dal momento in cui era stata notificata la citazione invalida. Se l'attore invece non ottemperi, il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue immediatamente, a norma dell'art. 307 co 3°. Il regime dei vizi della editio actionis La nullità della citazione può derivare anche da vizi che attengano alla editio actionis:  l'omessa o incerta determinazione della cosa oggetto della domanda, cioè del petitum;  la mancata esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda, cioè della causa petendi. Parte della dottrina ritiene che la mancata esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda debba ricorrere solo quando si tratti di un diritto eterodeterminato, e quindi l'omessa specificazione dei fatti costitutivi renda impossibile l'individuazione con certezza del diritto stesso o il rapporto giuridico per il quale si invoca la tutela giurisdizionale; e non anche quando la domanda sia autodeterminata. L'art. 164 però non permette di condividere tale interpretazione: i fatti non rilevano solo per l'identificazione dell'oggetto del giudizio, ma anche a consentire al convenuto di difendersi adeguatamente e al giudice di esercitare i poteri attribuitigli. L'art. 164 non esaurisce le fattispecie di invalidità della citazione, la nullità ad es potrebbe derivare dall’assoluto difetto di sottoscrizione del procuratore. La disciplina delle nullità riguardanti la domanda in senso stretto, editio actionis, stabilisce che: A) l'eventuale costituzione spontanea del convenuto, indipendentemente dal momento in cui si realizzi, non è mai sufficiente, di per sé, a sanare il vizio della citazione, a tal fine è necessaria infatti un'attività dell'attore. Il giudice è quindi tenuto ad ordinare a quest’ultimo l'integrazione della domanda, fissando per tale adempimento un termine perentorio e rinviando la causa ad un'altra udienza. Qualora l'attore ottemperi, il processo resta sanato, ma ex nunc, la domanda produce i propri effetti da questo momento e restano ferme le decadenze maturate e salvi i diritti quesiti precedentemente. Se l'ordine di integrazione non viene eseguito, deve ritenersi che la nullità divenga insanabile e che il giudice sia tenuto, a seconda dei casi, a dichiarare l'estinzione o a definire il processo in rito; a meno che il vizio non riguardi alcuna soltanto delle più domande proposte. B) Quando il convenuto sia rimasto contumace, il giudice, in qualunque momento rilevi la nullità, deve ordinare all'attore di rinnovare la citazione. Se la rinnovazione avviene le conseguenze sono le stesse del punto A. In caso contrario il processo si estinguerà a norma dell’art 307 quando il vizio riguarda l’unica domanda o tutte le domande oggetto del giudizio, oppure proseguirà per la sola trattazione delle domande validamente proposte. La nullità della domanda riconvenzionale L'art. 167 co 2° prevede che la domanda riconvenzionale sia nulla allorché ne sia stato omesso o ne risulti assolutamente incerto l'oggetto o il titolo, ossia il petitum o la causa petendi. Il giudice assegna al convenuto un termine per l'integrazione della domanda, che opera solo ex nunc, lasciando ferme le decadenze maturate e salvi i diritti acquisiti anteriormente. Tace circa l'ipotesi dell'inosservanza dell'ordine di integrazione, ma ne consegue l'insanabilità del vizio e la definizione della domanda riconvenzionale in mero rito. LA TRATTAZIONE DELLA CAUSA E LE PRECLUSIONI Rilievi introduttivi sulla trattazione della causa e sulle relative preclusioni In dottrina e giurisprudenza prevale l'idea che le disposizioni in materia di preclusioni rispondano ad esigenze di ordine pubblico e debbano trovare applicazione indipendentemente dalla volontà delle parti. Si ritiene quindi ad esempio che se una parte propone tardivamente una domanda o un’eccezione o una richiesta istruttoria nuova, il giudice sia comunque tenuto a dichiararla inammissibile, sebbene le altre parti non se ne dolgano e anche se queste ‘abbiano espressamente accettata. La tendenziale concentrazione della trattazione e l’eventuale interrogatorio libero delle parti La disciplina della prima udienza di trattazione è interamente contenuta nell'art. 183. Premesso che la trattazione della causa è, per principio, orale, anche se debba redigersene processo verbale, l'art. 183 dispone che la causa abbia inizio nell'udienza di prima comparizione e si concluda, in principio, in quella stessa udienza. Si ha, eccezionalmente, un differimento dell'inizio della trattazione ad una nuova udienza quando il giudice, in seguito a verifiche preliminari, rilevi un vizio relativo alla costituzione delle parti o all'instaurazione del contraddittorio ed ordini le necessarie misure sananti; nonché quando debba procedersi a norma dell'art. 185, cioè quando il giudice, di propria iniziativa o su richiesta congiunta delle parti, disponga la comparizione personale di queste, al fine di interrogare liberamente ed eventualmente di tentarne la conciliazione. Le attività dirette a definire l’oggetto del giudizio ed i mezzi di prova da assumere Dopo le verifiche preliminari, concernenti la regolare instaurazione del processo e del contraddittorio, nonché dopo l'eventuale esperimento dell'interrogatorio libero e del tentativo infruttuoso di conciliazione, l'art. 183 prevede una serie di attività delle parti, talora sollecitabili dallo stesso giudice, dirette a pervenire ad una compiuta definizione dell'oggetto del giudizio (thema decidendum) e dei fatti sui quali, se del caso, dovranno poi assumersi prove (thema probandum). Occorre tener presente che l’art 183 bis consente al giudice, nelle sole cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, di optare d’ufficio, all’udienza di trattazione, per la prosecuzione del giudizio secondo le norme del rito sommario di cognizione (è un modello processuale semplificato). Inoltre l’ordinanza non impugnabile che dispone il passaggio al rito sommario potrebbe imprimere una notevole accelerazione al processo, e potrebbe anche portare ad una decisione immediata della causa qualora le parti non chiedano l’assunzione delle prove o il giudice la ritenga superflua. Il giudice chiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari: questa attività dovrebbe servire a far luce sulle rispettive posizioni difensive e a far emergere i fatti realmente controversi. Inoltre l’art 185 bis attribuisce al giudice il potere-dovere di formulare ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudice, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La prima ipotesi fa riferimento alla transazione (ex art 1965 cc), il giudice quindi propone un accordo risolutivo della controversia che rappresenta un ragionevole compromesso tra le posizioni dei litiganti. La seconda ipotesi invece presuppone che il giudice ritenga di poter già intuire l’esito del giudizio, e dunque proponga alle parti una soluzione conciliativa che si adegui a tale prevedibile esito. La proposta ai sensi dell’art 185 bis può essere formulata anche nel proseguo del giudizio sino a quando è esaurita l’istruzione. Il giudice inoltre deve indicare alle parti le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione, al fine di tutelare l'effettività del contraddittorio e di impedire che il giudice stresso pronunci su una di tali questioni senza aver previamente sentito le parti. L'attore può proporre nella prima udienza di trattazione le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto. Per quel che riguarda le domande (nuove), tale facoltà deroga al principio secondo cui l'oggetto del giudizio viene determinato dagli atti introduttivi e non può essere ampliato in corso di causa; per quel che riguarda le eccezioni, bisogna intendere che la fase della trattazione rappresenti un limite per le sole eccezioni in senso stretto, ossia non rilevabili d'ufficio, dell'attore (le eccezioni in senso stretto del convenuto decadono alla scadenza del termine di costituzione in cancelleria). Le eccezioni rilevabili d'ufficio restano consentite ad entrambe le parti anche nel prosieguo del giudizio. Lo stesso attore può chiedere al giudice, nella stessa prima udienza, l'autorizzazione alla chiamata in causa di un terzo, a condizione che l'esigenza di tale chiamata sia sorta dalle difese del convenuto. Entrambe le parti possono inoltre precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate. La modifica (emendatio libelli) è consentita solo in questa prima udienza di trattazione, e resta ben distinta dal vero e proprio mutamento della domanda (mutatio libelli), che è di regola sempre vietato, poiché inciderebbe in modo sostanziale sull'oggetto del giudizio. La precisazione rappresenta a sua volta un minus rispetto alla modifica della domanda, una specificazione o variazione di circostanze marginali relative ad un fatto già allegato, o la deduzione di un diverso effetto giuridico del fatto stesso. Nella stessa udienza le parti hanno la possibilità di integrare liberamente le iniziali richieste istruttorie, indicando nuovi mezzi di prova e producendo nuovi documenti. L’eventuale “appendice” di trattazione scritta, la decisione sull’ammissione dei mezzi di prova ed il c.d. calendario del processo L'art. 183 co 6° prevede che le parti, anziché precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate, e integrare liberamente le iniziali richieste istruttorie indicando i nuovi mezzi di prova e producendo nuovi documenti, direttamente in udienza, possano farlo successivamente, per iscritto, chiedendo al giudice l'assegnazione di un triplo termine perentorio:  30 giorni per il deposito in cancelleria di memorie limitate alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte;  30 giorni per replicare alle domande ed eccezioni nuove, o modificate dall'altra parte, per proporre eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime, nonché per indicare nuovi mezzi di prova e produzioni documentali;  20 giorni per le sole indicazioni di prova contraria. Quando le parti chiedano tali termini, il giudice, salvo che non reputi la causa già matura per la decisione senza la necessità di istruttoria, decide sull'ammissibilità e la rilevanza dei mezzi di prova richiesti dalle parti, fissando l'udienza in cui le prove ammesse devono essere assunte; a tal fine provvede con ordinanza emanata fuori udienza, da pronunciarsi entro trenta giorni. L'art. 81-bis disp. att., introdotto con la riforma del 2009, prevede che il giudice, quando provvede sulle richieste istruttorie, debba fissare il calendario del processo con l'indicazione delle udienze successive e degli incombenti che verranno espletati, sentite a tal proposito le parti e tenendo conto della natura, dell'urgenza e della complessità della causa. IL GIUDICE ISTRUTTORE L’origine della figura del giudice istruttore Secondo gli intenti del legislatore del '40, l'intera direzione e responsabilità della causa veniva affidata ad un organo monocratico, che rimaneva lo stesso per tutte la durata del processo, per far intervenire poi il collegio (del quale avesse fatto parte il medesimo giudice istruttore) solo quando la causa fosse ormai pronta per essere decisa. Al posto di rendere il processo più agile, ne provocò la divisione in due fasi nettamente distinte, quella istruttoria e quella decisoria, introducendo un diaframma tra le parti ed il giudice collegiale, unico titolare del potere di pronunciare sentenza, e attribuendo all'istruttore ampi poteri. La riforma degli anni '50 aveva cercato di attenuare questo potere del giudice istruttore, accordando alle parti il potere di provocare l'intervento del collegio già nel corso dell'istruttoria per un controllo anticipato sui provvedimenti che stabiliscono quali prove ammettere e su quali fatti. La riforma del '90 risolve trasformando il tribunale da giudice collegiale ad organo monocratico, con la conseguenza che il giudice istruttore, escluse le ipotesi all'art. 50-bis, cumula in sé anche i pieni poteri decisori. Il potere di direzione del processo e l’immutabilità del giudice istruttore Il giudice istruttore, escluse le ipotesi all'art. 50-bis, cumula in sé anche i pieni poteri decisori. L'art. 175 attribuisce al giudice istruttore tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento. È a lui che spetta fissare di volta in volta l'udienza successiva, nonché gli eventuali termini ordinatori entro i quali le parti devono compiere determinati atti processuali. L'art. 187 gli riconosce il potere di dare ogni altra disposizione relativa al processo. L'art. 174 enuncia il principio per cui egli, designato immediatamente dopo l'iscrizione a ruolo, resta investito di tutta l'istruzione della causa e della relazione al collegio; si potrebbe procedere alla sua sostituzione soltanto in caso di assoluto impedimento o di gravi esigenze di servizio, con un provvedimento scritto dal presidente. Le ordinanze del giudice istruttore Tutti i provvedimenti del giudice istruttore, eccezion fatta per alcune ipotesi in cui la stessa legge prevede la pronuncia di un decreto, rivestono la forma dell'ordinanza e, se pronunciati direttamente in udienza, si ritengono conosciuti sia dalle parti presenti sia da quelle che avrebbero dovuto comparirvi; se pronunciati fuori dall'udienza, il cancelliere ne dà comunicazione (di regola solo alle parti costituite) entro i tre giorni successivi. Al giudice istruttore compete indeclinabilmente, ai sensi art. 183, l'ammissione e l'assunzione dei mezzi di prova, non solo quelli che le parti abbiano richiesto, ma anche quelli che lui stesso può disporre. Dovendo verificare se un determinato mezzo di prova è rilevante, si trova inevitabilmente ad affrontare in anticipo questioni di merito controverse, che saranno poi decise dal collegio. Si può quindi comprendere l'art. 177 secondo cui le ordinanze, comunque motivate, non possono mai pregiudicare la decisione della causa, e dunque non possono in nessun caso costituire giudicato sulle questioni, di rito o di merito, in esse affrontate; né tantomeno possono vincolare il collegio, davanti al quale le stesse questioni potranno essere, di regola, liberamente riproposte allorché la causa gli verrà rimessa. Le ordinanze del giudice istruttore o del collegio sono liberamente revocabili e modificabili, tanto dal giudice che le ha pronunciate, quanto dal collegio, allorché siano state rese dal giudice istruttore. Fanno eccezione, non essendo né revocabili né modificabili: le ordinanze pronunciate sull'accordo delle parti, in materia della quale esse possono disporre, in questo caso anche la revoca o la modifica presuppone vi sia accordo di tutte le parti; le ordinanze che la legge dichiari espressamente non impugnabili; le ordinanze per le quali la legge disponga uno speciale mezzo di reclamo (quando si decide sulla sola competenza allora è impugnabile solo con reg di competenza). L’ISTRUZIONE PROBATORIA I PRINCIPI IN MATERIA DI PROVE: L’oggetto e la disponibilità della prova Tradizionalmente si è soliti schematizzare la decisione del giudice come il risultato di un'attività di sussunzione che, muovendo da una fattispecie concreta, mira a ricondurla ad una determinata fattispecie legale, ricavata dal diritto sostanziale, fino a dedurne le conseguenze giuridiche da dichiarare nel proprio provvedimento. In tale attività il giudice è chiamato ad individuare ed accertare il complesso di fatti rilevanti per la corretta determinazione della fattispecie legale di riferimento, e ad individuare ed interpretare il complesso di norme che meglio si adattano alla fattispecie concreta. Il giudice deve sempre procedere autonomamente alla ricerca e all'interpretazione della norma applicabile al caso concreto, senza che le eventuali allegazioni provenienti dalle parti possano in tale direzione vincolarlo o limitarlo, anche quando la relativa individuazione possa risultare poco agevole; ad es. gli usi, il diritto straniero. Tale principio trova conferma nell'art. 14 l. 218/1995, a norma del quale l'accertamento della legge straniera è compiuto d'ufficio del giudice, che può avvalersi a tal fine, oltre che degli strumenti indicati dalle convenzioni internazionali, di informazioni acquisite tramite il Ministero della giustizia, e può interpellare esperti o istituzioni specializzate. Per quanto riguarda invece la conoscenza dei fatti, non è possibile presumere che il giudice conosca direttamente i fatti rilevanti per la decisione, ma anzi, dovendo egli essere imparziale e dovendo l'iter logico, attraverso il quale egli perviene ad accertare i fatti stessi, essere verificabile, al giudice è vietata l'utilizzazione della sua c.d. scienza privata, cioè della diretta e personale conoscenza che egli abbia eventualmente di tali fatti. Al giudice è vietato anche ricevere private informazioni sulle cause pendenti davanti a sé (art. 97 disp. att.). L'unica eccezione è la possibilità di porre a fondamento della decisione, senza bisogno di prova, le ragioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (art. 115 co 2°), che include i fatti notori, cioè quei fatti che, nel tempo e nel luogo in cui si svolge il processo, possono considerarsi patrimonio di comune conoscenza da parte dell'uomo medio e quindi storicizzati, che rilevano come fatti secondari o come fatti principali. Salvo i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione il risultato delle prove proposte dalle parti o da pubblico ministero. La prova dei fatti allegati si configura come un vero e proprio diritto di natura processuale, strumentale all'attuazione dei diritti di azione e di difesa garantiti dall'art. 24 Cost. Alla luce dell'art. 115, devono considerarsi eccezionali le ipotesi in cui il giudice è abilitato a disporre di propria iniziativa i mezzi di prova. Nel processo ordinario i poteri istruttorii esercitabili d'ufficio sono piuttosto limitati e riguardano, prescindendo dalla consulenza tecnica: l'ispezione giudiziale, la richiesta d'informazioni alla pubblica amministrazione, l'interrogatorio libero, il giuramento suppletorio, la prova testimoniale. Il principio all'art. 115 va coordinato col principio di acquisizione della prova, per cui questa, una volta che sia stata richiesta o comunque introdotta nel processo, esce dalla sfera di disponibilità della parte istante, così che tale parte non può rinunciare alla sua assunzione né può revocare la sua produzione se non vi sia il consenso delle altre parti e l'autorizzazione del giudice; e i risultati della prova potranno giovare ad una qualunque delle parti, non soltanto a quella che l'aveva richiesta. La nozione di prova e le principali sue classificazioni Il legislatore spesso parla di prova come sinonimo di mezzo di prova, per riferirsi cioè all'insieme di strumenti e procedimenti attraverso i quali il giudice deve formare il proprio convincimento circa l'esistenza o inesistenza di determinati fatti che egli debba utilizzare per la decisione. Altre volte il termine prova indica il risultato dell'iter logico-intellettivo attraverso cui il giudice è pervenuto ad accertare i fatti, a convincersi del loro verificarsi. Le prove possono classificarsi in diversi modi, tra i quali:  prova diretta e prova indiretta, tale distinzione riguarda le modalità di conoscenza del fatto (oggetto di prova) da parte del giudice, in relazione alla fonte materiale della prova: in questo senso l'unica prova diretta sarebbe l'ispezione, che consiste nell'esame obiettivo di una cosa da cui il giudice può immediatamente percepire i fatti da provare; in tutti gli altri casi la conoscenza è solo mediata, poiché si attua attraverso l'esame di un documento o di una dichiarazione di scienza rappresentativi del factum probandum.  prova diretta e prova contraria, a seconda che la prova verta sull'esistenza o sull'inesistenza di un determinato fatto;  prova precostituita e prova costituenda. La prova precostituita è quella che preesiste al processo, e si identifica con la prova documentale; la prova costituenda si forma direttamente nel processo, grazie ad un'apposita attività istruttoria di assunzione, subordinata ad un esplicito provvedimento di ammissione (ciò non è necessario per la prova precostituita), che a sua volta presuppone la verifica dell'ammissibilità e della rilevanza della prova stessa. Il giudizio di ammissibilità si traduce in un controllo di legalità, mirante ad accertare che si tratti di un mezzo di prova consentito dall'ordinamento, non soltanto in via generale, ma anche con specifico riguardo alle peculiarità del fatto da provare. Ad es. la prova testimoniale non può avere ad oggetto l'esistenza di un contratto per cui sia richiesta la forma scritta; il giuramento non può essere deferito su un fatto illecito. Il giudizio di rilevanza attiene alla circostanza che la prova abbia effettivamente ad oggetto un fatto da utilizzare per la decisione della causa. In tale verifica il giudice è costretto ad anticipare in parte la decisione finale, giacché per individuare i fatti principali che gli serviranno nel decidere, non può fare a meno di determinare le fattispecie legale di riferimento, risolvendo ogni connessa questione giuridica. Quando poi la prova verta su fatti secondari, il giudice, per appurare se tali fatti siano rilevanti, dovrà pure anticipare, seppure in via ipotetica, quell'attività logico-deduttiva che gli consentirebbe di risalire, partendo dai fatti stessi, ai diversi fatti principali sui quali dovrà fondarsi la decisione. Occorre comunque tener presente che l’anticipazione è provvisoria, dato che il provvedimento riveste la forma dell’ordinanza e pertanto è revocabile e modificabile sia dal giudice istruttore sia dal collegio.  Un'altra distinzione possibile è quella tra prova libera, prova legale e argomento di prova. La prova libera è quella corrispondente al principio generale in base al quale, salvo che la legge disponga diversamente, il giudice è tenuto a valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento (art. 116), facendo uso di canoni di logica e buon senso, oggettivamente verificabili tramite la motivazione. Questo è il principio del libero convincimento del giudice, al quale la legge pone alcuni limiti es: vi sono regole che circoscrivono l’ammissibilità di alcuni mezzi di prova. La prova legale è quella che vincola il giudice a considerare per vero il risultato della prova stessa, senza alcun margine per l'esercizio del suo prudente apprezzamento, perché l’attendibilità del mezzo di prova è stata preventivamente valutata ed appurata dal legislatore. Ad es. alcune prove documentali (atto pubblico, scrittura privata), la confessione, il giuramento. Gli argomenti di prova sono quelli che il giudice può desumere: dalle risposte che le parti gli danno in sede di interrogatorio libero; dal loro ingiustificato rifiuto a consentire l'ispezione o l'esibizione; dalle dichiarazioni rese dalle parti dinanzi al consulente tecnico, nonché da quelle proveniente da Autorità centrale con lo specifico incarico di ricevere le richieste di rogatoria provenienti dall'autorità giudiziaria di un altro Stato contraente e di trasmetterle all'autorità interna competente per darvi esecuzione. Il regolamento comunitario consente invece la trasmissione diretta di richieste di assunzione di prove tra autorità giudiziarie di diversi Stati membri e, a talune condizioni, l'assunzione diretta della prova all'estero, da parte dell'autorità giudiziaria richiedente. Le modalità di assunzione della prova e la sua chiusura Il giudice che procede all'espletamento della prova è competente a risolvere ogni questione che dovesse sorgere in tale sede (art. 205). Le parti possono assistere personalmente all'assunzione dei mezzi di prova, per la quale si redige un processo verbale sotto la direzione del giudice. L'art. 208 stabilisce una decadenza dal diritto di far assumere la prova quando la parte, su istanza della quale dovrebbe iniziarsi o proseguirsi la prova stessa, ometta di presentarsi. Tale decadenza deve essere dichiarata d'ufficio dal giudice, a meno che non sia l'altra parte, presente, a chiederne l'assunzione. La decadenza non opera rispetto ai mezzi di prova che siano stati disposti d'ufficio dal giudice, nonché quando nessuna delle parti sia comparsa all'udienza. Quando sia stata dichiarata la decadenza, la parte interessata può chiedere al giudice, nell'udienza successiva, la revoca del provvedimento, allorché la sua mancata comparizione sia stata provocata da causa ad essa non imputabile. La chiusura della fase di assunzione delle prove viene dichiarata dal giudice istruttore: quando siano stati esauriti tutti i mezzi di prova ammessi; quando, essendo le parti decadute dal diritto di assumerne taluno, non ve ne siano altre da esperire; o quando il giudice reputi superflua, per i risultati già raggiunti, l'assunzione di ulteriori prove originariamente ammesse. I SINGOLI MEZZI ISTRUTTORII LA CONSULENZA TECNICA: Natura e funzione della consulenza tecnica L'art. 61 consente al giudice, quando sia necessario, di farsi assistere per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica, che il codice ricomprende nella categoria degli ausiliari del giudice. A questo scopo, presso ciascun tribunale esiste un apposito albo dei consulenti tecnici, diviso in categorie a seconda delle specifiche competenze e disciplinato dagli artt. 13 ss. disp. att., cui il giudice è tenuto normalmente ad attingere per la scelta del consulente. La consulenza tecnica è quindi un vero e proprio mezzo di prova, soggetto, quanto all'efficacia probatoria, alla regola generale del prudente apprezzamento del giudice. I compiti e l’attività del consulente La collaborazione del consulente tecnico può assumere due diverse forme, a seconda che si limiti ad una mera assistenza al giudice e alle parti, nelle udienze cui è invitato a partecipare, oppure implichi lo svolgimento di vere e proprie indagini, coll'intervento dello stesso giudice o in modo autonomo. Nel primo caso il suo compito consiste nel fornire in forma orale i chiarimenti richiesti, oppure, qualora il presidente del collegio lo ritenga opportuno, nell'esprimere il suo parere in camera di consiglio alla presenza delle parti. Nel secondo caso il consulente tecnico assume un ruolo attivo, soprattutto quando svolge le indagini da solo, in questo caso sarà tenuto a redigere relazione scritta in cui deve riassumere le operazioni eseguite ed i risultati ottenuti. Lo svolgimento della consulenza tecnica e la liquidazione del relativo compenso Con l'iscrizione volontaria all'albo il consulente tecnico assume l'obbligo, in caso di nomina, di prestare il proprio ufficio, cui può sottrarsi soltanto quando ricorra un giusto motivo di astensione oppure quando, nelle stesse ipotesi previste all'art. 51 per il giudice, siano le parti a ricusarlo. L'ordinanza di nomina del consulente tecnico deve già formulare i quesiti, cioè indicare l'oggetto specifico degli accertamenti e delle valutazioni che è chiamato a compiere, e deve essere a lui notificata, a cura del cancelliere, unitamente all'invito a comparire all'udienza fissata dal giudice. Con la stessa ordinanza di nomina, il giudice assegna alle parti un termine entro cui designare, un loro consulente tecnico di parte che potrà assistere a tutte le operazioni del consulente del giudice e alle udienze cui questo partecipa. All'udienza cui è stato convocato, il consulente nominato dal giudice è tenuto a prestare giuramento di adempiere bene e fedelmente le funzioni affidategli al solo scopo di fare conoscere al giudice la verità (art. 193). Successivamente il giudice, se le indagini del consulente devono aver luogo autonomamente e gli è richiesta una relazione scritta, fissa con ordinanza, nella stessa udienza: un primo termine entro cui il consulente deve trasmettere detta relazione alle parti costituite; un secondo termine entro cui le parti possono trasmettere al consulente le proprie osservazioni sulla relazione, sollecitandone eventualmente integrazioni o chiarimenti; e un terzo termine, sempre anteriore all'udienza successiva, entro il quale il consulente deve depositare in cancelleria la propria relazione, le osservazione delle parti e una sintetica valutazione delle stesse. Se le indagini avvengono senza la partecipazione del giudice, è necessario che il consulente dia comunicazione alle parti della data e del luogo di inizio delle operazioni, attraverso una dichiarazione inserita nel verbale d'udienza o con biglietto a mezzo del cancelliere. Può accadere che il consulente d'ufficio riesca a propiziare una conciliazione della controversia: dovrà allora procedere alla redazione del relativo verbale, sottoscritto dalle parti e dallo stesso consulente, inserito nel fascicolo d'ufficio e successivamente munito di efficacia di titolo esecutivo con un apposito decreto del giudice (art. 199). Se invece la conciliazione non riesce, il consulente darà corso all'incarico per depositare in cancelleria, entro il termine assegnatogli, la relazione scritta, relativa ai risultati delle indagini compiute, le osservazioni che le parti gli abbiano fatto tempestivamente pervenire in merito alla relazione stessa, una propria sintetica valutazione di tali osservazioni. Se nel corso delle indagini sorgano questioni circa i poteri ed i limiti dell'incarico del consulente, questi, senza essere tenuto a sospendere le operazioni, deve informarne il giudice, al quale spetta dare i provvedimenti opportuni. L’ISPEZIONE GIUDIZIALE: Caratteri generali L'art. 118 prevede che il giudice possa ordinare alle parti o ai terzi di consentire sulla loro persona o sulle cose in loro possesso le ispezioni che appaiano indispensabili per conoscere i fatti, purché ciò possa compiersi senza grave danno per la parte o per il terzo, e senza costringerli a violare segreto professionale, segreto d'ufficio o segreto di Stato. L'ispezione è un mezzo istruttorio di cui il giudice può servirsi ex officio, al fine di entrare a diretto contatto con una fonte di prova che non è acquisita al processo, al fine di percepirne personalmente fatti rilevanti per la decisione. Oggetto dell'ispezione può essere una cosa (con l'esclusione dei documenti, che invece sono acquisiti con l'esibizione), oppure la persona stessa di una delle parti o di un terzo (ispezione corporale). All'ispezione dovrebbe sempre procedere il giudice istruttore, anche quando debba compiersi fuori dalla circoscrizione del tribunale. L'unica eccezione espressamente prevista riguarda l'ispezione corporale, cui il giudice può astenersi dal partecipare, disponendo che vi proceda il solo consulente tecnico. Generalmente si riconosce che il potere di ispezione non può mai trasformarsi in un potere di perquisizione, né può avere finalità meramente esplorative, dovendo essere preventivamente allegati e determinati i fatti che mira ad accertare. Soggetto passivo dell'ordine di ispezione può essere sia la parte che un terzo. In caso di inottemperanza del provvedimento del giudice la disciplina è diversa: dal rifiuto della parte possono trarsi contro la medesima argomenti di prova a norma dell'art 116 co 2°; il rifiuto del terzo invece implica solamente l'applicazione, nei suoi confronti, di una pena pecuniaria tra 250 e 1500 euro. L'art. 374 c.p. sanziona come reato il comportamento di chi, nel corso di un procedimento civile o amministrativo, al fine di trarre in inganno il giudice di un atto d'ispezione o di esperimento giudiziale, immuta artificiosamente lo stato dei luoghi o delle cose o delle persone. Il provvedimento ed i poteri del giudice in sede d’ispezione L'ordine di ispezione compete normalmente al giudice istruttore, che deve fissarne il tempo, il luogo e il modo (art. 258). Il relativo provvedimento ha la forma dell'ordinanza e può intervenire in qualunque momento del giudizio di primo grado nonché in appello. L’ispezione può chiedersi anche in via cautelare finanche prima che sia iniziato il giudizio di merito. Per l'ispezione corporale sono prescritte particolari misure, il giudice deve procedere con ogni cautela diretta a garantire il rispetto della persona. Il soggetto passivo ha il diritto di farsi assistere, durante l'assunzione della prova, da persona di sua fiducia che sia riconosciuta idonea dal giudice (art. 93 disp. att.), e le altre parti possono esserne escluse. Gli art. 261 e 262 attribuiscono al giudice alcuni poteri, finalizzati ad un proficuo svolgimento dell'ispezione o alla documentazione dei risultati della stessa; in particolare, nel corso dell'ispezione può: ordinare l'esecuzione di rilievi, calchi e riproduzioni anche fotografiche di oggetti, documenti e luoghi, nonché, all'occorrenza, di rilevazioni cinematografiche o altre che richiedono l'impiego di mezzi, strumenti o procedimenti meccanici; ordinare un esperimento giudiziale, ossia la riproduzione di un certo fatto per accertare se il fatto stesso sia o possa essersi verificato in un dato modo; sentire testimoni per informazioni; dare i provvedimenti necessari per l'esibizione della cosa o per accedere alla località, disporre l'accesso in luoghi appartenenti a persone estranee al processo, sentite se è possibile queste ultime, e prendendo in ogni caso le cautele necessarie alla tutela dei loro interessi. L’ESIBIZIONE DELLE PROVE E LA RICHIESTA DI INFORMAZIONI ALLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: L’ordine di esibizione di prove Nell'ambito del giudizio la confessione può essere spontanea, quando sia la stessa parte, di propria iniziativa, a dichiarare fatti a sé sfavorevoli, oppure provocata mediante interrogatorio formale (art. 228). La confessione spontanea può essere contenuta in qualunque atto processuale firmato dalla parte personalmente, salvo il caso dell'art. 117, nel senso che le eventuali dichiarazioni “contra se” rese dalla parte in sede di interrogatorio libero, pur se racchiuse in un verbale sottoscritto dalla parte stessa, non possono considerarsi vera e propria confessione, ma mere ammissioni. Indipendentemente che sia intervenuta spontaneamente o nel corso dell'interrogatorio formale, la confessione giudiziale forma piena prova, di regola, contro colui che l'ha resa, ed è quindi idonea a vincolare il giudice circa la verità dei fatti confessati. A tale principio l'art 2733 c.c. deroga in due casi: quando i fatti riguardano diritti non disponibili dalle parti; quando, ricorrendo un'ipotesi di litisconsorzio necessario, la confessione proviene da alcuni soltanto dei litisconsorti; in questo caso la confessione è liberamente apprezzata dal giudice, degradando da prova legale a prova libera nei confronti di tutti. Solitamente colui che confessa non si limita ad una confessione contra se, ma accompagna l'affermazione di altri fatti o circostanze a sé favorevoli tendenti ad infirmare l'efficacia del fatto confessato oppure a modificarne o a estinguerne gli effetti (art. 2734). Si parla di “confessione complessa” quando l'aggiunta sia rappresentata da un fatto del tutto distinto, idoneo a modificare o ad estinguere gli effetti del fatto sfavorevole al dichiarante; oppure “qualificata”, quando la dichiarazione pro se riguardi un fatto strettamente connesso a quello confessato, tale da reagire sulla qualificazione stessa della fattispecie (es è vero che l’attore mu ha dato una certa somma di denaro ma si trattava di donazione e non di mutuo). In entrambi i casi l'efficacia probatoria delle dichiarazioni, nel complesso, dipende dall'atteggiamento dell'altra parte: se questa non contesta la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte, esse fanno piena prova, vincolando il giudice nella loro integrità, senza distinguere tra fatti sfavorevoli e fatti favorevoli al loro autore; se invece l'altra parte contesta, è rimesso al giudice apprezzare secondo le circostanze, l'efficacia probatoria delle dichiarazioni. Si parla a riguardo di inscindibilità della confessione. La confessione stragiudiziale Nel caso di confessione stragiudiziale, il legislatore esclude la prova per testi ogniqualvolta la confessione verta su fatti che, a loro volta, non potrebbero essere provati in tal modo. Bisogna anche distinguere se la dichiarazione confessoria è rivolta all'altra parte o ad un rappresentante di questa, essa avrà la stessa efficacia che compete alla confessione giudiziale (di regola prova legale); se invece è diretta ad un terzo oppure contenuta in un testamento, è liberamente apprezzata dal giudice (art. 2735). L’interrogatorio formale ed il suo rapporto con la confessione A norma dell'art. 230, la parte che intende far sottoporre l'avversario ad interrogatorio formale è tenuta a dedurre tale interrogatorio per articoli separati e specifici. L'interrogando deve essere messo in condizione di conoscere in anticipo i fatti su cui dovrà riferire. Le domande non potranno vertere su fatti diversi da quelli formulati nei capitoli, a meno che non si tratti di domande sulle quali le parti concordano e che il giudice ritiene utili, rilevanti, e salvo il potere del giudice stesso di chiedere in ogni caso i chiarimenti opportuni sulle risposte date. La parte interrogata non ha alcun obbligo, giuridicamente sanzionabile, di dire la verità contro i propri interessi; ciò non toglie che abbia il dovere di presentarsi a rendere l'interrogatorio e di rispondere personalmente alle relative domande, senza potersi servire di scritti preparati, ad eccezione delle note e degli appunti che il giudice le abbia consentito di utilizzare. La mancata comparizione, al pari del rifiuto a rispondere, produrrebbe come conseguenza, in assenza di un giustificato motivo, la possibilità valutato ogni elemento di prova, di ritenere come ammessi i fatti dedotti nell'interrogatorio (art. 232). Il comportamento omissivo costituisce quindi una prova libera, soggetta al prudente apprezzamento del giudice. Scopo dell'interrogatorio formale è ottenere la confessione della parte cui esso è deferito. Nella pratica però questo serve piuttosto a costringere la parte a dichiararsi, cioè ad assumere una specifica posizione circa i fatti allegati dall'avversario, al fine di selezionare quelli effettivamente bisognevoli di prova. LA PROVA DOCUMENTALE: Il concetto di documento Per i documenti, a differenza che per le prove costituende, l'acquisizione al processo avviene con la relativa produzione, senza passare attraverso un preventivo giudizio di ammissibilità o rilevanza ad opera del giudice, dovendo solo rispettare le limitazioni temporali risultanti dall'art. 183. I documenti prodotti al momento della costituzione in giudizio devono essere indicati nei rispettivi atti introduttivi; quelli successivi possono essere prodotti o mediante deposito in cancelleria, dandone avviso alle parti attraverso un apposito elenco, da comunicare secondo le forme dell'art. 170, oppure direttamente in udienza, facendo menzione di essi nel relativo verbale. Al contumace deve notificarsi il verbale in cui si dà atto della produzione di una scrittura non indicata in atti precedentemente a lui non notificati. L’atto pubblico A norma dell'art. 2699 c.c., si definisce atto pubblico il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da un altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l'atto è formato. Devono quindi concorrere un elemento soggettivo, cioè la qualità del notaio o del pubblico ufficiale in colui dal quale l'atto proviene, ed un elemento oggettivo, costituito dal complesso di formalità prescritte per quel determinato tipo di atto, anche in ragione del suo contenuto. L'efficacia probatoria è quella tipica della prova legale: vincola il giudice a ritenere veri i fatti risultanti dall'atto stesso, con la peculiarità che può essere superata solo attraverso il vittorioso esperimento, ad opera della parte interessata, di un'apposita impugnazione del documento, la querela di falso. In base all'art. 2700 c.c. l'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso: della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che l'ha formato; delle dichiarazioni delle parti e gli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. Circa il primo punto, possiamo dire che il documento allude alla sua consistenza materiale, quindi potrebbe aversi una falsità materiale quando l'atto pubblico fosse stato interamente contraffatto oppure alterato dopo la sua formazione. Circa il contenuto rappresentativo del documento (secondo punto), l'atto pubblico potrebbe essere affetto da falsità ideologica (es il notaio attesta fatti non veri o ai quali non ha assistito). L'efficacia di piena prova non si estende indiscriminatamente a tutto ciò che risulta dall'atto pubblico: sono esclusi i meri apprezzamenti o le valutazioni eventualmente espresse dal pubblico ufficiale, contano soltanto i fatti caduti sotto la sua diretta percezione e responsabilità, cioè quelli che dia atto di aver personalmente compiuto o che certifichi essere avvenuti in sua presenza. Riguardo le dichiarazioni delle parti, l'atto pubblico prova soltanto che le parti hanno effettivamente reso tali dichiarazioni in presenza del pubblico ufficiale, non rende incontestabile il contenuto e la veridicità delle stesse, né la loro corrispondenza alla volontà delle parti. Il legislatore ha espressamente previsto la possibile conversione dell'atto pubblico, che sia viziato vuoi dalla incompetenza o incapacità del pubblico ufficiale da cui proviene, vuoi dalla violazione delle relative prescrizioni formali, in una scrittura privata, a condizione che abbia l'indispensabile requisito di forma rappresentato dalla sottoscrizione delle parti. La scrittura privata Dall'esame dell'art. 2702 c.c. si deduce che la scrittura privata sia costituita da un qualsiasi documento scritto, attribuibile ad uno o più soggetti, che non sia qualificabile come atto pubblico. Con l'apposizione della firma il sottoscrittore accetta che le dichiarazioni racchiuse nel documento siano a lui giuridicamente imputate (anche se il documento non è stato redatto da lui materialmente). La scrittura privata fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l'ha sottoscritta. Essa costituisce prova legale limitatamente alla provenienza delle dichiarazioni della parte o delle parti che l'hanno sottoscritta, ossia all'estrinseco del documento; non prova invece nulla circa il contenuto e la veridicità di tali dichiarazioni. La falsità che si fa valere con la querela di falso riguarda solo la contraffazione della firma di colui che risulta esserne l'autore, oppure quando, successivamente alla sottoscrizione, siano state indebitamente apportate modifiche o aggiunte al suo contenuto. Affinché la scrittura privata consegua tale efficacia probatoria, è necessario che la sottoscrizione sia riconosciuta da colui contro il quale è prodotta, oppure che la sottoscrizione sia legalmente considerata come riconosciuta. L’autenticazione della sottoscrizione Per far acquisire piena efficacia probatoria alla scrittura privata, è necessario farne autenticare la sottoscrizione da un notaio o da un pubblico ufficiale autorizzato (art. 2703 c.c.). L'autenticazione consiste materialmente nell'attestazione, da parte del pubblico ufficiale, che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza da persona di cui lo stesso pubblico ufficiale deve aver previamente accertato l'identità. In questo caso si può ricorrere alla querela di falso contestando l’operato del pubblico ufficiale. Un importante effetto di natura sostanziale dell'autenticazione è rendere la data della scrittura privata certa e computabile riguardo ai terzi. In mancanza di autenticazione, la certezza della data potrebbe conseguirsi solamente: dal giorno della registrazione dell'atto, dal giorno della morte o della sopravvenuta impossibilità fisica a sottoscrivere di colui che l'aveva sottoscritto, dal giorno in cui il contenuto della scrittura è riprodotto in un atto pubblico, dal giorno in cui si verifica un altro fatto che stabilisca in modo egualmente certo l'anteriorità della formazione del documento. Fanno eccezione le scritture contenenti dichiarazioni unilaterali non destinate a persona determinata, la cui data può essere accertata, anche riguardo ai terzi, con qualsiasi mezzo di prova, e le quietanze, ossia le ricevute di avvenuto pagamento, per l'accertamento della cui data è consentito al giudice, tenuto conto delle circostanze, di ammettere qualsiasi mezzo di prova. La riforma del 2005 ha insulso le scritture private autenticate fra i titoli esecutivi stragiudiziali, seppure relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in essa contenute. Il riconoscimento, espresso o tacito, ed il disconoscimento della scrittura privata Il giudicato sulla querela ha valore assoluto, efficacia erga omnes, indipendentemente dalla circostanza che abbia ritenuto falso o genuino il documento impugnato ed anche quando sia stato reso nei confronti di alcuni soltanto dei soggetti legittimati. L’efficacia probatoria delle copie Le copie dell'atto pubblico, rilasciate nelle forme prescritte da pubblici depositari autorizzati, e le copie di scritture private depositate presso pubblici uffici e spedite da pubblici depositari autorizzati, hanno la stessa efficacia della scrittura originale da cui sono estratte (art. 2715), a meno che esse, in entrambi i casi, non presentino cancellature abrasioni, intercalazioni o altri difetti esteriori, nel qual caso il giudice può apprezzarne l'efficacia probatoria sulla base del suo prudente apprezzamento (art. 2716). L'art. 2719 dispone che la fotocopia ha la stessa efficacia di una copia autentica quando la sua conformità con l'originale è attestata da pubblico ufficiale competente o non è espressamente disconosciuta. Le riproduzioni fotografiche, cinematografiche e meccaniche in genere L'art. 2712 c.c. prende in considerazione le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose, stabilendo che esse costituiscono piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime. L'elenco non è tassativo. Nei confronti di questi documenti non è possibile una verificazione analoga a quella della scrittura privata disconosciuta, pur non essendo escludibili accertamenti di natura tecnica. Il telegramma Il telegramma può essere sottoscritto dal mittente, limitatamente all'originale consegnato all'ufficio postale, e la relativa sottoscrizione potrebbe essere anche autenticata, in questo caso equivale in tutto e per tutto ad una scrittura privata autenticata. L'art. 2705 c.c. attribuisce al telegramma la stessa efficacia probatoria della scrittura privata, anche quando non sia stato sottoscritto dal mittente, ma sia stato consegnato o fatto consegnare dal mittente stesso. In questo modo però non può soddisfare il requisito della forma scritta, laddove questa sia essenziale per la validità dell'atto stesso. L'art. 2706 c.c. prevede una mera presunzione di conformità tra l'originale e la copia pervenuta al destinatario, superabile attraverso prova contraria. Il telefax Il telefax ha il vantaggio di trasmettere un'immagine completa del documento originare, compresa la sottoscrizione, quindi la trasmissione di un documento a mezzo fax soddisfa il requisito di forma scritta, escludendo che debba fare seguito la trasmissione dell'originale. Per dimostrare materialmente l'effettiva ricezione della copia del documento da parte del destinatario si ha il rapporto di trasmissione, stampato in via automatica dall'apparecchio del mittente. Quando il destinatario ne contesti la veridicità, tale rapporto farà piena prova della sola circostanza che un documento è stato trasmesso da un certo numero telefonico ad un altro, nella data e ora indicate, senza poter provare quale documento è stato effettivamente trasmesso. La copia esibita dal destinatario dovrebbe avere la stessa efficacia di una copia autentica quando la sua conformità rispetto all'originale teletrasmesso non sia stata espressamente disconosciuta. Il documento informatico Il documento informatico è definito dal d.lgs. 82/2005 (codice dell'amministrazione digitale) come la “rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”. Per firma elettronica qualificata si intende quella ottenuta attraverso una procedura informatica che garantisce la connessione univoca al firmatario e la sua univoca autenticazione informatica, creata con mezzi sui quali il firmatario può conservare un controllo esclusivo e collegata ai dati ai quali si riferisce in modo da consentire di rilevare se i dati stessi siano stati successivamente modificati. Sul piano sostanziale, il documento informatico soddisfa il requisito legale della forma scritta quando sia sottoscritto con firma elettronica qualificata o digitale e sia formato nel rispetto delle regole tecniche che garantiscano l'identificabilità dell'autore, l'integrità e Immodificabilità del documento. Fuori da tali presupposti, l'idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta resta liberamente valutabile in giudizio. Le scritture contabili delle imprese Gli arti. 2709 e 2710 c.c. considerano l'efficacia probatoria dei libri e delle scritture contabili delle imprese, distinguendo a seconda che debbano utilizzarsi contro l'imprenditore da cui provengono o a suo favore. Se sono contro l'imprenditore, è sufficiente che si tratti di libri o scritture contabili di imprese soggette a registrazione e che dal loro contenuto sia possibile dedurre fatti contrari all'interesse della parte che ne è autrice, col solo limite che chi invoca a proprio vantaggio tali scritture non può scinderne il contenuto ma deve accettarlo per quello che complessivamente possono dimostrare. Se sono a favore si fa riferimento ai soli libri bollati e vidimati nelle forme di legge che siano regolarmente tenuti, inoltre l'efficacia pro se vale solo tra imprenditori e per i rapporti inerenti l'esercizio dell'impresa. Sono prove soggette al prudente apprezzamento del giudice. IL GIURAMENTO: Il giuramento in generale Il giuramento è il mezzo istruttorio in cui una delle parti è chiamata ad affermare in forma grave e solenne la verità di fatti a sé sfavorevoli, che in tal modo si hanno per definitivamente accertati nel processo, senza alcuna possibilità di prova contraria. L’efficacia probatoria del giuramento è massima, perfino superiore a quella della confessione. L'art. 2736 c.c. distingue due tipi di giuramento: quello decisorio, che una parte deferisce all'altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa; e quello suppletorio, che è deferito d'ufficio ad una qualunque delle parti, al fine di decidere la causa quando la domanda o le eccezioni non sono pienamente provate, ma non sono del tutto sfornite di prova, oppure per stabilire il valore della cosa domandata, se non si può accertare altrimenti (giuramento di estimazione). Il giuramento decisorio Il giuramento è decisorio perché deve vertere su fatti decisivi, idonei a portare all'immediata definizione, totale o parziale, della causa; costituisce una prova legale, che prevale sempre e comunque su tutte le altre prove, sia nell'ipotesi in cui venga prestato che nel caso in cui la parte si rifiuti di renderlo. Attraverso il deferimento del giuramento ciascuna parte ha la possibilità di sfidare l'altra ad affermare la verità di fatti ad essa favorevoli, ponendola di fronte all'alternativa tra rendere la dichiarazione giurata, ottenendo che la verità dei fatti resti definitivamente accertata in suo favore, senza possibilità di prova contraria, oppure rifiutarsi di giurare, rimanendo soccombente rispetto alla domanda o al punto relativamente al quale il giuramento era stato ammesso (art. 239). Il che se si considera che il codice penale prevede sanzioni per il falso giuramento (cd delitto di spergiuro) si traduce nell’imporre alla parte, alla quale il giuramento è stato deferito, il divieto di mentire. Quest’ultima, quando i fatti siano comuni all'altra parte, può sottrarsi tale alternativa 8detta prima) solo attraverso il “riferimento” del giuramento, chiedendo quindi che a giurare sia proprio la parte che glielo aveva deferito. La capacità richiesta alla parte per deferire o riferire il giuramento è il poter disporre del diritto controverso, il che esclude la legittimazione del sostituto processuale. Il deferimento può avere come destinatario anche la persona fisica cui compete la rappresentanza di una persona giuridica o di una società che sia parte del processo. Il giuramento può essere de veritate, quando riguardi un fatto proprio della parte a cui si deferisce, oppure de scentia, quando verte sulla conoscenza che essa ha di un fatto altrui. L'art. 2739 c.c. esclude la possibilità di avvalersi di tale mezzo di prova: nelle cause relative a diritti di cui le parti non possono disporre; quando il giuramento dovrebbe vertere sopra un fatto illecito; quando sia diretto a provare l'esistenza di un contratto per la validità del quale sia richiesta la forma scritta, che evidentemente sarebbe nullo se non fosse stato consacrato in un documento; tale limitazione non si applica quando la forma sia richiesta solo ad probationem; quando il giuramento mira a negare un fatto che da un atto pubblico risulti avvenuto alla presenza del pubblico ufficiale che ha formato l'atto stesso. Deferimento e riferimento; prestazione e conseguenze della mancata prestazione Il giuramento decisorio può essere deferito in qualunque stato della causa davanti al giudice istruttore, fino alla precisazione delle conclusioni, e, in deroga al divieto di nuovi mezzi di prova, in appello e nel giudizio di rinvio. Può riguardare fatti già accertati attraverso altre prove anteriormente assunte, tenuto conto che prevale su ogni altra prova. Il deferimento (ed il riferimento) deve essere compiuto personalmente dalla parte, con atto scritto da essa sottoscritto o con dichiarazione resa all'udienza, oppure dal difensore munito di procura ad hoc con dichiarazione in udienza (art. 233). Al momento del deferimento il giuramento deve essere formulato in articoli separati, in modo chiaro e specifico. In caso di riferimento, tale formula verrà invertita, al fine di riprodurre la tesi difensiva della parte che aveva originariamente deferito il giuramento e che viene in tal modo chiamata essa stessa a giurare. Sia il deferimento che il riferimento sono di regola revocabili solo fino a quando l'avversario non si sia dichiarato pronto a prestare giuramento (o non l’abbia a sua volta riferito); se però il giudice, nell'ammettere la prova, abbia modificato la formula indicata dalla parte, essi potranno essere revocati anche dopo tale momento, fino all'effettiva prestazione. Quando sorgano contestazioni circa l'ammissibilità del giuramento, la risoluzione spetta al collegio (art. 273), se si tratti di causa per la quale è prevista la decisione collegiale. L'ordinanza ammissiva del giuramento deve essere sempre notificata direttamente alla parte (non al procuratore costituito), anche quando sia contumace (art. 237). Il giuramento deve essere prestato personalmente davanti al giudice istruttore, che previamente ammonisce la parte sull'importanza morale dell'atto e circa le conseguenze penali delle dichiarazioni false. Se la parte delata non si presenta, senza giustificato motivo, all'udienza fissata per l'assunzione del mezzo istruttorio, o rifiuti di prestare giuramento o ne modifichi arbitrariamente e sostanzialmente la formula, tale parte rimane soccombente rispetto alla domanda o al punto relativamente al quale il giuramento è ammesso, a meno che il giudice, reputando giustificata la sua mancata comparizione, provveda a fissare una nuova udienza o disponga per l'assunzione del giuramento fuori dalla sede giudiziaria. Le modalità di deduzione e di assunzione della prova La prova testimoniale ricade nella disponibilità delle parti e deve essere richiesta attraverso l'indicazione specifica dei testi, nonché dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuno di essi sarà interrogato (art. 244). Il giudice può disporre d'ufficio, formulandone egli stesso i capitoli, la testimonianza di persone alle quali le parti si sono riferite nell'esposizione dei fatti e che appaiono in grado di conoscere la verità (art. 281-bis). La preventiva formulazione dei capitoli di prova serve essenzialmente a valutare l'ammissibilità e la rilevanza della prova stessa. Con l'ordinanza di ammissione il giudice può eliminare dalla lista dei testi, oltre a quelli incapaci di testimoniare a norma dell'art. 246, anche quelli che reputi semplicemente sovrabbondanti. La parte che aveva indicato i testi può invece rinunciare alla loro audizione solo a condizione che alla rinuncia aderiscano le altre parti ed acconsenta il giudice. Una volta che la prova sia stata ammessa, la parte interessata ha l'onere di provvedere alla citazione dei testi, cioè deve chiedere all'ufficiale giudiziario che provveda ad intimare ai testi (con atto scritto che viene loro notificato), almeno sette giorni prima dell'udienza fissata, di comparire in detta udienza, indicando luogo, giorno e ora fissati, nonché il giudice che dovrà assumere la testimonianza e la causa cui essa si riferisce. Quando la parte onerata non provveda all'intimazione, decade dalla prova (salvo sussista giusto motivo per l'omessa citazione) e la decadenza è dichiarabile d'ufficio. L'altra parte può però evitarla dichiarando di essere interessata all'audizione del testimone. Il testimone ha l'obbligo di comparire. Le deroghe riguardano esclusivamente le ipotesi in cui si trovi nell'impossibilità di presentarsi o ne sia esentato dalla legge o da convenzioni internazionali, in questo caso è previsto che il giudice si rechi ad assumere la deposizione presso l'abitazione o l'ufficio del teste, oppure deleghi a procedervi il giudice del luogo. Fuori dalle deroghe, se il teste regolarmente citato non si presenta, il giudice può ordinare una nuova intimazione oppure l'accompagnamento coatto alla stessa udienza o ad altra successiva, e può condannare il teste ad una pena pecuniaria compresa tra 100 e 1000 euro.Se, nonostante tale sanzione, il teste omette nuovamente di comparire senza giustificato motivo, il giudice ne dispone l'accompagnamento coatto e lo condanna al pagamento di un'ulteriore pena pecuniaria compresa tra 200 e 1000 euro. I testimoni devono essere esaminati separatamente. Prima di interrogare il teste, il giudice istruttore deve avvertirlo circa l'obbligo di dire la verità e le conseguenze penali previste per la testimonianza falsa o reticente, e deve invitarlo a rendere una precisa dichiarazione di impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a sua conoscenza (art. 251). Il giudice chiede al teste nome e cognome, luogo e data di nascita, età e professione, invitandolo a dichiarare se ha rapporti di parentela, affinità, affiliazione o dipendenza con alcuna delle parti, o se ha interesse nella causa; le parti possono fare osservazioni sull'attendibilità del testimone, il quale è tenuto a fornire in proposito i chiarimenti necessari, di cui si fa menzione nel processo verbale prima di dar corso all'audizione del teste (art. 252). L'art. 253 regola la deposizione: il giudice ha il potere esclusivo di interrogare il teste sui fatti per i quali era stata ammessa la prova nonché di rivolgergli, di propria iniziativa o su istanza di parte, tutte le domande che ritenga utili a chiarire i fatti stessi. Le parti ed il pubblico ministero non possono interrogare direttamente i testimoni. Il teste non può servirsi, per le proprie risposte, di scritti preparati, salvo che sia stato autorizzato dal giudice a valersi di note o appunti. Il giudice può disporre, anche d'ufficio, il confronto tra più testimoni, quando nelle rispettive deposizioni siano emerse divergenze (art. 254); ordinare d'ufficio che siano chiamate a deporre le persone cui alcuno dei testimoni abbia fatto riferimento per la conoscenza dei fatti (art. 257); decidere di sentire i testi ritenuti in un primo momento sovrabbondanti o dei quali aveva consentito la rinuncia; disporre la rinnovazione dell'esame di testi già escussi, al fine di chiarire la loro deposizione o di correggere eventuali irregolarità nel precedente esame. La testimonianza scritta La riforma del 2009 ha introdotto l'art. 257-bis relativa alla testimonianza scritta, cioè alla possibilità di assumere la deposizione del testimone per iscritto e al di fuori dell'udienza, attraverso la compilazione di un apposito modello, anziché mediante l'interrogatorio ad opera del giudice e nel contraddittorio delle parti. Tale possibilità è subordinata all'accordo delle stesse parti costituite, e rimessa ad una valutazione discrezionale del giudice, che tenga conto della natura della causa e di ogni altra circostanza. Il giudice nell'ammettere la testimonianza scritta deve fissare il termine entro cui il testimone è tenuto a rispondere ai quesiti, ordinando alla parte che ne aveva richiesto l'assunzione di predisporre il modello di testimonianza in conformità agli articoli ammessi, e di notificarlo al testimone. Il giudice deve fissare anche il termine per la notifica del modulo al teste, la cui inosservanza determinerebbe la decadenza della parte dalla prova. Quando la testimonianza abbia ad oggetto documenti di spesa già depositati dalle parti, si può prescindere dalla compilazione del modulo e la disposizione può rendersi mediante dichiarazione scritta e sottoscritta, trasmessa direttamente al difensore della parte, nel cui interesse è stata ammessa la prova testimoniale. Rimane necessario comunque l'accordo delle parti. Il giudice, dopo aver esaminato le risposte o le dichiarazioni scritte del teste, tenendo conto degli eventuali rilievi delle parti, può optare per il suo interrogatorio diretto in udienza, disponendo che sia chiamato a deporre davanti a lui oppure davanti al giudice delegato del luogo. LE PRESUNZIONI E LE C.D. PROVE ATIPICHE: Le presunzioni legali L'art. 2727 ss c.c. definisce le presunzioni come le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato, e data la collocazione, se ne deduce che apparterrebbero al novero dei mezzi di prova. Tale classificazione è impropria in relazione alle presunzioni legali, che servono solo a ripartire l'onere della prova tra le parti in modo razionale. L'art. 2728 c.c. precisa che l'effetto delle presunzioni è dispensare da qualunque prova coloro in favore dei quali sono stabilite, sarà l'altra parte a dover provare il contrario, ossia l'inesistenza del fatto oggetto della presunzione legale (si discorre a riguardo di presunzioni legali relative perché ammettono prova contraria). Le presunzioni legali assolute escludono invece la possibilità di qualunque prova contraria, ma sono estranee al tema della prova, essendo una tecnica che il legislatore utilizza per meglio definir una fattispecie sul piano sostanziale. Le presunzioni semplici Le presunzioni semplici, quelle cioè lasciate alla prudenza del giudice (art. 2729 c.c.), più che un vero e proprio mezzo di prova, sono un modo di ragionare, un procedimento logico che potrebbe definirsi induttivo, al quale il giudice è costretto a ricorrere frequentemente nella formazione del proprio convincimento circa i fatti rilevanti per la decisione e nella valutazione stessa delle prove. Il giudice, partendo da un fatto noto, risale al fatto ignoto da provare tramite l'applicazione delle massime d'esperienza, le quali indicano l'insieme delle regole e dei principi offerti dalla logica nonché dalle scienze naturali e sociali, o semplicemente desumibili dall'osservazione empirica dei comportamenti umani; regole che il giudice ricerca autonomamente e che devono avere valenza oggettiva, essendo generalmente riconosciute o percepibili e condivisibili dall'uomo di media cultura. La presunzione si riferisce alle ipotesi in cui l'applicazione della massima d'esperienza consente solamente di formulare un giudizio di probabilità circa l'esistenza del fatto da provare. Il giudice deve ammettere solo presunzioni gravi, precise e concordanti, quindi il convincimento del giudice deve sempre rispondere a criteri razionali e deve far ricorso solo a massime d'esperienza in grado di fornire risultati altamente attendibili. È escluso l'uso delle presunzioni quando debba provarsi un fatto per cui non sarebbe ammessa la prova per testimoni. Le prove atipiche Le prove atipiche sono quelle che non sono comprese nel catalogo risultante dal codice civile e dal codice di procedura civile, o comunque prove che pur trovandosi nei codici, siano state assunte con modalità diverse da quelle prescritte dalla legge. Le più frequenti sono la dichiarazione di scienza contenuta in uno scritto proveniente da un terzo; la perizia stragiudiziale; le prove raccolte o i fatti accertati dalla sentenza pronunciata in un diverso processo; le nuove prove create dal progresso delle scienze e della tecnologia quando non siano assimilabili alle prove tipiche. La giurisprudenza non sembra nutrire alcun dubbio. In dottrina prevale l'idea che la possibilità di far ricorso a mezzi di prova diversi da quelli tipici sia confermata, in via generale e indiretta, dall'art. 2729 c.c., da cui può desumersi la atipicità degli indizi utilizzabili per risalire da un fatto noto a un fatto ignoto. In base a tale premessa, l'utilizzazione della prova atipica incontra delle limitazioni: non sembra ammissibile che, invocando a sproposito il principio del libero convincimento del giudice, trovino ingresso nel processo prove che altrimenti risulterebbero in concreto sostitutive di quelle disciplinate dalla legge; non è pensabile che il giudice fondi il proprio convincimento (valutandola come prova atipica) su una prova tipica che sia stata assunta irritualmente, ossia in violazione delle disposizioni ad essa relative; deve sempre essere assicurato il rispetto del principio del contraddittorio, tanto nella fase di formazione della prova quanto nel momento della sua valutazione. Questo dovrebbe far dubitare dell'utilizzabilità delle prove costituende raccolte in altri processi riguardanti parti diverse. Le prove atipiche hanno un valore essenzialmente indiziario. Le prove illecite sono quelle assunte o acquisite al processo con modalità diverse da quelle prescritte, o in violazione dei limiti indicati dal legislatore, e le prove di cui la parte sia entrata in possesso contra legem. LA CONCLUSIONE DEL PROCESSO CON DECISIONE LA FASE DECISORIA: Le cause nelle quali il tribunale decide in composizione collegiale Di regola, il tribunale giudica quale organo monocratico, nella persona del giudice istruttore. Vi sono però materie in cui il tribunale decide in composizione collegiale, contemplate all'art. 50- bis: cause nelle quali è obbligatorio l'intervento del pubblico ministero (art. 70), salvo sia altrimenti disposto; cause in materia di procedure concorsuali disciplinate dalla legge fallimentare e dalle leggi speciali circa la liquidazione coatta amministrativa, limitatamente alle ipotesi di opposizione, impugnazione e revocazione previste, nonché alle cause conseguenti a dichiarazioni tardive di crediti e a quelle di omologazione del concordato fallimentare e del concordato preventivo; cause devolute alle sezioni specializzate; cause di impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea e del consiglio d'amministrazione, cause di responsabilità da chiunque promosse contro gli organi amministrativi e di controllo, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari e i liquidatori delle società, delle mutue assicuratrici e società cooperative, delle associazioni in partecipazione e dei consorzi; cause d'impugnazione di testamenti e di riduzione per lesione di legittima; cause relative alla responsabilità civile dei magistrati; cause aventi ad oggetto azioni risarcitorie o restitutorie di classe promosse a tutela di consumatori o utenti; procedimenti in camera di consiglio, disciplinati dagli artt. 737 ss, salvo sia altrimenti disposto. In caso di connessione tra cause che dovrebbero essere decise dal tribunale in composizione monocratica e cause attribuite al collegio, l'art. 281-nonies stabilisce che il giudice istruttore deve disporre la riunione di più cause e, al termine dell'istruttoria, deve rimetterle tutte insieme al collegio, che le deciderà congiuntamente, salvo che non ritenga di disporne la separazione ai sensi dell'art. 279 co 2°, decidendone solo alcune e rimettendo le altre al giudice istruttore. Infine possiamo dire che la pronuncia della sentenza è prescritta, ai sensi dell'art. 279 co 2° n 5, quando il collegio decida alcune soltanto delle cause fino a quel momento riunite e con distinti provvedimenti disponga la separazione e la prosecuzione dell'istruzione per le altre. Si ha una decisione parziale del merito, ma il cumulo di cause viene definitivamente scisso in conseguenza di un'ordinanza di separazione. La decisione con ordinanza invece è prevista quando il collegio provvede soltanto su questioni relative all'istruzione della causa, senza definire il giudizio, nonché quando decide esclusivamente sulla competenza. La sentenza di cessazione della materia del contendere Il giudice, in alcune situazioni, può dichiarare cessata la materia del contendere, dando atto che la controversia tra le parti è stata sostanzialmente composta, e pronunciare sulle spese in base al criterio della soccombenza meramente virtuale o potenziale, valutando quello che sarebbe stato l'esito del giudizio senza il sopravvenire di quel determinato fatto. Es quando il convenuto paghi il proprio debito o adempia l’obbligazione dedotta in giudizio. Si tratta di una sentenza di merito che si pronuncia su un oggetto diverso rispetto a quello originario. La formazione della sentenza-documento Dopo la deliberazione si ha la stesura della motivazione, che consiste nell'esposizione concisa dei fatti rilevanti della causa e delle regioni giuridiche della decisione, eventualmente avvalendosi del riferimento a precedenti conformi (art. 118 disp. att.). Nel caso si tratti di un organo collegiale, la stesura delle motivazioni viene affidata, di regola, allo stesso relatore (cioè al giudice istruttore), a meno che il presidente non ritenga di stenderla egli stesso o affidarla ad altro giudice; questo diventa necessario quando il relatore abbia espresso voto contrario rispetto alla decisione. Una volta approntata la minuta della sentenza, l'estensore la consegna al presidente che, se lo ritenga opportuno, ne dà lettura all'interno del collegio. Successivamente il presidente sottoscrive la minuta insieme con l'estensore e la consegna al cancelliere, che ha la responsabilità di provvedere a far redigere il testo originale della sentenza, provvisto di tutti gli elementi di forma-contenuto richiesti dall'art. 132. Quando l'originale è pronto, il presidente e l'estensore, dopo averne verificato la corrispondenza rispetto alla minuta, vi appongono la propria firma, facendo risultare l'identità del giudice che ha steso la motivazione. Il deposito in cancelleria della sentenza serve a rendere pubblica la decisione e a conferirle esistenza giuridica, rendendola non più modificabile, se non attraverso gli appositi rimedi previsti dalla legge. Il cancelliere deve dare atto del deposito in calce alla sentenza, apponendovi data e firma (art. 133). La fase decisoria dinanzi al tribunale in composizione monocratica Nelle cause attribuite al tribunale in composizione monocratica la pronuncia della sentenza spetta allo stesso giudice monocratico. L'art. 281-quinques prevede la precisazione delle conclusioni e lo scambio di scritti conclusivi, ma il termine concesso al giudice per depositare la sentenza in cancelleria è di 30 giorni, anziché sessanta, decorrenti dalla scadenza del termine per le memorie di replica. L'udienza di discussione viene fissata solamente se una delle parti lo chiede espressamente al momento della precisazione delle conclusioni. L'art. 281-sexies prevede che il giudice, fatte precisare alle parti le conclusioni, possa ordinare la discussione orale della causa nella stessa udienza oppure, se taluna delle parti glielo chiede, in un'udienza successiva, senza assegnare i termini per lo scambio delle conclusionali e delle repliche. La decisione viene inserita nel verbale d'udienza, senza che siano richiesti gli elementi all'art. 132, e si intende pubblicata con la mera sottoscrizione, da parte del giudice, del verbale stesso. Il regime delle questioni relative alla composizione del tribunale È escluso che possa sorgere un vero e proprio conflitto tra giudice istruttore e collegio circa la composizione dell'organo giudicante. A norma dell'art. 281-septies, se il giudice istruttore ritiene si tratti di una causa che spetta a lui decidere, le parti non hanno alcun modo per investire della questione il collegio; all'opposto, se l'istruttore rimette la causa al collegio e questo ritiene non sussistano le ipotesi dell'art. 50-bis, il collegio restituisce la causa con ordinanza non impugnabile, al giudice istruttore, il quale non può più esimersi dall'avviare la fase decisoria davanti a sé. Può succedere inoltre che il giudice istruttore, dopo aver già riservato la causa per la decisione davanti a sé, sia accorga che a decidere deve essere il collegio: in questo caso dovrà riavviare ex novo la fase decisoria, invitando le parti a precisare le proprie conclusioni e assegnandogli nuovi termini per il deposito degli scritti conclusivi (art. 281-octies). Le questioni sulla composizione del tribunale non sono assimilabili a quelle di competenza, perché non coinvolgono rapporti fra diversi uffici giudiziari; secondo l'art. 50-quater, tali questioni non attengono alla costituzione del giudice e nel caso in cui vengono violate tali disposizioni, ne discende una nullità cui si applica l’art 161.1 comma. L’EFFICACIA E L’ESECUTIVITA’ DELLE SENTENZE: Rilievi introduttivi sull’efficacia delle sentenze In base all'art. 2909 c.c. l'accertamento cui tende il processo di cognizione, e quindi l'idoneità della sentenza a fare stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa, si consegue esclusivamente col passaggio in giudicato della sentenza stessa, cioè quando questa, non essendo più soggetta alle impugnazioni ordinarie, diviene relativamente incontrovertibile, potendo essere rimossa solo in seguito al vittorioso esperimento di un'impugnazione straordinaria. L’efficacia esecutiva “provvisoria” e l’inibitoria La riforma del 1990 ha reso anche la sentenza di primo grado, e non più solo quella d'appello, provvisoriamente esecutiva per legge, titolo esecutivo fin dal giorno della sua pubblicazione. L'art. 337 co 1° “L'esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell'impugnazione di essa, salvo le disposizioni degli articoli 283, 373, 401 e 407”. L'art. 282, con specifico riferimento alla sentenza di primo grado, dispone che essa è provvisoriamente esecutiva tra le parti. Lo stesso principio si trova affermato dall'art. 431 per il rito del lavoro e 447-bis per le controversie in materia di locazione, comodato di immobili urbani o affitto di azienda. L'efficacia esecutiva della sentenza si produce sempre ipso iure e può essere congelata soltanto, in presenza di determinate condizioni, attraverso un esplicito e successivo provvedimento del giudice, l'inibitoria, che presuppone in ogni caso che la sentenza sia già stata impugnata. L'art. 283 prevede che il giudice d'appello, su istanza della parte impugnante, possa sospendere in tutto o in parte l'efficacia esecutiva o l'esecuzione della sentenza impugnata, con o senza cauzione, quando sussistono gravi e fondati motivi, da valutarsi anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti. La sospensione della efficacia esecutiva può disporsi fino a quando l’esecuzione forzata non sia ancora iniziata, mentre dopo tale momento, l’unica misura possibile consiste nella sospensione dell’esecuzione. L'inibitoria inoltre può essere parziale, quando l'oggetto della condanna sia in qualche modo frazionabile o comprenda una pluralità di statuizioni. In relazione ai gravi e fondati motivi, si ritiene che riguardino, indifferentemente, tanto il merito dell'impugnazione, cioè l'esistenza di vizi o nullità della sentenza appellata che facciano apparire la sentenza manifestamente ingiusta, quanto il danno che l'esecuzione potrebbe arrecare al soggetto che la subisce, soprattutto quando essa produrrebbe una modificazione in tutto o in parte irreversibile oppure quando le condizioni economiche del creditore facciano temere una sua successiva insolvenza nel caso in cui la sentenza di condanna dovesse essere riformata dal giudice di secondo grado. Il giudice d’appello quando dichiari l’istanza inammissibile o manifestamente infondata, può condannare la parte che l’aveva proposta ad una pena pecuniaria, il provvedimento è dato con ordinanza non impugnabile, ma revocabile con la sentenza che definisce il giudizio. Per tutte le impugnazioni diverse dall’appello, la norma di riferimento è l'art. 373 per il ricorso per cassazione, applicabile, in virtù dei richiami agli artt. 401 e 407, alla revocazione e all'opposizione di terzo. In questo caso, l'inibitoria può consistere nella sola sospensione della esecuzione, il che farebbe pensare ad un’esecuzione necessariamente iniziata. L’efficacia di accertamento e costitutiva La sentenza, quale che sia la sua natura, non può fare stato né può essere invocata in un diverso giudizio prima che sia passata in giudicato. Questo non esclude che, all'interno del processo in cui è stata pronunciata, sia di per sé idonea, sebbene non ancora passata in giudicato, a fondare ulteriori provvedimenti che trovino la propria ragion d'essere nel rapporto oggetto del mero accertamento oppure nella modificazione sostanziale recata dalla sentenza costitutiva: es una sentenza di condanna al risarcimento del danno che accede ad una sentenza costitutiva di risoluzione del contratto. In questi casi la sentenza di condanna può essere provvisoriamente eseguibile, prima ancora ce la statuizione dichiarativa o costitutiva abbia acquisito l’autorità della cosa giudicata e sia divenuta operante a ogni effetto. La sentenza c.d. condizionale Per ragioni di economia processuale, la figura della sentenza condizionale (accertamento condizionato al verificarsi di un evento futuro ed incerto) ha trovato frequentemente riconoscimento nella giurisprudenza, particolarmente in relazione alle statuizioni di condanna, la cui efficacia si ammette che possa essere subordinata ad un evento futuro e incerto, oppure al sopravvenire di un termine o all'adempimento di una controprestazione; purché si tratti di una circostanza che non richieda ulteriori accertamenti giudiziali e sia invece verificabile, all'occorrenza, in sede di opposizione all'esecuzione. La condanna condizionale è caratterizzata dalla circostanza che l’obbligo accertato nella sentenza non può dirsi, sul piano sostanziale, realmente attuale, non essendosi ancora verificati tutti quei fatti dai quali esso dipende (è agevole cogliere l’affinità di tale figura rispetto alla condanna in futuro). Presupposto è che la condanna, pur rimanendo subordinata ad un evento futuro, sia almeno compiutamente specificata nel quantum. In caso contrario si tratterebbe di una sentenza di mero accertamento inidonea a costituire titolo esecutivo. La sentenza condizionale non sembra configurabile al di fuori della condanna. Le fattispecie di inattività: l’omessa costituzione di tutte le parti ed il problema dell’iscrizione a ruolo tardiva Una fattispecie che può condurre all'estinzione per inattività è la mancata costituzione di entrambe le parti entro il termine loro rispettivamente assegnato. In tal caso la causa non viene iscritta a ruolo e neanche presa in carico dall'ufficio giudiziario, resta in una condizione di quiescenza, dalla quale può uscire solamente se una delle parti, entro il termine perentorio di tre mesi dalla scadenza del termine di costituzione del convenuto, provvede a riassumerla davanti allo stesso ufficio giudiziario. In caso contrario, allo scadere del termine, il processo si estingue. Può accadere che la parte che per prima si costituisce, iscrivendo la causa a ruolo, lo faccia in ritardo rispetto al termine assegnatole; deve ritenersi che, quando il convenuto non si costituisca, seppure in ritardo e magari direttamente all'udienza, il giudice debba disporre la cancellazione della causa dal ruolo (giacché l'iscrizione a ruolo è avvenuta irritualmente) e la causa debba essere riassunta, a pena di estinzione, entro tre mesi dal relativo provvedimento. La cancellazione della causa dal ruolo non fa venir meno la pendenza della causa stessa, ma rappresenta solo un presupposto della successiva estinzione. L’estinzione preceduta dalla cancellazione della causa dal ruolo La cancellazione della causa dal ruolo fa entrare la causa in una situazione di quiescenza da cui può essere riattivata mediante riassunzione, entro 3 mesi dal relativo provvedimento. L'art. 307 fa espressamente salve alcune ipotesi in cui alla cancellazione della causa dal ruolo consegue l'estinzione immediata: la contumacia dell'attore, quando il convenuto non chiede che il processo vada avanti egualmente (art. 290); quando l'attore, pur essendosi anteriormente costituito in cancelleria, non compaia alla prima udienza: in questo caso, se il convenuto non chiede che si proceda comunque, il giudice fissa una nuova udienza, di cui il cancelliere dà comunicazione all'attore, e poi, se questo non compare neanche alla nuova udienza ed il convenuto non chiede che si proceda egualmente, ordina la cancellazione della causa dal ruolo e dichiara l'estinzione del processo (art. 181 co 2°); infine in caso di mancata comparizione di tutte le parti all'udienza di prima comparizione, o ad una qualunque udienza successiva, il giudice fissa una nuova udienza, di cui il cancelliere deve dare comunicazione alle sole parti costituite, e se neppure alla nuova udienza alcuna delle parti compare, dispone la cancellazione della causa dal ruolo e la contestuale estinzione del processo. Le altre ipotesi di estinzione, conseguente al mancato compimento di atti d’impulso Possono inoltre dar luogo direttamente all'estinzione le fattispecie derivanti dal mancato compimento di determinati atti d'impulso del processo nel termine perentorio stabilito dalla legge, oppure dallo stesso giudice. Tali atti possono consistere nella riassunzione, nella prosecuzione del processo sospeso o interrotto, nella integrazione del giudizio (es contradditorio), nella rinnovazione della citazione o della notificazione della citazione che sia affetta da nullità. In alcune di queste fattispecie, che la dottrina chiama “inattività qualificata”, l'estinzione consegue alla mancata o tardiva realizzazione di sanatorie di vizi concernenti l'instaurazione del contraddittorio, in particolare per le ipotesi in cui si debba estendere il giudizio ad un litisconsorte necessario pretermesso, oppure si debba rinnovare o integrare la citazione nulla, o reiterare la notificazione dell'atto introduttivo, o integrare la domanda riconvenzionale formulata in modo lacunoso. Il regime della pronuncia di estinzione L'art. 307 stabilisce che l'estinzione opera di diritto ed è dichiarata anche d'ufficio, con ordinanza del giudice istruttore oppure con sentenza del collegio. Non si prevede alcun termine per il rilievo d’ufficio dell’intervenuta estinzione; quindi deve ritenersi che il verificarsi di una fattispecie estintiva resti rilevabile finanche in fase di impugnazione. Quanto ai presupposti della pronuncia di estinzione, possiamo dire che essa compete esclusivamente al giudice del processo estinto; si ammette però la possibilità che il processo, dopo lo scadere del termine per la sua riattivazione venga riassunto dalla parte interessata fine di farne dichiarare l’estinzione. L’opinione prevalente ritiene che il maturare di una fattispecie estintiva possa essere accertato dal giudice di un diverso processo incidenter tantum, al solo scopo di valutare gli effetti che l'estinzione potrebbe determinare sul processo del quale egli è attualmente investito. La forma del provvedimento e la relativa “competenza” Gli artt. 307 e 308 si riferiscono alle sole cause attribuite alla decisione del tribunale in composizione collegiale. È previsto che l'estinzione possa essere pronunciata sia dal giudice istruttore, quando la relativa eccezione sia stata sollevata dinanzi a lui, sia dal collegio, quando la questione sia sorta dopo che la causa gli è stata rimessa. La declaratoria di estinzione proveniente dal giudice istruttore assume la forma dell'ordinanza (non revocabile), ma contro cui è ammesso, entro dieci giorni dalla pronuncia del provvedimento, se reso in udienza, o dalla sua comunicazione, uno specifico mezzo d'impugnazione, il “reclamo al collegio”, disciplinato dall'art. 178 co 3°5°. All'esito di tale impugnazione il collegio, decidendo in camera di consiglio, pronuncia un'ordinanza non impugnabile se accoglie il reclamo, ritenendo che l'estinzione non si è verificata e che il giudizio deve pertanto proseguire, oppure una sentenza, impugnabile attraverso le vie ordinarie, quando rigetti il reclamo confermando l'estinzione. Nelle cause che invece spettano alla decisione del giudice istruttore in funzione di giudice unico la pronuncia di estinzione riveste la forma della sentenza, sia perché egli è qui investito di tutti i poteri del collegio, sia perché, trattandosi di un provvedimento definitivo del processo, alle parti deve esser dato il diritto di impugnarlo. Gli effetti dell’estinzione: in particolare, la sopravvivenza dell’azione L'art. 310 disciplina alcuni effetti dell'estinzione del giudizio di primo grado:  l'estinzione del processo non estingue l'azione, non osta alla riproposizione della stessa domanda in un nuovo processo, né può direttamente pregiudicare il diritto che era stato dedotto nel giudizio estinto;  occorre tener presente che la domanda giudiziale produce un effetto interruttivo-sospensivo della prescrizione, che riprende a decorrere, di regola, dal momento in cui passa in giudicato la sentenza definitiva del giudizio. Se però il processo non arriva alla sentenza definitiva e si estingue prima, l'effetto sospensivo viene cancellato e sopravvive il solo effetto interruttivo: quindi il nuovo periodo di prescrizione prende a decorrere dalla data in cui quell'effetto interruttivo si era verificato, cioè dal giorno stesso della domanda giudiziale. Non è quindi escluso che l'estinzione del processo provochi, anche solo di riflesso, l'estinzione del diritto che vi era stato fatto valere;  la decadenza invece non può essere interrotta né sospesa, ma solamente impedita mediante il compimento dell'atto previsto dalla legge o dal contratto. L'effetto impeditivo della decadenza, prodotto dalla domanda giudiziale, opera, in linea di principio, solo all'interno del processo in cui la domanda stessa è proposta, restando caducato ogni volta che il processo si concluda senza una decisione di merito. Fanno eccezione le ipotesi in cui per evitare la decadenza non sia indispensabile una domanda giudiziale, ma sia sufficiente un atto stragiudiziale. La sorte delle prove già raccolte Gli atti processuali essendo strumentali al provvedimento finale, perdono efficacia qualora la decisione non possa più intervenire perché il processo si è estinto, vi sono tuttavia delle eccezioni ad esempio: l'art. 310 co 2° prevede che le sentenze di merito (ovviamente non definitive) pronunciate nel corso del processo e le pronunce che regolano la competenza conservino l'efficacia, pur dopo l'estinzione. Al co 3° stabilisce che l'efficacia delle prove raccolte nel processo estinto, qualora la domanda venga successivamente riproposta, è valutata dal giudice a norma dell'art. 116 co 2° (meri argomenti di prova), si fa riferimento alle sole prove costituende, giacché quelle precostituite mantengono l'efficacia loro propria. Tale norma opera quindi un declassamento di tutte le prove libere o legali al rango di argomenti di prova; tale declassamento però non riguarda la confessione. LE ORDINANZE ANTICIPATORIE DI CONDANNA La categoria dei provvedimenti sommari non cautelari anticipatorii I provvedimenti sommari non cautelari anticipatorii, secondo la dottrina, mirano ad anticipare gli effetti della sentenza di accoglimento della domanda in favore della parte che, nel corso del processo, risulti aver ragione sulla base degli elementi probatori fino a quel momento acquisiti. Le fattispecie più significative sono:  le ordinanze agli arti 186-bis, 264 co 3°, 423 co 1° e 648 che presuppongono la parziale non contestazione del diritto di credito ad una somma di denaro;  l'ordinanza all'art. 423 co 2°, fondata sulla convinzione del giudice che ritenga accertato il diritto nell'an e già raggiunta la prova per una parte della somma richiesta;  l'ordinanza di ingiunzione ex art. 186-ter, fondata sull'esistenza di una prova scritta del credito;  l'ordinanza di rilascio dell'immobile locato, all'art. 665;  l'ordinanza con cui il giudice, in caso di opposizione non fondata su prova scritta o di pronta soluzione, può concedere l'esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo ai sensi art. 648;  l'ordinanza di condanna alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, nel caso in cui il giudice, in qualunque momento del giudizio di merito, ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro;  l'ordinanza successiva alla chiusura dell'istruzione, all'art. 186-quater. fortuito o forza maggiore, o comunque di non essersi potuto costituire per caso fortuito o forza maggiore. L’ordinanza di condanna successiva alla chiusura dell’istruzione: rilievi introduttivi L'art. 186-quater prevede che il giudice istruttore, una volta esaurita l'istruzione, possa, su istanza di parte, disporre con ordinanza il pagamento di somme oppure la consegna o il rilascio di beni, nei limiti per cui ritiene già raggiunta la prova, provvedendo pure sulle spese processuali. L'ordinanza costituisce titolo esecutivo, è revocabile con sentenza che definisce il giudizio e si converte automaticamente in sentenza in due ipotesi: quando la parte intimata non manifesti, entro un breve termine, la volontà che sia pronunciata sentenza, nonché quando, successivamente alla pronuncia, il processo si estingua. È un provvedimento anticipatorio che, pur essendo normalmente provvisorio, ha in sé l'attitudine a divenire definitivo quando si verifichino i presupposti per la sua trasformazione in sentenza; per questo non dovrebbe essere un provvedimento sommario, essendo pronunciato al termine dell'istruzione, e dunque sulla base di una cognizione piena ed esauriente. L'ordinanza successiva alla chiusura dell'istruzione può esser pronunciata a fronte di una domanda di condanna al pagamento di somme oppure alla consegna di beni mobili o al rilascio di beni immobili. È competente il giudice istruttore, indipendentemente dal fatto che si tratti di una causa che debba essere decisa dal collegio, ai sensi dell'art. 50-bis, o dallo stesso giudice istruttore. Quando la domanda di condanna successiva alla chiusura dell'istruzione sia condizionata dall'accoglimento o dal rigetto di una diversa domanda che non potrebbe essere oggetto di analogo provvedimento anticipatorio, si esclude che sia applicabile l'art. 186-quater, in quanto non è pensabile che il giudice, sovvertendo l'ordine logico delle domande cumulate, pronunci su quella dipendente, con ordinanza, prima di decidere, con sentenza, su quella pregiudiziale; e per altro verso non è possibile ammettere che l'ordinanza decida, implicitamente o esplicitamente, sulla domanda principale o pregiudiziale. I presupposti Perché si arrivi alla pronuncia di tale ordinanza è necessario, oltre all'istanza della parte che aveva proposto la domanda di condanna, che sia stata esaurita l'istruzione. Questo implica: che il provvedimento non potrà aversi prima che il giudice istruttore abbia invitato le parti alla precisazione delle conclusioni; che esso non dovrebbe aver nessun aspetto di sommarietà. Si deve ritenere che il fatto per cui il pagamento o la consegna possano disporsi nei limiti per cui il giudice ritenga già raggiunta la prova, debba essere inteso nel senso che l'istruzione sia esaurita solo rispetto a taluna di più domande cumulate. Questa ordinanza non può chiedersi dopo la rimessione della causa al collegio o dopo che la stessa, al termine dell'udienza di precisazione delle conclusioni, sia passata nella fase decisoria: sia perché in tale fase non c'è spazio per ulteriori attività delle parti, sia perché questo non consentirebbe all'altra parte alcun contraddittorio. L’efficacia ed il regime di stabilità In base all'art. 186-quater co 2°, l'ordinanza in esame costituisce titolo esecutivo ed è revocabile solo con la sentenza che definisce il giudizio. Successivamente alla pronuncia è possibile che l'ordinanza acquisti automaticamente l'efficacia della sentenza impugnabile sull'oggetto dell'istanza: essa cioè viene integralmente assimilata, anche per quel che concerne l'idoneità al giudicato, ad una sentenza di accoglimento della domanda, e può quindi essere appellata, nei consueti termini, sia dall'intimato sia dallo stesso attore, la cui domanda sia stata in parte disattesa. Quando la parte intimata, entro i 30 giorni successivi alla pronuncia dell'ordinanza o alla relativa comunicazione, non manifesti espressamente, con ricorso notificato all'altra parte e depositato in cancelleria, la propria volontà che il giudice pronunci sentenza, l'ordinanza verrà assimilata ad una sentenza. Tale conversione si ha anche nel caso in cui l'intimato abbia optato per la pronuncia della sentenza e successivamente il processo si sia estinto. VICENDE PARTICOLARI DEL PROCESSO IL PROCESSO CONTUMACIALE: Le peculiarità del processo contumaciale La contumacia di una delle parti non vale a rendere non contestati i fatti allegati dall'altra parte né altera la ripartizione degli oneri probatori dell'art. 2697 c.c.. La contumacia del convenuto non esclude che l'attore, per ottenere l'accoglimento della propria domanda, debba fornire la prova di tutti i fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio. Le uniche particolarità riguardano le notificazioni e le comunicazioni nel corso del procedimento. Di regola, non è necessario che gli atti del processo vengano portati a conoscenza del contumace tramite notificazione o comunicazione. Fanno eccezione alcuni specifici atti per i quali è prevista la notificazione personale, entro un termine fissato dal giudice: l'ordinanza ammissiva dell'interrogatorio formale; l'ordinanza che ammetta il giuramento, decisorio o suppletorio; le comparse contenenti domande nuove o riconvenzionali, da chiunque proposte; il verbale in cui si dia atto della produzione di una scrittura privata non indicata in altri atti già in precedenza notificati al contumace. Anche per le sentenze è prescritta la notifica personale alla parte contumace, qui l'omissione della notifica avrà come unico effetto l'impossibilità di applicare il termine breve per l'impugnazione, che resterà conseguentemente esperibile entro 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza. La costituzione tardiva del contumace e l’eventuale sua rimessione in termini La parte già dichiarata contumace può decidere di costituirsi, seppur tardivamente, in qualunque momento nel corso del processo (fino a quando la causa passa nella fase decisoria), con modalità analoghe a quelle previste per la costituzione in termini: depositando in cancelleria la comparsa di risposta, la procura e i documenti offerti in comunicazione, oppure presentando tutto direttamente all'udienza. L'ex contumace deve accettare il giudizio nello stato in cui si trova, a meno che non sussistano elementi tale da far reputare involontaria e scusabile l'iniziale contumacia. L'art. 294 prevede che il contumace possa essere ammesso a compiere attività che gli sarebbero precluse, oppure a svolgere, senza il consenso delle altre parti, attività difensive che ritarderebbero la definizione della causa già matura per la decisione rispetto alle altre parti, solo quando dimostri che la nullità della citazione o della sua notificazione gli ha impedito di avere conoscenza del processo o che la costituzione tempestiva è stata impedita da causa a lui non imputabile. Ai fini della rimessione in termini, non basta addurre l'esistenza di un vizio dell'atto introduttivo o della sua notifica, ma è necessario provare che da tale vizio è derivata l'impossibilità di avere effettiva conoscenza del processo. Quando ne sussistano i presupposti, la rimessione in termini è concessa dal giudice con ordinanza, previa ammissione, quando occorra, della prova dell'impedimento da cui è dipesa la mancata costituzione. È sempre assicurata al contumace, senza bisogno di essere rimesso in termini, la possibilità di disconoscere, nella prima udienza o nel termine assegnatogli dal giudice istruttore, le scritture private che erano state anteriormente prodotte contro di lui. Il contumace, una volta costituitosi, ha l'onere di contestare specificamente i fatti allegati dall'avversario, per evitare che questi si abbiano per provati, ai sensi dell'art. 115 co 1°. LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO: Il concetto e le species della sospensione La sospensione è un evento anomalo che determina un arresto temporaneo del processo, facendolo entrare in una fase di quiescenza, durante la quale non può compiersi alcun atto del procedimento (art. 298), e da cui può uscirsi una volta che sia venuta meno la ragione che aveva determinato la sospensione, attraverso un nuovo atto di impulso ad opera della parte interessata. Dal punto di vista della fonte è possibile distinguere a seconda che la sospensione derivi direttamente dalla legge ed operi ipso iure, oppure, più spesso, discenda da un provvedimento del giudice. In questo caso potrà essere meramente discrezionale, in quanto rimesso a valutazioni di opportunità, oppure obbligatorio, allorché sia subordinato esclusivamente alla verifica dei presupposti indicati dal legislatore. Dal punto di vista della ratio, si possono distinguere più fattispecie di sospensione:  la sospensione obbligatoria si può spiegare con la circostanza che è stata in vario modo contesta la potestas iudicandi del giudice adito, ossia la possibilità che si occupi della controversia a lui sottoposta, ad es. perché è in discussione la sua competenza o giurisdizione, oppure perché è stato addirittura ricusato.  Si può avere sospensione obbligatoria quando nel processo sia sorta una questione di merito che la legge, per varie ragioni, sottrae comunque alla cognizione del giudice adito, il quale non potendone prescindere nella decisione della causa, è costretto ad attendere che su di esso si pronunci il diverso organo competente. A volte si tratta di una questione attinente allo stesso rapporto giuridico dedotto in giudizio e priva di qualunque autonomia, giacché non potrebbe costituire l'oggetto di un distinto giudizio; altre volte può essere una vera e propria questione pregiudiziale che deve essere decisa con efficacia di giudicato in un diverso processo e per la quale è escluso che il giudice adito possa conoscerne incidenter tantum, ossia con effetti limitati alla decisione della causa a lui sottoposta (es sospensione per querela di flaso proposta in via incidentale al giudice di pace o in appello).  Vi sono casi in cui la sospensione obbligatoria costituisce l'espediente tecnico per evitare un'immediata pronuncia assolutoria in rito, che sarebbe imposta dalla carenza di un presupposto processuale.  In altri casi la sospensione facoltativa e discrezionale si ricollega a valutazioni di mera opportunità, concernenti il coordinamento tra processi diversi, oppure tra procedimenti di grado diverso aventi origine dal medesimo processo. Quando uno degli eventi indicati colpisce una parte già costituita personalmente, si torna alla regola per cui l'interruzione opera ipso iure, dal giorno stesso dell'evento (art. 300 co 3°). Quando uno dei fatti indicati, ad eccezione della dichiarazione di fallimento, si verifica in danno di una parte contumace, l'interruzione si produce solamente se e quando l'evento viene notificato alle altre parti da chi deve subentrare al contumace, oppure è documentato dall'altra parte, oppure quando dovendosi notificare personalmente al contumace uno degli atti di cui all'art. 292, l'ufficiale giudiziario lo certifica nella relazione di notificazione. Quando non si verifichino tali condizioni il processo va avanti regolarmente. Gli eventi riguardanti il difensore con procura determinano sempre l'interruzione automatica, dal giorno stesso stesso in cui si verificano (art. 301). Perché l'interruzione si produca, tali eventi devono avverarsi o essere notificati entro la chiusura della discussione davanti al collegio, e, qualora non sia stata chiesta la discussione orale, entro il termine per il deposito delle memorie di replica. In caso contrario l'interruzione potrebbe tornare ad operare solo nell'ipotesi di riapertura dell'istruzione. Gli effetti dell’interruzione e la ripresa del processo, anche in relazione ai giudici con pluralità di parti Gli effetti dell'interruzione sono gli stessi della sospensione del processo, quindi a norma dell'art. 304: il divieto di compiere atti del processo, pena la nullità degli atti stessi; e l'interruzione dei termini processuali in corso, che riprendono a decorrere dal giorno della nuova udienza fissata in seguito alla ripresa del processo. Tali effetti si producono anche quando le parti dovessero essere all'oscuro dell'interruzione. La pausa determinata dall'interruzione è sempre temporanea, e la ripresa del processo può avvenire, a seconda dei casi, tramite la prosecuzione dello stesso, da parte di coloro cui spetti di subentrarvi in luogo della parte colpita dall'interruzione, oppure tramite riassunzione, ad opera di una delle altre parti. La prosecuzione può avvenire, a norma dell'art. 302, attraverso la costituzione in cancelleria o direttamente all'udienza, quando l'interruzione non sia stata ancora dichiarata o rilevata dal giudice. In caso contrario la parte deve proporre ricorso al giudice istruttore o al presidente del tribunale, provvedendo successivamente a notificare il ricorso stesso, insieme al decreto di fissazione dell'udienza, alle altre parti. La riassunzione si attua attraverso la richiesta di fissazione dell'udienza e la successiva notifica del ricorso e del decreto a coloro che devono proseguire il processo in luogo della parte originaria, nonché alle altre parti. Il ricorso per riassunzione deve contenere il mero richiamo all'atto introduttivo. Se però l'interruzione è dipesa da morte della parte, dovrà contenere anche gli estremi della domanda, la notifica del ricorso e del decreto, ed entro un anno dalla morte, potrà esser fatta collettivamente e impersonalmente agli eredi nell'ultimo domicilio del defunto (art. 303). La ripresa del processo deve avvenire entro il termine perentorio di tre mesi dall'interruzione (art. 305), ossia dal momento in cui l'interruzione ha prodotto i propri effetti, pena l'estinzione a norma dell'art. 307 co 3°. In seguito ad un duplice intervento della Corte costituzionale, l'art. 305 va inteso nel senso che, quando l'interruzione si produce automaticamente, il termine per la prosecuzione o la riassunzione decorre non dal momento dell'interruzione stessa, ma dal giorno in cui le parti ne abbiano avuto conoscenza, intesa come conoscenza legale, risultante da una dichiarazione della parte stessa o da una comunicazione o notificazione ad essa diretta. IL PROCESSO DAVANTI AL GIUDICE DI PACE Generalità e disciplina applicabile Il codice di procedura civile mostra di considerare il processo davanti al giudice di pace una variante del processo ordinario, in quanto, per tutto ciò che non è disciplinato negli art. 312 ss o in altre espresse disposizioni, è retto dalle norme relative al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, in quanto applicabili. L’introduzione della causa e la costituzione delle parti La domanda deve proporsi con citazione a comparire ad udienza fissa, che può essere formulata anche verbalmente; nel qual caso lo stesso giudice di pace ne fa redigere processo verbale, che deve essere poi notificato al convenuto a cura dell'attore (art. 316 co 2°). Le parti possono farsi rappresentare davanti al giudice di pace da persona munita di mandato scritto in calce alla citazione o in atto separato (mandato che implica sempre il potere di transigere e di conciliare la controversia), salvo che il giudice ordini la comparizione personale (art. 317). Tale rappresentanza non è tecnica, cioè l'obbligo di avvalersi del ministero o dell'assistenza di un avvocato, ma riguarda la rappresentanza processuale volontaria, e costituisce una deroga al principio secondo cui tale rappresentanza può essere conferita solo a chi sia pure investito del potere di rappresentanza sostanziale relativamente al rapporto oggetto del giudizio. L'art. 318 prevede che la citazione abbia un contenuto semplificato rispetto all'art. 163, richiedendo solamente l'indicazione del giudice e delle parti, l'esposizione dei fatti e l'indicazione dell'oggetto, nonché l'assegnazione di un termine libero a comparire, non inferiore a 45 giorni. Non è necessario avvertire il convenuto che la sua tardiva costituzione implicherebbe le decadenze di cui agli art. 38 e 167. L'omessa indicazione dei fatti costituenti le ragioni della domanda deve ritenersi motivo di nullità solamente quando, avendo la domanda ad oggetto un diritto eterodeterminato, ne risulti realmente impedita l'individuazione del diritto stesso. L'eventuale indicazione, nell'atto introduttivo, di un giorno nel quale il giudice designato non tiene udienza fa si che la comparizione sia rinviata d'ufficio, all'udienza immediatamente successiva risultante dal calendario annualmente stabilito dal capo dell'ufficio. La costituzione delle parti può avvenire, senza che l'attore ed il convenuto debbano temere conseguenze pregiudizievoli, anche lo stesso giorno dell'udienza indicata nella citazione, attraverso il deposito in cancelleria dell'atto introduttivo, debitamente notificato, e dell'eventuale procura, oppure presentando tali documenti direttamente al giudice in udienza (art. 319). Quando la parte stia in giudizio personalmente è necessaria, al momento della costituzione, la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio nel comune in cui ha sede l'ufficio del giudice di pace adito; in mancanza delle quali le notificazioni e le comunicazioni potrebbero, di regola, essere indirizzate alla parte inadempiente presso la stessa cancelleria (art. 58 disp. att.). Non è richiesta una formale istanza di iscrizione a ruolo della causa, essendo previsto che il cancelliere, in seguito a costituzione di taluna delle parti, debba senz'altro presentare l'atto introduttivo al capo dell'ufficio, il quale designa il magistrato incaricato dell'istruzione della causa. La fase della trattazione L'art. 320 stabilisce che il giudice, nella prima udienza, dia corso tanto all'interrogatorio libero delle parti quanto al tentativo di conciliazione, ma non prevede alcun obbligo per le parti di comparire personalmente a tale udienza. Se il tentativo di conciliazione non può aver luogo o fallisce, il giudice di pace, nella stessa prima udienza, invita le parti a precisare definitivamente i fatti che ciascuna pone a fondamento delle domande, difese ed eccezioni, a produrre i documenti e a richiedere i mezzi di prova da assumere. La fissazione di una nuova udienza è consentita una sola volta, esclusivamente per ulteriori produzioni e richieste di prova e per di più a condizione che il rinvio sia reso necessario dalle attività svolte dalle parti in prima udienza (art. 320, co 4°). In linea di principio è possibile che al termine della prima udienza, quando in essa non siano intervenute nuove allegazioni tali da giustificare una seconda udienza di trattazione, il giudice di pace dia subito inizio all'attività istruttoria, o quando ritenga la causa già matura, l'avvii alla decisione. Mancano riferimenti a termini perentori o a vere e proprie preclusioni. Muovendo da un'interpretazione letterale dell'art. 320, parte della dottrina e la prevalente giurisprudenza ritengono che dopo la prima udienza resti comunque preclusa la proposizione di nuove domande e la chiamata in causa di terzi, ma anche la mera allegazione di nuovi fatti principali, dal momento che nella seconda udienza sarebbero consentite esclusivamente ulteriori richieste di prove e produzioni documentali. Tale orientamento deve comunque fare i conti con i principi del giusto processo. La decisione della causa L'art. 321 stabilisce che il giudice di pace, quando ritiene la controversia matura per la decisione, invita le parti a precisare le conclusioni e a discutere la causa. Quando si verifichino le ipotesi dell'art. 187, il giudice di pace potrà invitare le parti all'immediata precisazione delle conclusioni e alla discussione orale della causa, non preceduta dallo scambio di difese scritte (conclusioni e repliche), senza essere obbligato a fissare a tal fine una successiva udienza. La sentenza deve essere depositata in cancelleria entro 15 giorni dalla discussione; al giudice di pace è preclusa di regola la possibilità di avvalersi delle modalità decisorie semplificate, previste all'art. 281-sexies. Il giudice di pace, nelle cause di valore non superiore a 1100 euro decide, a norma dell'art. 113 co 2°, secondo equità, seppure nel rispetto delle norme costituzionali e comunitarie e dei principi regolatori della materia. La conciliazione in sede pre-contenziosa L'art. 322 prevede che il giudice di pace possa essere adito esclusivamente per un tentativo di conciliazione in sede non contenziosa, senza che venga investito della risoluzione della controversia insorta tra le parti, ed anzi pure quando tale controversia esorbiterebbe i limiti della sua competenza per materia o per valore. La competenza per territorio si determina in questo caso in base agli ordinari criteri che troverebbero applicazione nel giudizio di merito (art. 18 ss). La relativa istanza può proporsi con ricorso o anche verbalmente, ed è poi il giudice, tramite il cancelliere, ad invitare le parti a comparire davanti a lui in un giorno e in un'ora determinati. Se il tentativo di conciliazione fallisce, tale procedimento resta privo di qualunque rilevanza. Se invece si perviene ad un verbale di conciliazione, questo costituisce titolo esecutivo se la controversia rientri nella competenza del giudice di pace, o altrimenti avrà il valore di una scrittura privata riconosciuta in giudizio. I terzi che potrebbero subire in astratto l’efficacia riflessa della sentenza L'efficacia riflessa della sentenza, quando questa investa rapporti che riguardano terzi, può riguardare i soggetti che, in mancanza di un vero collegamento giuridico tra un diritto proprio e quello controverso tra le parti, possono essere interessati esclusivamente in via di fatto alla sentenza resa tra queste. In questo caso si ritiene che il terzo sia semplicemente tenuto a riconoscere il giudicato formatosi tra le parti, come se si trattasse di un qualunque atto giuridico di cui egli deve tenere conto e dal quale potrebbe derivargli un vantaggio o un pregiudizio in via di fatto. Ad esempio se Tizio ha rivendicato vittoriosamente la proprietà di un fondo nei confronti di Caio e poi agisce in negatoria servitutis contro Sempronio, proprietario di un fondo limitrofo, quest’ultimo non può difendersi affermando che Caio, non Tizio, è il vero proprietario del preteso fondo servente, poiché ciò equivarrebbe a disconoscere la sentenza intervenuta tra Tizio e Caio. L'efficacia riflessa può riguardare anche i terzi che sono titolari di rapporti giuridici connessi a quello oggetto del giudicato. In questo caso esiste un vero e proprio collegamento giuridico tra un diritto del terzo e quello oggetto del giudicato, e si è soliti escludere che il terzo titolare di un diritto autonomo possa risentire alcun pregiudizio dal giudicato. Le diverse teorie sui limiti dell’efficacia riflessa La giurisprudenza difficilmente ammette che il giudicato possa vincolare terzi titolari di situazioni dipendenti, solitamente opta per una soluzione di compromesso, secondo cui la sentenza, non potendo vincolare i terzi per l'accertamento in essa contenuto, sarebbe utilizzabile esclusivamente per il suo valore di prova (documentale ma liberamente valutabile) in ordine all'esistenza o meno del rapporto pregiudiziale inter alios. I conflitti di giudicato È possibile che accada che, non essendo stata dedotta nel processo l'esistenza di un anteriore giudicato, venga pronunciata una nuova decisione sul medesimo oggetto, che acquisti a sua volta la stabilità e l'autorità della cosa giudicata. In tale situazione il vizio della seconda decisione non è più rilevabile poiché non esistono impugnazioni straordinarie attraverso le quali sia possibile dedurre la violazione di un anteriore giudicato. L'art. 395 n. 5 configura tale vizio come possibile motivo di revocazione ordinaria, che può proporsi solamente fino a quando la sentenza non passi a sua volta in giudicato. Può aversi tale revocazione quando:  le due decisioni siano di contenuto identico, si tratta quindi di giudicati conformi no problem;  la seconda decisione contrasta con quella precedente esclusivamente per una questione pregiudiziale che il secondo giudice ha risolto, in applicazione del principio all'art. 34, incidenter tantum: in tal caso il contrasto è meramente logico, in quanto la seconda sentenza ha un oggetto diverso dalla prima, e quindi può materialmente coesistere;  le sentenze divergano sull'esistenza o inesistenza di un diritto sul quale entrambe hanno pronunciato con efficacia di giudicato: qui il contrasto riguarda lo stesso oggetto ed è dunque pratico, sicché non è possibile che le decisioni coesistano. Prevale in questo caso il giudicato posteriore. LA CORREZIONE DEI PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE Gli errori e le omissioni materiali o di calcolo Sebbene i vizi della sentenza siano emendabili, di regola, solo attraverso le impugnazioni, vi sono casi in cui queste apparirebbero eccessive rispetto allo scopo; in tali casi il legislatore reputa sufficiente la correzione del provvedimento da parte dello stesso giudice a quo. L'art. 287 prevede che “Le sentenze contro le quali non sia stato proposto appello e le ordinanze non revocabili possono essere corrette, su ricorso di parte, dallo stesso giudice che le ha pronunciate, qualora egli sia incorso in omissioni o in errori materiali o di calcolo”. Il vizio può riguardare sia un elemento formale sia lo stesso contenuto della decisione, in particolare per quel che attiene al dispositivo vero e proprio. Quando l'errore sia formale, perché possa discorrersi di omissione o errore materiale, deve trattarsi di una mera svista involontaria nella redazione del provvedimento, che sia riconoscibile con certezza dalla semplice lettura o dal raffronto con altri atti del procedimento. Quando invece il vizio investa il contenuto della decisione, dovrà trattarsi di un errore estraneo all'attività di giudizio e alla volontà del giudice, incidente esclusivamente sul modo in cui tale volontà si è concretamente manifestata, oppure riguardante, nel caso di errore di calcolo, le operazioni aritmetiche utilizzate dal giudice per pervenire ad un determinato risultato. Il procedimento di correzione Il rimedio della correzione trova applicazione anche rispetto alle sentenze di secondo grado e ai decreti non revocabili, oltre che, per espressa previsione dell'art. 391-bis, nei confronti delle sentenze e delle ordinanze della Cassazione. La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l'art. 287 per contrasto con l'art. 24 Cost. nella parte in cui fa riferimento alle sole sentenze “contro le quali non sia stato proposto appello”. Poiché si tratta di un rimedio diretto ad estrinsecare e rendere manifesto il contenuto effettivo della decisone, è impensabile che il suo esperimento sia assoggettato ad un limite temporale. Se la correzione viene chiesta concordemente e congiuntamente, è sufficiente che il giudice provveda con decreto; se invece il ricorso è proposta da taluna soltanto delle parti, il giudice fissa un'udienza di comparizione, con decreto che deve essere di regola notificato, unitamente al ricorso, al difensore con procura delle altre parti, e successivamente provvede con ordinanza, notificata alle parti a cura del cancelliere ed annotata sull'originale del provvedimento corretto. L'art. 288 ult. co. stabilisce che le sentenze possono essere impugnate, relativamente alle parti corrette, entro il consueto termine (30 o 60 giorni) decorrente dalla notificazione dell'ordinanza di correzione. La correzione delle sentenze di cassazione è disciplinata attraverso il rinvio agli artt. 365 ss, ossia alle norme che governano l'ordinario giudizio di cassazione. Una particolare ipotesi di correzione-integrazione è prevista rispetto ai provvedimenti istruttori che non contengano la fissazione dell'udienza successiva o del termine entro il quale le parti debbono compiere determinati atti. L'art. 289 consente a ciascuna delle parti di chiederne l'integrazione, ed al giudice stesso di disporla d'ufficio, entro il termine perentorio di 6 mesi decorrente, a seconda dei casi, dall'udienza in cui il provvedimento è stato reso oppure dalla sua notificazione o comunicazione, laddove prescritta. L'integrazione spetta al presidente del collegio, quando si tratti di un provvedimento collegiale, o allo stesso giudice istruttore negli altri casi, ed è disposta con decreto, da comunicarsi a tutte le parti a cura del cancelliere. L'inutile decorso di tale termine produce l'estinzione del processo a norma dell'art. 307 co 3°. LE IMPUGNAZIONI IN GENERALE NOZIONI GENERALI: Vizi della sentenza e mezzi di impugnazione: rilievi introduttivi Tradizionalmente, i vizi da cui può essere affetto un provvedimento giurisdizionale sono essenzialmente di due categorie, a seconda che discendano dalla violazione delle norme che disciplinano l'attività delle parti e del giudice (errores in procedendo), oppure ineriscano al contenuto stesso della decisione, in relazione alle conclusioni cui è pervenuta vuoi in quanto alla ricostruzione dei fatti, vuoi quanto all'individuazione e all'interpretazione delle norme giuridiche ad essi applicate (errores in iudicando). I vizi in procedendo possono determinare l'invalidità del provvedimento, invalidità propria quando sia causata dal difetto di elementi formali o extraformali della stessa decisione (es. sentenza priva di motivazione), invalidità derivata quando sia conseguenza dell'invalidità di un atto pregresso (es. sentenza fondata su una prova invalidamente assunta), oppure della circostanza che il giudice ha deciso il merito della causa in assenza di un presupposto processuale (es. fosse privo di competenza). I vizi in iudicando possono invece determinare la ingiustizia decisione, cioè la sua difformità rispetto alle conclusioni che avrebbero dovuto trarsi da una corretta valutazione delle prove e/o dall'esatta applicazione delle norme sostanziali pertinenti alla fattispecie. E’ possibile individuare anche una terza categoria di vizi, intermedia, che potrebbero definirsi “in iudicando de iure procedendi”, essi consistono nell’errore circa la insussistenza di un presupposto processuale o comunque in ordine alla possibilità di pervenire alla trattazione del merito della causa: es quando il giudice si è a torto ritenuto incompetente o privo di giurisdizione. Gli artt. 3 co 2° e 24 co 1° e 2° Cost. combinati prescrivono un dovere di coerenza interna al sistema positivo: il principio di eguaglianza, letto in relazione al diritto di azione e di difesa, impedisce di discriminare irragionevolmente, dal punto di vista dell'impugnazione, situazioni e/o vizi sostanzialmente analoghi. Dagli artt. 24 co 2° e 111 co 2° Cost discende inoltre il principio del contraddittorio, che impone che la parte, la quale sia stata danneggiata, in qualunque stato e grado del giudizio, da un vizio in procedendo suscettibile di incidere sull'effettività del contraddittorio o comunque di rendere deteriore la posizione processuale della parte stessa, abbia sempre a propria disposizione un rimedio concretamente idoneo a far valere la nullità e ad ottenere una revisione della decisione che ne è affetta. I termini c.d. brevi per l’impugnazione e la notifica della sentenza Con la sola eccezione dell'opposizione di terzo ordinaria (art. 404), svincolata da qualunque termine, tutte le impugnazioni sono soggette ad un termine di decadenza piuttosto breve (art. 325): 60 giorni per il ricorso in cassazione; 30 giorni per ogni altra impugnazione, incluso il regolamento di competenza.  Nel caso delle impugnazioni ordinarie, fondate su vizi immediatamente percepibili dall'esame della decisione, il dies a quo (gg in cui il termine inizia a decorrere) si identifica solitamente col giorno in cui la sentenza è stata notificata con le modalità dell'art. 285. L'unica deroga riguarda il regolamento di competenza, per il quale è previsto che debba aversi riguardo alla comunicazione della sentenza che ha pronunciato sulla competenza. Perché sia idonea a far decorrere il termine in questione, la notifica della sentenza deve essere eseguita, su istanza di parte, a norma dell'art. 170, al difensore con procura o alla parte stessa, se questa si era costituita di persona nel processo in cui la sentenza è stata resa.  Quando invece si tratti di revocazione straordinaria, delle parti o del pubblico ministero, oppure di opposizione di terzo revocatoria, il dies a quo non può determinarsi a priori, ma coincide con il momento in cui l'interessato ha avuto effettiva cognizione del vizio per cui l'impugnazione è ammessa, oppure, nel caso della revocazione del pubblico ministero, col giorno in cui questi ne ha avuto conoscenza della sentenza.  L'art. 326 co 2° prevede, con specifico riferimento all'ipotesi in cui la sentenza sia stata resa nei confronti di più parti in cause scindibili, che l'impugnazione proposta contro una parte fa decorrere nei confronti dello stesso soccombente (cioè colui che ha impugnato) il termine per proporla contro le altre parti. La notifica dell'impugnazione viene equiparata, per colui che l'ha proposta, alla notifica della sentenza. I termini brevi dell'art. 325 restano interrotti quando, durante la loro decorrenza, sopravvenga uno degli eventi contemplati dall'art. 299, cioè morte o perdita della capacità processuale della parte, morte, radiazione o sospensione dall'albo del procuratore costituito. L'art. 328 prevede che il nuovo termine decorra dal giorno in cui la notificazione della sentenza è rinnovata a chi è subentrato alla parte: cioè agli eredi o al rappresentante legale. Il termine di decadenza semestrale Le impugnazioni ordinarie sono soggette anche ad un ulteriore termine di decadenza (termine lungo) che scade inevitabilmente sei mesi dopo la pubblicazione della sentenza e mira ad evitare che, non essendo questa stata notificata, la strada dell'impugnazione resti aperta senza limite, impedendo il formarsi del giudicato. Tale termine semestrale concorre con quelli brevi e, quando venga a scadere prima di quelli, fa in ogni caso passare in giudicato la sentenza. L'unica ipotesi in cui tale disposizione non si applica ricorre quando la parte contumace dimostra di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione, e per nullità della notificazione degli atti di cui all'art. 292. È quindi necessario che sia nulla la citazione introduttiva o la relativa notificazione; che sia nulla anche la notifica degli altri atti eventualmente notificati al contumace, tra cui potrebbe esserci la sentenza; che tali nullità abbiano impedito realmente al contumace di avere conoscenza del processo. Nel concorso di queste condizioni si ritiene che il termine semestrale prende a decorrere dal giorno in cui il contumace acquisisca la conoscenza effettiva del processo o della sentenza stessa, fermo restando che l'altra parte potrebbe pur sempre notificargli nuovamente la sentenza, con l'effetto di far decorrere il termine breve dell'art. 325. La notifica dell’atto di impugnazione L'art. 330 regola la notificazione dell'atto di impugnazione: e nell'atto di notifica della sentenza la parte destinataria dell'impugnazione aveva dichiarato la propria residenza o eletto domicilio nell'ambito della circoscrizione del giudice da cui la sentenza proviene, l'impugnazione deve essere notificata alla parte in tali luoghi; fuori dal caso precedente, si notifica presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio. Il destinatario effettivo della notificazione può essere, indifferentemente, tanto il procuratore costituito nel precedente grado di giudizio, quanto la parte stessa; se manca la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio oppure è trascorso un anno dalla pubblicazione della sentenza, la notifica deve eseguirsi personalmente alla parte. L’acquiescenza L'acquiescenza è una manifestazione di volontà che ha per oggetto l'accettazione della sentenza e come effetto quello di escludere la proponibilità delle impugnazioni, salvi i casi di cui ai nn. 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395, ossia le ipotesi in cui la parte soccombente venga successivamente a conoscenza di un motivo di revocazione straordinaria. L'acquiescenza opera come una rinuncia al diritto di impugnare, determinandone l'estinzione, e presuppone che la sentenza sia già venuta giuridicamente in vita, tramite la pubblicazione, e che l'impugnazione non sia stata ancora proposta. Può essere espressa, quando si traduca in una dichiarazione ad hoc, unilaterale e non recettizia, oppure tacita, quando risulti indirettamente da atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni previste dalla legge (art. 329). In base all'art. 329 co 2°, l'impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate (acquiescenza tacita qualificata), e presuppone che nella sentenza siano individuabili una pluralità di capi e che taluno soltanto di essi sia investito dall'impugnazione. Correlato con l'art. 336, si evince che tale principio può valere solo per i capi che siano autonomi ed indipendenti da quello impugnato, se infatti si trattasse di capi da esso dipendenti, l'impugnazione parziale per un verso non potrebbe considerarsi acquiescenza e dall'altro potrebbe condurre, in caso di accoglimento, alla loro caducazione. L’inammissiblità e l’improcedibilità dell’impugnazione. La c.d. “consumazione” del potere di impugnazione Si ha inammissibilità nei casi in cui l'impugnazione non poteva essere proposta e improcedibilità nei casi in cui l'impugnazione non può essere proseguita, e deve quindi essere definita con una pronuncia meramente processuale. L'inammissibilità può derivare da svariate ragioni, tutte attinenti alla fase genetica dell'impugnazione, al momento in cui è stata proposta, ad es. l'impugnazione era esclusa per legge, difetto di legittimazione o interesse ad impugnare. Nulla esclude che possa ricollegarsi a vizi di forma-contenuto dell'atto di impugnazione, ma in questo caso le fattispecie di inammissibilità hanno natura tassativa, perché in assenza di un'esplicita previsione normativa, in tal caso i vizi di forma-contenuto sono inevitabilmente assoggettati alla disciplina delle nullità. Le ipotesi di improcedibilità invece si collocano in una fase successiva all'instaurazione del processo di impugnazione, attengono solitamente al mancato compimento di determinate attività di parte e devono considerarsi tassative. La pronuncia di improcedibilità, a differenza di quella di estinzione, investe solo una determinata impugnazione, mentre l'estinzione riguarda inevitabilmente il processo nella sua interezza. Gli artt. 358 e 387 prevedono, esclusivamente con riguardo all'appello e al ricorso per cassazione, che l'impugnazione dichiarata inammissibile o improcedibile non possa essere riproposta, anche se non è ancora decorso il termine previsto dalla legge. Tali disposizioni sono espressione del principio di consumazione del potere d’impugnazione, che la giurisprudenza utilizza per escludere che la parte soccombente, dopo aver proposto l’impugnazione, possa successivamente integrarla attraverso la deduzione di nuovi motivi. La consumazione dell'impugnazione non deriva solo dall'esercizio del relativo potere, ma dalla circostanza che l'inammissibilità e l'improcedibilità siano già state dichiarate dal giudice, fino a quel momento, fino a quel momento nulla impedisce di proporre una nuova impugnazione, a condizione che ciò avvenga nel rispetto dei termini di decadenza previsti dalla legge. La dichiarazione di inammissibilità, quando dipenda dal non essere l'impugnazione ancora proponibile non può precludere la reiterazione dell'impugnazione stessa nel momento in cui si verifichino le condizioni richieste dalla legge. Gli effetti della pronuncia di impugnazione ed il c.d. effetto espansivo Gli effetti della pronuncia del giudice dell'impugnazione, sostitutiva o rescindente, investono in via diretta le sole parti della sentenza che erano state effettivamente impugnate. L'art. 336 prevede che tali effetti possano espandersi anche oltre i capi di sentenza immediatamente coinvolti dalla riforma o dalla cassazione, e precisamente: a) alle altre parti della sentenza dipendenti da quella riformata o cassata (effetto espansivo interno); b) agli altri provvedimenti ed atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata (effetto espansivo esterno). In base al punto a possiamo dire che, esso implica che la sostituzione o l’annullamento travolgono e caducano automaticamente anche le parti della sentenza che non erano state investite dall’impugnazione quando si tratti di parti dipendenti da quella riformata o cassata, cioè che trovino in quest’ultima un necessario presupposto logico giuridico. In riferimento al punto b) possiamo dire che la sentenza di secondo grado, quando riforma una sentenza di condanna, produce sicuramente effetti immediati su tutti gli atti esecutivi eventualmente posti in essere medio tempore, e impedisce che il processo di esecuzione forzata prosegua. L’estinzione del processo di impugnazione In linea di principio il processo di impugnazione, ad eccezione del ricorso per cassazione, può estinguersi per le stesse cause che determinerebbero l'estinzione del processo di primo grado, quindi sia per rinuncia agli atti del relativo giudizio, sia per inattività delle parti. L'art. 338 prevede che l'estinzione del procedimento di appello o di revocazione ordinaria non determini l'inefficacia della sentenza di primo grado, ma il suo passaggio in giudicato, salvo che ne siano stati modificati gli effetti con provvedimenti pronunciati nel procedimento d'impugnazione estinto. Per provvedimenti si intende un’altra sentenza*. L’IMPUGNAZIONE NEI PROCESSI CON PLURALITA’ DI PARTI: I problemi posti dal litisconsorzio in fase di impugnazione L'impugnazione produce effetti, di regola, esclusivamente tra colui che l'ha proposta e la parte che ne è destinataria. Quando la sentenza sia stata pronunciata fra più parti in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti, l'impugnazione dovrebbe sempre proporsi, a pena di inammissibilità, nei confronti di tutte le parti, non potendosi consentire che la sentenza venga riformata per alcune soltanto di esse e passi in giudicato per le altre, dando eventualmente luogo ad un contrasto di giudicati intollerabile. L’onere della impugnazione in forma incidentale e le conseguenze della sua inosservanza L'onere di utilizzare la forma dell'impugnazione incidentale sorge solo nel momento in cui si riceve la notifica dell'impugnazione principale, oppure dell'atto di integrazione del contraddittorio che sia stata ordinata dal giudice a norma dell'art. 331, oppure dalla litis denuntiatio disposta ex art. 332. Può succedere che dopo una prima impugnazione principale ne venga legittimamente proposta un'altra, anche questa in forma principale, da una parte che non era stata coinvolta dalla prima impugnazione, o alla quale non era ancora stata notificata l'impugnazione. La stessa situazione si verifica quando in un giudizio tra due sole parti reciprocamente soccombenti, entrambe proponessero l'impugnazione simultaneamente, dando vita ad autonomi processi d'impugnazione aventi ad oggetto la stessa sentenza. In questi casi tutte le impugnazioni separatamente proposte sono obbligatoriamente riunite, anche d'ufficio, in un solo processo (art. 335). In tutti gli altri casi, la proposizione di una pluralità di impugnazioni in forma principale contro la stessa sentenza: in teoria conseguirebbe la decadenza della parte dal diritto di impugnare, e dunque l'inammissibilità dell'impugnazione irritualmente proposta in forma principale. La giurisprudenza tuttavia ammette che la seconda impugnazione possa convertirsi in un'impugnazione incidentale e possa poi ricondursi al primo giudizio attraverso un'applicazione estensiva dell'art. 335, tramite la riunione dei due processi, a condizione però che l'impugnazione proposta in forma erronea abbia almeno rispettato il termine entro cui avrebbe dovuto proporsi l'impugnazione incidentale. L’impugnazione incidentale tardiva In linea di principio, tanto il termine breve, che decorre dalla notificazione della sentenza, quando quello semestrale, decorrente dalla pubblicazione, valgono anche per l'impugnazione incidentale e, quando dovessero scadere prima di quelli dettati per l'impugnazione incidentale, egualmente ne precluderebbero la proposizione. L’inammissibilità dell’impugnazione incidentale inoltre, potrebbe derivare dall’eventuale acquiescenza che la parte avesse anteriormente manifestato nei confronti della decisione. L'art. 334 apporta un'importante deroga in favore delle parti contro le quali è stata proposta impugnazione nonché di quelle chiamate ad integrare il contraddittorio a norma dell'art. 331, stabilendo che tali soggetti possono proporre impugnazione incidentale nonostante l'avvenuta scadenza del termine ordinario o l'intervenuta acquiescenza. L'impugnazione tardiva deve sempre rispettare i diversi termini specificamente previsti per l’impugnazione incidentale, si considera ex lege subordinata all'effettiva proponibilità dell'impugnazione principale da cui trae origine, se questa viene poi dichiarata inammissibile l'impugnazione incidentale tardiva non ha più ragione d'essere e perde ogni efficacia (art. 334 co 2°). Per ogni altro aspetto è invece autonoma, non risente ad es. dell'eventuale improcedibilità dell'impugnazione principale né, tanto meno, dell'esito di questa. L'unico limite risultante dall'art. 334 è di origine soggettiva: a poter usufruire dell'impugnazione tardiva è solo la parte contro la quale sia stata proposta un'altra anteriore impugnazione, nonché quella nei cui confronti sia stato integrato il contraddittorio a norma dell'art. 331: ciò significa che la notifica dell'impugnazione, effettuata nelle cause scindibili al solo fine di provocare l'impugnazione incidentale dei soggetti non coinvolti dall'impugnazione principale, non consentirebbe a questi ultimi di impugnare dopo che fossero scaduti i termini ordinari. L'impugnazione incidentale tardiva non trova alcun ostacolo nell'eventuale acquiescenza anteriormente manifestata, ben potrebbe provenire dalla parte che aveva già proposto un'impugnazione parziale ed investire, in tali casi, uno dei capi della sentenza che, non essendo stati toccati dalla precedente impugnazione, erano stati oggetto di acquiescenza tacita qualificata ai sensi dell'art. 329 co 2°. L’IMPUGNAZIONE DELLE SENTENZE NON DEFINITIVE: Le sentenze per le quali è ammessa l’impugnazione differita La riserva di impugnazione è ammessa nei confronti delle sentenze non definitive.  Relativamente all'appello, l'art, 340 fa espressamente riferimento alle sentenze di primo grado previste dall'art. 278 e dall'art. 279 co 2° n. 4. La possibilità di scelta tra l'impugnazione immediata e la riserva è data sia per le sentenze di condanna generica o provvisionale, sia per tutte quelle con le quali il giudice abbia pronunciato su una questione oppure su una delle più domande cumulate nel processo, impartendo distinti provvedimenti per l'ulteriore istruzione della causa. Riguardo alle sentenze su domanda, per le quali non è ammessa l'impugnazione differita, l'art. 340 non richiama le sentenze con cui il giudice, avvalendosi delle facoltà previste dagli artt. 103 co 2° e 104 co 2°, abbia deciso alcune soltanto delle cause fino a quel momento riunite e, con distinti provvedimenti, abbia disposto la separazione e la prosecuzione dell'istruzione per le altre, provocando in tal modo la definitiva scissione del processo cumulato, fino a quel momento unico (art. 279 co 2°).  Riguardo al ricorso per cassazione, l'art. 361 prende in considerazione, accanto alle sentenze previste all'art. 278 di condanna generica o provvisionale, solamente le sentenze che decidono alcune delle domande senza definire l'intero giudizio. L'art. 360 co 3° esclude che siano immediatamente ed autonomamente ricorribili le sentenze (di appello o di unico grado) che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio. Queste ultime potranno essere invece impugnate, senza necessità di alcuna riserva, insieme a la sentenza che definisce, anche parzialmente il giudizio. I termini e le modalità della riserva La riserva d'impugnazione, necessaria ad evitare la decadenza che altrimenti deriverebbe dallo spirare dei termini ordinari, può essere formulata tanto direttamente all'udienza, attraverso una dichiarazione orale inserita nel relativo verbale oppure una dichiarazione scritta su foglio separato, da allegarsi al verbale stesso, quanto mediante atto autonomo, da notificare ai procuratori delle altre parti costituite oppure alle parti stesse personalmente, quando siano contumaci (art. 129 e 133 disp. att.). La riserva è ammessa fino alla prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza non definitiva. Devono però tenersi presenti anche i consueti termini previsti, rispettivamente, per l'appello e per il ricorso per cassazione, i quali, specialmente quando la sentenza fosse stata notificata, ben potrebbero scadere prima dell'udienza indicata e, implicando il passaggio in giudicato della sentenza non definitiva, ne escluderebbero l'impugnazione. Se invece i termini per appellare o per ricorrere in cassazione scadessero dopo la prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza, la conclusione di tale udienza impedirebbe la successiva formulazione della riserva di impugnazione differita, ma non escluderebbe un'impugnazione immediata della sentenza non definitiva, nel rispetto dei termini ordinari. I termini e le modalità della successiva impugnazione differita La riserva di impugnazione vincola esclusivamente la parte che l'ha formulata, che non potrà cambiare idea ed optare, in seguito, per l'impugnazione immediata, mentre non esclude che un'altra parte soccombente impugni immediatamente; nel qual caso la riserva già fatta rimane priva di efficacia, sicché la parte che l'aveva proposta dovrà, ove lo ritenga, impugnare a propria volta subito, di regola nella forma dell'impugnazione incidentale. Qualora nel prosieguo del processo venga pronunciata un'altra sentenza non definitiva, nulla esclude che anche questa sia oggetto di riserva d'impugnazione differita. Se questa seconda pronuncia non definitiva è invece impugnata, da una qualunque delle parti, nei termini ordinari, nel relativo processo dovrà proporsi anche l'impugnazione della sentenza anteriormente riservata. Se poi si perviene alla pronuncia della sentenza definitiva, l'eventuale impugnazione della non definitiva deve essere proposta unitamente a quella contro la sentenza che definisce il giudizio. Può avvenire infine che il giudizio, dopo la pronuncia della sentenza non definitiva oggetto della riserva, si estingua. Bisogna distinguere: se si tratta di una sentenza dal contenuto processuale, essa perde ogni efficacia in seguito all'estinzione, e non si pone il problema della sua impugnazione; se invece la sentenza è di merito, sopravvive all'estinzione, essa acquista efficacia di sentenza definitiva dal giorno in cui diventa irrevocabile l'ordinanza, o passa in giudicato la sentenza, dichiarativa dell'estinzione, e da questo momento prenderanno a decorrere i consueti termini di decadenza per la sua impugnazione. L’APPELLO I caratteri generali dell’appello ed il principio del doppio grado di giurisdizione Alcune connotazioni fondamentali dell'appello sono:  è un'impugnazione dall'effetto almeno potenzialmente devolutivo, sottopone ad un giudice diverso e superiore lo stesso oggetto sul quale ha già pronunciato il giudice a quo;  ha natura sostitutiva, il suo obiettivo non è la mera eliminazione della sentenza ma, sempre e direttamente, la pronuncia di una nuova decisione sul merito della causa, la quale prende in ogni caso il posto della sentenza di primo grado, pur quando il contenuto sia identico;  è utilizzabile a fronte di qualunque vizio della sentenza di primo grado, sia esso in procedendo o in iudicando, indipendentemente dalla circostanza che attenga al giudizio in diritto oppure alla ricostruzione dei fatti rilevanti per la decisione. Le sentenze appellabili ed il giudice competente Di regola, tutte le sentenze pronunciate in primo grado, dal giudice di pace o dal tribunale, sono appellabili. Fanno eccezione:  le sentenza pronunciate secondo equità in base ad una concorde richiesta delle parti, nei casi in cui ciò è consentito dall'art. 114;  le sentenze nei cui confronti le parti, anche anteriormente alla pronuncia, si siano accordate per omettere l'appello, al fine di poterle impugnare direttamente con ricorso per cassazione (art. 360 co 2°);  le sentenze che decidono una controversia di lavoro di valore non superiore a 25, 82 euro (art. 440);  le sentenze rese su un'opposizione agli atti esecutivi, che l'art. 618 definisce non impugnabili;  le sentenze per le quali la legge preveda, quale rimedio di carattere generale, una opposizione davanti allo stesso ufficio giudiziario dal quale promanano. Competente per il giudizio d'appello è il giudice immediatamente superiore a quello che ha pronunciato la sentenza impugnata: quindi il tribunale in composizione monocratica per le sentenze rese dal giudice di pace; la corte d’appello quando viene impugnata una sentenza del tribunale. La competenza per territorio è attribuita all'ufficio giudiziario nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha pronunciato in primo grado (art 341). Il peculiare regime di appellabilità limitata delle sentenze di equità del giudice di pace Le sentenze del giudice di pace secondo equità a norma dell'art. 113 co 2° sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione delle norme costituzionali o comunitarie oppure dei principi regolatori della materia. Si considerano rese secondo equità tutte le sentenze pronunciate in cause di valore non superiore a 1100 euro, ad eccezione di quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi mediante sottoscrizione di moduli o formulari. L'appello in questi casi può basarsi:  quanto agli errori di diritto concernenti la disciplina sostanziale del rapporto, sulla violazione di norme di rango superiore (costituzionali o comunitarie) oppure dei principi regolatori della materia, da identificare con quelli desumibili dai tratti essenziali della disciplina positiva di un determinato istituto, oltre che dai principi generali dell'ordinamento;  quanto agli errores in procedendo, sui vizi di attività da cui sia derivata la nullità del processo davanti al giudice di pace, nonché su qualunque violazione di norme processuali che abbiano potuto condurre all'erronea soluzione di questioni pregiudiziali attinenti al processo. Non avranno alcuna rilevanza gli errori attinenti alla valutazione di prove o alla ricostruzione dei fatti extraprocessuali, al giudice ad quem non potrà chiedersi puramente e semplicemente un diverso apprezzamento di tali fatti. Ciò non esclude la possibilità di un sindacato indiretto degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di pace, dal punto di vista della congruità della motivazione, tenuto conto che qualunque giudice è obbligato a motivare adeguatamente i propri giudizi di fatto, come pure non dovrebbe escludere, ove ne sussistano i presupposti, l'ammissibilità dei nova contemplati dall'art. 345. Trattandosi pur sempre di un'impugnazione sostitutiva, il giudice di secondo grado non potrà esimersi da una nuova decisione sul merito della causa. L’atto introduttivo ed i suoi possibili vizi: in particolare, il regime d’appello privo di motivi specifici In base all'art. 342 il giudizio di appello inizia con la notifica di un atto di citazione contenente oltre alla motivazione dell’appello, anche le indicazioni prescritte nell'art. 163. Il co 2° prevede che trovino applicazione anche qui i termini minimi di comparizione dell'art. 163-bis. Occorre tener presente che al giudizio d’appello si applica in quanto compatibile, la disciplina dettata per il procedimento di primo grado davanti al tribunale (art 359). L'unica differenza rispetto alla vocatio in ius nel processo di primo grado è la difficoltà di applicare l'art. 162 n. 7 nella parte in cui esige a pena di nullità l'avvertimento che la costituzione del convenuto oltre i termini dell'art. 166 implica la decadenza di cui agli artt. 38 e 167; avvertimento che in appello deve ritenersi non necessario. Per tutti i vizi della vocatio in ius trova applicazione la disciplina dell'art. 164 co 2° e 3°, quindi l'eventuale nullità sarà sanata, con effetti retroattivi ed indipendentemente dalla scadenza del termine per l'impugnazione, dalla spontanea costituzione dell'appellato oppure dalla rinnovazione dell'atto introduttivo. *Secondo l'opinione preferibile, se l'appellante non ottempera all'onere di specificare le censure rivolte contro la sentenza di primo grado, si avrà il rigetto dell'impugnazione, dovuto alla circostanza che il giudice d'appello, in mancanza di specifiche censure, non può riesaminare alcuna delle questioni sulle quali si è pronunciato il giudice di primo grado** da rivollegare a: funzione dei motivi d’appello. La costituzione delle parti e la fase anteriore alla prima udienza Circa la costituzione delle parti in appello, l'art. 347 richiama le forme e i termini stabiliti per il procedimento davanti al tribunale, di regola l'appellante deve costituirsi entro 10 giorni dalla notifica dell'atto introduttivo e l'appellante (convenuto) almeno 20 giorni prima dell'udienza di comparizione indicata nell'atto di citazione. L'appellante deve inserire nel proprio fascicolo una copia della sentenza impugnata, pur non essendo previsto un termine per tale adempimento né una sanzione. Il cancelliere dovrà provvedere, su istanza della parte che si costituisce per prima, all'iscrizione della causa a ruolo e alla formazione del fascicolo d'ufficio, chiedendo al cancelliere del giudice a quo che gli trasmetta il fascicolo del relativo procedimento. L'art. 348 prevede che l'appello debba dichiararsi improcedibile, anche d'ufficio, se l'appellante non si costituisce in termini; è tenuto cioè a rispettare il termine di 10 giorni dalla notifica della citazione e non può evitare l'improcedibilità costituendosi entro la prima udienza. *In caso di mancata o tardiva costituzione di tutte le parti trova applicazione l'art. 307 co 1°, con conseguente estinzione del processo d'appello se nessuna delle parti provvedesse a riassumerlo entro 3 mesi.* I termini e le modalità dell’appello incidentale L'art. 343 prevede che l'appello incidentale deve essere di regola proposto, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta, all'atto di costituzione in cancelleria ai sensi dell'art. 166; la costituzione ritardata alla prima udienza preclude la possibilità dell'impugnazione incidentale. Fa eccezione l'ipotesi in cui l'interesse alla proposizione dell'appello incidentale sorga dall'impugnazione proposta da altra parte che non sia l'appellante principale e possa considerarsi quindi dipendente da un'altra impugnazione incidentale; in questo caso l'appello incidentale è consentito fino alla prima udienza successiva alla proposizione dell'impugnazione cui si ricollega (art. 343 co 2°). L'appello incidentale può essere proposto in via condizionata, ossia la richiesta di riforma di un capo della sentenza può essere subordinata all'accoglimento di un'altra impugnazione, principale o incidentale. La trattazione della causa e l’eventuale inibitoria della sentenza impugnata Solitamente l'attività del giudice d'appello si riduce alla trattazione, che può spesso esaurirsi in un'unica udienza, seguita dalla precisazione delle conclusioni e dallo scambio di difese scritte conclusive. Quando il processo si svolge davanti alla corte d'appello, ogni attività viene svolta dal collegio nella sua interezza (art. 350), e la stessa composizione del collegio ben potrebbe cambiare tra l'una e l'altra udienza, non essendo applicabile il principio di immutabilità previsto per il giudice istruttore (art. 274). Se l’appellante che pur essendosi anteriormente costituito in cancelleria, ometta di comparire alla prima udienza, in tal caso il giudice con ordinanza non impugnabile, è tenuto a rinviare la causa ad altra udienza. Se l’assenza si ripete la sanzione è rappresentata dalla dichiarazione di improcedibilità dell’appello. Tale disciplina si applica anche all’appellante incidentale, fermo restando che l’improcedibilità dell’impugnazione principale non si estende mai a quella incidentale e viceversa. Nella prima udienza il giudice deve verificare la regolare costituzione del giudizio e delle stesse parti e pronunciare con ordinanza, quando ne ricorrano i presupposti, i provvedimenti occorrenti per porre rimedio ad eventuali vizi del contraddittorio, oppure diretti a salvaguardare l'unità del processo d'appello. Nella stessa udienza è previsto che venga dichiarata l'eventuale contumacia dell'appellato (non quella dell'appellante che implica improcedibilità e può pronunciarsi solo con sentenza) e si proceda al tentativo di conciliazione ordinando la comparizione personale delle parti (art. 350). Di regola, anche la decisione sull'istanza di inibitoria è attribuita al collegio che provvede con ordinanza non impugnabile nella prima udienza (art. 351); il soccombente ha però diritto di chiedere, con ricorso al giudice monocratico o al presidente del collegio, che la decisione sulla sospensione sia pronunciata prima dell'udienza di comparizione. In questo caso si apre un procedimento incidentale autonomo e distinto da quello concernente il merito dell'appello, e al giudice o al presidente, col medesimo decreto con cui fissa la comparizione delle parti in camera di consiglio, è consentito disporre provvisoriamente, quando ne sia stato richiesto e sussistano giusti motivi d'urgenza, la sospensione immediata dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione della sentenza, fermo restando che all'udienza in camera di consiglio tale decreto dovrà essere confermato, modificato o revocato con ordinanza non impugnabile. Quando vengano eccezionalmente ammesse nuove prove, oppure sia disposta la rinnovazione totale o parziale dell'assunzione già avvenuta in primo grado, lo stesso collegio procede all’assunzione dei nuovi mezzi istruttori. Anche in appello è espressamente prevista l'applicabilità dell'art. 279 co 2°, ossia la possibilità di pronunciare sentenza non definitiva su domanda o su questione, nelle stesse ipotesi in cui è consentita al giudice di primo grado. La decisione La decisione è regolata dall'art. 352, la disciplina ricalca quella di primo grado: precisazione delle conclusioni, scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, eventuale fissazione dell'udienza per la discussione orale della causa quando una parte lo chieda; con la sola differenza che il termine della decisione è sempre di 60 giorni, anche quando la decisione spetti al tribunale, decorrenti, a seconda dei casi, dalla scadenza del termine per le memorie di replica o dall'udienza di discussione. Fa eccezione l'ipotesi in cui oggetto dell'appello sia una sentenza che ha dichiarato l'estinzione del processo a norma dell'art. 308, ossia la sentenza del collegio che ha respinto il reclamo proposto contro l'ordinanza di estinzione resa dal giudice istruttore: in tal caso l'art. 130 disp. att. prevede che l'appello sia deciso con sentenza in camera di consiglio, escludendo sia lo scambio di comparse conclusionali e delle repliche sia la fissazione di un'udienza di discussione, salva la possibilità che il collegio, quando è necessario, autorizzi le parti a presentare delle memorie, fissando i relativi termini. È possibile applicare l’iter semplificato ex art 281 sexies. Il legislatore inoltre ha introdotto un c.d filtro di ammissibilità dell’appello, prevedendo che il giudizio possa essere immediatamente definito con una ordinanza di inammissibilità quando nessuna delle impugnazioni, principali o incidentali, abbia una ragionevole probabilità di essere accolta. Tale ordinanza, che deve ovviamente provvedere anche sulle spese del processo di secondo grado, può essere motivata succintamente anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi. Resta esclusa l’applicabilità di tale meccanismo: nelle cause in cui è obbligatorio l’intervento del PM; quando l’appello sia stato proposto ai sensi dell’art 702 quater, essendo stata la causa tratta in primo grado col rito sommario di cognizione; nei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o improcedibilità dell’appello. Dottrina e giurisprudenza ritengono che debba trattarsi di appelli manifestamente infondati; l’ordinanza è sottratta al ricorso per cassazione a meno che, non sia affetta da vizi propri o sia stata pronunciata in difetto dei presupposti o al di fuori dei limiti indicati dal legislatore. L’ordinanza di inammissibilità dovrebbe essere pronunciata alla prima udienza di trattazione, sentite le parti e prima di procedere alla trattazione.  Violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza (art. 360 n. 2). Il ricorso è consentito solamente quando il giudice ha deciso sulla competenza unitamente al merito, affermando la propria competenza; in caso contrario la decisione sulla competenza sarebbe resa in forma di ordinanza e l'unica impugnazione possibile sarebbe il regolamento di competenza, che egualmente investe della questione la Cassazione, ma è soggetto ad una disciplina parzialmente diversa da quella del ricorso ordinario e può avere ad oggetto esclusivamente la questione di competenza.  Nullità della sentenza o del procedimento (art. 360 n. 4). Deve trattarsi di errores in procedendo, dai quali sia derivata la nullità della sentenza: per vizi propri oppure per estensione dell'invalidità formale degli atti del procedimento, oppure per il difetto di presupposti processuali, diversi dalla giurisdizione e dalla competenza.  Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 n. 5). La disposizione in esame allude a un vizio della motivazione. La Cassazione ritene che il suo sindacato è limitato, oltre che al difetto totale di motivazione, solamente alle ipotesi più gravi ed evidenti, in cui la motivazione offerta dal giudice a quo sia meramente formale, inconsistente o del tutto apodittica (oscura). Occorre inoltre tener presente che il difetto di motivazione deve riguardare un fatto che sia decisivo (la Corte deve limitarsi a verificare la potenziale decisività del fatto controverso) e nel contempo sia stato oggetto di discussione tra le parti. Anche se la norma non lo specifica, si ritiene che si faccia riferimento esclusivamente ai fatti extraprocessuali, che di regola sono sottratti alla cognizione della Cassazione. Il ricorso c.d. straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost. e la nozione “sostanziale” di sentenza L'art. 111, co. 7° Cost. prevede il ricorso straordinario, secondo il quale “contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge”, con le sole eccezioni, quanto ai giudici speciali, dei tribunali militari in tempo di guerra; nonché del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, le cui decisioni sono ricorribili per i soli motivi inerenti alla giurisdizione. Per “sentenza”, ai sensi dell'art. 111 Cost., deve intendersi non solamente il provvedimento per il quale il legislatore ha previsto la forma della sentenza, ma ogni altro diverso provvedimento che possieda comunque la natura e la sostanza della sentenza. Si considera quindi sentenza ogni provvedimento che abbia natura decisoria, cioè statuisca su diritti o status (è escluso quindi ad es il settore della giurisdizione volontaria), e nel contempo sia definitivo, non essendo soggetto ad alcuna diversa impugnazione né ad un'eventuale revoca o modifica da parte del giudice che l'ha pronunciato (es sono escluse le misure cautelari). Per il resto al ricorso straordinario si applica la disciplina dell’impugnazione ordinaria, inoltre il ric straordinario è ammesso per tutti i motivi contemplati dal 1 comma, ossia per gli stessi vizi per i quali è esperibile il ricorso ordinario. Ipotesi particolari di ricorso ed il ricorso nell’interesse della legge Le decisioni in grado d'appello o in unico grado rese da giudici speciali sono ricorribili in cassazione, nel consueto termine di 60 giorni dalla notificazione, esclusivamente per motivi attinenti alla giurisdizione del giudice stesso (art. 362, co. 1°). Tale disposizione è superata dall'art. 111 Cost. che ammette il ricorso per violazione di legge contro tutte le sentenze (provvedimenti decisori) di qualunque giudice, ordinario o speciale, e lo limita ai motivi inerenti alla giurisdizione esclusivamente nei confronti delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti (co. 8°). L'art. 362 co. 2° consente di adire la Corte suprema, in ogni tempo, per denunciare:  conflitti positivi o negativi di giurisdizione tra diversi giudici speciali, oppure tra giudice speciale e giudice ordinario. Ricorre quando più giudici abbiano tutti affermato o negato la propria giurisdizione sulla medesima controversia.  Conflitti negativi di attribuzione tra la pubblica amministrazione e il giudice ordinario. In questi casi il ricorso per cassazione è straordinario, dirigendosi nei confronti di una sentenza già passata in giudicato. L'art. 363 attribuisce al solo procuratore generale presso la Corte di cassazione la possibilità di chiedere che questa, eventualmente anche a sezioni unite, enunci nell'interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi. La relativa istanza presuppone che le parti non abbiano proposto impugnazione oppure vi abbiano successivamente rinunciato, oppure che si tratti di un provvedimento non ricorribile e non altrimenti impugnabile. La fase introduttiva del processo: in particolare, il contenuto del ricorso Il procedimento di cassazione inizia con un ricorso, notificato all'altra parte (detta resistente) e poi depositato, nei successivi 20 giorni, nella cancelleria della Corte. Gli artt. 365 e 366 esigono, a pena di inammissibilità:  l'indicazione delle parti;  l'indicazione della sentenza o del provvedimento impugnato;  l'esposizione sommaria dei fatti della causa;  i motivi per cui si chiede la cassazione, con l'indicazione delle norme di diritto su cui essi si fondano;  la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda;  la sottoscrizione di un difensore iscritto nell'apposito albo degli avvocati abilitati al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, il quale deve essere munito di una procura speciale, e l'indicazione della procura stessa, quando sia conferita con un atto separato, oppure dall'eventuale decreto di ammissione al patrocinio gratuito. Un ulteriore elemento non prescritto sotto sanzione di inammissibilità è l'elezione di domicilio in Roma e l’indirizzo pec del difensore del ricorrente; qualora questi manchino o siano venuti meno, tutte le notificazioni dirette al ricorrente e/o al suo difensore gli sono fatte presso la cancelleria della corte di cassazione. Nel caso si tratti di un ricorso per saltum a norma dell'art. 360 co. 2°, è necessario che l'accordo delle parti, diretto ad omettere l'appello, risulti da un visto apposto su di esso dalle altre parti o dai loro difensori muniti di procura ad hoc, oppure da un atto separato che dovrà unirsi al ricorso. Il deposito del ricorso e dei documenti prescritti a pena di improcedibilità Il ricorso deve essere depositato in cancelleria, a pena di improcedibilità, entro i 20 giorni successivi alla notificazione. Unitamente ad esso il ricorrente deve anche depositare, sempre sotto comminatoria di improcedibilità dell'impugnazione (art. 369):  l'eventuale decreto di ammissione al patrocinio gratuito;  una copia autentica del provvedimento impugnato, con la relazione di notificazione, oppure, nelle ipotesi previste dall'art. 362, dei provvedimenti da cui risulta il conflitto di giurisdizione o di attribuzione;  la procura speciale, quando sia stata conferita con un atto separato;  gli atti processuali, i documenti ed i contratti o accordi collettivi sui quali si fonda il ricorso. È il ricorrente a sopportare le conseguenze dell'eventuale mancanza di tali atti e documenti nel fascicolo della causa. Lo stesso ricorrente è tenuto a chiedere la trasmissione del fascicolo d'ufficio del giudizio di merito dalla cancelleria del giudice a quo a quella della Corte di cassazione, e quindi a depositare una copia della relativa richiesta, vistata dalla cancelleria a conferma dell'avvenuta presentazione, insieme al ricorso. Per l'omissione o la tardività di tale formalità non è però prevista alcuna sanzione. Il deposito del ricorso e degli altri documenti può avvenire anche a mezzo posta, tramite raccomandata. Il controricorso La parte resistente, qualora voglia rispondere e contrastare l'impugnazione, deve farlo mediante un controricorso che va prima notificato al ricorrente, nel suo domicilio eletto, entro 20 giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, e poi depositato in cancelleria, entro i successivi 20 giorni, unitamente agli atti e ai documenti in esso indicati, nonché alla procura speciale, se conferita con un atto separato (art. 370). Il contenuto del controricorso è disciplinato in quanto possibile dalle stesse norme dettate per il ricorso. L'omessa notificazione o deposito del controricorso, nei termini indicati, non determina una situazione propriamente assimilabile alla contumacia, ma limita le successive attività difensive del resistente, che potrà solo partecipare alla eventuale discussione orale, e non presentare memorie ex art. 378. L’oggetto del giudizio di cassazione In linea di principio la Corte suprema può essere investita delle sole questioni sulle quali il giudice a quo ha effettivamente pronunciato o avrebbe dovuto pronunciare; questo è confermato dall'assenza di una disposizione analoga all'art. 346, che attiene all'onere di riproposizione in appello delle domande e delle eccezioni non accolte, e dalla mancata previsione di qualunque ius novorum, ancorché limitato alle nuove eccezioni che sarebbero rilevabili d'ufficio. Deve pertanto escludersi la deduzione di questioni (di fatto o di diritto) che erano state già decise dal giudice di primo grado e non erano state riproposte all’esame del giudice d’appello attraverso la formulazione di specifici motivi d’impugnazione. Per quanto riguardo le questioni nuove bisogna distinguere tra:  Questioni nuove che possono essere sollevate dalle parti, attraverso il ricorso o il controricorso, e quelle stesse che la Cassazione potrebbe rilevare d’ufficio: in tal caso le parti possono dedurre ogni nuova questione, di rito o di merito, che il giudice a quo avrebbe dovuto esaminare d’ufficio;  Le questioni nuove che la stessa Cassazione potrebbe rilevare d’ufficio: in tal caso si ritiene che il rilievo d’ufficio della Corte debba essere circoscritto alle sole questioni processuali per le quali la stessa legge sancisca la rilevabilità in ogni stato e grado del giudizio. La decisione in camera di consiglio: il vaglio preliminare ad opera della sezione-“filtro” L'art. 375 prevede una serie di ipotesi in cui la Corte deve definire il giudizio in camera di consiglio con ordinanza:  quando siano inammissibili o improcedibili tanto il ricorso principale quanto l'eventuale ricorso incidentale, anche per mancanza dei motivi previsti dall'art. 360;  quando tutte le impugnazioni, principali ed incidentali, sono manifestamente fondate o manifestamente infondate;  quando si tratti di un regolamento di giurisdizione o di competenza. La riforma del 2009 volendo creare una sorta di filtro dei ricorsi che si prestano ad una definizione immediata, ha previsto l'istituzione di un'apposita sezione, composta di regola da magistrati appartenenti alle altre sezioni, che esamina preliminarmente tutti i ricorsi, ad eccezione di quelli che il primo presidente ritenga di assegnare alle sezioni unite e di quelli per regolamento di giurisdizione o di competenza, al fine di verificare se sia possibile definire immediatamente il giudizio poiché tutte le impugnazioni sono inammissibili o improcedibili, oppure manifestamente fondate o infondate. Se tale verifica e negativa e non si tratta di un regolamento di giurisdizione o di competenza, la causa è rimessa ad una delle sezioni semplici che deciderà con ordinanza in camera di consiglio tranne che nelle ipotesi in cui è prevista la fissazione di un’udienza di discussione e la decisione con sentenza. L'art. 360-bis prevede che il ricorso per cassazione sia inammissibile in due ipotesi:  quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l'esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l'orientamento della stessa;  quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo. L'art. 380-bis prevede che la valutazione circa la possibilità di definire il giudizio in camera di consiglio compete al relatore della sezione-filtro, qualora egli ritenga sussistere una delle ipotesi contemplate dall’art 375, il presidente su proposta del relatore, fissa l'adunanza della Corte in camera di consiglio con decreto, indicando se è stata ravvisata un’ipotesi di inammissibilità, di manifesta infondatezza di manifesta fondatezza del ricorso. Ogniqualvolta la sezione-filtro non definisca il giudizio, la causa deve essere rimessa ad una delle sezioni semplici. Le altre ipotesi di decisione in camera di consiglio Passato il vaglio preliminare della sezione-filtro ed essendo stata assegnata la causa ad una delle sezioni semplici, questa dovrà definire il giudizio. Quando si tratti invece di regolamento di giurisdizione o di competenza, il presidente, se non provvede ai sensi dell'art. 380-bis, fissa la data dell'adunanza e chiede al pubblico ministero le sue conclusioni scritte, che poi devono essere notificate agli avvocati delle parti, insieme al decreto presidenziale, almeno 20 giorni prima dell'adunanza, con facoltà degli avvocati stessi di depositare memorie fino a 5 giorni prima. La Corte decide con ordinanza in camera di consiglio senza la partecipazione del pm e delle parti. La decisione in seguito a pubblica udienza Quando non sussistano i presupposti per decidere in camera di consiglio con ordinanza, il giudizio di cassazione deve essere definito con sentenza, previa discussione della causa in pubblica udienza; questo per quanto concerne i ricorsi assegnati alle Sezioni Unite. Dinanzi alle sezioni semplici invece, la decisone con sentenza è prescritta in due ipotesi: - quando la causa è rimessa alla sezione semplice dal collegio della sezione filtro, che non ha condiviso la proposta del relatore di definire il giudizio con ordinanza in camera di consiglio; - quando la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale occorre pronunciare. L'art. 377 prevede che l'udienza di discussione venga fissata direttamente dal primo presidente, contestualmente alla nomina del magistrato incaricato della relazione, per i ricorsi assegnati alle Sezioni unite, oppure al presidente della singola sezione designata. La relativa data deve essere comunicata agli avvocati delle parti almeno 20 giorni prima dell'udienza, e le parti hanno la facoltà di depositare in cancelleria delle memorie fino a 5 giorni prima dell'udienza (art. 378). A tale udienza il relatore riferisce al collegio i fatti rilevanti per la decisione ed il contenuto del provvedimento impugnato e, quando non vi sia discussione delle parti, illustra sinteticamente i motivi del ricorso e del controricorso (art. 379). Dopo la relazione ha luogo l'eventuale discussione, con l’esposizione orale delle motivate conclusioni del pubblico ministero e il successivo svolgimento delle difese di ciascuna delle parti senza che siano ammesse repliche. Al termine della discussione segue, nella stessa seduta, la deliberazione della sentenza in camera di consiglio. L'art. 384 co. 3°, a garanzia dell'effettività del contraddittorio, fa obbligo alla Corte, quando essa ritenga di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio, di soprassedere momentaneamente dalla decisione stessa, assegnando con ordinanza, al pubblico ministero e alle parti, un termine non inferiore a 20 e non superiore a 60 giorni per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla questione stessa. I POSSIBILI ESITI DEL PROCESSO E L’EVENTUALE GIUDIZIO DI RINVIO: Il rigetto del ricorso e la correzione della motivazione della sentenza impugnata Il ricorso per cassazione, principale o incidentale, può condurre ad una pronuncia di accoglimento o di rigetto. In alcune ipotesi la Corte può o deve, enunciare il principio di diritto, ossia la sintetica esplicazione della corretta interpretazione ch’essa ha ritenuto di attribuire alla norma di diritto investita dai motivi del ricorso. L’enunciazione del principio di diritto è prevista sia nel caso di accoglimento che nel caso di rigetto dell’impugnazione; ed ad ogni altro caso in cui sia risolta una questione di diritto di particolare importanza; ricorrendo quest’ultima condizione il principio di diritto può essere pronunciato anche d’ufficio, perfino in caso di inammissibilità. Il rigetto determina il passaggio in giudicato della sentenza impugnata e può dipendere da ragioni processuali (inammissibilità, improcedibilità o nullità del ricorso) o semplicemente dall'infondatezza dell'impugnazione. In base all'art. 385 il rigetto dovrebbe implicare sempre la condanna del ricorrente alle spese del processo. Un'ipotesi di rigetto particolare è quella che si accompagna alla correzione della motivazione in diritto della sentenza impugnata; la Corte non incontra alcun limite nel valutare autonomamente, entro i confini tracciati dai motivi di ricorso, l'esatta soluzione delle questioni giuridiche affrontate nella sentenza impugnata; se ritiene che il dispositivo sia conforme al diritto, le è consentito correggere direttamente l'erronea o lacunosa motivazione in iure che a tali questioni abbia dato il giudice a quo (art. 384 co. 4°); questo significa in linea di principio che l'errore di diritto porta all'annullamento della sentenza solamente quando abbia concretamente inciso sul dispositivo, determinando una decisione contra ius. La tipologia delle pronunce di accoglimento: a) la cassazione senza rinvio per ragioni processuali. L'accoglimento del ricorso può condurre alla mera eliminazione della sentenza impugnata e porre fine all'intero giudizio, escludendo definitivamente la pronuncia di una decisione di merito che prenda il posto di quella cassata. L'art. 382 co. 3° prevede la cassazione senza rinvio in due ipotesi:  quando sia dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice del quale si impugna il provvedimento e di ogni altro giudice;  in ogni altro caso in cui la causa non poteva essere proposta o il processo proseguito. Dopo la cassazione senza rinvio non residua alcuna sentenza che possa passare in giudicato, poiché, anche se oggetto diretto di annullamento è la sentenza di secondo grado, ciò non può determinare la reviviscenza della sentenza di primo grado, già sostituita da quella d'appello. Fanno eccezione le fattispecie in cui l'improponibilità o l'improseguibilità riguardano il solo giudizio di secondo grado: in questi casi la pronuncia di cassazione lascia sopravvivere la sentenza di prima istanza e ne determina indirettamente il passaggio in giudicato. Quando cassa senza rinvio, la Corte è tenuta a provvedere sia sulle spese del procedimento svoltosi davanti a sé, sia su quelle dei precedenti gradi, potendo al più rimetterne al giudice a quo la sola liquidazione, ossia la quantificazione (art. 385 co. 2°). Nulla esclude che anche la cassazione senza rinvio si accompagni all'enunciazione di un principio di diritto, quando si fonda sulla risoluzione di una questione di diritto di particolare importanza (art. 384). b) La cassazione con rinvio. L'ipotesi più comune è la cassazione con rinvio, ossia l'annullamento con rimessione della causa ad un altro giudice di merito, il quale provvederà alla pronuncia di una nuova sentenza destinata a sostituire quella cassata. La Cassazione, ogni volta che l'annullamento sia dipeso da uno degli errores in iudicando al n. 3 dell'art. 360 o abbia implicato la risoluzione di una questione di diritto di particolare importanza, è tenuta ad enunciare espressamente il principio di diritto cui il giudice di rinvio dovrà uniformarsi. Il giudice di rinvio è di regola un giudice diverso ma di pari grado a quello che aveva pronunciato la sentenza impugnata (art. 383). Sono previste tre eccezioni:  quando il ricorso sia stato proposto per saltum, a norma dell'art. 360 co. 2, ossia omettendo concordemente il secondo grado di giudizio, giacché la causa va allora rinviata allo stesso ufficio giudiziario che sarebbe stato competente per l'appello cui le parti avevano rinunciato;  quando essendo stato dichiarato inammissibile l’appello perché privo di una ragionevole probabilità di accoglimento, il ricorso sia stato proposto nei confronti della sentenza di primo grado, in tal caso se la Corte accoglie l’impugnazione, il giudizio di rinvio si svolge davanti al giudice che avrebbe dovuto pronunciare sull’appello.  quando la Corte riscontri una nullità del giudizio di primo grado per la quale il giudice d'appello avrebbe dovuto rimettere le parti al primo giudice (si fa riferimento non solo alla nullità ma a tutte le fattispecie indicate agli artt 353 e 354. La designazione del giudice di rinvio si ritiene si attributiva di una competenza funzionale che non può essere contestata o discussa. L'art. 46 esclude che gli artt. 42 e 43 trovino applicazione nei giudizi davanti al giudice di pace, che sono quindi impugnabili solo con l'appello. Il regolamento necessario è stato invece ammesso nei confronti del provvedimento del giudice di pace che disponga la sospensione del processo. Il giudice di pace può anche avvalersi del regolamento d'ufficio previsto dall'art. 45. Il concorso fra il regolamento facoltativo e l’impugnazione ordinaria La stessa sentenza può essere impugnata, magari da parti diverse, tanto col regolamento di competenza, per il solo capo concernente la competenza, quanto con l'impugnazione ordinaria, che potrebbe avere ad oggetto solamente il merito della causa oppure anche la pronuncia sulla competenza. Tale concorso vede il regolamento privilegiato: se esso viene proposto prima dell'impugnazione ordinaria, i termini per proporre questa restano sospesi e riprendono a decorrere dalla comunicazione della sentenza di regolamento. Se invece una delle parti propone prima l'impugnazione ordinaria, le altre parti conservano la facoltà di proporre egualmente il regolamento, con l'effetto di determinare la sospensione automatica del procedimento avviato dalla precedente impugnazione; questo riprenderà, tramite riassunzione, nella sola ipotesi in cui la decisione della Corte suprema, resa in sede di regolamento, confermi la competenza del giudice adito. I termini ed il procedimento di regolamento L'istanza di regolamento va proposta entro 30 giorni, che decorrono, rispettivamente, dalla comunicazione della sentenza che ha pronunciato sulla competenza oppure, quando si tratti di regolamento facoltativo, dalla notifica dell'impugnazione ordinaria proposta contro la sentenza che ha deciso sulla competenza e sul merito (art. 47 co 2°). In mancanza di notificazione o comunicazione si applica il termine lungo di 6 mesi dalla pubblicazione, a norma dell'art. 327. Il procedimento per regolamento inizia con la notifica di un ricorso, per il quale non sono prescritti particolari elementi di forma-contenuto. L'atto introduttivo può essere sottoscritto, senza bisogno di una nuova procura ad hoc, dallo stesso difensore che aveva rappresentato il ricorrente nel giudizio di merito, oppure direttamente dalla parte, se questa si era costituita personalmente in quella sede. La notifica del ricorso non è necessaria rispetto alle parti che vi abbiano aderito. Entro 5 giorni dall'ultima notifica, il ricorrente deve chiedere ai cancellieri degli uffici davanti ai quali pendono i processi che i relativi fascicoli vengano trasmessi alla cancelleria della Corte di cassazione; dal giorno di tale richiesta tali processi restano ipso iure sospesi, salva la sola possibilità per il giudice di autorizzare in essi il compimento degli atti che ritiene urgenti (art. 48 co 2°). Nel termine perentorio di 20 giorni dall'ultima notifica, l'istante deve depositare in cancelleria il ricorso ed i documenti necessari. Le altre parti, destinatarie della notifica dell'istanza di regolamento, non sono invece tenute a notificare un controricorso, ma possono semplicemente, entro i successivi 20 giorni, depositare nella cancelleria della Corte le proprie scritture difensive e i relativi documenti (art. 47). L'art. 49 prevede che il regolamento sia pronunciato con ordinanza in camera di consiglio, entro i 20 giorni successivi alla scadenza dell'ultimo termine. L'art. 380-ter stabilisce che le parti hanno il diritto di ricevere, almeno 20 giorni prima dell'adunanza della Corte in camera di consiglio, la notifica delle conclusioni del pubblico ministero, nonché di depositare delle memorie non oltre 5 giorni prima dell'adunanza stessa. Tale disciplina si applica anche al regolamento di competenza chiesto d'ufficio dal giudice, ai sensi dell'art. 45. E' lo stesso giudice a disporre, con l'ordinanza che richiede il regolamento, la trasmissione del fascicolo della causa alla cancelleria della Corte suprema, e la sospensione del processo si produce fin dal giorno della pronuncia di tale ordinanza. LA REVOCAZIONE I caratteri dell’impugnazione. La revocazione ordinaria e straordinaria La revocazione è un'impugnazione a critica vincolata, ammessa per i soli motivi tassativamente indicati nell'art. 395. Ha carattere essenzialmente rescindente, è idonea infatti a condurre ad una nuova decisione del merito della causa, ma soltanto se ed in quanto il giudice abbia previamente accertato la sussistenza del vizio denunciato ed abbia conseguentemente revocato la prima sentenza. È utilizzabile in due situazioni:  quando, pur essendo la sentenza soggetta a una diversa impugnazione ordinaria a critica vincolata, e cioè al ricorso per cassazione, si tratti di vizi che non potrebbero trovare rimedio attraverso tale impugnazione;  nei confronti di sentenze non più impugnabili in via ordinaria, quando, successivamente al passaggio in giudicato, vengano scoperti dei fatti oppure dei nuovi elementi probatori che rendono evidente l'ingiustizia della decisione. A tali ipotesi corrispondono due rimedi: la revocazione ordinaria, esperibile contro sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado non ancora passate in giudicato;  la revocazione straordinaria, ammessa, oltre che nei confronti delle sentenze di secondo o di unico grado, anche contro quelle di primo grado, quando per queste ultime il termine per l'appello sia già scaduto ed esse siano già passate in giudicato. La revocazione ordinaria è esperibile per i motivi di cui ai nn. 4 e 5 dell'art. 395, cioè per vizi palesi, dei quali la parte soccombente può rendersi conto fin dalla lettura del provvedimento; i termini decorrono dalla notifica o dalla pubblicazione della sentenza. La revocazione straordinaria invece è ammessa per i motivi di cui ai nn. 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395, che potrebbero emergere o essere conosciuti dal soccombente anche a notevole distanza di tempo dalla pronuncia della sentenza; i termini decorrono dal giorno in cui la parte viene concretamente a conoscenza del vizio. La sola revocazione straordinaria è ammessa nei confronti delle sentenze di primo grado, a condizione che il termine per l'appello, nel momento in cui il vizio revocatorio viene scoperto, sia già scaduto (art. 396 co 1°). La revocazione può concorrere con il ricorso per cassazione (inidoneo a fornire tutela ai vizi revocatori, che attengono sempre all'accertamento dei fatti e che esorbitano dai poteri della Corte suprema), mentre non può mai concorrere con l'appello. I motivi di revocazione ordinaria La revocazione ordinaria è ammessa nelle sole ipotesi previste dai nn. 4 e 5 dell'art. 395:  Quando la sentenza è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Presuppone che la decisione si sia basata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, o, viceversa, sull'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita. Il giudice quindi deve essere incorso non in un errore di valutazione delle prove e nella conseguente ricostruzione dei fatti rilevanti per la decisione, ma in una mera svista oppure in un errore di percezione circa i fatti che emergono, in positivo o in negativo, dalla semplice lettura degli atti e dei documenti della causa. Questo errore deve essere risultato concretamente determinante per la decisione. Non deve trattarsi di un errore di giudizio, la revocazione viene esclusa quando il fatto cui l'errore si riferisce ha costituito un punto controverso sul quale la sentenza si pronuncia.  Quando la sentenza è contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione. È pacifico che, ogni volta che il giudice di merito abbia pronunciato espressamente, d'ufficio o su eccezione di parte, sull'esistenza di un anteriore giudicato, la revocazione sia esclusa e sia ammissibile, invece, esclusivamente il ricorso per cassazione, vuoi per violazione dell'art. 2909 c.c., vuoi, eventualmente, per difetto di motivazione ai sensi dell'art. 360 n 5. Se la revocazione ordinaria non viene proposta, la sentenza passa a sua volta in giudicato ed il vizio diviene irreparabile, salva la prevalenza di tale seconda sentenza quando si tratti di un conflitto pratico di giudicati. I motivi di revocazione straordinaria La revocazione straordinaria è esperibile quando:  la sentenza sia l'effetto del dolo di una delle parti in danno dell'altra (art. 395 n. 1). Deve trattarsi di atti o comportamenti processuali fraudolenti, concretatisi in artifici o raggiri, che abbiano avuto efficacia causale sulla decisione, limitando notevolmente l'attività difensiva dell'avversario oppure l'accertamento della verità da parte del giudice.  La pronuncia impugnata sia fondata su prove riconosciute o dichiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza; si presuppone che tali prove siano state determinanti per la decisione (art. 395 n. 2). Il riconoscimento della falsità deve provenire direttamente dalla parte che si è avvantaggiata della prova e la dichiarazione deve sempre aversi con sentenza, passata in giudicato, che non contenga semplicemente degli accertamenti di fatto difformi dalle risultanze della prova assunta nel primo processo, ma verta direttamente sulla falsità della prova stessa. A tale ipotesi di revocazione resta sottratto il giuramento, decisorio o suppletorio, la cui falsità può dar luogo esclusivamente al risarcimento del danno.  Quando, successivamente alla decisione, sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario (art. 395 n. 3). Deve trattarsi di un documento preesistente alla sentenza impugnata per revocazione, e la sua mancata produzione deve essere dipesa da una causa che non possa comunque ascriversi ad un difetto di diligenza della parte.  La sentenza sia l'effetto del dolo del giudice accertato con sentenza passata in giudicato (art. 395 n. 6). La revocazione proponibile dal pubblico ministero L'art. 397 prevede due particolari fattispecie di revocazione straordinaria, proponibile solamente dal pubblico ministero, sul presupposto che si tratti di cause nelle quali è obbligatorio il suo intervento, a norma dell'art. 70 co 1°:  quando la sentenza è stata pronunciata senza che il pubblico ministero sia stato sentito, non avendo ricevuto la comunicazione degli atti prescritta dall'art. 71, sicché è nulla ai sensi dell'art. 158;  quando la sentenza è l'effetto della collusione posta in opera dalle parti per frodare la legge. Il procedimento, la decisione e le relative impugnazioni La domanda di revocazione si propone allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (art. 398) e il relativo giudizio è retto dalle medesime norme stabilite per il procedimento davanti a lui. Il processo inizia con un atto di citazione che deve essere sottoscritto da un avvocato munito di procura speciale e deve contenere, a pena di inammissibilità, l'indicazione del motivo sul quale si fonda la domanda di revocazione nonché, quando si tratti di revocazione straordinaria, delle prove relative ai fatti previsti ai nn. 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395, e del giorno in cui è stato scoperto o accertato, a seconda dei casi, il dolo o la falsità, oppure di quello in cui è stato ritrovato il nuovo documento decisivo. Se la revocazione è proposta davanti al tribunale o alla Corte d’appello, l'impugnante deve poi costituirsi, a pena di improcedibilità, entro 20 giorni dalla notifica della citazione, depositando in cancelleria la citazione stessa con una copia autentica della sentenza impugnata. Lo stesso termine vale per la costituzione delle altre parti, che devono provvedervi tramite il deposito in cancelleria di una comparsa contenente le loro conclusioni. L’OPPOSIZIONE DI TERZO Generalità L'opposizione di terzo si caratterizza per essere esperibile soltanto da chi non ha assunto la qualità di parte nel processo in cui la sentenza è stata resa. L'art. 404 configura due rimedi eterogenei:  l'opposizione ordinaria, che il terzo può utilizzare quando una sentenza pronunciata tra altre persone pregiudica i suoi diritti;  l'opposizione revocatoria, consentita specificamente agli aventi causa e i creditori di una delle parti, quando la sentenza è effetto di dolo o collusione a loro danno. In entrambi i casi si tratta di un'impugnazione straordinaria, ammessa anche nei confronti di sentenze già passate in giudicato. Nel caso di opposizione di terzo ordinaria non è previsto nessun termine di decadenza. Oggetto dell'impugnazione, per la quale è competente lo stesso ufficio giudiziario da cui proviene la decisione impugnata, può essere, indifferentemente, una sentenza di primo o di unico grado o di appello, e anche una decisione della Corte suprema, limitatamente alle ipotesi in cui questa abbia accolto il ricorso e deciso direttamente il merito della causa (art. 391-ter). L’opposizione c.d. ordinaria, quale rimedio riservato ai terzi che non subiscono gli effetti del giudicato In base all'art. 404 co 1° l'opposizione è consentita nei confronti di qualunque sentenza passata in giudicato o comunque esecutiva che pregiudica i diritti di un terzo. È legittimato il soggetto che non è stato parte nel giudizio in cui è stata pronunciata la sentenza impugnata; è sufficiente che il terzo riceva un pregiudizio dalla decisione resa inter alios. Non può essere utilizzata da chi, pur essendo rimasto formalmente estraneo al precedente grado di giudizio, sia direttamente soggetto agli effetti della sentenza o all'autorità del giudicato, essendo succeduto (in qualità di erede o avente causa) a taluna delle parti dopo l'inizio del processo. Il successore è legittimato, poiché subisce l'efficacia diretta della sentenza, ad avvalersi delle impugnazioni ordinarie, nei limiti loro propri; e potrà avvalersi dell'opposizione di terzo solamente quando voglia dimostrare che la successione si era verificata prima dell'inizio del processo, che questo avrebbe dovuto promuoversi nei suoi confronti e che non sussistono i presupposti per l'estensione degli effetti della decisione in suo danno; oppure quando, trattandosi di successione nel diritto controverso, possa vantare un titolo di acquisto che lo sottrae agli effetti della sentenza resa contro il proprio dante causa. L'ambito di applicazione dell'opposizione non può essere più ampio rispetto alle ipotesi in cui al terzo è consentito intervenire volontariamente in un processo inter alios. Il terzo inoltre non può essere di regola assoggettato agli effetti, diretti o riflessi, di un giudicato formatosi inter alios ed avente ad oggetto un diritto giuridicamente connesso a quello di cui egli sia titolare. Vi è un rapporto di reciproca esclusione tra l'opposizione ordinaria e le ipotesi in cui la sentenza può eccezionalmente vincolare un terzo, in tali ipotesi sarebbe contraddittorio riconoscere al terzo un rimedio svincolato da particolari presupposti e da qualunque termine di decadenza. Il tipo di “pregiudizio” che giustifica l’esperimento dell’opposizione L'opposizione di terzo mira essenzialmente a porre nel nulla la decisione impugnata, quanto meno nella parte in cui risulta inconciliabile col diritto del terzo, e ad impedirne l'attuazione, anche attraverso la richiesta di inibitoria prevista all'art. 407. Il pregiudizio cui allude l'art. 404 si identifica col danno, anche solo potenziale, che potrebbe derivare al terzo qualora la sentenza fosse eseguita fra le parti, sia nelle forme dell'esecuzione forzata, sia in seguito allo spontaneo adeguamento della parte soccombente alle statuizioni in essa contenute. Conclusioni circa i soggetti legittimati all’opposizione ordinaria La legittimazione a proporre l'opposizione ordinaria deve riconoscersi:  Ai terzi titolari di diritti autonomi ed incompatibili rispetto a quello accertato dalla sentenza, ossia a coloro i quali avrebbero potuto spiegare intervento volontario principale nel processo instauratosi fra le parti. Es. terzo che si affermi proprietario, in base a titolo autonomo, dello stesso bene i cui la sentenza ha riconosciuto proprietaria una delle parti.  Al successore che sia rimasto estraneo al giudizio ed alleghi che la successione si era verificata anteriormente all'inizio del processo, sicché questo avrebbe dovuto instaurarsi nei suoi confronti.  Ai terzi contitolari dello stesso rapporto giuridico plurisoggettivo accertato dalla sentenza, che avrebbero dovuto partecipare, in qualità di litisconsorti necessari ex art. 102, al relativo giudizio. Ad es. il comproprietario del fondo sul quale la sentenza ha affermato gravare una servitù di passaggio.  Al terzo che sia l'unico titolare del diritto accertato nella sentenza e sia rimasto estraneo al relativo giudizio, promosso da un altro soggetto in virtù di una legittimazione straordinaria ad agire: in tali ipotesi di sostituzione processuale si ritiene che il sostituito debba comunque partecipare al processo in qualità di litisconsorte necessario, sicché l'opposizione di terzo si ricollegherebbe ad un vizio del contraddittorio.  Al soggetto che sia stato rappresentato nel giudizio da un falsus procurator, ossi da un soggetto privo di poteri rappresentativi. Si esclude che l'opposizione possa essere utilizzata dai terzi titolari di rapporti giuridici latu sensu dipendenti da quello su cui ha pronunciato la sentenza. Per tali soggetti possono prospettarsi due ipotesi, a seconda che subiscano o no l'efficacia riflessa del giudicato intervenuto fra le parti: quando il terzo è soggetto all'efficacia riflessa l'unico rimedio esperibile è l'opposizione revocatoria, sempre che ne sussistano i presupposti. Non è necessario che il pregiudizio lamentato dal terzo, cui l'art. 404 subordina l'esperibilità dell'opposizione, sia già attuale. L’opposizione revocatoria: funzione e presupposti L'opposizione revocatoria presuppone che il pregiudizio derivato dalla sentenza sia effetto di dolo di una parte o di collusione (accordo fraudolento delle parti) in suo danno, cioè in danno al creditore o avente causa di una delle parti. La funzione è proteggere il creditore dagli atti dolosi con cui il debitore potrebbe di fatto vanificare la garanzia che il proprio patrimonio offre al creditore stesso. Tale impugnazione è soggetta ad un termine breve di decadenza, 30 giorni, che decorre dal giorno in cui il creditore o l'avente causa ha avuto conoscenza del dolo o della collusione in suo danno (art. 326 co 1°). Anche per l’opposizione di terzo, ordinaria o revocatoria, è competente lo stesso giudice a quo, dinanzi al quale si applicano le norme stabilite per il processo davanti a lui, salvo che non siano derogate da quelle più specifiche risultanti dagli artt. 405 ss. Il giudizio deve instaurarsi, di regola, con una citazione. L'unica particolarità dell'atto introduttivo è la necessità di indicare, oltre ai consueti elementi dell'art. 163, la sentenza che si impugna e, nel caso di opposizione revocatoria, il giorno in cui l'opponente è venuto a conoscenza del dolo o della collusione delle parti in suo danno, nonché la prova offerta a tale riguardo. L'art. 407 prevede che possa chiedersi inibitoria con un'istanza inserita nell'atto di impugnazione e rinvia all'art. 373, che richiede il pericolo di un grave ed irreparabile danno. Se l'opposizione viene accolta, il momento rescindente coinciderà con quello rescissorio, ossia con la pronuncia di una nuova decisione sul merito della causa, sempre che ne sussistano i presupposti. A volte però la natura del vizio è tale da escludere la pronuncia di una nuova sentenza di merito, in particolare quando l'opposizione si fonda su una lesione del contraddittorio oppure sulla violazione dell'art. 102  Nel primo caso il vizio è insanabile e neppure il giudice a quo avrebbe potuto porvi rimedio, sicché è inevitabile che l'opposizione si concluda con il mero annullamento della decisione.  Nel secondo caso invece è necessario distinguere: se l'opposizione si dirige contro una sentenza di primo grado, lo stesso art. 102 consente di pervenire direttamente ad una nuova pronuncia sul merito; se invece viene impugnata una sentenza di appello, l'applicazione dell'art. 354 fa sì che il giudice dell'opposizione debba limitarsi ad una pronuncia rescindente, rimettendo la causa al giudice di primo grado. Deve ritenersi che l'eliminazione della sentenza impugnata e la decisione che ad essa si sostituisce debba valere, in ogni caso, sia per l'opponente vittorioso che per le parti originarie. Se l’opposizione viene proposta contro una decisione di merito della Cassazione, la Corte può accogliere l’impugnazione e decidere nuovamente la causa nel merito solamente quando “non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto”, dovendo altrimenti arrestarsi alla declaratoria di ammissibilità del ricorso, con rinvio della causa allo stesso giudice che aveva pronunciato la sentenza precedetemene cassata.
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