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Procedura civile II - riassunti, Sintesi del corso di Diritto Processuale Civile

Il riassunto è stato redatto sulla base dell'ascolto delle video-lezioni, Queste ultime però non affrontano tutti gli argomenti richiesti dal programma, pertanto si è proceduto con l'integrazione mediante l'utilizzo del testo.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 19/09/2020

marika.foschi
marika.foschi 🇮🇹

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Scarica Procedura civile II - riassunti e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! DIRITTO PROCESSUALE CIVILE II 1. IL PROCESSO DEL LAVORO Il processo del lavoro è disciplinato dal codice di procedura civile, agli artt. 409-447 bis, introdotti con la legge n. 533/1973. Esso rappresenta un procedimento a cognizione piena ma con rito speciale (mediante regole che si discostano da quelle del rito ordinario). La disciplina del processo del lavoro è una disciplina particolare in quanto predisposta in considerazione della peculiarità del rapporto di lavoro; in particolare in questo ambito sussiste una parte debole, ossia il prestatore di lavoro che ha necessità di un giudizio celere, necessità soddisfatta da alcuni strumenti utilizzati dal legislatore: - Rigido sistema di preclusioni sulla produzione dei mezzi di prova e sulla proponibilità delle eccezioni; - Attribuzione di ampi poteri istruttori al giudice; - Udienza unica, almeno in via tendenziale; - Lettura del dispositivo al termine dell’udienza stessa, immediatamente esecutiva; - Valorizzazione del tentativo di conciliazione (prima della riforma del c.d. Collegato lavoro era obbligatoria, condizione di procedibilità della domanda). L’accelerazione dell’iter cognitivo viene data principalmente dalla realizzazione dei principi dell’oralità, della concentrazione e dell’immediatezza del processo. 1.1. AMBITO DI APPLICAZIONE Le norme sul rito del lavoro si applicano ad una serie ben definita di controversie elencate dall’art. 409 c.p.c.: a) Rapporti di lavoro subordinato privato, anche se non inerenti all’esercizio di un’impresa  si riferisce ad ogni rapporto di lavoro subordinato, includendo quelli in cui il DL non è un imprenditore quindi anche rapporti di collaborazione familiare o di dipendenza da un professionista; b) Rapporti di mezzadria, di affitto a coltivatore diretto nonché rapporti derivanti da altri contratti agrari, salva la competenza delle sezioni specializzate agrarie; c) Rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale e altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale anche se non a carattere subordinato  rileva particolarmente la struttura del prestatore e la sua capacità di autodeterminarsi: ad esempio se l’agente è una persona fisica si tratterà di rapporto parasubordinato rientrante nel 409, mentre se è una società di capitali allora il rapporto sarà governato dalle disposizioni del procedimento ordinario; d) Rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici che svolgano prevalentemente attività economica; e) Rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici sempreché non sia devoluti dalla legge ad altro giudice  il profilo dei dipendenti pubblici deve fare i conti con l’art. 63 della l. n. 165/2001 il quale prevede che la maggior parte delle controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle PA siano devolute al giudice ordinario. 1.2. IL TENTATIVO DI CONCILIAZIONE E L’ARBITRATO IRRITUALE IN MATERIA DI LAVORO La l. n. 183/2010 (c.d. Collegato lavoro) introduce un sistema ampiamente diverso da quello precedente, sintetizzabile nella previsione, e non più nella obbligatorietà, del tentativo di conciliazione preprocessuale. Secondo l’art. 410 c.p.c. chi intende proporre in giudizio una istanza relativa ai rapporti previsti dall’art. 409 c.p.c., può promuovere, anche tramite l’associazione sindacale alla quale aderisce o conferisce mandato, un previo tentativo di conciliazione presso la Commissione di conciliazione competente per territorio (istituite presso le Direzioni provinciali del lavoro e composte da rappresentanti dei sindacati dei lavoratori e delle organizzazioni datoriali). La richiesta del tentativo di conciliazione, sottoscritta dall’istante, deve contenere: 1) Nome, cognome e residenza (se una persona giuridica: denominazione e sede) delle parti; 2) Il luogo ove è sorto il rapporto ovvero dove si trova l’azienda o sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto di lavoro; 3) Il luogo dove devono essere fatte le comunicazioni alla parte istante, inerenti alla procedura; 4) L’esposizione dei fatti e delle ragioni posti a fondamento della pretesa. Una copia della comunicazione è inviata mediante Raccomandata A/R (o consegnata) alla controparte e una è depositata presso la sede della Commissione. La controparte decide se: - Rifiutare la via della conciliazione  (oppure se il tentativo fallisce) ciascuna della parti è libera di adire l’autorità giudiziaria; - Accettare di percorrere la via della conciliazione deve depositare presso la Commissione, nei 20 giorni successivi al ricevimento della richiesta, una memoria (senza vincoli di formalità) che indichi le difese, le eccezioni in fatto e in diritto (richiesta che abbia la funzione di contrastare la domanda) e le eventuali domande riconvenzionali (ovverosia una vera e propria contro-domanda che amplia il thema decidendum). La Commissione entro i 10 giorni successivi al deposito dell’istanza, fissa la comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione, che deve tenersi entro i successivi 30 giorni. e il lavoratore può farsi assistere da un’organizzazione cui aderisce o conferisce mandato: o Se la conciliazione riesce, (art. 411 c.p.c.) anche limitatamente ad una parte della domanda, viene redatto e sottoscritto un verbale di conciliazione che poi il giudice renderà esecutivo con decreto, su istanza della parte interessata. o Se l’accordo non si forma, la Commissione di conciliazione deve formulare essa stessa una proposta di accordo per la definizione bonaria della controversia:  Se la proposta non viene accettata (senza fornire adeguate motivazioni) il giudice ne terrà conto in sede del successivo giudizio, non solo per calibrare le spese di lite ma anche come comportamento rilevante ai fini della decisione. Vi è poi una terza via tra il fallimento e la riuscita della conciliazione: si tratta della possibilità prevista dall’ art. 412 c.p.c. di affidare di comune accordo, la soluzione della lite alla Commissione di conciliazione, che viene ad acquisire la veste di arbitro diventando un organo decisorio. Il lodo che verrà emesso ha natura contrattuale ed è infatti impugnabile dinanzi al Tribunale del lavoro competente (non presso la Corte d’Appello), entro 30 giorni dall’emanazione. Tuttavia se il lodo non viene impugnato o questo è confermato dal Tribunale, può essere reso esecutivo. Si deve aggiungere che il tentativo di conciliazione può anche essere esperito in sede sindacale (art. 412 ter); in tal caso non troveranno applicazione le disposizioni di cui all’art. 410 c.p.c.. Le ipotesi fino ad ora considerate riguardano in ogni caso il tentativo di conciliazione, sul tronco del quale può eventualmente innestarsi l’arbitrato. Ma il legislatore va oltre e prevede che le controversie di lavoro possano essere direttamente deferite in arbitri; in altre parole oltre al ricorso al giudice e all’avvio della procedura conciliativa (che può sboccare in arbitrato) è prevista la possibilità di avviare direttamente un arbitrato irrituale. Al riguardo è necessario tenere distinte due fattispecie: - Quella regolata dall’art. 412-quater c.p.c.  qui si tratta di una controversia già insorta che le parti decidono di affidare, al termine di un fallito tentativo di conciliazione, ad un Collegio di conciliazione e arbitrato irrituale costituito da un rappresentante di ciascuna delle parti e un terzo membro, in funzione di presidente, scelto di comune accordo dai rappresentanti delle parti, fra professori universitari di materie giuridiche e gli avvocati patrocinanti in Cassazione; - Quella regolata dell’art. 31 L. n. 183/2010  qui ci si trova di fronte a una clausola compromissoria, che dispone il deferimento in arbitri delle future controversie che eventualmente dovessero nascere dal rapporto di lavoro, ove ciò sia previsto in accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali maggiormente rappresentative sul piano nazionale. La clausola deve essere certificata, in modo da verificare l’effettiva volontà delle parti: non può essere pattuita durante il periodo di prova e soprattutto non può riguardare controversie relative alla risoluzione del contratto. 1.3. COMPETENZA PER MATERIA E PER TERRITORIO L’art. 413 c.p.c. stabilisce due criteri per l’individuazione del giudice competente sulle controversie di lavoro: 1. PER MATERIA  contenuta nel comma 1, art. 413 c.p.c. secondo il quale tutte le controversie previste dall’art. 409 del codice di rito, rientrano nella competenza del Tribunale in funzione di giudice del lavoro. Con questa locuzione il legislatore ha voluto far intendere di non aver creato né un giudice speciale, né un giudice specializzato; quando il Tribunale (giudice ordinario) decide una controversia di lavoro tra quelle previste dall’art. 409, applica il rito del processo del lavoro. Di conseguenza, l’applicazione o meno del rito del lavoro non dà origine a questioni di competenza, se mai a un mutamento del rito (art. 426-427 c.p.c.); 2. PER TERRITORIO  l’art. 413 c.p.c., comma 2, prevede tre criteri di competenza territoriale concorrenti. Pertanto sotto il profilo del territorio, la competenza è attribuita al giudice nella cui circoscrizione è sorto il rapporto, oppure al giudice nella cui circoscrizione si trova l’azienda (la giurisprudenza intende come sede dell’azienda quella effettiva che può non coincidere con quella legale) o una sua dipendenza (complesso di beni decentrato e munito di propria individualità, organizzazione) alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto. Quando non sia applicabile nessuno di questi criteri si adotta in via residuale l’art. 18 (foro generale delle persone fisiche). Della rilevabilità dell’incompetenza tratta l’art. 428 c.p.c. il quale sancisce che “Quando una causa relativa ai rapporti di cui all'articolo 409 sia stata proposta a giudice incompetente, l'incompetenza può essere eccepita dal convenuto soltanto nella memoria difensiva di cui all'articolo 416 ovvero rilevata d'ufficio dal giudice non oltre l'udienza di cui all'articolo 420 (udienza di discussione)”. convenuta potrà essere presente in giudizio anche con una persona fisica diversa dal legale rappresentante ma si impone una precisa conoscenza dei fatti per rendere l’interrogatorio fruttuoso e la conciliazione possibile. La comparizione personale, ad ogni modo consente l’interrogatorio libero delle parti, dal quale il giudice trae argomenti di prova; successivamente tenta la conciliazione della lite formulando una proposta transattiva o conciliativa. La mancata comparizione personale delle parti, ovvero il rifiuto della proposta del giudice senza giustificato motivo, costituiscono comportamento valutabile dal giudice ai fini della decisione. I possibili esiti di questa prima udienza dunque sono: - LA CONCILIAZIONE RIESCE, ne viene redatto apposito verbale che ha efficacia di titolo esecutivo per quanto riguarda le pattuizioni in esso contenute. - LA CONCILIAZIONE NON RIESCE, il giudice si trova dinanzi ad un bivio: o Se ritiene che non sia necessaria l’istruttoria, invita le parti a discutere la causa e pronuncia la sentenza, anche non definitiva, dando lettura del dispositivo; o Se invece occorre istruttoria il giudice ammette in udienza i mezzi di prova già proposti dalle parti e quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima, se ritiene che siano rilevanti, disponendo con un’ordinanza per l’immediata assunzione delle prove. Se vi sono testimoni, ad esempio, essi dovrebbero già essere presenti fuori dalle porte per essere chiamati a deporre. In pratica è molto difficile che ciò sia possibile in una sola udienza e pertanto si dispone (al comma 6 dell’art. 420) che, qualora non sia possibile assumere subito le prove, il giudice fissa altra udienza (UDIENZA DI RINVIO) non oltre 10 giorni dalla prima. Entro 5 giorni prima della nuova udienza le parti possono presentare in cancelleria le note difensive compresi mezzi di prova non dedotti negli scritti introduttivi. In caso di necessità di CONSULENZA TECNICA invece, il consulente può essere autorizzato a riferire verbalmente; se il consulente chiede di presentare relazione scritta, il giudice fissa un termine non superiore a 20 giorni, non prorogabile, rinviando la trattazione ad altra udienza. 1.6. I POTERI ISTRUTTORI DEL GIUDICE Il rito del lavoro è propriamente un PROCESSO A CARATTERE INQUISITORIO: al giudice è attribuita una pienezza di iniziativa di indagine sconosciuta al giudice del rito ordinario. Ai sensi dell’art. 421 c.p.c. infatti, il giudice può indicare alle parti in ogni momento, le irregolarità di atti e documenti che possono essere sanate. Al comma 2 dello stesso articolo si dispone poi che esso assume poteri autonomi nella RICERCA DELLE PROVE: “può altresì disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio” ; disporre di più elementi di prova significa poter decidere in modo più rispondente al vero. Unico contrappeso è il DIRITTO DELLE PARTI DI DEPOSTARE NOTE DIFENSIVE: il giudice quando esercita il proprio potere officioso, deve comunque fissare un’altra udienza, concedendo alle parti un termine perentorio non superiore a cinque giorni prima dell’udienza di rinvio per il deposito delle note in cancelleria. Il giudice può disporre inoltre, la richiesta di INFORMAZIONI E OSSERVAZIONI, SIA SCRITTE CHE ORALI, ALLE ASSOCIAZIONI SINDACALI INDICATE DALLE PARTI. Può inoltre ordinare la COMPARIZIONE DI QUELLE PERSONE INCAPACI di testimoniare in quanto portatori di un interesse che legittimerebbe il loro intervento. IN questo caso le risposte fornite dalle persone sentite non avranno valore di prova ma solo di argomento di prova ossia un valore inferiore in quanto l’argomento di prova da solo non può fondare una decisione ma insieme ad altri elementi può consentire al giudice di corroborare e rafforzare il convincimento e darne adeguata motivazione (testualmente indicato in dottrina come uno 0 a cui se si affianca un numero si dà un valore). Il giudice può inoltre, nominare consulenti tecnici, disporre l’ACCESSO SUL LUOGO DI LAVORO e l’esame dei testimoni in loco purché necessario al fine dell’accertamento dei fatti. Vi è da dire che la prassi attuale è decisamente più morbida e meno invasiva: fa da esempio l’art. 422 c.p.c. il quale attribuiva al giudice la facoltà di autorizzare la sostituzione della verbalizzazione da parte del cancelliere con la registrazione su nastro delle deposizioni di testi e delle audizioni delle parti e dei consulenti, dando così modo al giudice di cogliere quelle sfumature del parlato che andavano perdendosi nella freddezza della verbalizzazione. Purtroppo ciò è stato utilizzato poche volte anche a causa della mancanza di adeguamento tecnico dei tribunali. 1.7. LA FASE DECISORIA a) Le ordinanze provvisorie L’art. 423 c.p.c. prevede la possibilità di due diverse pronunce di condanna in via provvisoria: l’una sul fondamento della non contestazione di un debito di somme di denaro e l’altra fondata su un già conseguito accertamento (e nei limiti di tale accertamento). Secondo il comma 1 dell’art. 423 c.p.c., infatti, il giudice prima di pronunciare la sentenza definitiva, in ogni stato del giudizio, su istanza di parte (ciascuna delle due parti), dispone con ordinanza il pagamento delle somme non contestate. Il comma 2, invece, prevede che in ogni stato del giudizio, il giudice può, su istanza del lavoratore, disporre con ordinanza il pagamento di una somma a titolo provvisorio quando ritenga il diritto accertato e nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova. Quest’ultimo tipo di ordinanza è revocabile con la sentenza che decide la causa, ma entrambe le ordinanze costituiscono titolo esecutivo. b) La pronuncia della sentenza e la sua esecutorietà Esaurita la fase istruttoria, il giudice invita le parti a discutere la causa e a precisare le conclusioni. Il provvedimento che chiude il giudizio in via definitiva è la sentenza, la cui pronuncia avviene al termine dell’udienza di discussione (sia quella fissata inizialmente o quella disposta ai termini dell’art. 420 comma 6). Nell’udienza, il giudice, dispone l’art. 429 c.p.c., pronuncia sentenza con la quale definisce il giudizio dando lettura del dispositivo, nonché dell’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. Il testo completo della sentenza, invece, verrà depositato in cancelleria nel termine ordinatorio di 15 giorni dalla pronuncia. Qualora la sentenza sia di condanna di pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, dunque solo a favore del lavoratore, il 3° comma dell’art. 429 c.p.c. dispone che il giudice deve determinare, oltre agli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito. Quanto all’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, l’art. 431 prevede una diversa disciplina per l’esecutorietà della sentenza, a seconda che questa sia favorevole al lavoratore o al datore di lavoro : nel primo caso il lavoratore potrà procedere all’esecuzione sulla sola base del dispositivo letto in udienza, prima che la sentenza venga depositata; il giudice dell’appello potrà sospenderne l’esecuzione quando dalla stessa possa derivare all’altra parte (il datore di lavoro) un danno gravissimo. Nel secondo caso, ossia che la sentenza sia favorevole al datore di lavoro, si torna al regime ordinario; la sentenza è provvisoriamente esecutiva e soggetta alla disciplina degli artt. 282 e 283 c.p.c. e il giudice dell’appello potrà sospenderne l’esecuzione quando ricorrano gravi motivi. 1.8. L’APPELLO NEL PROCESSO DEL LAVORO Le sentenze del tribunale pronunciate secondo il rito del lavoro sono appellabili innanzi alla Corte d’Appello in funzione di giudice del lavoro (art. 433 c.p.c.) fatta eccezione ex art. 440 c.p.c. per le sentenze che hanno deciso una controversia di valore non superiore a € 25,82. Giudice competente per l’appello, con riguardo alla materia, è la Corte d’Appello mentre con riguardo al territorio, è competente la Corte nel cui circondario si trova il tribunale che ha pronunciato in primo grado. Anche in appello l’atto introduttivo è il ricorso che contiene (art. 434 c.p.c.) “le indicazioni prescritte dall’art. 414” ovvero gli elementi propri del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, ma l’appello deve essere motivato: oltre all’esposizione sommaria dei fatti, deve contenere i motivi specifici dell’impugnazione (parti del provvedimento che si intende appellare, le modifiche richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado, l’indicazione della circostanza da cui deriva la violazione della legge…). Il ricorso deve essere depositato nella cancelleria del giudice competente entro 30 giorni dalla notificazione della sentenza nella sua integralità. Il presidente della Corte entro 5 giorni dal deposito nomina il giudice relatore e fissa mediante decreto, l’udienza di discussione non oltre 60 giorni dalla medesima data. L’appellante entro i 10 giorni successivi alla comunicazione del deposito del decreto presidenziale, provvede alla notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza all’appellato. Tra la data di notificazione all’appellato e quella dell’udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di 25 giorni (art. 435 c.p.c.). Per quanto riguarda l’appellato, egli dovrà costituirsi in cancelleria depositando il fascicolo di parte e una memoria difensiva nella quale deve dettagliatamente svolgere tutte le sue difese. Il giudizio ricalca quello di primo grado: all’udienza di discussione il giudice incaricato provvede alla relazione orale della causa e il collegio, sentite le difese, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo nella medesima udienza. Ovviamente in questa fase, come nel procedimento ordinario, non sono ammesse nuove domande, nuove eccezioni e nuovi mezzi di prova, salvo che il collegio anche d’ufficio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa. Qualora vengano ammessi nuovi mezzi di prova, questi dovranno essere assunti in una successiva udienza da tenersi entro 20 giorni. 1.9. L’APPELLO CON RISERVA DEI MOTIVI In caso di condanna a favore del lavoratore, è possibile procedere ad esecuzione forzata sulla sola base del dispositivo (art. 431); ne consegue che è necessario predisporre un contrappeso per consentire alla parte soccombente di chiedere al giudice una sospensione dell’esecuzione ove ne sussistano i presupposti. Qualora l’esecuzione forzata sia iniziata prima del deposito e della conseguente notificazione dell’intera sentenza motivata, è possibile quindi presentare appello con riserva dei motivi (art. 433, 2° comma, c.p.c.), istituto peculiare del rito del lavoro. I motivi posti in riserva, dovranno essere presentati nei termini di cui all’art. 434 c.p.c. ossia entro 30 giorni dalla notificazione della sentenza, quando il DL sarà posto quindi in condizione di conoscere le motivazioni della sentenza a suo sfavore. Si tratta di un atto di appello ridotto all’osso che presenterà la sola richiesta di riforma della sentenza senza motivi specifici. A questo punto, in forza dell’art. 431 c.p.c. il giudice di appello può disporre con ordinanza non impugnabile, che l’esecuzione forzata sia sospesa (anche solo parzialmente) quando dalla stessa possa derivare all’altra parte gravissimo danno. 1.10. IL RICORSO IMMEDIATO PER CASSAZIONE ex art. 420 bis La recente riforma del codice di procedura civile ha introdotto importanti modifiche al processo del lavoro tra le quali l’inserimento nel Codice di procedura civile dell’articolo 420-bis “accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi”, il quale recita «Quando per la definizione di una controversia di cui all’articolo 409 è necessario risolvere in via pregiudiziale una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale, il giudice decide con sentenza tale questione, impartendo distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione o, comunque, per la prosecuzione della causa fissando una successiva udienza in data non anteriore a novanta giorni. La sentenza è impugnabile soltanto con ricorso immediato per Cassazione da proporsi entro sessanta giorni dalla comunicazione dell’avviso di deposito della sentenza. Copia del ricorso per Cassazione deve, a pena di inammissibilità del ricorso, essere depositata presso la cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza impugnata entro venti giorni dalla notificazione del ricorso alle altre parti; il processo è sospeso dalla data del deposito». Già l’articolo 64 del Testo unico sul pubblico impiego prevedeva la medesima disciplina e in conseguenza di tali considerazioni, dobbiamo dedurre che si è ritenuto di estendere tale procedura pregiudiziale (ovviamente escludendo la fase davanti all’A.Ra.N.) anche al procedimento relativo alle controversie di lavoro del settore privato. 2. IL PROCESSO DI ESECUZIONE FORZATA Il processo esecutivo costituisce l’oggetto della disciplina contenuta nel terzo libro del codice di procedura civile. Anche la disciplina del processo di esecuzione è di tipo descrittivo nel senso che consiste in una serie di norme che prescrivono la serie di atti nei quali si articola il processo di esecuzione. Vi è un momento in cui l’attività di giudizio e di cautela termina e l’effettiva tutela dell’avente diritto, a cui a favore è stata emessa una pronuncia di condanna, deve tradursi in una attività materiale: il pagamento di somme, l’effettuazione di opere, la consegna di beni e via dicendo. Si apre allora la fase dell’esecuzione forzata. L’esecuzione si distingue dalla cognizione poiché quest’ultima ha per oggetto un giudizio, un’attività logica ed intellettuale, mentre l’altra riguarda cose e attività materiali. La cognizione può sempre dare un risultato, mentre la stessa cosa non si può dire per l’esecuzione, la quale potrebbe avere anche esito negativo perché il debitore non ha più nulla nel suo patrimonio o la cosa da consegnare è andata irrimediabilmente distrutta. I soggetti ai quali fa capo l’attività processuale esecutiva sono, da un lato l’organo esecutivo (ufficio giudiziario) e dell’altro lato, i soggetti che corrispondono a coloro che nel processo di cognizione sono l’attore e il convenuto ossia i soggetti che rispettivamente chiedono o nei cui confronti si chiede la tutela giurisdizionale esecutiva. E poiché questa tutela consiste nel dare esecuzione a un diritto già accertato in capo ad un soggetto che, rispetto a quel diritto, è un creditore e nei confronti di un soggetto che, sempre rispetto a quel diritto, è un debitore, queste sono appunto le qualifiche con le quali vengono in rilievo i soggetti nel processo esecutivo. Si può dire che il creditore quando propone la domanda esecutiva ed esercita l’azione, è in un certo senso attore ma non si può dire che il debitore sia assimilabile al convenuto: egli subisce l’esecuzione di un diritto già accertato, non c’è bisogno (almeno di regola) di L’art. 475 c.p.c. dispone che “Le sentenze e gli altri provvedimenti dell'autorità giudiziaria e gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale, per valere come titolo per l'esecuzione forzata, debbono essere muniti della formula esecutiva, salvo che la legge disponga altrimenti”. L’apposizione di questa formula, da parte del cancelliere o notaio o altro pubblico ufficiale, sull'originale o sulla copia, il cui testo risulta dal comma 3 del medesimo articolo («Comandiamo a tutti gli ufficiali giudiziari che ne siano richiesti e a chiunque spetti, di mettere a esecuzione il presente titolo, al pubblico ministero di darvi assistenza, e a tutti gli ufficiali della forza pubblica di concorrervi, quando ne siano legalmente richiesti».”), preceduta dall’intestazione “«Repubblica Italiana - In nome della legge»”, costituisce la c.d. spedizione del titolo in forma esecutiva. I titoli che necessitano della spedizione in forma esecutiva sono le sentenze e gli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria (tutti i titoli di natura giudiziale) nonché gli atti formati da notaio o da altro pubblico ufficiale (alcuni titoli esecutivi di natura stragiudiziale). La ragione è data dal fatto che l’originale di questi titoli esecutivi si trova depositato, a seconda dei casi, presso la cancelleria del giudice o presso il pubblico ufficiale che ha formato l’atto, dunque il creditore deve necessariamente servirsi di una copia autentica per la notifica. La spedizione in forma esecutiva è consentita di regola una sola volta a favore di una determinata parte. In tal modo si mira ad evitare che in relazione al medesimo titolo esecutivo, il creditore possa utilizzare più copie autentiche al fine di promuovere diversi processi esecutivi sulla base dello stesso titolo. 2.4. GLI ATTI PREPARATORI AL PROCESSO ESECUTIVO Vi sono alcuni atti che devono essere compiuti prima dell’inizio del processo esecutivo, pertanto definiti atti preparatori o preliminari. Tali atti, che sono la notificazione al debitore del titolo esecutivo e la notificazione al debitore del precetto, hanno la funzione di preannunciare solennemente al debitore il proposito del creditore di procedere all’esecuzione forzata, per il conseguimento di quel diritto che emerge dal titolo stesso. Al debitore viene fatta una specifica intimazione ad adempiere (precetto) offrendo al debitore, da un lato l’ultima possibilità di eseguire il proprio obbligo spontaneamente così evitando di subire l’esecuzione e le relative spese, e dall’altro, la possibilità di conoscere tutti gli elementi dell’azione preannunciata onde valutare le concrete possibilità di contestarne la legittimità prima ancora del suo effettivo esercizio. L’art. 479, comma 1, c.p.c. enuncia che “Se la legge non dispone altrimenti, l'esecuzione forzata deve essere preceduta dalla notificazione del titolo in forma esecutiva e del precetto”. Il primo degli atti preparatori è dunque la notificazione del titolo esecutivo che consiste nella consegna al debitore, nei modi determinati dalla legge, da parte dell’ufficiale giudiziario, di una copia autentica del titolo esecutivo. Titolo esecutivo e precetto possono essere notificati al debitore oltre che separatamente, anche congiuntamente. La notifica del precetto tuttavia, deve essere necessariamente successiva alla notifica del titolo in forma esecutiva quando: - L’esecuzione è promossa contro gli eredi  il precetto deve essere necessariamente notificato almeno 10 giorni dopo la notifica del titolo; - L’esecuzione è diretta contro un’amministrazione dello Stato o un ente pubblico non economico  tra la notifica del titolo e quella del precetto devono trascorrere almeno 120 giorni. La ratio è quella di favorire l’adempimento del debitore consentendogli di evitare le maggiori spese del precetto. Il comma 2 dell’art. 479 c.p.c. dispone che la notificazione del titolo esecutivo va fatta alla parte, personalmente. Qualora avvenga congiuntamente al precetto, trova nuovamente affermazione il fatto che la notificazione deve essere fatta personalmente poiché ai sensi dell’art. 480 c.p.c. anche la notificazione del precetto è da farsi alla parte, personalmente. Per i titoli esecutivi di cui all’art. 474, comma 2, n. 2, c.p.c. per i quali la legge non prevede la spedizione in forma esecutiva – in quanto il creditore possiede l’originale- non è prevista l’autonoma notificazione, bensì la trascrizione integrale del titolo all’interno dell’atto di precetto. La corrispondenza del contenuto trascritto sul precetto con il titolo originale, deve essere certificata dall’ufficiale giudiziario prima della notificazione. 2.5. IL PRECETTO Secondo la definizione dell’art. 480 c.p.c. il precetto è l’atto con cui il creditore intima il debitore di adempiere all’obbligo di risultante dal titolo esecutivo entro un termine non inferiore a 10 giorni , con l’avvertimento che in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata. Al debitore viene dunque fatta una specifica intimazione ad adempiere (precetto) offrendo al debitore, da un lato l’ultima possibilità di eseguire il proprio obbligo spontaneamente così evitando di subire l’esecuzione e le relative spese, e dall’altro, la possibilità di conoscere tutti gli elementi dell’azione preannunciata onde valutare le concrete possibilità di contestarne la legittimità prima ancora del suo effettivo esercizio. Il precetto deve contenere: - L’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal titolo, entro un termine non minore di 10 giorni  questo comporta che necessariamente l’esecuzione non può iniziare prima che siano trascorsi 10 giorni dalla notifica del precetto; - L’avvertimento che in mancanza di adempimento spontaneo si procederà ad esecuzione forzata; - A pena di nullità, l’indicazione delle parti, la data della notifica del titolo e nel caso di cambiali, il testo integrale della cambiale. La sottoscrizione del precetto a norma dell’art. 125 c.p.c. (ad opera della parte personalmente o del difensore munito di procura) è richiesta dall’art. 480, comma 4, ma il precetto non sottoscritto, secondo la norma, non commina la nullità anche se non si vede come tale conseguenza possa essere evitata, attesa la funzione della sottoscrizione. Il precetto deve essere notificato alla parte personalmente e consiste nella consegna, da parte dell’ufficiale giudiziario al destinatario, di una copia autentica del precetto, debitamente sottoscritta. La notificazione del precetto, a differenza della notificazione del titolo esecutivo, non ha efficacia indefinita: ha un’efficacia nel tempo di 90 giorni dalla notificazione che si perfeziona solo con la consegna al destinatario. Se entro tale termine l’esecuzione forzata non viene iniziata, l’avvenuta notificazione non è più utilizzabile nel senso che per dare validamente inizio all’esecuzione occorre un nuovo atto di precetto da notificare. Entro 90 giorni allora, il creditore deve iniziare il processo esecutivo, deve dare impulso al processo, pena la possibilità per l’esecutato di porre nel nulla l’esecuzione iniziata tardivamente mediante l’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.. Nei 90 giorni successivi alla notifica del precetto, quindi, il creditore dovrà alternativamente ai casi: - Procedere al pignoramento nei casi dell’espropriazione forzata; - Provvedere affinché ci sia il primo accesso dell’ufficiale giudiziario nel caso della consegna di bene mobile; - Notificare il preavviso di rilascio nel caso di esecuzione in forma specifica per il rilascio di un bene immobile; - Ricorrere al giudice per la determinazione delle modalità dell’esecuzione dell’obbligo di fare o di non fare, nell’ipotesi di esecuzione in forma specifica degli obblighi di fare e di non fare. 2.6. FORME DELL’ESPROPRIAZIONE FORZATA L’art. 2910 c.c. enuncia che “il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può far espropriare i beni del debitore secondo le regole stabilite dal codice di procedura civile”. L’espropriazione forzata è dunque quel tipo di procedimento esecutivo che consiste nel sottrarre coattivamente al debitore determinati beni appartenenti al patrimonio di quest’ultimo e nel trasformarli, pure coattivamente, in denaro, per destinarli alla soddisfazione del creditore . L’espropriazione colpisce preferibilmente il denaro del debitore e i suoi beni che siano più facilmente trasformabili in denaro, come i titoli di credito, gli oggetti preziosi, ma può comunque colpire ogni bene idoneo ad essere trasformato in denaro. Per questo motivo la disciplina dell’espropriazione concerne innanzitutto le modalità per sottrarre alla disponibilità giuridica del debitore e vincolare i beni del debitore stesso (pignoramento) e quindi per trasformarli coattivamente in denaro (vendita forzata salvo assegnazione diretta). A seconda dell’oggetto dell’espropriazione si hanno tre tipologie di questa: a. ESPROPRIAZIONE MOBILIARE PRESSO IL DEBITORE  ha ad oggetto denaro o altri beni mobili che si trovano nell’abitazione del debitore o in altri luoghi appartenenti a questo; b. ESPROPRIAZIONE PRESSO TERZI  ha ad oggetto crediti del debitore o altre cose mobili appartenenti a questo ma non nella sua disponibilità e perciò presso terzi; c. ESPROPRIAZIONE IMMOBILIARE  ha ad oggetto beni immobili del debitore. 2.7. IL GIUDICE DELL’ESECUZIONE Il giudice competente per l’espropriazione è, in base agli artt. 9 e 26 c.p.c., il tribunale territorialmente individuato con riguardo al luogo in dove si trovano i beni mobili o immobili oggetto dell’espropriazione ovvero, quando l’espropriazione riguarda i crediti del debitore verso un terzo, il tribunale territorialmente individuato con riguardo al luogo di residenza del terzo. Ai sensi dell’art. 484 c.p.c. il magistrato, persona fisica, cui spetta la direzione del processo esecutivo, è scelto dal presidente del tribunale su presentazione, a cura del cancelliere, del fascicolo dell’esecuzione. Mentre sul piano formale i poteri del giudice dell’esecuzione non sono diversi da quelli del giudice istruttorio nell’ambito del processo di cognizione anche se le loro attività, da un punto di vista pratico, saranno molto diverse in ragione delle attività svolte: nel processo esecutivo non si tratta di decidere ma di compiere attività materiali per consentire il soddisfacimento del credito, dirigere le attività materiali svolte nella maggior parte dei casi dai presidiari quali gli ufficiali giudiziari. 2.8. IL PIGNORAMENTO L’art. 491 c.p.c. enuncia che tranne per i beni immobili dati in pegno o gravati da ipoteca, “ l’espropriazione forzata si inizia con il pignoramento” che è dunque l’atto inziale del processo espropriativo. In linea generale si può dire che la funzione del pignoramento consiste nel vincolare determinati beni del debitore alla soddisfazione del credito per il quale il creditore procedente agisce. Si tratta di un vincolo giuridico che investe le cose pignorate il quale produce l’effetto di rendere inefficaci nei confronti del creditore procedente gli atti con i quali il debitore intende alienare le cose pignorate o disporne giuridicamente (artt. 2913 e ss, c.c). La disciplina generale del pignoramento è contenuta all’art. 492 c.p.c. il quale lo qualifica come l’ingiunzione che l’ufficiale fa al debitore di non disporre dei beni sottoposti all’espropriazione forzata. Ciò esige l’esatta indicazione sia del credito e sia dei beni che con l’atto in discorso vengono pignorati, pertanto oltre a determinare l’inizio dell’espropriazione, scopo del pignoramento è l’individuazione specifica dei beni oggetto dell’espropriazione, sui quali verrà costituito un vincolo di indisponibilità. Il debitore comunque rimane titolare dei beni in quanto con il pignoramento non perde immediatamente la proprietà o la titolarità dei suoi beni. A questo riguardo vanno segnalate alcune importanti integrazioni all’art. 492 apportate dalla l.n. 263/2005 e l’introduzione di dell’art. 492 bis (2014). Si tratta di disposizioni atte ad accrescere le prospettive di successo del pignoramento, da un lato impegnando il debitore in dichiarazioni circa la consistenza del suo patrimonio, vincolanti anche agli effetti penali, e, dall’altro, consentendo all’ufficiale giudiziario, su istanza del creditore procedente, di ricercare beni da pignorare con modalità telematiche. Oggi l’art. 492 bis si presenta al 3° comma: “ Il pignoramento deve anche contenere l'avvertimento che il debitore, ai sensi dell'articolo 495, può chiedere di sostituire alle cose o ai crediti pignorati una somma di denaro pari all'importo dovuto al creditore pignorante e ai creditori intervenuti, comprensivo del capitale, degli interessi e delle spese, oltre che delle spese di esecuzione”. Ai commi 4 e 5: “Quando per la soddisfazione del creditore procedente i beni assoggettati a pignoramento appaiono insufficienti ovvero per essi appare manifesta la lunga durata della liquidazione l'ufficiale giudiziario invita il debitore ad indicare ulteriori beni utilmente pignorabili, i luoghi in cui si trovano ovvero le generalità dei terzi debitori, avvertendolo della sanzione prevista per l'omessa o falsa dichiarazione. Della dichiarazione del debitore è redatto processo verbale che lo stesso sottoscrive.” Quanto poi alle ricerche telematiche, l’art. 492 bis prevede che l’ufficiale giudiziario possa procedere, su istanza del creditore, alla ricerca di beni da pignorare con modalità telematiche vale a dire mediante collegamento telematico diretto alle banche dati delle pubbliche amministrazioni e, in particolare, all’anagrafe tributaria e alle banche dati degli enti previdenziali, ciò al fine di acquisire tutte le informazioni rilevanti per l’individuazione di cose e crediti da sottoporre ad esecuzione, comprese quelle relative ai rapporti intrattenuti dal debitore con istituti di credito e datori di lavoro. L’istanza tuttavia non può essere proposta prima che sia decorso il termine minimo per adempiere di cui all’art. 482 (10 giorni dalla notificazione del precetto). Il pignoramento subisce chiaramente un’influenza nelle sue modalità concrete di attuazione proprio in relazione a quello che è l’oggetto dell’espropriazione: - Il pignoramento mobiliare (art. 518)  si realizza con l’apprensione diretta del bene mobile che si trova nei luoghi già detti, ovvero con la redazione di un verbale in cui sono specificatamente indicati i beni sottoposti a pignoramento e nominato il custode. Il pignoramento mobiliare è preceduto da una serie di attività degli ufficiali giudiziari che sono indicate agli artt. 513 e ss. (attività materiali e criteri dell’ufficiale giudiziario per stabilire quali beni siano pignorabili – si stabilisce agli artt. 514 e 515 quali sono le cose impignorabili, impignorabilità che può essere fatta valere dell’esecutato mediante opposizione); - Il pignoramento presso terzi (art. 543)  avviene attraverso la notifica di un atto complesso nei confronti del debitore e del terzo. Il terzo è chiamato a rendere una dichiarazione davanti al giudice sull’esistenza dell’obbligo nei confronti del debitore, la quale potrà essere una dichiarazione positiva o negativa: nel caso sia positiva si procederà con l’assegnazione o la vendita del credito o della cosa, mentre nel caso sia negativa totalmente o parzialmente, il creditore potrà istaurare un giudizio per l’accertamento dell’esistenza del diritto del debitore nei confronti del terzo. - Il pignoramento immobiliare (art. 555)  avviene tramite notifica al debitore e successiva trascrizione di un atto nel quale sono esattamente indicati gli estremi richiesti dal codice civile per l’individuazione In merito agli interventi tardivi vediamo quanto già detto, ma a norma dell’art. 528. e) L’intervento dei creditori nell’espropriazione immobiliare Anche in questo caso i soli creditori muniti di titolo esecutivo hanno la facoltà di provocare i singoli atti dell’esecuzione (art. 566). f) Controversie in sede di distribuzione del ricavato L’art. 512 c.p.c – Risoluzione delle controversie sancisce che “Se, in sede di distribuzione, sorge controversia tra i creditori concorrenti o tra creditore e debitore o terzo assoggettato all'espropriazione, circa la sussistenza o l'ammontare di uno o più crediti o circa la sussistenza di diritti di prelazione, il giudice dell'esecuzione provvede all'istruzione della causa, se è competente; altrimenti rimette le parti davanti al giudice competente a norma dell'articolo 17 fissando un termine perentorio per la riassunzione. Il giudice può, anche con l'ordinanza di cui al primo comma, sospendere, in tutto o in parte, la distribuzione della somma ricavata.” Questo in virtù del fatto che il creditore procedente e tutti i creditori che intervengono nella procedura esecutiva, possono assumere nell’ambito della procedura esecutiva stessa posizioni di reciproco contrasto; più creditori partecipano alla procedura esecutiva, più bassa sarà la percentuale di soddisfazione del credito sulla somma ricavata dalla vendita. Solo con la legge del 2005, ha assunto una dimensione di cognizione. 2.10. LA CONCLUSIONE DELLA FASE ESPROPRIATIVA E LA CONVERSIONE DEL PIGNORAMENTO Nell’ambito del processo esecutivo, si distinguono: - Un momento espropriativo in senso stretto che è quello della apprensione del bene e della sua liquidazione (trasformazione in denaro); - Un momento satisfattivo che è quello della distribuzione del ricavato finale. Dal momento che il bene da realizzare attraverso il procedimento esecutivo, ai fini della soddisfazione dei creditori, è il denaro, è evidente che prima di intraprendere la fase satisfattiva è necessario aver realizzato la liquidazione dei beni pignorati. Vi sono però alcune ipotesi per le quali la fase liquidativa non viene posta in essere: - Quando il bene pignorato è una somma di denaro, ai sensi dell’art. 517 c.p.c., - Nel caso in cui, ex art. 494 c.p.c. il debitore ha consegnato all’ufficiale giudiziario una somma di denaro come oggetto del pignoramento; - In caso di conversione del pignoramento ex art. 495 c.p.c. Al momento del pignoramento, il debitore dunque, può evitare in extremis il pignoramento stesso, versando nelle mani dell’ufficiale giudiziario, la somma per cui si procede con l’importo delle spese (art. 494 comma 1). Se invece il debitore non vuole effettuare il pagamento (perché ad es. intende sollevare opposizioni) vuole evitare gli inconvenienti del pignoramento di cose può versare all’ufficiale giudiziario l’importo del credito e delle spese, aumentato di due decimi, offrendo tale importo come oggetto di pignoramento (art. 494, 3° comma). Questo risultato può in pratica essere raggiunto anche dopo il pignoramento delle cose, attraverso un’istanza al giudice dell’esecuzione di sostituire alle cose pignorate una somma di denaro pari all’importo delle spese e dei crediti (comprensivi degli interessi) del creditore pignorante e dei creditori intervenuti ( art. 495 comma 1) ossia con la c.d. conversione del pignoramento, la cui possibilità va segnalata dall’ufficiale pignorante in sede di pignoramento. La conversione può essere chiesta prima che sia disposta la vendita o l’assegnazione a norma degli artt. 530, 552 e 569. La somma da sostituire al bene pignorato è determinata dal giudice dell’esecuzione con ordinanza, sentite le parti in udienza (art. 495, comma 3). La conversione avrà l’effetto di liberare dal pignoramento i beni mobili o immobili pignorati, ma solo dopo il versamento dell’intera somma stabilita con l’ordinanza di cui al comma 2, che dispone la conversione (art. 495 comma 6). È anche consentita la conversione del pignoramento con rateizzazioni mensili (entro il termine massimo di 36 mesi) sia nelle ipotesi di pignoramento immobiliare che in quelle di pignoramento mobiliare, ove ricorrano “giustificati motivi” (art. 495, comma 4). In questo caso il giudice, ogni 6 mesi provvede, a norma dell’art. 510 al pagamento del creditore pignorante e alla distribuzione parziale tra i creditori delle somme versate dal debitore. Ad ogni modo, il codice onera il richiedente al versamento immediato, al momento del deposito dell’istanza di conversione in cancelleria, di una somma non inferiore ad un quinto dell’intero importo, comprensivo dei crediti degli intervenuti e dedotti i versamenti effettuati (comma 2). Tale somma è destinata ad essere inglobata nei beni pignorati, in caso di omissione (o ritardo di oltre 15 giorni) del versamento del residuo (o anche di una sola rata) (comma 5). Il codice all’art. 495 comma 7 stabilisce che, infine, l’istanza di conversione può essere avanzata una sola volta dal debitore esecutato o dai successori di quest’ultimo. a) Liquidazione dei beni pignorati L’articolo che descrive il passaggio dalla fase del pignoramento a quella della liquidazione è il 501 c.p.c. il quale afferma che: "L'istanza di assegnazione o di vendita dei beni pignorati non può essere proposta se non decorsi dieci giorni dal pignoramento, tranne che per le cose deteriorabili, delle quali può essere disposta l'assegnazione o la vendita immediata”. Questo termine dilatorio serve al debitore per reagire al pignoramento (es. istanza di conversione, opposizioni) oltre ad offrire un margine di intervento nella procedura esecutiva, per gli altri creditori, prima che sia autorizzata la vendita. Considerato che ex art. 497 c.p.c., il pignoramento perde effetti quando decorrono 90 giorni senza che sia fatta istanza di vendita o di assegnazione, dunque, il creditore procedente ha un termine di 80 giorni per effettuare l’istanza di vendita o di assegnazione. Qualora si tratti di espropriazione mobiliare, l’art. 529 c.p.c. stabilisce che in quegli 80 giorni, non solo il creditore procedente, ma anche i creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo, possono chiedere la distribuzione del denaro ovvero proporre istanza di vendita. Per l’espropriazione dei crediti, l’art. 552 rimanda all’art. 529 (pertanto varrà la stessa regola), mentre per l’espropriazione immobiliare, è logico che non si potrà fare domanda di distribuzione ma solo di vendita e l’art. 567 fissa le regole del deposito di tale istanza (documentazione dettagliata comprovante la trascrizione e l’iscrizione relative all’immobile del ventennio precedente all’istanza). A1) Assegnazione La liquidazione dei beni pignorati, finalizzata a realizzare beni per la soddisfazione dei creditori, chiude la fase c.d. espropriativa in senso stretto con la vendita dei beni pignorati, volta a realizzare il prezzo di quei beni, salvo che oggetto del pignoramento non sia una somma di denaro (v. sopra). Accanto alla vendita il codice regola un altro modo di soddisfare il creditore: l’assegnazione. Qui il bene pignorato non viene venduto a terzi, ma assegnato ai creditori che ne facciano istanza ovvero sia prevista questa modalità dalla legge. Si distingue tra: - Assegnazione satisfattiva  il creditore si fa attribuire il diritto pignorato. Il provvedimento di liquidazione ha il duplice effetto di traslare il diritto di proprietà sul bene pignorato e estinguere l’obbligazione dell’esecutato nei confronti del creditore assegnatario. Tale assegnazione, se ammessa in maniera incondizionata, espone l’esecutato al rischio di perdere un bene di valore patrimoniale superiore a quello del credito dell’assegnatario, senza la possibilità di recuperare la differenza. Per questi motivi vi sono delle limitazioni affinché possa ricorrersi a questa modalità di chiusura della fase liquidativa che assorbe anche quella distributiva: l’assegnazione satisfattiva è senz’altro possibile laddove il valore risulti chiaramente: o Con riferimento ai titoli di credito e agli altri beni il cui valore risulti dai listini di borsa; o Gli oggetti d’oro e d’argento in caso di mancata vendita non possono essere assegnati per un valore inferiore al valore intrinseco del materiale di cui sono fatti. - Assegnazione-vendita (sostitutiva)  il creditore paga una somma di denaro per ottenere il bene pignorato. Si tratta sostanzialmente della vendita dei beni pignorati al creditore. Il creditore aggiudicatario si comporta come qualsiasi terzo che intende acquistare il bene pignorato; la somma versata verrà acquisita dalla procedura e poi distribuita con un successivo provvedimento del giudice. Allo stesso creditore che paga per il bene pignorato, spetta, oltre all’assegnazione del bene, la quota del prezzo dell’acquisto del bene pignorato come agli altri creditori. In questo caso è prevista la fase della distribuzione, assente invece nell’assegnazione satisfattiva. A2) Rapporti tra vendita e assegnazione Vi sono beni che devono essere assegnati senza previo tentativo di vendita: - Crediti pignorati scaduti - Crediti pignorati in scadenza entro 90 giorni dalla dichiarazione del terzo debitore (in riferimento al PPT) I beni che invece, devono essere assegnati dopo un tentativo di vendita fallito sono gli oggetti d’oro e d’argento che non possono essere in nessun caso venduti per un prezzo inferiore al valore intrinseco. Se restano invenduti sono assegnati per tale valore ai creditori. Si tratta in entrambi i casi di assegnazioni coattive poiché non si dà luogo a una vendita, ma i beni sono assegnati, dalla legge, ai creditori (nel primo caso senza previo tentativo di vendita, mentre nel secondo caso se ne fa solo uno). Vi sono poi le c.d. assegnazioni volontarie, ossia assegnazioni di beni che possono avvenire senza previo tentativo di vendita quali i titoli di credito e le altre cose il cui valore risulta da listino di borsa o di mercato, e quelle dei beni che hanno già affrontato un tentativo di vendita andato fallito. Per evitare che si arrivi ad un prezzo di assegnazione di favore e, con riferimento all’assegnazione volontaria, escludendo i beni che hanno un valore già assegnato e definito, è necessario che sia stabilito un valore minimo di assegnazione. La disciplina per stabilire questo valore minimo è contenuta all’art. 506 c.p.c. ed è rappresentato dal maggior valore tra il valore di stima del bene e l’importo della somma delle spese di esecuzione e dei crediti che hanno prelazione collocati anteriormente rispetto a quello del creditore offerente. A3) VENDITA FORZATA Natura ed effetti della vendita e dell’assegnazione, sostanzialmente coincidono. Il dibattito circa la natura giuridica della vendita forzata è stato particolarmente acceso in dottrina: ciò che distingue la vendita forzata dalla compravendita contrattuale è il fatto che nella prima non vi sia l’incontro di due volontà, non è una volontà spontanea del debitore. C’è la volontà del compratore, dell’aggiudicatario e quella dell’autorità giurisdizionale che autorizza questo passaggio di proprietà con l’ordinanza di vendita. Si contengono allora il campo, da un lato, la tesi contrattualistica che fa perno sulla natura contrattuale della vendita forzata sulla base della funzione economica del trasferimento del bene e, dall’altro lato, l’opinione che valorizza la natura pubblicistica della vendita: tale tesi ravvisa nella vendita forzata, un atto autoritativo, che non ha nulla in comune con il contratto di vendita. La disputa ha però ormai ceduto il passo alla considerazione del dato pratico: la vendita forzata è un procedimento giurisdizionale nel quale la volontà del debitore è sostituita da una serie di attività giurisdizionali che hanno il fine di individuare il miglior compratore possibile dei beni pignorati. Riguardo agli effetti è necessario volgere lo sguardo agli articoli dal 2919 al 2929 c.c.: in primo luogo, la vendita forzata ha effetto traslativo a carattere derivativo, pertanto non si tratta di una vendita che fa acquisire la proprietà sul bene a titolo originario ma a titolo derivativo sicché la misura del diritto dell’aggiudicatario corrisponde a quella del diritto del debitore (es. prosecuzione di un precedente diritto di servitù). L’acquisto tramite vendita forzata trasferisce all’aggiudicatario il diritto di colui che ha subito l’espropriazione ma, sempre ex art. 2919, non riferimento al momento della vendita bensì al momento del pignoramento sicché vanno richiamate le norme sugli effetti del pignoramento di cui agli artt. 1913 ss. C.c. Le norme sugli effetti del pignoramento, infatti, hanno la funzione di conservare integra la frazione patrimoniale dell’esecutato posta ad oggetto della procedura in vista della vendita forzata. In ultimo ex art. 586 c.p.c. il giudice, con il decreto di trasferimento del bene espropriato, ordina anche la cancellazione delle trascrizioni dei pignoramenti e delle iscrizioni ipotecarie, comprese quelle successiva alla trascrizione del pignoramento, estinguendo così tutti i diritti reali di garanzia esistenti sui beni venduti. Tale effetto della vendita forzata viene chiamato effetto purgativo, attraverso il quale l’acquirente acquista il bene libero da pesi giustificando così il fatto che, in base all’art. 498 c.p.c., i creditori che sui beni pignorati hanno un diritto di prelazione risultante dai pubblici registri, devono essere avvisati della procedura al fine di intervenire. L’effetto purgativo si realizza anche nella vendita mobiliare, con riferimento a quei beni che sono gravati da pegno o da privilegio speciale iscritto. Del procedimento per attuare la vendita forzata si occupano: - Gli artt. 529 e ss. c.p.c. quanto all’espropriazione mobiliare; - L’art. 552 c.p.c. richiama gli artt. 529 ss. c.p.c. quanto all’espropriazione presso terzi; - Gli artt. 567 ss. c.p.c. quanto all’espropriazione immobiliare. L’udienza di autorizzazione alla vendita, in ogni caso di espropriazione, contiene una barriera preclusiva: all’udienza fissata dal Giudice dell’esecuzione per l’autorizzazione della vendita, le parti devono proporre, a pena di decadenza, le opposizioni agli atti esecutivi , se non sono già decadute dal potere di proporle. Ciò significa che tutte le nullità processuali derivate da atti antecedenti (diverse da quelle extraformali) diventano irrilevanti se non fatte valere entro questo termine (artt. 530 e 569 c.p.c.). Se tali opposizioni vengono sollevate in sede di udienza, e si raggiunge un accordo tra le parti, il giudice può precedere altrimenti, altrimenti è necessario risolvere le opposizioni prima di disporre la vendita o l’assegnazione. Al momento dell’emanazione del relativo provvedimento, tutte le opposizioni devono essere risolte. La ratio di queste norme è quella di mantenere validità alla vendita poiché questa comporta la trasformazione del bene in esecuzione forzata in denaro onde evitare di trovarsi nella condizione di dover invalidare la vendita stessa, tornando indietro rispetto alla liquidazione. decisione sulla emanazione o meno della misura esecutiva, utile solo a stabilire se il processo esecutivo deve andare avanti o no. Per far s’ che la questione di rito formi oggetto di decisione vero e proprio occorre proporre opposizione ex art. 617, nel quale la questione di rito potrà essere definita senza più essere rimessa in discussione. Anche questo tipo di opposizione ha una struttura bifasica ex art. 618 c.p.c. c) L’opposizione del terzo all’esecuzione (art. 619 c.p.c.) Un terzo propone opposizione in una procedura esecutiva iniziata da altri e sostiene che per errore si sta aggredendo un suo bene e che l’errore dipende dal fatto che lui non è il debitore né si è offerto come garante dell’obbligazione per cui si procede con quei beni che sono stati sottoposti ad esecuzione. Dunque il terzo propone la c.d. “ azione di separazione” ossia cerca di separare il suo bene dalla procedura esecutiva. All’art. 619: “Il terzo che pretende avere la proprietà o altro diritto reale sui beni pignorati può proporre opposizione con ricorso al giudice dell'esecuzione, prima che sia disposta la vendita o l'assegnazione dei beni. Il giudice fissa con decreto l'udienza di comparizione delle parti davanti a sé e il termine perentorio per la notificazione del ricorso e del decreto. Se all'udienza le parti raggiungono un accordo il giudice ne dà atto con ordinanza, adottando ogni altra decisione idonea ad assicurare, se del caso, la prosecuzione del processo esecutivo ovvero ad estinguere il processo, statuendo altresì in questo caso anche sulle spese; altrimenti il giudice provvede ai sensi dell'articolo 616 tenuto conto della competenza per valore”. Altre due brevissime norme si occupano dell’opposizione del terzo all’esecuzione: L’art. 620 recita, relativamente all’opposizione tardiva: “Se in seguito all'opposizione il giudice non sospende la vendita dei beni mobili o se l'opposizione è proposta dopo la vendita stessa, i diritti del terzo si fanno valere sulla somma ricavata”; prima che sia disposta la vendita o l'assegnazione dei beni, il terzo ha la possibilità di separare il bene aggredito dal processo esecutivo, mentre dopo no e potrà rifarsi solo sulla somma ricavata. L’art. 621 pone limiti alla prova testimoniale: “Il terzo opponente non può provare con testimoni il suo diritto sui beni mobili pignorati nella casa o nell'azienda del debitore, tranne che l'esistenza del diritto stesso sia resa verosimile dalla professione o dal commercio esercitati dal terzo o dal debitore” ; la ratio si rinviene nell’evitare facili collusioni tra il terzo e il debitore. È bene ricordare che la competenza territoriale per i giudizi di opposizione è inderogabile. L’art. 27 c.p.c. stabilisce che per le cause di opposizione all’esecuzione forzata di cui agli artt. 615 e 619 è competente il giudice del luogo dell’esecuzione, salva l’opposizione a precetto, per la quale la disposizione a cui fare riferimento è l’art. 480 comma 3 per cui se nell’atto di precetto manca la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio della parte istante nel comune in cui ha sede il giudice competente per l’esecuzione, le opposizioni al precetto si propongono davanti al giudice del luogo in cui il precetto è stato notificato. È previsto poi che per le cause di cui all’art. 617 è competente il giudice davanti al quale si svolge l’esecuzione. Nell’ambito di tutte le opposizioni all’esecuzione non si applica la sospensione feriale dei termini (dal 1 agosto al 31 agosto). 2.12. L’ESPROPRIAZIONE CONTRO IL TERZO PROPRIETARIO Nell’espropriazione contro terzo proprietario, l’espropriazione forzata si rivolge in maniera legittima nei confronti di questo: - Quando oggetto dell’espropriazione è un bene gravato da pegno o ipoteca che sono posti a garanzia di un debito altrui (speculare al 619 c.p.c.), a garanzia del credito per il quale si procede; - quando oggetto dell’espropriazione è un bene la cui alienazione da parte del debitore è stata revocata per frode. Per entrambe queste ipotesi il codice prevede che titolo esecutivo e precetto siano notificati anche al terzo e nell’ambito del processo ogni volta che è previsto che sia sentito il debitore, è sentito anche il terzo (art. 604). Per l’ipotesi di cui all’art. 602, il terzo che intenda sostenere l’inesistenza del pegno o dell’ipoteca sull’immobile potrà proporre opposizione e la forma sarà quella prevista dall’art. 619 c.p.c. 2.13. L’ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA L’esecuzione in forma specifica si caratterizza come esecuzione di obblighi alla consegna (di beni mobili) o al rilascio (di beni immobili) –artt. 605 ss. - ovvero come esecuzione di condanne che emergono dalla violazione di un obbligo di fare o di non fare – artt. 612 ss. Secondo parte della dottrina non vi sarebbe alcun punto di contatto tra espropriazione forzata ed esecuzione in forma specifica poiché esse corrisponderebbero a situazioni differenti dal punto di vista sostanziale: infatti se da un lato le forme dell’espropriazione forzata sono serventi rispetto ai diritti di credito (obbligo di risarcire il danno, obbligazione risarcitoria per l’inadempimento), dall’altro sono tutelabili con l’esecuzione in forma specifica solo gli obblighi correlati a diritti assoluti (i riflessi delle situazioni finali, diritto di proprietà per primo – al diritto di proprietà di uno corrisponde il dovere di rispettare, da parte di tutti gli altri, il diritto di utilizzare e disporre di quella cosa da parte del proprietario). Secondo altra parte della dottrina, muovendo dal postulato di chiovendiano per il quale un processo deve dare a chi ha ragione tutto quello che ha diritto di conseguire, è necessario osservare in che limiti si possano adattare gli strumenti dell’esecuzione in forma specifica anche a tutela delle situazioni meramente obbligatorie (diritti di credito). a) Modalità dell’esecuzione in forma specifica Nell’esecuzione in forma specifica il titolo esecutivo specifica l’oggetto dell’esecuzione ma è necessario osservare che non tutti i titoli esecutivi nominati nell’art. 474 c.p.c. possono essere posti alla base dell’esecuzione in forma specifica: ci sono delle limitazioni sia per gli obblighi di fare e di non fare, sia per la consegna e il rilascio. In particolare, l’art. 474 comma 3 limita i titoli esecutivi che possono essere posti alla base dell’esecuzione per consegna o rilascio a quelli previsti al numero 1 (le sentenze, i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva) e al numero 3 (gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli) pertanto una scrittura privata autenticata o una cambiale non possono essere posti a base dell’esecuzione in forma specifica (numero 2). All’art. 612 stesso, si correla l’esecuzione degli obblighi di fare o di non fare solo alle sentenze di condanna. Le modalità di consegna ricordano le modalità del pignoramento mobiliare: su istanza del creditore, è l’ufficiale giudiziario munito del titolo esecutivo che si reca presso la casa, nell’azienda o in altri luoghi del debitore, a cercare la cosa. La prende e la consegna al creditore. Tale procedura è descritta negli artt. che seguono: - Art. 605 (precetto per consegna e rilascio)  Il precetto per consegna di beni mobili o rilascio di beni immobili deve contenere, oltre le indicazioni di cui all'articolo 480, anche la descrizione sommaria dei beni stessi. Se il titolo esecutivo dispone circa il termine della consegna o del rilascio, l'intimazione va fatta con riferimento a tale termine. - Art. 606 (modo della consegna)  Decorso il termine indicato nel precetto, l'ufficiale giudiziario, munito del titolo esecutivo e del precetto, si reca sul luogo in cui le cose si trovano e le ricerca a norma dell'articolo 513 (norma sul pignoramento mobiliare); quindi ne fa consegna alla parte istante o a persona da lei designata. - Art. 608 (modo del rilascio)  L'esecuzione inizia con la notifica dell'avviso con il quale l'ufficiale giudiziario comunica almeno dieci giorni prima alla parte, che è tenuta a rilasciare l'immobile, il giorno e l'ora in cui procederà. Nel giorno e nell'ora stabiliti, l'ufficiale giudiziario, munito del titolo esecutivo e del precetto, si reca sul luogo dell'esecuzione e, facendo uso, quando occorre, dei poteri a lui consentiti dall'articolo 513, immette la parte istante o una persona da lei designata nel possesso dell'immobile, del quale le consegna le chiavi, ingiungendo agli eventuali detentori di riconoscere il nuovo possessore. - Art. 608 bis (estinzione dell’esecuzione per rinuncia della parte istante)  L'esecuzione di cui all'articolo 605 si estingue se la parte istante, prima della consegna o del rilascio, rinuncia con atto da notificarsi alla parte esecutata e da consegnarsi all'ufficiale giudiziario procedente. La rinuncia si effettua dunque tra la notifica dell’avviso di rilascio e il rilascio stesso perché prima della notifica di rilascio non c’è esecuzione e quindi non si può rinunciare. b) Le pene pecuniarie ex art. 614 bis La recente riforma del 2009 ha introdotto l’art. 614 bis: si tratta della previsione della possibilità, per il giudice che condanni una parte all’adempimento di un obbligo di fare o all’adempimento di un obbligo di non fare, di determinare pene pecuniarie a carico dell’obbligato per ogni violazione o inosservanza successivo ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento; ciò su istanza di parte e salvo che appaia manifestamente iniquo. 2.14. SOSPENSIONE DEL PROCESSO ESECUTIVO Della sospensione del processo esecutivo si occupano gli artt. 623-628 c.p.c. a norma dei quali essa può trovare la sua fonte nella legge, in un provvedimento del giudice davanti al quale è impugnato il titolo esecutivo ovvero in un provvedimento del giudice dell’esecuzione. Effetto della sospensione è un arresto nella sequenza degli atti che costituiscono il procedimento: secondo quanto stabilisce l'articolo 626 c.p.c., infatti, quando il processo è sospeso non può essere compiuto alcun atto esecutivo, salva diversa disposizione del giudice dell'esecuzione. Solitamente la ragione per cui viene sospeso un processo esecutivo è rinvenuta nel fatto che è contemporaneamente in corso un giudizio di cognizione, aperto con opposizione o impugnazione, in cui si contesta l'esistenza stessa dell'azione esecutiva oppure la legittimità delle modalità con le quali l'esecuzione si sta svolgendo. Tale giudizio, infatti, potrebbe anche terminare con una pronuncia di totale o parziale inesistenza dell'azione o di illegittimità dell'esecuzione. Con la conseguenza che la prosecuzione del processo potrebbe comportare il rischio che venga compromessa in maniera irreparabile la situazione di fatto che ne costituisce l'oggetto. Proprio per tale motivo, quindi, si procede, in via cautelare, all'interruzione provvisoria del processo in attesa della definizione del giudizio cognitivo. L'articolo 624 si occupa in modo specifico, invece, della sospensione disposta a seguito di opposizione all'esecuzione, proposta ai sensi degli articoli 615 e 619 del codice di rito. Tale norma, più precisamente, dispone che, in caso di opposizione all'esecuzione, il giudice sospende il processo, con o senza cauzione, su istanza di parte e se ricorrono gravi motivi. L'articolo 624 bis del codice di procedura civile, invece, rispondendo a un'esigenza diffusa nella prassi, regola l'ipotesi particolare in cui il giudice dell'esecuzione disponga la sospensione su istanza di parte. Nel dettaglio, tale sospensione del processo esecutivo, che può durare sino a ventiquattro mesi, può essere disposta quando tutti i creditori muniti di titolo esecutivo, concordemente, ne facciano richiesta. Il processo esecutivo sospeso va riassunto con ricorso da presentarsi entro il termine perentorio stabilito dal giudice dell'esecuzione e, in ogni caso, non dopo che siano decorsi sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza di primo grado o dalla comunicazione della sentenza d'appello che rigetta l'opposizione. 2.15. Estinzione del processo esecutivo Dell'estinzione del processo esecutivo si occupano, invece, gli articoli da 629 a 632 del codice di procedura civile. Oltre al caso naturale per cui il processo esecutivo si estingue quando ha raggiunto il suo scopo specifico, l'esecuzione si può anche estinguere per rinuncia o per inattività delle parti. Nella prima ipotesi il processo si estingue se prima dell'aggiudicazione o dell'assegnazione il creditore pignorante e quelli intervenuti (muniti di titolo esecutivo) rinunciano agli atti. Esso si estingue anche nel caso in cui, dopo la vendita, rinunciano agli atti tutti i creditori concorrenti. L'estinzione per inattività delle parti si verifica, invece, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, quando le parti non proseguono o non riassumono il processo esecutivo nel termine perentorio stabilito dalla legge o dal giudice dell'esecuzione. L'estinzione può aversi anche per mancata comparizione delle parti all'udienza per due volte consecutive , fatta eccezione per l'udienza in cui ha luogo la vendita. L'estinzione è dichiarata dal giudice con ordinanza che può essere oggetto di reclamo da parte di tutti i soggetti coinvolti nel processo esecutivo. La recente riforma del processo civile del 2015 ha, infine, previsto un'ulteriore ipotesi di estinzione, che è quella che si verifica in caso di omessa pubblicità sul portale delle vendite pubbliche. Tale omissione, tuttavia, non comporta l'estinzione nel caso in cui la pubblicità non sia stata effettuata a causa di malfunzionamenti del sistema informatico. Con l'ordinanza che pronuncia l'estinzione, il giudice dispone sempre anche la cancellazione della trascrizione del pignoramento. Inoltre egli provvede alla liquidazione delle spese sostenute dalle parti, se ne viene fatta richiesta, e dei compensi dovuti all'eventuale delegato alle operazioni di vendita. 3. I PROCEDIMENTI SPECIALI I procedimenti speciali vengono disciplinati nel libro IV del codice di procedura civile e hanno in comune tra di loro solo la caratteristica della specialità, la quale, in via generale, si rinviene nel fatto di avere qualcosa di diverso rispetto al procedimento ordinario di cognizione. La specialità della gran parte dei procedimenti di cui al libro IV ha, in particolare, a che vedere con il carattere sommario della tutela: infatti nello stesso trovano ospitalità la disciplina dei procedimenti sommari tout court e dei procedimenti sommari cautelari. La tutela sommaria si distingue dalla tutela ordinaria nella seguente misura: - La principale caratteristica del giudizio ordinario è la sua idoneità a consentire la tutela di qualsiasi tipo di diritto. - I processi sommari invece sono processi tipici, nel senso che il legislatore indica specifici presupposti speciali di ammissibilità diversamente da quanto previsto per il giudizio ordinario, ove è sufficiente la mera affermazione della titolarità del diritto e l’allegazione di un bisogno di tutela (il giudice valuta sostanzialmente In particolare, analizzando la sommarietà vediamo che si connota per una diminuzione della garanzia del contraddittorio delle parti, ma nel procedimento sommario di cognizione ex art. 702 bis si svolge nel contraddittorio e le parti sono in posizione paritaria, così come avviene nel giudizio ordinario di cognizione. Viene fatta salva peraltro la possibilità di trasformare tale procedimento in rito ordinario. Il procedimento culmina in un’ordinanza che ha il contenuto della sentenza. a) Le fasi iniziali del procedimento (art. 702 bis, 702 ter, 702 quater) Il procedimento sommario può trovare applicazione in alternativa al procedimento ordinario, ma solo per le cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica (702 bis). Non può essere promosso per le cause che prevedono un rito speciale (es. processo del lavoro) e nemmeno per le cause di competenza del giudice di pace. La domanda proponibile con il rito sommario può essere una domanda qualunque di cognizione: di condanna, di accertamento e costitutiva, con soli limiti in fase istruttoria (sommaria). La forma della domanda è quella del ricorso da proporre alla cancelleria del tribunale competente secondo le regole ordinarie. Il ricorso sottoscritto dall’avvocato (o in rari casi, dalla parte personalmente), deve contenere tutte le indicazioni tipiche di un atto di citazione (art. 163 c.p.c.) ossia sarà necessario indicare: - il tribunale dinanzi al quale è proposta la domanda; - il nome, il cognome, la residenza e il codice fiscale dell’attore - il nome, il cognome, la residenza o il domicilio e il codice fiscale del convenuto - il nome, il cognome, la residenza o il domicilio e il codice fiscale dei rappresentanti o assistenti di ambedue i soggetti; - il petitum ossia la cosa oggetto della domanda (in sostanza si tratta di identificare chiaramente cosa viene chiesto al giudice con l’azione che si sta esperendo – accertamento, merito…) - la causa petendi ossia l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto che costituiscono le ragioni della domanda; - le conclusioni ossia le richieste che l’attore fa al giudice al fine di verificare il rispetto del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato - i mezzi di prova dei quali l’attore intende avvalersi (tale indicazione è facoltativa e può essere fatta anche successivamente alla proposizione dell’atto di citazione); - il nome e cognome del procuratore riportando inoltre la procura con annesso codice fiscale e numero di fax; - il giorno dell’udienza di comparizione con invito al convenuto a costituirsi nel termine di 20 giorni prima (rito ordinario) dell’udienza o dieci giorni prima in caso di abbreviazione dei termini. A seguito della presentazione del ricorso il cancelliere forma il fascicolo d’ufficio e lo presenta al presidente del tribunale, il quale designa il magistrato cui è affidata la trattazione del procedimento. Il giudice designato fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti ( il giudice non ha obblighi temporali per la fissazione dell’udienza), assegnando il termine per la costituzione del convenuto che deve avvenire non oltre dieci giorni prima dell’udienza; il ricorso unitamente al decreto di fissazione dell’udienza deve essere notificato al convenuto almeno trenta giorni prima della data fissata per la sua costituzione. Il convenuto deve costituirsi mediante deposito in cancelleria della comparsa di risposta , nella quale deve proporre le sue difese e prendere posizione sui fatti di posti dal ricorrente a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione, nonché formulare le conclusioni. Se il convenuto intende chiamare un terzo in garanzia deve, a pena di decadenza, farne dichiarazione nella comparsa di costituzione e chiedere al giudice designato lo spostamento dell’udienza. Il giudice con decreto comunicato alle parti tramite la cancelleria, provvede a fissare la data della nuova udienza assegnando un termine perentorio per la citazione del terzo (la quale avverrà agli stessi termini e condizioni fissati per il convenuto). L’interesse alla completezza di tutti gli atti prodotti dall’attore e dal convenuto, sono loro propri affinché si proceda nella direzione della tutela sommaria, poiché atti incompleti farebbero deviare il giudice nella trasformazione a giudizio a cognizione ordinaria per via di un necessario allungamento della fase istruttoria. Una volta avviato il procedimento, se il giudice si accorge che non può arrivare ad una decisione in tempi brevi occorrendo un’istruttoria complessa, può trasformare il rito in quello ordinario. Al giudice viene affidato il compito di prognosi circa la complessità della causa; se continuare con il rito sommario o passare a quello ordinario dipende quindi, dalla fattispecie concreta: dalla complessità in fatto e non in diritto della causa che deve esaminare. La complessità a sua volta deve essere organizzativa e non concettuale (disporre una difficile consulenza tecnica, ascoltare molti testimoni…). Il giudice in altre parole, deve fare una pre-analisi del caso e misurare la “quantità” di attività istruttoria necessaria e deliberare di conseguenza. Al giudice, in questa fase, setta anche il compito di esaminare la rilevanza e l’ammissibilità delle prove dedotte dalle parti. Qualora il giudice ritenesse di dover trattare la questione con rito ordinario, egli, con ordinanza non impugnabile, fisserà l’udienza di trattazione e il processo proseguirà secondo le modalità ordinarie. I casi di inammissibilità al processo sommario di cognizione sono: - l’incompetenza del giudice  la domanda viene semplicemente dichiarate inammissibile senza traslatio iudicii o mutamento di rito; - carenza dei presupposti indicati dall’art. 702 bis. Nell’ipotesi che il giudice ritenga di non procedere con l’inammissibilità o con la trasformazione a rito ordinario, significa che la causa può essere trattata con le forme semplificate del procedimento sommario ed in tal caso il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità essenziale al contraddittorio, procede nel odo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto e provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto delle domande. b) Gli effetti della decisione La forma delle determinazioni del giudice è l’ordinanza con la quale verrà chiusa la prima fase, il primo grado del procedimento sommario: a) O per ragioni di rito (inclusa l’incompetenza del giudice adito); b) O per inammissibilità della trattazione della domanda secondo il procedimento sommario; c) O per decisione sommaria nel merito. L’ordinanza, non solo è provvisoriamente esecutiva e costituisce titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione ma, se non è appellata entro 30 giorni dalla sua comunicazione o notificazione, passa in giudicato sostanziale (702-quater). c) Il passaggio dal rito ordinario al rito c.d. sommario Se non è il giudice del rito a cognizione semplificata a passare alla trattazione ordinaria (con ordinanza e declinazione di giudicare), ma al contrario, è il giudice adito con il rito ordinario a disporre il passaggio al rito sommario, interviene la L. n. 162/2014 (art. 183 bis c.p.c.): il tribunale in composizione monocratica, all’udienza di trattazione di cui all’art. 183, valutata la (evidentemente, scarsa) complessità della lite e dell’istruzione probatoria, possa disporre, previo contraddittorio anche mediante trattazione scritta, con ordinanza non impugnabile, che si proceda nelle forme del rito c.d. sommario. Qui il problema però è più ampio: le parti sono giunte alla prima udienza senza avere necessariamente definito la materia del contendere che può essere completata fino alla seconda delle memorie, né avere indicato prove che possono essere dedotte per la prima volta sempre in tale memoria. È previsto quindi che il giudice inviti le parti a indicare nella stessa udienza, a pena di decadenza, i mezzi di prova, ivi compresi i documenti, di cui intendono avvalersi e la relativa prova contraria. Se le parti lo chiedono, può fissare una nuova udienza. d) L’appello Per quanto concerne l’appello contro l’ordinanza emessa a seguito di un procedimento a cognizione semplificata, questo ha regole leggermente diverse dallo schema ordinario: - sono ammessi nuovi mezzi di prova e nuovi documenti quando il collegio li ritiene indispensabili (tali cioè, da poter capovolgere la decisione di prima istanza) ai fini della decisione oppure la parte dimostra di non averli potuti proporre nel corso del procedimento sommario per causa ad essa non imputabile. Pur apprezzando questa diversa struttura rispetto all’appello ordinario, va detto che l’appello non svolge comunque un ruolo di cognizione piena in contrapposizione ad una supposta cognizione sommaria. L’estensione dei mezzi di prova in fase di gravame si spiega piuttosto con l’esigenza di tutelare la parte soccombente dall’eventuale errore di valutazione del giudice nella pre-analisi del caso e che lo abbia portato a trattare con il rito sommario quando invece sarebbe dovuto essere trattato con l’ordinario. L’impugnazione va proposta entro 30 giorni che decorrono dalla comunicazione o notificazione dell’ordinanza (art. 702 quater). 3.3. IL PROCEDIMENTO MONITORIO O PROCEDIMENTO PER DECRETO INGIUNTIVO Il procedimento di ingiunzione è disciplinato agli artt. 633 ss. del codice di rito; è uno dei procedimenti speciali più utilizzati poiché consente a chi ha un diritto di credito di ottenere in maniera rapida, un titolo esecutivo (il decreto ingiuntivo) per avviare l’esecuzione forzata nei confronti del debitore. Appartiene a quei procedimenti che hanno lo scopo di evitare il costo della procedura a cognizione piena, quando questo costo non è giustificato da una contestazione effettiva consentendo al giudice di emanare un provvedimento di condanna in assenza di contraddittorio. Si sposta sul convenuto l’onere di istaurare il processo di merito. Si distinguono tradizionalmente due tipi di procedimento monitorio: - Procedimento monitorio puro  si caratterizza per il fatto che la misura di condanna è emanata sulla base dei fatti affermati dall’attore; il provvedimento è emanato sulla sola base dell’affermazione del ricorrente. Tale provvedimento non ha efficacia esecutiva immediata ma è sospensivamente condizionata alla mancata proposizione nei termini dell’opposizione da parte del debitore. La semplice proposizione dell’opposizione priva il provvedimento di efficacia esecutiva. Il giudizio di opposizione che segue è un giudizio di primo grado che ha ad oggetto l’esistenza o meno del diritto. - Procedimento monitorio documentale  il decreto di condanna può essere concesso oltre che sulla base dell’allegazione dei fatti da parte dell’attore, anche da prove di quei fatti costitutivi del diritto di credito. Il provvedimento emanato dal giudice, è successivo alla presa cognizione di quei fatti, delle prove che dimostrano l’esistenza del diritto di credito. Al provvedimento è attribuita efficacia immediata di titolo esecutivo. Questa provvisoria esecutività del decreto può aversi anche in pendenza dei termini per proporre opposizione oppure nelle more del giudizio di opposizione che sia stato istaurato dal debitore e l’efficacia è solo risolutivamente condizionata all’accoglimento dell’opposizione. Nel procedimento delineato dagli artt. 633 ss. il legislatore fa una sintesi di questi due modelli non soffermandosi mai a differenziare uno dall’altro ma esistono degli ibridi come quello previsto all’art. 633 numero 1 dove troviamo la forma più vicina al procedimento monitorio documentale (anche se attenuata) e quello previsto dall’art. 633 al numero 2 e 3 dove troviamo la forma più vicina al procedimento monitorio puro. Secondo l’art. 633 c.p.c. può utilizzare questo procedimento chi si ritenga: - creditore di una somma liquida (ed esigibile) di denaro; - creditore di una determinata quantità di cose fungibili (sostituibili); - creditore della consegna di una cosa mobile determinata. La norma aggiunge che l’ingiunzione può essere pronunciata anche se il diritto dipende da una controprestazione o da una condizione, purché il ricorrente offra elementi atti a far presumere l’adempimento della controprestazione o l’avveramento della condizione. Il creditore si rivolge con ricorso al giudice competente (secondo le regole comuni) e il giudice pronuncia ingiunzione di pagamento o di consegna: - se si dia prova scritta del diritto fatto valere; - se il credito riguarda onorari per prestazioni giudiziali o stragiudiziali o rimborso di spese fatte da avvocati, cancellieri o da chiunque altro abbia prestato la sua opera in occasione di un processo e, in secondo luogo, se il credito riguarda onorari, diritti o rimborsi spettanti ai notai o ad altri esercenti una libera professione o arte, per la quale esiste una tariffa legalmente approvata. La nozione di prova scritta di cui sopra risulta appesantita rispetto a quella data nell’ambito del giudizio ordinario di cognizione: in base all’art. 634 c.p.c. sono prove scritte idonee all’emissione dell’ingiunzione, oltre a tutte quelle previste dal codice civile (atti pubblici, scritture private autenticate…) anche: - Le polizze e promesse unilaterali per scrittura privata; - I telegrammi; - Gli estratti autentici delle scritture contabili tenute dall’imprenditore (e quindi documenti redatti unilateralmente dal creditore) purché bollate e vidimate nelle forme di legge, nonché gli estratti autentici delle scritture contabili prescritte dalle leggi tributarie. Nella pratica forense ci si è chiesti se siano prove idonee ai fini dell’emissione del decreto ingiuntivo, anche le semplici fatture commerciali dell’imprenditore. La risposta è affermativa. a) Il procedimento Il procedimento per decreto ingiuntivo ha una struttura bifasica: - Prima fase monitoria ex artt. 638 e 639, in cui non c’è contraddittorio e il giudice decide in merito alla richiesta di condanna sulla base delle allegazioni documentali del ricorrente; - Seconda fase eventuale che si istaura a seguito della proposizione dell’opposizione del debitore. La domanda d'ingiunzione si propone con ricorso contenente, oltre i requisiti indicati nell'articolo 125, l'indicazione delle prove che si producono. Il ricorso è depositato in cancelleria insieme ai documenti che si allegano (art. 638). La sentenza che decide il processo di opposizione risolve la controversia: - Se l’opposizione è rigettata, il giudice accerta l’esistenza del diritto fatto valere dall’ingiungente: questo accertamento assorbe e supera il provvedimento monitorio e costituisce la materia del giudicato. Se l’opposizione è rigettata con sentenza passata in giudicato o provvisoriamente esecutiva, oppure è dichiarata con ordinanza l’estinzione del processo, il decreto che non ne sia già munito, acquista efficacia esecutiva. - Se l’opposizione è accolta parzialmente, il decreto ingiuntivo decade. Tuttavia restano fermi gli atti di esecuzione già compiuti nei limiti della somma o della quantità ridotta. - Se l’opposizione è accolta il DI viene revocato. d) Le impugnazioni ex art. 656 Il decreto d'ingiunzione, divenuto esecutivo a norme dell’art. 647 (mancata opposizione ovvero per mancata costituzione dell’opponente), può impugnarsi per revocazione nei casi indicati nei nn. 1, 2, 5 e 6 dell'articolo 395: - se sono l'effetto del dolo di una delle parti in danno dell'altra; - se si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza; - se la sentenza è contraria ad altra precedente passata in giudicato; - se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato; e con opposizione di terzo nei casi previsti nell'articolo 404 secondo comma (“Gli aventi causa e i creditori di una delle parti possono fare opposizione alla sentenza, quando è l'effetto di dolo o collusione a loro danno”). 3.4. IL RITO LOCATIZIO Le controversie in materia di locazione, di comodato immobili e di affitto di aziende sono regolate dall’art. 447. La norma in esame estende l'ambito di applicazione delle norme disciplinanti il rito del lavoro alle controversie in materia di locazione (art. 1571 del c.c. e ss.), comodato (art. 1803 del c.c. e ss.) ed affitto (art. 1615 del c.c. e ss) oltre a indicare espressamente quali norme del rito del lavoro trovano applicazione alle controversie oggetto del processo locatizio, individuando delle regole particolari per ciò che concerne i poteri istruttori del giudice (es. non possono essere sottoposte ad interrogatorio libero le persone incapaci a testimoniare ex art. 246 del c.p.c.). Inoltre, si ritengono inapplicabili, in quanto non richiamati, i commi secondo e quarto dell'art. 423, i quali attribuiscono al giudice la facoltà di ordinare, su istanza del lavoratore, il pagamento di una provvisionale, nella misura del quantum per il quale sia già stata raggiunta la prova. Si precisa che la competenza in materia di controversie relative a rapporti di locazione di immobili urbani, di comodato di immobili urbani e di affitto, è esclusiva del Tribunale del luogo in cui risulta situato l’immobile locato, o oggetto di affitto o di comodato. 3.5. IL PROCEDIMENTO PER CONVALIDA DI SFRATTO Un’altra ipotesi di procedimento sommario tout court, disciplinato nel IV libro del codice, è quella regolata dagli artt. 657 e ss. in materia di convalida di licenza e di sfratto. Il giudice ha anche qui prevalente funzione esecutiva per consentire al creditore di ottenere rapidamente un titolo esecutivo. Il presupposto sostanziale di questo rito consiste nella facoltà, per il locatore o il concedente, di agire per la restituzione del bene locato o concesso. Ha ad oggetto le locazioni immobiliari e gli affitti a coltivatori diretti. All’art. 657 “Il locatore o il concedente può intimare al conduttore, all'affittuario coltivatore diretto, al mezzadro o al colono, licenza per finita locazione, prima della scadenza del contratto, con la contestuale citazione per la convalida, rispettando i termini prescritti dal contratto, dalla legge o dagli usi locali”. All’art. 658 “Il locatore può intimare al conduttore lo sfratto con le modalità stabilite nell'articolo precedente anche in caso di mancato pagamento del canone d'affitto alle scadenze, e chiedere nello stesso atto l'ingiunzione di pagamento per i canoni scaduti.” Si vengono a creare dunque tre presupposti alternativi per accedere al procedimento di convalida di sfratto: - Intimazione di licenza nel caso in cui si intenda intimare al conduttore di rilasciare l’immobile prima che il contratto sia scaduto; - Intimazione di sfratto quando il contratto è già scaduto; - Intimazione di sfratto per morosità. Il processo si avvia con una intimazione che ha due contenuti: - Sostanziale  l’intimazione stessa è il contenuto sostanziale dell’atto infatti, nel caso di intimazione di licenza per finita locazione essa riguarda l’obbligo restitutorio che grava sul conduttore dell’immobile, prima che detto obbligo sia venuto a maturazione. L’intimazione di sfratto per morosità è invece una dichiarazione di volontà di risolvere il contratto a causa dell’inadempimento del conduttore della specifica obbligazione del pagamento dei canoni. - Processuale  il contenuto processuale dell’atto è la citazione a comparire innanzi al giudice: il locatore cita il conduttore a comparire innanzi al tribunale (la competenza appartiene al tribunale ove ha sede la cosa locata) avvertendolo che se non comparirà o se non farà opposizione, la licenza o lo sfratto intimati saranno convalidati a prescindere da un’attività di accertamento in contraddittorio. L’attore, che potrebbe procedere anche nelle forme ordinarie, notifica al convenuto un atto che, nel contempo, contiene l’espressione sostanziale della volontà di porre fine al rapporto e contestualmente incorpora la citazione dinanzi al giudice per ottenere la convalida della licenza o dello sfratto intimati. La sommarietà sta anche in questo: se il convenuto non si costituisce o non si oppone, il giudice con ordinanza convalida lo sfatto o la licenza: in calce alla citazione, appone la formula esecutiva e l’ordinanza diviene titolo esecutivo per la successiva esecuzione per rilascio (art. 608). Quando l’intimato si oppone, la fase sommaria finisce e si apre un normale giudizio di cognizione. Nel procedimento per convalida di sfratto, l’esecutorietà è concessa provvisoriamente, su istanza del locatore, anche in pendenza dell’opposizione, nel caso dell’art. 665: se l'intimato oppone eccezioni non fondate su prova scritta (presupposto positivo), il giudice, su istanza del locatore, se non sussistono gravi motivi in contrario (presupposto negativo), pronuncia ordinanza non impugnabile di rilascio, con riserva delle eccezioni del convenuto. Si tratta del c.d. istituto della condanna con riserva di eccezioni per il quale il giudice emette un provvedimento di condanna la cui immediata efficacia è risolutivamente condizionata all’accoglimento delle eccezioni sollevate dal convenuto. Va detto che il conduttore moroso ha diritto ad ottenere il c.d. termine di grazia: un ulteriore termine entro il quale pagare i canoni scaduti ed evitare il provvedimento di convalida dello sfratto. Così come per l’ingiunzione, il codice prevede la possibilità di una opposizione tardiva alla convalida, basata sul consueto principio della rimessione in termini della parte incolpevole: se la convalida della licenza o dello sfratto è avvenuta in assenza dell’intimato, questi può opporsi se prova di non averne avuto conoscenza tempestiva per irregolarità della notificazione o per caso fortuito o per forza maggiore. Il termine è di 10 giorni dall’esecuzione. a) Il procedimento di convalida Il giudice competente è inderogabilmente il tribunale dove si trova l’immobile o comunque la cosa locata. La citazione va notificata personalmente all’intimato e non al domicilio eletto. Quando si tratta di un atto che chiede la fine giudiziale del rapporto, il codice richiede la notificazione presso la residenza del convenuto. Se la notificazione non è avvenuta in mani proprie, l’ufficiale giudiziario deve spedire avviso all’intimato dell’effettuata notificazione a mezzo di lettera raccomandata e allegare all’originale dell’atto la ricevuta di spedizione. Se manca la prova del pieno rispetto del meccanismo di notificazione, il giudice non può disporre la convalida. Il giudice deve ordinare che sia rinnovata la citazione, se risulta o appare probabile che l’intimato non ne abbia avuta conoscenza o non sia potuto comparire per caso fortuito o forza maggiore. La citazione, deve contenere l’avvertimento al conduttore, che se non compare, o comparendo non si oppone, il giudice convalida la licenza o lo sfratto ai sensi dell’art. 663. Tra il giorno della notificazione dell’intimazione e quello dell’udienza devono trascorrere termini liberi non inferiori a 20 giorni. È comunque previsto che i termini possano essere abbreviati fino alla metà. Le parti si costituiscono: - l’attore depositando in cancelleria l’intimazione con la relazione di notificazione; - il convenuto con una comparsa di risposta (la costituzione può avvenire in qualsiasi momento, fino all’udienza stessa). Il convenuto può presentarsi anche solo senza la necessità di un legale. Ci si chiede se la convalida dello sfratto emessa in assenza di un accertamento pieno, in contraddittorio tra le parti, abbia un’efficacia di giudicato pieno come quella propria della sentenza, oppure se si tratti di un’efficacia minore. Stesso problema che si pone in relazione al decreto ingiuntivo non opposto: anche nel procedimento per convalida di sfratto la mancata opposizione determina la convalida, ma non è detto che il provvedimento di convalida abbia la stessa efficacia della sentenza ordinaria. La dottrina prevalente sostiene che il provvedimento di convalida, così così come l’efficacia esecutiva del decreto ingiuntivo non opposto, non ha la stessa efficacia di giudicato che è propria della sentenza, ma qualcosa meno, determinando una sorta di preclusione pro iudicato. In sostanza la preclusione sull’accertamento della coppia pretesa-obbligo, per garantire il singolo risultato conseguito, mentre i presupposti di esistenza, validità ed efficacia del rapporto non sarebbero accertati con efficacia di giudicato. Restia a questa impostazione è la giurisprudenza. 3.6. PROCEDIMENTI SOMMARI CAUTELARI La tutela cautelare si realizza attraverso uno schema procedimentale in cui il contraddittorio, di norma, è preventivo rispetto al provvedimento giudiziale che accorda la tutela del diritto. I procedimenti sommari cautelari sono , inoltre, funzionali all’emanazione di un provvedimento che è strumentale rispetto alla tutela di merito: si dice infatti che il provvedimento cautelare serve a chi vanta un diritto per assicurarsi l’interesse materiale che vi è sotteso prima che il tempo necessario ad ottenere la tutela di merito rischi di pregiudicare definitivamente dell’interesse materiale e quel diritto. Serve in sostanza per garantire la fruttuosità pratica e concreta della futura sentenza di merito che riconosce il diritto. La tutela assicurata però non è stabilmente satisfattiva. La strumentalità della tutela cautelare rispetto alla tutela di merito è di due tipi: - Funzionale  la strumentalità, ossia il fatto che la tutela cautelare serve ad assicurare in via provvisoria gli effetti dell’accogliento della domanda proposta in via ordinaria da chi lamenta la lesione di un proprio diritto, emerge in relazione ai presupposti per l’accesso alla tutela cautelare che sono: o Periculum in mora (pericolo nel ritardo): il creditore deve allegare il periculum in mora ossia il pericolo che il tempo necessario per ottenere la tutela in via ordinaria del diritto, pregiudichi il diritto stesso, il timore di perdere la garanzia del proprio credito. Tale presupposto è esplicato nella norma che si occupa del provvedimento d’urgenza (art. 700), ma è un presupposto generale della tutela cautelare; Sostanzialmente si tratta del pericolo che nel tempo intercorrente fra ricorso e discussione sul merito dello stesso possano intervenire fatti irreparabili che impedirebbero l'applicazione di un eventuale giudizio favorevole al ricorso; per es. l'abbattimento di alberi o di un edificio. o Fumus boni iuris (parvenza di buon diritto): indica la presunzione dell'esistenza di sufficienti presupposti per applicare un istituto giuridico, i requisiti necessari per ottenere la pronuncia del provvedimento del giudice. Chi chiede la tutela cautelare deve consentire al giudice un rapido convincimento circa l’esistenza del diritto fatto valere. Non esiste un criterio certo e univoco per stabilire quando è raggiunto il fumus: l’attore cercherà di allegare tutti i mezzi di prova di cui dispone. Sono misure cautelare tipiche quelle in cui periculum e fumus sono tipizzati in funzione del contenuto della misura cautelare (sussiste un novero di diritti che possono essere fatti valere), mentre è atipica, quanto all’oggetto, la misura cautelare dell’art. 700 ma perché la tipizzazione in quel caso è definito il pregiudizio. - Strutturale  la strumentalità implica che l’esistenza e la prosecuzione di un giudizio di merito è una condizione di efficacia della misura cautelare, nel senso che quest’ultima mantiene efficacia in quanto è pendente, o sta per essere intrapreso, il giudizio di merito per la cui fruttuosità pratica è stato emanato il provvedimento cautelare. I procedimenti cautelari sono quindi strutturalmente collegati ad un giudizio di merito che riconosca l’esistenza del diritto per cui: o o la misura cautelare è richiesta istaurando un subprocedimento all’interno del giudizio di merito pendente; o o la misura cautelare è richiesta ante causa, e se concessa, entro un certo termina, deve essere cominciato il giudizio di merito, pena la perdita di efficacia della misura cautelare concessa. Il necessario collegamento della tutela cautelare al giudizio di merito, è un principio però che oggi trova deroghe nella tutela cautelare a strumentalità attenuata: il legislatore del 2005 ha, infatti, preso atto del fatto che molto spesso la sola misura cautelare è in grado di soddisfare l’interesse materiale del soggetto che lamenti la lesione del giudizio, senza necessità di accertamento del diritto da parte del giudizio di merito a cognizione piena. L’attitudine a soddisfare utilmente l’interesse materiale del soggetto che lamenta la lesione del diritto non appartiene a tutte le misure cautelari, ma solo a quelle che oltre a essere in grado di proteggere, sono anche idonee ad anticipare, sul piano pratico, gli effetti dell’accoglimento della domanda di merito, pertanto solo queste misure hanno la possibilità di attenuato nesso strutturale tra procedura cautelare e procedimento di merito. Con la riforma del 2005 dunque, l’accoglimento della domanda cautelare ante causam non comporta l’onere di promuovere il giudizio di merito pena la perdita di efficacia della misura cautelare se si tratta di misura anticipatoria (nuovo comma 6, art. 669 octies). L’estinzione del giudizio di merito non determina l’inefficacia dei provvedimenti anticipatori anche quando la relativa domanda sia stata proposta in corso di causa (nuovo comma 8, art. 669 octies). Il procedimento di merito potrà essere istaurato da ambe le parti. a) Casi di inefficacia della misura cautelare giurisdizionale successiva che consegue al processo di cognizione piena possa essere effettiva e fruttuosa. Dunque la natura della tutela cautelare è duplice: - Anticipatoria  con il provvedimento cautelare vengono anticipati gli effetti conseguibili dall’istante con la sentenza di merito; - Conservativa  con il provvedimento cautelare non si anticipa il soddisfacimento del diritto che si avrà nel processo di cognizione piena, ma in qualche modo si congela la situazione attuale in modo tale che il processo e la sua durata non tornino in danno di chi ha ragione. Il risultato finale del processo a cognizione piena sarà eseguibile come se la tutela giurisdizionale fosse istantanea. Esaminando i singoli provvedimenti cautelari contemplati dal codice risulta di immediata comprensione la differenza tra misure cautelari conservative e misure cautelari anticipatorie. Non tutte le misure cautelari però sono codificate nel codice civile e nel codice di procedura civile; molte (c.d. stravaganti) sono disciplinate in leggi speciali. L’art. 669 quaterdecies, che è la norma conclusiva del blocco di articoli disciplinanti il rito cautelare uniforme, stabilisce che le norme sul procedimento cautelare uniforme si applicano alle misure cautelari contenute nel c.p.c. e in quelle contenute nelle leggi speciali. a) I sequestri Le misure cautelari tipiche più ricorrenti sono i sequestri: si tratta in questo caso di misure cautelari di natura conservativa, non anticipatoria. Pertanto se concessi ante causam, deve essere necessariamente avviato il processo di merito nel termine previsto dall’art. 669 octies, primo comma (60 giorni) pena la perdita di efficacia dei provvedimenti di sequestro ai sensi dell’art. 669 novies, primo comma. Il codice disciplina due tipi di sequestro: il sequestro giudiziario e il sequestro conservativo. La distinzione tra gli stessi si fonda su elementi in parte funzionali e in parte strutturali: e infatti, mentre dal punto di vista strutturale, il sequestro giudiziario si contrappone al sequestro conservativo nel senso che il primo si porta ad attuazione con forme assibilabili a quelle dell’esecuzione specifica e l’altro con forme assimilabili a quelle dell’espropriazione forzata, dal punto di vista funzionale lo stesso sequestro giudiziario si presenta in due figure distinte che assolvono a funzioni nettamente diverse. Conseguentemente con riguardo alla funzione è opportuno affiancare al sequestro conservativo, le due figure nelle quali si articola il sequestro giudiziale e così evidenziare tre figure di sequestro: - Sequestro giudiziario in funzione della fruttuosità dell’eventuale esecuzione diretta, o sequestro di beni  è quello che l’art. 670 n. 1 individua disponendo che il giudice può autorizzare il sequestro giudiziario di beni mobili o immobili, aziende o altre universalità di beni quando ne è controversa la proprietà o il possesso e quando è opportuno a provvedere alla loro custodia o gestione temporanea. Evidentemente essendo controversa la proprietà o il possesso, c’è il rischio che durante il tempo del processo di cognizione volto ad accertare di chi è la proprietà o il possesso, questo bene venga disperso o danneggiato, sicché l’eventuale esecuzione in forma specifica della sentenza che decide della controversia non possa far conseguire un risultato utile a chi ha ragione. In questo caso di sequestro giudiziario i presupposti per l’accesso alla tutela cautelare vengono così tipizzati: o Periculum in mora  c’è una situazione del bene che non ne garantisce la custodia adeguata ai fini del soddisfacimento del diritto che si fa valere; c’è bisogno che il bene oggetto di contesa venga custodito; o Fumus  normalmente è il diritto di proprietà sul bene, ossia un diritto assoluto anche se la giurisprudenza ha chiarito che questo tipo di sequestro può essere domandato non solo da chi vanta un diritto assoluto sulla cosa di natura reale, ma anche da chi vanta un diritto di godimento di natura obbligatoria. Il sequestro giudiziario è una misura cautelare atta a garantire la fruttuosità pratica di un provvedimento di merito che fondi l’esistenza di un obbligo specifico di consegna, di rilascio, di fare o di non fare. - Sequestro giudiziario in funzione della cognizione o sequestro di prove  è quello che l’art. 670 n.2 individua disponendo che il giudice può autorizzare il sequestro di libri, registri, documenti, modelli, campioni e ogni altra cosa da cui si pretende desumere elementi di prova, quando è controverso il diritto alla esibizione o alla comunicazione ed è opportuno provvedere alla loro custodia temporanea. Si tratta del c.d. sequestro di prove che ha la finalità di evitare che strumenti dimostrativi dei fatti rilevanti per un processo vadano dispersi o siano occultati. I presupposti del sequestro di cui al n. 2 dell’art. 670 sono: o Periculum in mora  necessità della custodia delle prove onde evitare danneggiamento o contraffazione; distruzione od occultamento delle stesse; o Fumus  si tutela il diritto processuale ad utilizzare quel bene come strumento dimostrativo del fatto. - Sequestro conservativo in funzione della fruttuosità dell’eventuale esecuzione per l’espropriazione  è quello configurato dall’art. 671 “Il giudice, su istanza del creditore che ha fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito, può autorizzare il sequestro conservativo di beni mobili o immobili del debitore o delle somme e cose a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne permette il pignoramento.” Ciò che è oggetto di tutela, in questo caso, è la garanzia patrimoniale del debitore posta dall’art. 2740 c.c. a tutela del credito. Il creditore teme di essere pregiudicato della dissipazione dei beni del debitore, che costituiscono la garanzia del proprio credito. Qui non è controversa la proprietà o il possesso dei beni di cui si chiede il sequestro, né il diritto all’utilizzo di quei beni come strumento di prova. I beni sono sicuramente del debitore e non valgono a fornire elementi di prova; il pericolo è che il creditore resti insoddisfatto. Il sequestro conservativo non serve a nulla se il creditore, in assenza della collaborazione del debitore, non consegue un titolo esecutivo con l’accertamento dell’esistenza del diritto di credito. I presupposti specifici del sequestro conservativo sono: o Periculum in mora  il rischio che nel tempo necessario a che il creditore possa ottenere un titolo esecutivo e avviare l’esecuzione forzata, i beni del debitore siano sottratti alla garanzia del credito da accertare; o Fumus  deve apparire fondata la pretesa creditizia; per chiedere il sequestro è necessario che il credito non sia stato già accertato e consacrato in un titolo esecutivo, perché in quel caso il creditore avrebbe già la possibilità di effettuare il pignoramento. Il sequestro conservativo altro non è infatti, che un pignoramento anticipato dei beni (creazione di un vincolo sui beni del debitore, in modo tale che gli atti di disposizione del debitore non possano andare in danno del creditore pignorante). Le forme del sequestro conservativo sono riprese da quelle del pignoramento e variano a seconda che oggetto del sequestro siano beni mobili, immobili e crediti del debitore: - Beni mobili  il sequestro si esegue con apprensione del bene da parte dell’ufficiale giudiziario; - Beni immobili  il sequestro si esegue mediante notifica dell’atto e la successiva trascrizione nel registro dei beni immobiliari; - Crediti verso terzi  il sequestro si esegue con le forme dell’espropriazione presso terzi, con la notificazione dell’atto al debitore e al terzo, e l’intimazione a quest’ultimo di non disporre delle somme o delle cose dovute al debitore senza ordine del giudice, e la citazione a comparire per rendere la dichiarazione sull’esistenza del credito in favore del debitore. Il vincolo che si crea nel caso di sequestro conservativo è paragonabile, ex art. 2906 c.c. al vincolo instaurato dal pignoramento (artt. 2912 e ss.). Se il bene è stato pignorato, il proprietario non può disporne efficacemente in danno del creditore pignorante; l’inefficacia che consegue al pignoramento è pertanto un’efficacie relativa poiché l’atto dispositivo del bene è valido ma inefficacie nei confronti del solo creditore o dei creditori intervenuti nell’espropriazione. Analogamente, se il debitore compie atti di disposizione del bene sottoposto a sequestro conservativo, questi sono inefficaci di fronte al creditore sequestrante. Il sequestro, pertanto protegge la garanzia del credito fintantoché il creditore non è in condizioni di porre il vincolo a garanzia del credito sui beni del debitore attraverso il pignoramento (ossia quando ha in mano un titolo esecutivo). Infatti, l’art. 686 c.p.c. indica che il sequestro conservativo si converte in pignoramento nel momento in cui il creditore sequestrante ottiene sentenza di condanna esecutiva. Quei beni saranno utilizzati per la soddisfazione del credito dell’istante. Il sequestro conservativo cessa dal momento in cui viene accertato il diritto di credito e non ci sarà bisogno di pignorare il bene, poiché il sequestro stesso si trasforma in pignoramento ex art. 686, il pignoramento è lo sviluppo naturale del sequestro conservativo. Riguardo al sequestro giudiziario di cui al n. 1 e 2, l’art. 676 stabilisce che il giudice, nel concedere il sequestro giudiziario, provvede in merito alla custodia dei beni sequestrati, potendo anche nominare custode quello tra i contendenti che offre maggiori garanzie e dà cauzione. Per quanto concerne le forme con cui si esegue il sequestro giudiziario, si applicano le norme dettate in tema di esecuzione in forma diretta e specifica (artt. 605 ss.): è omessa la notificazione del precetto per consegna e rilascio e la comunicazione di cui all’art. 608 primo comma (“L'esecuzione inizia con la notifica dell'avviso con il quale l'ufficiale giudiziario comunica almeno dieci giorni prima alla parte, che è tenuta a rilasciare l'immobile, il giorno e l'ora in cui procederà.”). Quali sono gli effetti del sequestro giudiziario? Se un bene è custodito, il soggetto tenuto a custodire il bene è obbligato su questo bene e risponde penalmente dell’eventuale omessa custodia. L’obbligo di custodire la cosa sequestrata termina quando cessa l’efficacia del sequestro ovvero quando è assorbito dal provvedimento di merito che decide della proprietà o del possesso o dall’ordinanza che decide dell’esibizione del mezzo di prova. b) Il sequestro liberatorio Il sequestro liberatorio è un’ipotesi particolare di sequestro prevista dall’art. 687 c.p.c. Viene richiesto dal debitore su cui grava un’obbligazione di prestare una somma di denaro o di consegnare delle cose, al fine di evitare gli effetti della mora debendi quando è controverso l’obbligo o il modo del pagamento o della consegna, o l’idoneità della cosa offerta. Si tratta del sequestro delle somme o delle cose che il debitore ha offerto o messo comunque a disposizione del creditore per la sua liberazione. c) Il provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. Il codice del 1940 aveva configurato un tipo di procedimento che ha il carattere della sussidiarietà e la funzione di venire incontro a quelle esigenze di cautela per le quali non sia specificatamente previsto un procedimento cautelare tipico. Si tratta dei c.d. provvedimenti d’urgenza. Tale sistema è rimasto immutato con la riforma del 1990, con la sola differenza che in esso si è inserita la nuova disciplina generale dell’iter procedimentale di tutti i procedimenti cautelari compresi i provvedimenti d’urgenza. “Fuori dei casi regolati nelle precedenti sezioni di questo capo, chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d'urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito”. Il provvedimento d’urgenza ex art. 700 è una misura cautelare atipica nel senso che la legge non ne predetermina il contenuto, che è modulato dal giudice in funzione dell’idoneità ad assicurare provvisoriamente gli effetti. Una delle caratteristiche dei provvedimenti d’urgenza è la residualità: il provvedimento d’urgenza può essere emanato solo qualora per l’esigenza cautelare che si fa valere non sia previsto un altro provvedimento cautelare tipico. Si tratta, inoltre di un provvedimento anticipatorio poiché il contenuto del provvedimento d’urgenza anticipa gli effetti della sentenza di merito. Ottenendo un provvedimento d’urgenza, l’istante ha una tutela effettiva sul piano materiale, ha una protezione di fatto del diritto stesso. Il legislatore in questo caso, qualifica il fumus boni iuris e il periculum in mora connotando in maniera tipica il pregiudizio (non l’evento che lo produce) che deve essere dimostrato per accedere alla cautela. Non vi è un0identificazione specifica riguardo al fumus (qualsiasi tipo di diritto può essere tutelato attraverso il provvedimento ex art. 700) proprio perché l’art. 700 stesso non definisce un novero particolare di diritti che possono essere tutelate con le forme di cui all’art. 700. Il pericolo in mora non è definito tanto nell’evento che si vuole evitare, quanto più nel pregiudizio, il danno che si vuole evitare. Per la concessione del provvedimento allora il diritto che si vuol far valere deve essere minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile. Mentre il profilo dell’imminenza attiene alla prossimità del pericolo, quello dell’irreparabilità va valutato dal giudice di volta in volta in considerazione della specifica situazione sostanziale minacciata. È irreparabile il danno quando la lesione del diritto non è suscettibile di reintegrazione in forma specifica e di riparazione per equivalente facendo così riferimento a situazioni giuridiche finali o assolute (diritti assoluti e diritti della personalità). d) Denuncia di nuova opera e di danno temuto L’oggetto sostanziale del procedimento sulle denunce è costituito da quelle situazioni. Che gli artt. 1171 e 1172 configurano sotto le due tradizionali denominazioni di denuncia di nuova opera e denuncia di danno temuto. L’interesse che il legislatore vuole tutelare è quello di prevedere o arrestare il danno in itinere, danno che, se pervenisse a determinarsi, sarebbe antigiuridico: se il danno si è verificato non si può più ricorrere alla denuncia, che serve invece a prevenire un pericolo che si è già manifestato e che può aggravarsi. La denuncia di nuova opera può essere fatta dal proprietario di un bene o dal titolare di un altro diritto reale di godimento o dal possessore, il quale ha ragione di temere che da una nuova opera, da altri intrapresa sul proprio come sull’altrui fondo sia per derivare un danno alla cosa che forma oggetto del suo diritto o del suo possesso (art. 1171 cc). È previsto un limite alla possibilità di ricorrere a questa misura cautelare: l’azione di nunziazione non si può proporre decorso un anno dall’inizio della nuova opera. Trascorso un anno infatti, bisognerà ricorrere al processo ordinario di cognizione per far rimuovere l’opera ritenuta pericolosa o perché siano ordinate le opportune cautele. Il provvedimento nel quale sfocia il procedimento di cui trattasi ha forma di decreto motivato. L’art. 739 configura la possibilità di reclamo contro quest’ultimo, entro un termine perentorio di dieci giorni dalla comunicazione del decreto da parte della cancelleria. Il rito camerale in materia di diritti soggettivi, è per il legislatore, un’opzione legittima ma di dubbia opportunità. La tendenza al rito camerale sembra essersi arrestata del tutto a favore del rito c.d. sommario, a cognizione semplificata ma con caratteristiche più idonee a garantire egualmente rapidità ed efficacia. 4. L’ARBITRATO a) Rituale e irrituale Oltre alla procedura ordinaria rappresentata dal ricorso all’Autorità giudiziaria le parti possono scegliere di demandare la risoluzione di determinate controversie alla decisione di uno o più arbitri , attivando un giudizio privato. Un procedimento decisamente più veloce di quello ordinario e che si divide in arbitrato rituale ed arbitrato irrituale, quest’ultimo elaborato dalla dottrina e dalla pratica e, successivamente, ammesso dalla giurisprudenza. L’arbitrato rituale, espressamente disciplinato dal Codice di procedura civile, ricorre quando le parti di una controversia demandano agli arbitri/o l’esercizio di una giurisdizione, concorrente con quella ordinaria, per la risoluzione della lite, consapevoli che si perverrà ad un lodo suscettibile di essere reso e esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825 c.p.c., con l’osservanza delle regole del procedimento arbitrale. Si ha, invece, un arbitrato irrituale (o libero) quando agli arbitri/o è conferita la risoluzione di un rapporto controverso mediante lo strumento negoziale, una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibile alla volontà delle parti stesse, le quali si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione della loro volontà. In ogni caso, l’atto con il quale si chiude l’arbitrato irrituale rimane ben distinto dalla sentenza (diversamente da quanto previsto per l’arbitrato rituale ex art. 824 bis), della quale non potrà mai acquistare né efficacia di accertamento né l’attitudine ad essere assoggettato ai mezzi di impugnazione. A questo riguardo l’art. 808 ter si limita ad affermare che il “lodo contrattuale” è annullabile dal giudice competente per una serie di vizi di natura processuale. L’arbitrato vero e proprio, o arbitrato rituale, ha invece, non soltanto la funzione, ma anche la struttura del giudizio, che è di accertamento. Consiste infatti, in un vero e proprio giudizio – di diritto o di equità – che gli interessati affidano ad uno o più arbitri attraverso un negozio giuridico (compromesso o clausola compromissoria, ricompresi nella nozione di convenzione arbitrale). Si tratta di un giudizio privato (effettuato da soggetti che operano come giudici), la cui struttura è ormai ritenuta sufficiente, per attribuire al prodotto di quel giudizio (c.d. lodo rituale) l’efficacia propria della sentenza già al momento della pronuncia del lodo stesso, ex art. 824 bis. Nel caso di errore nella scelta tra giudice e arbitro, viga la translatio del giudizio davanti al giudice o all’arbitro competenti, con salvezza degli effetti della domanda inizialmente proposta. b) Il patto compromissorio e la domanda arbitrale Alla base del fenomeno dell’arbitrato si trova un atto di volontà negoziale tra le parti che, al contempo, fonda e limita il compito degli arbitri. La devoluzione agli arbitri si realizza in concreto nella c.d. convenzione (o patto) di arbitrato, all’interno della quale le parti si accordano per fare decidere una loro controversia ad uno o più arbitri, sottraendola alla giurisdizione del giudice dello Stato. La stessa si articola in due figure, alle quali possiamo aggiungerne una terza: - Compromesso  le parti si accordano per deferire agli arbitri una controversia già sorta; - Clausola compromissoria  all’interno di un contratto o con atto separato in relazione ad esso si inserisce una clausola che prevede il deferimento agli arbitri delle eventuali future controversie che da quel contratto sorgessero (più frequente rispetto al compromesso); - Convenzione arbitrale sui rapporti non contrattuali  le parti possono stabilire (art. 808 bis), con apposita convenzione, che siano decise da arbitri le controversie future relative a uno o più rapporti non contrattuali determinati. Il patto di arbitrato, in questo caso è sui generis, simile alla clausola compromissoria, perché riguarda controversie non ancora insorte, ma diversa perché non è accessorio a un contratto. L’art. 806 c.p.c. dispone quali materie possono essere fatte oggetto di convenzione arbitrale: “le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili ”, e continua affermando che “le controversie di cui all'articolo 409 possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro”. Si stabilisce all’art. 807 che il compromesso debba avere forma scritta a pena di nullità. La norma continua disponendo che la forma scritta è rispettata anche quando la volontà delle parti è espressa per telegrafo, facsimile o messaggio telematico purché nel rispetto della normativa concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti teletrasmessi. Analogamente, l’art. 808 dispone che “la clausola compromissoria deve risultare da atto avente la forma richiesta per il compromesso ai sensi dell'articolo 807”. L’atto introduttivo del giudizio arbitrale è la domanda arbitrale nella quale è necessario specificare di voler promuovere il procedimento arbitrale, individuare la controversia che si vuole sottoporre agli arbitri oltre a indicare ciò che la parte istante chiede agli arbitri. Solo infatti una domanda arbitrale validamente specificata, con l’individuazione di petitum e causa petendi, se pur libera nella forma (Cass., 10.2.2003, n. 2472), consente il prodursi di effetti equivalenti a quelli realizzati con la proposizione della domanda giudiziale. Nella stessa sarà necessaria anche la nomina degli arbitri ex art. 810 (“Quando a norma della convenzione d'arbitrato gli arbitri devono essere nominati dalle parti, ciascuna di esse con atto notificato per iscritto, rende noto all'altra l'arbitro o gli arbitri che essa nomina, con invito a procedere alla designazione dei propri. La parte, alla quale è rivolto l'invito, deve notificare, nei venti giorni successivi, le generalità dell'arbitro o degli arbitri da essa nominati. In mancanza, la parte che ha fatto l'invito può chiedere, mediante ricorso, che la nomina sia fatta dal presidente del tribunale nella cui circoscrizione è la sede dell'arbitrato. Se le parti non hanno ancora determinato tale sede, il ricorso è presentato al presidente del tribunale del luogo in cui è stata stipulata la convenzione d'arbitrato oppure, se tale luogo è all'estero, al presidente del tribunale di Roma”) La domanda di arbitrato assume connotati che la rendono simile ad un atto introduttivo di un giudizio ordinario anche se non sono previsti rigorosi requisiti formali. L’accettazione da parte degli arbitri segna il momento di inizio del procedimento agli effetti del termine per la pronuncia del lodo. Il suo iter inizia, in ogni caso, dunque con la costituzione del collegio o con la comparizione delle parti davanti all’arbitro unico. c) Il processo arbitrale, il lodo e i mezzi di impugnazione Poiché il giudizio arbitrale ha natura di giudizio privato, il codice non si cura di disciplinare le modalità di questo giudizio. Dispone solo che la sede dell’arbitrato è determinata dalle parti o in mancanza dagli stessi arbitri nella loro prima riunione (art. 816, comma 1). E tuttavia, la norma continua: “Se le parti e gli arbitri non hanno determinato la sede dell'arbitrato, questa è nel luogo in cui è stata stipulata la convenzione di arbitrato. Se tale luogo non si trova nel territorio nazionale, la sede è a Roma”. L’art. 816 bis aggiunge che gli arbitri debbono in ogni caso attuare il principio del contraddittorio concedendo alle parti ragionevoli ed equivalenti possibilità di difesa. La norma prosegue stabilendo che le parti possono stare in arbitrato per mezzo di difensori. Gli arbitri non dispongono di poteri giurisdizionali autoritativi pertanto non possono pronunciare provvedimenti cautelari o ingiuntivi, i quali restano nella competenza del giudice ordinario. Ex art. 816 ter, per quanto concerne l’istruttoria o singoli atti di istruzione , questi possono essere delegati dagli arbitri, ad uno di essi. Gli arbitri possono assumere direttamente presso di sé la testimonianza, ovvero assumere la deposizione del testimone, nella sua abitazione o nel suo ufficio, ove questi lo consenta. Possono anche deliberare di assumere la deposizione richiedendo al testimone di fornire per iscritto risposte a quesiti, nei termini che essi stessi stabiliscono. Se un testimone rifiuta di comparire davanti agli arbitri, questi possono richiedere al presidente del tribunale della sede dell’arbitrato, che ne ordini la comparizione; possono nominare consulenti tecnici e chiedere informazioni alla Pubblica amministrazione. La redazione di un processo verbale non è richiesta dal codice, ma è abituale nella pratica. Con riguardo alla decisione, il lodo, i requisiti formali che il codice prevede sono analoghi a quelli della sentenza. Così per l’art. 823, il lodo è deliberato a maggioranza di voti con la presenza di tutti gli arbitri ed è redatto per iscritto. Il lodo deve contenere: - Il nome degli arbitri; - La sede dell’arbitrato; - Le parti; - L’indicazione della convenzione di arbitrato e delle conclusioni delle parti; - L’esposizione sommaria dei motivi; - Il dispositivo; - La sottoscrizione degli arbitri; - La data delle sottoscrizioni. L’art. 824 dispone che gli arbitri redigono il lodo in uno o più originali e danno comunicazione del lodo a ciascuna parte mediante consegna di un originale o di una copia conforme, entro dieci giorni dalla sottoscrizione del lodo stesso. Con la deliberazione, la sottoscrizione e la successiva comunicazione del lodo, ha termine il compito degli arbitri; il lodo già produce ex art. 824 bis, dalla data della sua ultima sottoscrizione, gli effetti di accertamento e costitutivi della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria (efficacia vincolante tra le parti, ma priva di efficacia esecutiva). Al fine dell’esecutività e della trascrivibilità dello stesso, manca invece, un ulteriore iter, eventuale: un atto presso il giudice ordinario. La pronuncia di lodi parziali e di lodi non definitivi è ora riconosciuta ammissibile esplicitamente dall’art. 827, comma 3. Il lodo può essere sempre oggetto di impugnazione indipendentemente dal suo deposito. Il legislatore ha inoltre espressamente previsto la possibilità di impugnazione del lodo parziale, mentre per quanto attiene all’impugnazione del lodo non definitivo, ossia quel lodo che ha risolto solo alcune delle questioni sorte nel procedimento arbitrale, è previsto che questo sia impugnabile solo unitamente al lodo definitivo. Il lodo, dunque è suscettibile di impugnazione per nullità, revocazione e opposizione di terzo Caratteristica delle prime due è la loro irrinunciabilità: esse sono ammissibili anche quando le parti, nel compromesso o nella clausola compromissoria, avessero dichiarato il lodo inappellabile o inimpugnabile. I tre mezzi di impugnazione sono esperibili davanti alla corte d’appello nel cui distretto l’arbitrato ha sede. Legittimati all’impugnazione per nullità del lodo sono, oltre alla parte, anche il terzo intervenuto, secondo le regole ordinarie, nonché il successore nel diritto controverso ex art. 111 c.p.c. Il termine per proporre l’impugnativa, che di per sé non sospende l’efficacia del lodo, è di 90 giorni dalla notifica dello stesso ovvero, in mancanza, di un anno dalla data della sua ultima sottoscrizione. I motivi di impugnativa sono da ricondursi tanto a vizi di attività quanto a vizi di giudizio, salvo sia stato demandato agli arbitri di decidere secondo equità. L’art. 831 c.p.c. contempla infine l’impugnazione del lodo per revocazione e opposizione di terzo, quali rimedi straordinari avverso il lodo passato in giudicato, non più impugnabile per nullità. Sul piano operativo, l’impugnazione si propone con citazione che deve contenere a pena di inammissibilità l’indicazione dei motivi di nullità del lodo che, seppur non specificamente elencati, debbono comunque essere esattamente individuabili dall’esame complessivo dell’atto, poiché non è consentito al giudice dell’impugnazione prendere in considerazione d’ufficio motivi di nullità non dedotti dalle parti. Il d.lgs. n. 40/2006 ha modificato radicalmente i casi di impugnazione per nullità del lodo , correggendo anche la norma inerente il giudizio della Corte di appello. Mentre in precedenza la Corte d’appello, dopo avere dichiarato la nullità del lodo, decideva sempre nel merito, a meno che non vi fosse la volontà contraria di tutte le parti, con la riforma in parola, il principio generale è opposto, cioè la Corte di Appello, investita della decisione, non decide anche il merito, salvo i casi in cui la nullità dipenda dall’invalidità o inefficacia del lodo. L’art. 829 c.p.c. detta, secondo un’elencazione tassativa e non suscettibile di estensione, i casi in cui è ammessa impugnazione per nullità, quali a titolo solo esemplificativo e non esaustivo: - se la convenzione d’arbitrato è invalida; - se il lodo è stato pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro, visti i casi d’incapacità, ex art. 812; - se non è stato osservato, nel procedimento arbitrale, il principio del contraddittorio. La Corte d’appello può rigettare o accogliere l’impugnazione per nullità; nel primo caso, si determina solo una situazione di non ulteriore impugnabilità. Con l’accoglimento dell’impugnazione invece il lodo è annullato e il giudice deve decidere nel merito, salva contraria volontà delle parti.
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