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procedura civile Balena, Appunti di Diritto Processuale Civile

capitolo 1 a 4 di procedura civile

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 25/05/2021

valeria.felleca1
valeria.felleca1 🇮🇹

4

(3)

2 documenti

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Scarica procedura civile Balena e più Appunti in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! CAPITOLO 1 IL DIRITTO PROCESSUALE CIVILE E LA FUNZIONE GIURISDIZIONALE Il diritto processuale civile è quella branca del diritto che disciplina l’insieme del procedimenti attraverso i quali si esercita la giurisdizione. Mentre il diritto sostanziale regola in astratto i possibili conflitti inter subiettivi, attraverso l’attribuzione di posizioni di vantaggio e corrispondenti posizioni di svantaggio, il diritto processuale disciplina l’intervento del giudice, quando questo sia necessario per rendere effettivo l’assetto di interessi delineato dal legislatore sostanziale. Il codice di procedura civile, sul piano oggettivo, riconduce alla giurisdizione due fenomeni, la giurisdizione contenziosa e quella volontaria che è assai prossima, dal punto di vista funzionale, all’attività tipica dello Stato-amministrazione. Vi sono organi che, pur estranei all’apparato giurisdizionale, sono strutturati in modo autonomo ed indipendente rispetto all’esecutivo, al fine di assicurarne un’imparzialità analoga a quella che si richiede al giudice (si pensi ad alcune autorità amministrative indipendenti, quale l’Autorità garante della concorrenza e del mercato). Sembra preferibile, dunque, privilegiare l’aspetto soggettivo, considerando giurisdizione quell’attività che: • Promana dal giudice (inteso non come persona fisica ma come ufficio giudiziario) • Si estrinseca in forme tipiche • È assistita da determinate garanzie procedimentali Tale criterio soggettivo trova fondamento nello stesso art. 102 Cost, secondo il quale “la funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario”. È comunque possibile che alcuni organi cumulino in sé funzioni giurisdizionali e funzioni amministrative (si pensi al presidente del tribunale). In questi casi, è necessario che il criterio soggettivo si integri con quello oggettivo. Il cpc riconduce alla giurisdizione due fenomeni eterogenei: 1. Giurisdizione contenziosa : l’obiettivo tipico di tale giurisdizione è quello di assicurare l’attuazione del diritto sostanziale, allorché ciò si renda necessario per il sorgere di un conflitto intersoggettivo. Il diritto sostanziale mira ad attribuire posizioni di vantaggio (posizioni giuridiche attive: diritti, poteri, facoltà…) e corrispondenti posizioni di svantaggio (posizioni giuridiche passive: doveri, obblighi, oneri, soggezioni) in presenza di determinati presupposti di fatto. Ad esempio, chi ha subito un danno ingiusto ha il diritto di essere risarcito da colui che l’ha provocato col proprio comportamento doloso o colposo. Nella maggior parte dei casi, la regolamentazione statica di tale diritto è sufficiente a governare la realtà giuridica e a risolvere ogni possibile conflitto di interessi, poiché il titolare del diritto riesce comunque a concretizzare il vantaggio assicurato dal diritto sostanziale. In alcuni casi, tuttavia ciò, non avviene per varie ragioni, vuoi per il contrasto tra le parti circa l’applicazione della norma sostanziale; vuoi perché si verifica una Crisi di cooperazione da parte del soggetto obbligato che omette di tenere il comportamento dovuto, necessario ai fini della realizzazione dell’interesse del titolare del diritto. In questo caso il conflitto di interessi diviene concreto ed effettivo, ma ciò non esclude che le parti possano comporlo autonomamente. La giurisdizione interviene solo quando il titolare del diritto né la menti la lesione e chieda all’ordinamento di assicurargli la soddisfazione del proprio interesse. In tale situazione si rende necessario, allora, il ricorso al processo, nel quale il giudice è chiamato prima a verificare l’esistenza del diritto vantato, e successivamente ad assicurare che il diritto, riconosciuto come esistente, possa essere attuato pur contro la volontà di colui che l’aveva leso. Tale giurisdizione, dunque, viene così definita contenziosa perché presuppone l’esistenza di un conflitto intersoggettivo ed ha come obiettivo la risoluzione e composizione in via autoritativa dello stesso. Essa è strumentale rispetto al diritto sostanziale, ma ugualmente essenziale ed irrinunciabile. Tale essenzialità trova oggi esplicito riconoscimento negli artt. • 24,1 Cost: secondo il quale “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi” • 113 Cost: per quanto attiene specificamente ai rapporti tra cittadino e PA Attraverso queste norme, la nostra Cost., ha consacrato l’esistenza di un autonomo diritto di azione, che ha natura ancellare rispetto ai diritti attribuiti dal diritto sostanziale ma che, a differenza di questi ultimi, non potrebbe essere escluso dal legislatore ordinario: il che significa che al riconoscimento di un certo diritto, si accompagna automaticamente il riconoscimento del diritto di adire l’autorità giudiziaria per ottenerne tutela. È comunque possibile che il diritto di ricorrere al giudice venga subordinato a condizioni, modalità o limitazioni più o meno incisive e si parla, a tal proposito, di giurisdizione condizionata. Da qui il problema della compatibilità di tale compressione del diritto di azione con l’art. 24 Cost. La risposta discende da un bilanciamento degli interessi coinvolti, valutando la ragionevolezza della limitazione anche alla luce di altri precetti costituzionali, primo fra i quali quello di uguaglianza sostanziale di cui all’art.3,2 Cost. Uno dei profili più dibattuti attiene alla possibilità di differire nel tempo l’esercizio di tale diritto, subordinandolo al preventivo esperimento di un rimedio non giurisdizionale. Sul punto è intervenuta la Corte Cost, che ha evidenziato come un siffatto differimento sia legittimo a patto che: • Possa dirsi obiettivamente giustificato dalla salvaguardia di interessi generali o finalità di giustizia • Sia congruo rispetto a tale scopo • Non sia congegnato in modo tale da pregiudicare definitivamente il diritto di azione Allo stesso art. 24 si è soliti ricondurre un canone che dovrebbe informare tutta l’attività del legislatore processuale: quello della effettività della tutela giurisdizionale, letto in combinazione con l’art 3.2° Cost. All’indomani della riforma del processo del lavoro del 1973, la dottrina si è interrogata circa la legittimità della tutela giurisdizionale differenziata, consistente nella previsione di forme e strumenti processuali diversificati a seconda delle situazioni soggettive dedotte in giudizio. L’idea che si è venuta affermando è che tale diversificazione sia non solo legittima ma anche doverosa. Vi sono casi, infatti, in cui il processo ordinario non è in grado di rispondere adeguatamente alle esigenze di tutela poste da determinate situazioni soggettive. È possibile fare un esempio per tutti: quando il legislatore, con lo Statuto dei lavoratori, ha voluto codificare il principio della libertà sindacale, si mostrò ben consapevole della difficoltà di assicurarne l’attuazione attraverso il processo a cognizione piena, il quale sortirebbe effetti con troppo ritardo rispetto al verificarsi della violazione del diritto. Di qui la scelta di prevedere, con l’art. 28 dello Statuto, uno speciale ed autonomo procedimento, caratterizzato da una cognizione spiccatamente sommaria e destinato a concludersi in tempi brevissimi. Tale diversificazione, dunque, è del tutto legittima, sebbene debba fare i conti con due principi: • Principio di eguaglianza ex art. 3,2 Cost • Principio della parità delle armi tra le parti ex art. 111,2 Cost Nel concreto, tale fenomeno ha condotto ad una eccessiva proliferazione dei modelli processuali. A fronte di ciò il legislatore, con il d.lgs. 150/2011, ha ricondotto molti dei riti speciali preesistenti a 3 modelli-base: • Processo ordinario • Rito del lavoro • Rito sommario di cognizione 2. Giurisdizione volontaria : tale giurisdizione deve tale appellativo al fatto che, in passato, si esercitava esclusivamente inter volentes, in assenza di contrasto tra le parti. Oggi, ciò che contraddistingue tale forma di giurisdizione è la sua peculiare funzione: essa non mira a risolvere o comporre un conflitto tra diritti ma a tutelare o gestire gli interessi di determinati soggetti privati, siano essi persone fisiche o entità diverse. Il campo della giurisdizione volontaria, dunque, comprende settore eterogenei, quali: • Nomina del curatore dello scomparso • Provvedimenti nell’interessi di minori, interdetti ed inabilitati • Apposizione e rimozione di sigilli • Rettificazione degli atti dello stato civile Si è in presenza, dunque, di funzioni giurisdizionali non necessarie, poiché potrebbero essere attribuite dalla legge a soggetti privati (si pensi ad un notaio) o alla PA, ed è solo per ragioni di opportunità che il legislatore le riserva al giudice. Talvolta, la differenza tra giurisdizione volontarie e giurisdizione contenziosa è particolarmente evidente, perché il relativo procedimento ha struttura unilaterale. Il più delle volte, tuttavia, anche tale procedimento ha struttura bilaterale o plurilaterale e la linea di demarcazione risulta più sfumata. sono limitati nel tempo, sicché l’attore ne riceve pur sempre un tutela potenzialmente definitiva. 3. In altri casi, il procedimento sommario anziché nascere autonomamente, s’innesta a mo’ di subprocedimento incidentale nell’ambito di un processo a cognizione piena già instaurato, per anticipare gli effetti della sentenza di accoglimento della domanda. Si parla, in questi casi, di provvedimenti anticipatori. Anche tali provvedimenti recano la potenzialità di una tutela definitiva. 2. TUTELA ESECUTIVA : mira a garantire al titolare del diritto la concreta realizzazione del suo interesse in via coattiva, attraverso un complesso di attività che possono essere meramente materiali ed implicare l’uso della forza (si pensi alla ricerca delle cose da assoggettare a pignoramento, che potrebbe rendersi necessaria ad es. l’aperura di porte, cassetti, o altri contenitori) o possono produrre modificazioni giuridiche della sfera del soggetto esecutato (vendita forzata o assegnazione dei beni pignorati). Tale tutela è caratterizzata da una certa astrattezza, poiché presuppone, quale condizione necessaria e sufficiente, il possesso di un titolo esecutivo da parte del creditore procedente. La nozione di titolo esecutivo, tuttavia, è del tutto formale, comprendendo tutti e soltanto i documenti che il legislatore considera esplicitamente tali. L’attribuzione della qualità di titolo esecutivo, inoltre, è legata ad opinioni e valutazioni non sempre coerenti del legislatore, con la conseguente impossibilità di ricostruirne una categoria unitaria. Se ne può dedurre che in questo ambito la discrezionalità del legislatore è notevolmente ampia, essendo limitata soltanto da un’esigenza di coerenza del sistema e, soprattutto, dalla necessità di assicurare al debitore adeguati mezzi di tutela preventiva, cioè ad impedire un’esecuzione forzata illegittima, in specie quando l’esecuzione si fondi su un titolo che non può fornire alcun reale affidamento circa l’esistenza del diritto sottostante. La tutela esecutiva si esercita attraverso una pluralità di procedimenti, ordinari o speciali a seconda del tipo di diritto cui occorre dare attuazione. Rimanendo nella disciplina codicistica, vanno menzionati: • Espropriazione forzata: serve a realizzare un diritto avendo ad oggetto il pagamento di una somma di denaro; • Esecuzione in forma specifica: consente l’attuazione coattiva di un obbligo di rilasciare un immobile, consegnare un bene mobile o di fare o disfare qualcosa. In ogni sua forma, l’esecuzione forzata implica un’attività sostitutiva e surrogatoria rispetto a quella del debitore, sicché il suo limite è rappresentato dal obblighi infungibili, per i quali è essenziale ed irrinunciabile la collaborazione dell’obbligato. In tali casi, il legislatore può solo utilizzare mezzi di coazione indiretta, finalizzati ad incentiva l’adempimento spontaneo dell’obbligo infungibile da parte del debitore. 3. TUTELA CAUTELARE : mira ad approntare un tutela provvisoria finalizzata ad evitare che il diritto subisca, nel tempo occorrente a portare a compimento un processo di cognizione e/o esecuzione, un danno o comunque un pregiudizio in tutto o in parte irreversibile ed irrimediabile, sì da rendere inutile la tutela giurisdizionale. Tale tutela, dunque, è caratterizzata da una strumentalità di secondo grado, giacché serve ad assicurare l’utile e proficuo esperimento del processo di cognizione ed eventualmente la successiva esecuzione forzata, ed è utilizzabile ancor prima che il processo di cognizione sia iniziato (misure cautelari ante causam). Per lungo tempo questa autonomia funzionale non aveva trovato riscontro sul piano pratico, in quanto la Corte Cost aveva sempre negato ch’essa potesse essere inclusa sotto la garanzia dell’art 24 Cost., riconoscendo al legislatore piena discrezionalità circa la misura in cui darvi attuazione. La svolta si ebbe con la sent. 190/1985 sancita dalla Consulta che sancì l’essenzialità della tutela cautelare. Anche nell’ambito di tale tutela cautelare è possibile distinguere tra due fasi, cronologiche: • Fase deputata alla cognizione • Fase preordinata all’esecuzione del provvedimento Le due fasi, tuttavia, sono inscindibilmente collegate tra loro, poiché la prima è priva di una sua autonomia e serve solo a verificare la sussistenze delle condizioni cui è subordinata la concessione della misura cautelare. Tali condizioni sono due: • Fumus boni iuris: il giudice del procedimento cautelare non dovrebbe accertare l’esistenza del diritto tutelato, ma limitarsi ad un giudizio di probabilità o verosimiglianza. In realtà, appare preferibile l’opinione secondo la quale il convincimento che il giudice deve conseguire, prima di accogliere la domanda cautelare, non è qualitativamente diverso rispetto a quello richiesto nel processo a condizione piena, ma la sommarietà deriva dalla necessità di provvedere in tempi assai brevi, limitando l’istruttoria a prove di celere acquisizione. • Periculum in mora: essa sta ad indicare che la misura cautelare presuppone una situazione di pericolo per il diritto tutelato, e questo pericolo può derivare da due possibilità: a. Possibilità che, nel tempo occorrente a portare a compimento il processo di cognizione e/o esecuzione, la situazione di fatto venga alterata o modificata in modo irreversibile, da pregiudicare la successiva attuazione coattiva del diritto (es.: il bene oggetto dell’azione di rivendica venga distrutto). A tale tipo di periculum rispondono le misure cautelari conservative, dirette a cristallizzare la situazione, così evitando che la realizzazione del diritto possa divenire di fatto impossibile. b. Possibilità che, tenuto conto di natura e funzione del diritto da tutelare, la sua soddisfazione tardiva-data dal procrastinare del termine del processo- risulti inutile o comunque scarsamente utile per il creditore, o arrechi a quest’ultimo un danno non rimediabile ex post (si pensi al caso in cui si controverta di alimenti, sulla base di una situazione di bisogno del creditore, che non sia in gradi di provvedere al proprio sostentamento). A tale tipo di periculum rispondono le misure cautelari anticipatorie, dirette a produrre effetti in tutto o in parte analoghi a quelli derivanti da una sentenza di accoglimento della domanda, anticipando il risultato che il titolare del diritto può sperare di conseguire al termine del processo ordinario. Sezione II: le azioni di cognizione e le sentenze cui conducono Sulla base del tipo di pronuncia che l’attore chiede al giudice, le azioni di cognizioni si distinguono in: azioni di MERO ACCERTAMENTO, azioni di CONDANNA, azoni COSTITUTIVE. a) AZIONE DI MERO ACCERTAMENTO : è quella che mira a fare certezza circa: • l’esistenza e il modo di essere di un determinato rapporto giuridico: azioni di mero accertamento positivo; • Inesistenza di un diritto da altri vantato, che si assume non essere mai sorto oppure essersi estinto (si parla, in tal caso, di azioni di mero accertamento negativo. Assai dibattuto in dottrina è il problema relativo ai limiti di tali azioni: mentre non sembrano sussistere gravi dubbi circa i diritto reali ed assoluti, più controversa è l’ammissibilità del mero accertamento di diritti relativi, aventi ad oggetto una specifica prestazione da parte di un soggetto determinato. Ad un atteggiamento di cautela della dottrina, si contrappone quello di disinvoltura della giurisprudenza che non sembra porsi dubbi circa l’ammissibilità di tali azioni. Tale soluzione poggia su alcune considerazioni, quali: • In alcune ipotesi, l’azione di mero accertamento è la sola forma di tutela concretamente praticabile o comunque idonea a rimuovere una situazione d’incertezza che sia fonte di danno o nocumento per l’attore; • Nonostante la correlazione tra diritto sostanziale e diritto di azioni, spesso il processo è fonte di utilità autonome, non conseguibili al di fuori di esso; • Ogni sentenza che rigetta una domanda è una sentenza di accertamento negativo del diritto dedotto in giudizio dall’attore. Alla luce di ciò può ben pensarsi che l’ammissibilità dell’azione di mero accertamento trovi soluzione positiva alla luce dell’art 24 Cost., e nella riserva di atipicità del diritto d’azione. Ciò ovviamente non esclude che l’azione di mero accertamento incontra, in concreto, rigorose limitazioni. Un primo limite attiene all’oggetto: al pari di qualunque altra azione, anche tale azioni deve vertere, salvo ipotesi espressamente previste dalla legge, su un diritto o uno status e mai sull’esistenza ed interpretazioni di norme giuridiche o su meri fatti. Talune azioni, però, avendo ad oggetto meri fatti giuridici, costituiscono eccezioni a tale principio e sono espressamente previste dalla legge. Tra queste, le azioni che riguardano: - Verificazione di una scrittura privata - Querela di falso nei confronti di un atto pubblico o una scrittura privata autenticata Rilievo di maggiore importanza ha la condizione di sussistenza dell’Interesse ad agire: che in realtà è un presupposto necessario di qualunque azione, ma assume un ruolo determinante per le azioni di mero accertamento, per le quali può costituire un efficace limite. b. AZIONI DI CONDANNA : l’ipotesi più frequente è che l’attore non si limiti a domandare l’accertamento del diritto dedotto in giudizio, ma chieda altresì al giudice di verificare l’intervenuta lesione, a causa dell’inadempimento del debitore e conseguentemente a condannarlo alla prestazione di dare o di fare necessaria per realizzare il proprio interesse. Tale pronuncia è il presupposto per la successiva attuazione coattiva del diritto, vuoi attraverso l’esecuzione forzata, vuoi attraverso altri strumenti, di c.d. esecuzione indiretta. Ed in ciò risiede sicuramente l’effetto tipico e primario della sentenza di condanna, che consiste nella idoneità a dar vita all’esecuzione coattiva. Accanto ad esso, si è soliti discorrere di effetti secondari della condanna, in relazione agli artt 2818 e 2953 c.c. La prima disposizione prevede al 1° che “Ogni sentenza che porta condanna al pagamento di una somma o all’adempimento di altra obbligazione ovvero al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente è titolo per iscrivere ipoteca sui beni del debitore”. Ciò significa che la sentenza di condanna, consente all’attore vittorioso di procurarsi una specifica garanzia nel caso in cui il debitore non adempia spontaneamente. L’art 2953 c.c. stabilisce invece che qualora il diritto dedotto in giudizio sia soggetto a prescrizione più breve di quella ordinaria decennale, la pronuncia di sentenza di condanna passata in giudicato determina la conversione della prescrizione breve in ordinaria, azione esperibile nel termine di 10 anni. L’effetto tipico della sentenza di condanna è il titolo esecutivo, ciò che ha indotto la dottrina a trovare una correlazione tra l’azione di condanna e l’esecuzione forzata. Il processo esecutivo incontra un limite nell’infungibilità, totale o parziale, dell’obbligo gravante sul debitore: si pensi, ad esempio, al cantante che si sia impegnato a tenere un concerto, in tali casi, il diritto può trovare attuazione solo attraverso la cooperazione del debitore stesso. Accanto a questa ipotesi, va considerato il caso degli obblighi di natura negativa, ossia di non fare, gravante sul debitore: si pensi, ad esempio, ai diritti assoluti che implicano, dal lato passivo ed in capo agli erga omnes, il dovere di astenersi da comportamenti che possano turbare il godimento della res. In questi casi si rende necessario, per assicurare l’effettiva realizzazione dell’interesse del titolare leso, il ricorso alle misure coercitive, strumenti di esecuzione indiretta finalizzati a disincentivare l’inadempimento, da parte del debitore, dell’obbligo a lui imposto dalla sentenza di condanna. Tali strumenti non appartengono al diritto processuale ma operano sul terreno sostanziale. Tali misure possono avere natura: - Civile: la riforma del 2009 ha introdotto una misura civile di carattere tendenzialmente generale. Norma di riferimento è l’art. 614bis, ai sensi del quale il giudice, con il provvedimento di condanna e su istanza di parte, fissi, “salvo che ciò sia manifestamente iniquo, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, o per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento”. - Penale: l’unica disposizione idonea ad assicurare l’attuazione di qualunque provvedimento di condanna del giudice civile è rappresentata dall’art 388.1° cp che sanziona chi, “per sottrarsi all’adempimento degli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna, compie, su beni proprio o altrui, atti simulati o fraudolenti o commette allo stesso scopo altri fatti fraudolenti”. In realtà nulla esclude che il legislatore può ricorrere a tali misure anche solo per rafforzare la tutela già offerta dall’esecuzione forzata, allorquando si tratti di dare protezione a diritti che gli stanno particolarmente a cuore. Ma il ricorso a questa tecnica è l’unica soluzione praticabile, quando ci si trovi in tutto o in parte dinanzi ad obblighi infungibili, oppure a obblighi di non fare, rispetto ai quali l’esecuzione forzata non sarebbe utilizzabile. Vi sono talune ipotesi particolari di condanna:  Condanna generica: la norma di riferimento è l’art. 278,1 cpc, ai sensi quel quale, allorquando sia già accertata la sussistenza di un diritto ma sia ancora controversa la quantità della prestazione dovuta, il giudice, su istanza di parte, possa limitarsi a pronunciare con sentenza la condanna generica alla La legittimazione ad agire serve ad individuare la titolarità dell’azione, e il criterio ordinario di legittimazione si desume a contrario dall’art. 81, ai sensi del quale “Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui”. Il diritto di azione, dunque, compete a chiunque faccia valere nel processo un diritto, assumendo di esserne titolare. Dunque, per stabilire se il soggetto che ha proposto la domanda sia legittimato ad agire, si guarda la domanda stessa. Lo stesso art. 81 lascia intendere che vi sono casi, tassativamente indicati dal legislatore, in cui è consentito far valere nel processo, in nome proprio, un diritto altrui. Sono queste le ipotesi di legittimazione straordinaria o sostituzione processuale, nelle quali il sostituito processuale è abilitato ad agire in nome proprio per ottenere un decisione circa un rapporto giuridico di cui è titolare il sostituto. Volendo fare un esempio, si pensi all’azione surrogatoria ex art. 2900 cc, in cui si consente al creditore di esercitare i diritti e le azioni che spettano verso i terzi al debitore, allorquando questi ometta di farlo. Altra fattispecie può verificarsi in tema di impugnazione del matrimonio, allorché la relativa legittimazione sia estesa ai parenti, al Pm e a tutti coloro che ne possono vantare “un interesse legittimo e attuale”, art 117 c.c. Altrettanto limitata è la concreta utilità della nozione di legittimazione a contraddire, invece, attiene alla titolarità passiva dell’azione e spetta a chi, nella prospettazione della domanda, venga individuato quale titolare dell’obbligo dedotto in giudizio. (Il più delle volte si adopera impropriamente, nella pratica, il concetto di “difetto di legittimazione”, con riferimento a situazioni nelle quali, in realtà, è in discussione l’esistenza stessa del diritto vantato dall’attore, ossia una questione attinte al merito della causa. Il problema della legittimazione ad agire può porsi in termini di litisconsorzio necessario, art 102, dove il giudice ha il potere-dovere di verificare che siano stati chiamati a partecipare al giudizio tutti coloro nei cui confronti la decisone deve produrre effetti.) B. Interesse ad agire (art 100): tale condizione dovrebbe assicurare che alla tutela giurisdizionale si acceda solo quando essa risulti obiettivamente utile all’attore. Oggi prevale l’opinione secondo la quale tale condizione svolga un ruolo autonomo solo nell’ambito di: • Azione di mero accertamento: la tesi più diffusa è quella secondo la quale l’interesse ad agire si ricolleghi alla lesione o al pericolo attuale di lesione che deriva all’attore dal permanere di una situazione obiettiva di incertezza circa l’esistenza o inesistenza di un rapporto giuridico; • Azione cautelare; Essa, invece, non svolgere un ruolo autonomo nell’ambito di: • Azione costitutiva: trattandosi di un’azione consentita in ipotesi tipiche, infatti, la valutazione dell’interesse ad agire sarebbe stata compiuta, a monte, dallo stesso legislatore; • Azione di condanna: la sentenza di condanna presuppone una lesione già attuale del diritto, da cui non può scaturire l’interesse alla tutela giurisdizionale. Per esse, proprio l’interesse ad agire potrebbe limitare la proponibilità di azioni di condanna aventi ad oggetto obblighi infungibili di fare o comunque non suscettibili dell’esecuzione forzata, per i quali non fossero concretamente utilizzabili. È il caso di dire che a volte è lo stesso legislatore che dà luogo ad una commistione tra legittimazione e interesse ad agire poiché permette di fare ciò anche a soggetti diversi da quelli che sono i reali titolari del rapporto controverso. Se ne potrebbe arguire, che la decisione che neghi l’una o l’altra di queste c.d. condizioni dell’azione, pur rientrando nel novero delle pronunce meramente processuali, si traduce sempre nella negazione di un diritto: per questo, dunque, anch’essa partecipa dell’efficacia decisoria propria delle sentenza di merito, sebbene non possa fare stato sul rapporto giuridico dedotto in giudizio e sul quale il giudice rifiuta di giudicare proprio per il difetto della legittimazione o interesse ad agire. Ciò consente di distinguere le condizioni dell’azione dai presupposti processuali. Tale categoria abbraccia requisiti eterogenei che possono riguardare: • Instaurazione del processo (si pensi, ad esempio a giurisdizione e competenza del giudice, capacità processuale delle parti, l’esistenza di un valido atto introduttivo) • Prosecuzione dello stesso. Talora si afferma che le condizioni dell’azione, a differenza dei presupposti processuali, potrebbero sopravvivere nel corso del giudizio, ciò è sicuramente esatto, ma non sempre vero, perché i presupposti processuali pur quando attengono all’instaurazione del processo, vale la regola che essi debbano preesistere all’instaurazione del processo. Infatti è possibile che se inizialmente si verifichi il difetto di giurisdizione o di competenza esso venga sanato nel corso del giudizio. CAPITOLO 3 IL PROCESSO CIVILE E LA COSTITUZIONE La nostra Costituzione prevede numerose garanzie relative alla funzione giurisdizionale, la maggior parte delle quali riguarda direttamente la magistratura e solo in via mediata il processo. Con riguardo alla giurisdizione civile, vengono in rilievo: ART 24,25,111 Cost > ART. 25.1°, consacrando il principio di pre-costituzione del giudice per legge, stabilisce che nessuno possa essere “distolto dal giudice naturale precostituito per legge”. Tale principio, dunque, esige che: - I criteri atti ad invidiare il giudice competente siano prestabiliti per legge; - Una volta incardinata la causa dinanzi al giudice così determinato, essa non possa essergli sottratta Tale principio ha un modesto rilievo pratico poiché si ritiene operi solo nei rapporti tra diversi uffici giudiziari e non all’interno di ciascun ufficio. > ART. 24: il comma 1 consacra il diritto di azione cui fa da pendant il diritto di difesa che, ai sensi del comma 2, “è inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”. Stando all’opinione più diffusa, tale disposizione consacra il principio del contraddittorio, che aveva trovato parziale riconoscimento nell’art 101 cpc ma ulteriormente ribadito dall’art. 111.2 Cost. La portata di tali norme è assai ampia poiché, coprendo ogni fase del processo, assicura che le parti abbiano la concreta possibilità di replicare sia difronte ad eventuali nuove allegazioni o richieste dell’avversario sia difronte ad iniziative del giudice da cui possa derivarle un qualche pregiudizio. Non a caso, la riforma del 2009, ha aggiunto un 2° comma al citato 101 cpc, prevedendo espressamente che il giudice allorché ritenga di “porre a fondamento della decisone una questione rilavata d’ufficio”, debba chiedere alla parti, a pena di nullità, un termine per il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione. La costituzionalizzazione del principio del contraddittorio, art 111 “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti”, suscita non lievi dubbi, circa la legittimità che in dei procedimenti speciali il codice prevede che il contraddittorio tra le parti si instauri dopo la pronuncia del provvedimento, perlomeno quado esso sia idoneo a dar luogo ad una qualunque forma di esecuzione forzata in danno alla parte che lo subisce. L’art. 24.2°, inoltre, sancisce il diritto alla difesa tecnica, il diritto ad avvalersi di un intermediario professionalmente qualificato (avvocato) per sostenere le proprie ragioni dinanzi agli organi giudiziari. Il comma seguente, infine, aggiunge che sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. > ART. 111: è stato oggetto di un’importante riforma contenuta nella l. cost. 2/1999. Il comma 1 si apre con la solenne affermazione secondo cui “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”. Tale disposizione, priva di contenuto immediatamente precettivo, si presta a due interpretazioni: - Il “giusto processo” è un concetto di sintesi delle garanzie che il legislatore costituzionale consacra nei successivi commi; - Il “giusto processo” è un concetto finalizzato a dare concreta attuazione all’assetto di interessi astrattamente delineati dal diritto sostanziale, tesi preferibile. Quanto all’espressione “regolato dalla legge” non va intesa in senso assoluto, poiché è inevitabile che alcuni aspetti vengano rimessi al prudente apprezzamento del magistrato, dovendo essere adattati alle peculiarità del singolo processo. Tuttavia, sono posti due limiti: - in primo luogo è esclusa la possibilità di affidare genericamente al giudice l’integrale regolamentazione del processo; - e in secondo luogo ogni eventuale deroga rispetto a tale principio deve essere: ‣ Giustificata dalle peculiarità del processo; ‣ e sufficientemente precisata e circoscritta quanto ai presupposti del potere del giudice. Il comma 2, accanto al principio del contraddittorio, enuncia altri due principi: a. Parità delle armi: il processo deve svolgersi “in condizioni di parità fra le parti”. Trattasi di una specificazione del medesimo principio già desumibile, in termini più generali, dall’art. 3,2 Cost. Tale principio non esclude in assoluto la legittimità di un trattamento processuale differenziato tra le parti alla duplice condizioni che la discriminazione: - Sia ragionevole (giustificata da un’oggettiva disparità delle parti) - Non si traduca in un’indebita compressione del diritto di azione o di difesa b. Ragionevole durata del processo: di “termine ragionevole” discorreva già l’art. 6 della CEDU, ratificata dall’Italia del 1955. Tale principio potrebbe farsi discendere dallo stesso art. 24 Cost: in molti casi, infatti, una decisione favorevole ma tardiva può risultare inutile o poco utile e rischia di risolversi in un diniego di tutela. Trattasi, tuttavia, di un principio privo di ricadute immediate nel processo poiché ogni causa ha tempi fisiologici propri. Il legislatore che volesse assicurarne effettiva attuazione dovrebbe intervenire su due aspetti: - Aspetto organizzativo e strutturale: è necessario garantire un adeguato rapporto tra numero delle controversie e numero dei magistrati; - Aspetto processuale: è necessario garantire strumenti idonei ad evitare che una parte o il giudice possano ritardare ad libitum il momento della decisione. I tempi dei nostri giudizi civili sono andati via via crescendo rispetto agli altri paesi europei, determinando così condanne risarcitoria in capo all’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il legislatore è intervenuto con una legge ad hoc (l. 89/2001, nota come Legge Pinto) per disciplina il diritto ad una equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole previsto dall’art. 6 CEDU. Nel 2012, per far fronte al costante e vertiginoso aumento degli indennizzi a carico dello Stato, con una disposizione di dubbia costituzionalità si è stabilito che il diritto all’equa riparazione è subordinato all’esperimento di taluni “rimedi preventivi”, teoricamente idonei a velocizzare il processo: il novellato art 2.2° della suddetta legge prevede che il “termine ragionevole” si consideri rispettato “se il processo non eccede la durata di 3 anni in primo grado, 2 anni in secondo grado, 1 anno nel giudizio di legittimità”. Ulteriori importanti garanzie dell’art 111 cpc sono previste da: a. Comma 6: sancisce l’obbligo di motivazione, prevedendo che “tutti i provvedimenti giudiziari debbono essere motivati”. La motivazione costituisce un requisito indispensabile per ricostruire l’iter logico della decisione e verificare che essa risponda ai canoni oggettivi derivanti dal diritto e dalla ragione, evitando che il giudice possa risolvere la controversia in base a intuizioni meramente soggettive. Si ritiene che il legislatore abbia voluto riferirsi non a tutti i provvedimento giurisdizionali ma solo a quelli aventi contenuto decisorio. b. Comma 7: ammette il ricorso in Cassazione “per violazione di legge, contro le sentenze pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali”, oltre che “per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”, nei confronti delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti: 8°co. Tale disposizione presuppone l’obbligo per il giudice di decidere secondo la legge. Tale obbligo è ribadito, in termini più puntuali, nell’art 113 cpc, per cui il giudice “deve seguire le norme del diritto, salvo che la legge gli consenta di decidere secondo equità”; ossia di discostarsi dalla soluzione che gli sarebbe imposta da quella norma, per ricavarne altrove, in principi e valori etici o sociali oggettivamente individuabili dallo stesso giudice. A tal proposito occorre distinguere a seconda che il giudizio secondo equità sia: - Previsto dalla legge e quindi necessario: suscita dubbi di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 101.2 (che vuole i giudici soggetti solo alla legge) e 111.7 Cost. Tali dubbi sono stati parzialmente superati da una pronuncia additiva della Corte Costituzionale, che ha ritenuto illegittimo l’art. 113.2° nella parte in cui non prevede che il giudice di pace sia vincolato all’osservanza dei principi informatori della materia. - Fondato sulla comune volontà delle pari: in questo caso non si pongono gravi problemi CAPITOLO 4 LA DOMANDA E LE DIFESE DEL CONVENUTO Considerando che il compito essenziale del giudice è quello di determinare le conseguenze giuridiche derivanti da certi fatti, ben si comprende come un problema centrale sia quello di stabilire chi e come può introdurre nel processo i fatti e, di quali fatti il giudice deve tenere conto. Cosi ad es., il diritto alla risoluzione del contratto per vizi della cosa venduta presuppone tra l’altro: che sia stato concluso un contratto di compravendita; che tale contratto sia nullo; che la cosa sia affetta da vizi che la rendono inidonea all’uso cui è destinata o ne diminuisca in modo apprezzabile il valor; che il vizio sia denunciato dal compratore entro 8 gg dalla scoperta; che il compratore, al momento del contratto, abbia ignorato i vizi della cosa e che questi, Dopo la riforma del 1950, avendo ammesso lo ius variandi, si è consolidato l’orientamento secondo il quale occorre distinguere nettamente tra: - Mutatio libelli: è il mutamento della domanda, precluso in ogni caso e in qualunque momento - Emendatio libelli: è la modifica non sostanziale della domanda, espressamente consentita entro la fase di trattazione iniziale della causa. Una recente decisone delle Sezioni Unite, invece, ha sconfessato l’orientamento tradizionale, riconoscendo che la modificazione deve riguardare la medesima vicenda dedotta in giudizio e deve presentarsi come alternativa rispetto alla domanda originaria, nel senso che non deve aggiungersi, ma bensì la deve sostituire. • Precisazione della domanda: è un quid minus rispetto alla modificazione ed è soggetta ad un regime processuale più liberale, essendo consentita per tutto il corso del processo. Anche in questo caso essendo minimi il confine tra le due fattispecie, sono intervenute le S.U., secondo cui rientrerebbero nel concetto di “precisazione”, tutti quegli interventi che non incidono la domanda iniziale, ma che servono a definirla meglio, chiarirla, puntualizzarla, circostanziarla. A titolo esemplificativo, costituiscono precisazione: - Quanto al petitum, l’indicazione del quantum della domanda o la sua variazione in aumento, non dovendo mutare i fatti costitutivi e le causali inizialmente indicate; - Quanto alla causa pretendi, ogni variazione di elementi di diritto della domanda o di circostanze marginali relative ai fatti principali, tali da far ritenere immutati i fatti stessi. V’è da aggiungere che dovrebbe rimanere del tutto estranea alla precisazione della domanda la variazione o l’allegazione di nuovi fatti secondari, intendendoli come qualitativamente diversi dai fatti principali. Difronte alla domanda, il convenuto può difendersi attraverso: A. ECCEZIONI PROCESSUALI: sono quelle con cui si contesta la possibilità di decidere attualmente il merito della causa, in ragione del difetto di un presupposto processuale o di una condizione dell’azione, o a causa dell’invalidità di uno o più atti processuali. L’accoglimento dell’eccezione può condurre a: • Sentenza di rigetto in rito, per ragioni meramente processuali; • oppure, quando il vizio sia rimediabile ad un provvedimento diretto alla regolarizzazione del processo B. MERE DIFESE: possono consistere in: • Argomentazioni puramente giuridiche volte a confutare le conclusioni dell’avversario; • Contestazione dei fatti che l’avversario ha allegato a fondamento della domanda, vuoi attraverso la negazione diretta dei fatti, vuoi con allegazione di altri fatti rispetto ad essi incompatibili. Per la formulazione di tali difese, in linea di principio, il nostro ordinamento non prevede alcuna specifica limitazione temporale. C. ECCEZIONI DI MERITO: consistono nell’allegazione di un fatto impeditivo, estintivo o modificativo diretta a conseguire il rigetto della domanda. L’eccezione non estende in nessun caso l’oggetto del processo poiché tende semplicemente a far accertare l’inesistenza del diritto già dedotto in giudizio. Tali eccezioni si distinguono in: • Eccezioni in senso stretto: riguardano fatti riservati alle parti e sono ammesse nella sola fase iniziale del processo di primo grado • Eccezioni in senso lato: riguardano fatti il cui effetti impeditivo, estintivo o modificativo, una volta allegati al processo, dev’essere rilevato d’ufficio dal giudice. Esso sono consentite anche in appello. Non è pacifico quale sia il criterio distintivo tra le due categorie. Dottrina e giurisprudenza più recenti ritengono che esso sia rappresentato dalla rilevabilità d’ufficio. Tale conclusione viene fatta discendere, argomentando a contrario, dall’art. 112 secondo il qual il giudice non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte solo dalle parti. Tale principio subisce deroga in tre casi: a. Quando la legge dispone diversamente; b. Quando l’effetto estintivo, impeditivo o modificativo si ricollega all’esercizio di un diritto potestativo o di un contro-diritto che potrebbe essere fatto valere con un’autonoma azione costitutiva; c. Quando la parte interessata è libera di disporre di quell’effetto estintivo, impeditivo o modificativo, eventualmente rinunciando a farlo valere. D. ECCEZIONI E DOMANDE RICONVENZIONALI: non rappresentano una categoria a sé stante ma si caratterizzano per il sol fatto di avere ad oggetto non un fatto semplice ma un fatto-diritto (e, più nello specifico, un contro-diritto che il destinatario della domanda potrebbe far valere in un autonomo giudizio ma che utilizza, invece, al sol fine di ottenere il rigetto della domanda).
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