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Procedura Civile Riassunti 1, Dispense di Diritto Processuale Civile

Procedura Civile Riassunti 1 2022/2023

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 10/10/2022

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matteoCcccc 🇮🇹

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Scarica Procedura Civile Riassunti 1 e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! LUISO - DIRITTO PROCESSUALE CIVILE; VOL 2 - IL PROCESSO DI COGNIZIONE 1) IL PROCESSO DI COGNIZIONE DI PRIMO GRADO
 Accano al modello ordinario di processo di cognizione sussistono processi di cognizione speciali, come il processo del lavoro, processo delle locazioni. Quello ordinario costituisce il rito normale, accanto a quelli speciali e trova applicazione per tutte le controversie per le quali non sia previsto un rito speciale. Il processo di cognizione è il mezzo con il quale si impartisce la tutela dichiarativa. Piuttosto che parlare di tutela giurisdizionale di cognizione, dobbiamo parlare di tutela giurisdizionale dichiarativa, poiché essa consiste nella dichiarazione (autoritativa, in quanto prescinde dalla volontà delle parti, e vincolante, perché costituente appunto esercizio di potere autoritativo) dei comportamenti leciti e doverosi di due o più soggetti circa un bene della vita protetto e garantito dall’ordinamento.
 Quindi sarebbe meglio parlare di tutela dichiarativa perché l’organo giurisdizionale, per poter giungere alla sua statuizione, deve prima conoscere la realtà sostanziale introdotta nel processo e cioè deve porre in essere una attività di ricognizione dei presupposti e del contenuto del suo provvedimento: la cognizione è un’attività strumentale (ma occupa quasi la totalità della durata del procedimento). Il quid proprium è ciò che l’organo dichiara con il suo provvedimento : ecco perché si dovrebbe chiamare tutela dichiarativa.
 La disciplina del processo di cognizione ordinario è contenuta essenzialmente nel secondo libro del codice. Alcune norme sono però contenute nel libro 6 del c.c. (norme relative alle prove).
 Il secondo libro del codice, dedicato al processo di cognizione, è diviso in quattro titoli: i primi due titoli riguardano il processo di primo grado, il terzo le impugnazioni, ed il quarto il processo del lavoro ed il processo delle locazioni, che sono processi di cognizione speciali.
 Nel primo titolo viene disciplinato il processo di primo grado di fronte al tribunale; nel secondo titolo è invece disciplinato il processo di primo grado di fronte al giudice di pace, ma limitatamente alle norme che modificano la disciplina, stabilita per il processo di tribunale a decisione monocratica, nelle ipotesi in cui il processo si svolge dinanzi al giudice di pace. Quindi, in caso di processo innanzi al giudice di pace, si deve anzitutto andare a vedere se esiste una norma speciale nella parte dedicata a questo organo; altrimenti si ricerca la norma nella parte che disciplina il processo di tribunale a decisione monocratica.
 Il processo di primo grado si può suddividere in tre momenti logici:
 1) l’introduzione della causa : ne fanno parte gli atti che servono ad individuare l’oggetto del processo, cioè la situazione sostanziale di cui si chiede la tutela, la lesione e gli effetti che si chiedono al giudice, ossia la tutela richiesta.
 2) La trattazione : ha la funzione di acquisire tutti gli elementi che servono per la decisione: elementi di fatto, elementi di diritto e soprattutto ( anche se si tratta di una fase che non ha luogo in tutti i processi) l’istruzione probatoria, che si rende necessaria quando vi è necessità di accertare il modo di essere dei fatti storici introdotti nel processo. 3) La fase decisoria: è quella in cui l’organo giurisdizionale, sulla scorta di tutta l’attività svolta, emette il provvedimento con il quale dà o nega la tutela richiesta, determinando in modo vincolante quali sono le regole di condotta delle parti in relazione alla situazione sostanziale protetta, di cui è stata chiesta la tutela. 2) LA CITAZIONE La citazione costituisce l’atto introduttivo del processo di cognizione ordinario.
 La funzione della citazione è duplice : individua l’oggetto del processo, e cioè la situazione sostanziale di cui si chiede la tutela, la lesione di tale situazione prodotta dall’illecito altrui, ed infine la tutela che si richiede al giudice (la situazione sostanziale così individuata poi sarà anche quella oggetto della sentenza). Dall’altro lato, la citazione porta la domanda giudiziale a conoscenza quanto meno di altri due soggetti. Infatti, il processo è actus trium persona rum, è attività di tre persone: colui che chiede la tutela ( attore ), colui contro il quale la tutela è richiesta ( convenuto) e il giudice = PRINCIPIO DELLA TRILATERALITÀ.
 La domanda va portata a conoscenza del giudice perché questi, per decidere, deve sapere cosa 1 gli è chiesto; va portata a conoscenza della controparte, per il rispetto del diritto di difesa ( o principio del contraddittorio) ex artt 24 e 111 cost.
 Il duplice contenuto della citazione consente di distinguere in essa due profili : la cosiddetta editio actionis, che attiene alla prima funzione e coincide con la proposizione della domanda giudiziale; e la cosiddetta vocatio in ius, che rientra invece nell’ambito della seconda funzione della citazione, consistente nel portare la domanda a conoscenza degli altri soggetti. Inoltre la citazione può contenere elementi propri della fase di trattazione come, ad es., la allegazione dei fatti che non servono ad individuare il diritto in giudizio e le attività relative all’istruttoria.
 Come contenuto, qualunque atto introduttivo del processo deve comprendere l’editio actionis; invece la forma può essere regolata dal legislatore nella maniera più varia, ad esempio: - citazione ( art. 163-163 bis c.p.c.) = atto introduttivo del rito ordinario; - ricorso ( art. 414 c.p.c.) = atto introduttivo di riti speciali come il rito del lavoro e delle locazioni.
 Le differenze intercorrenti fra questi due atti non sono di contenuto, ma riguardano il fatto che la citazione viene prima notificata alla controparte e poi depositata nella cancelleria del giudice, che quindi ne prende cognizione successivamente alla controparte (può accadere che la parte ometta il deposito in cancelleria); nel ricorso, invece, prima si deposita l’atto presso la cancelleria del giudice e poi si notifica alla controparte ( e qui può accadere che tale seconda attività sia omessa). Secondo gli artt. 163-163 bis c.p.c. gli elementi della citazione sono i seguenti : 1) l’indicazione del giudice al quale la domanda è rivolta; 2) l’indicazione delle parti: attore, convenuto e, se è un processo con una pluralità di parti, anche le altre parti; 3) l’indicazione della cosa oggetto della domanda. Questo elemento integra il petitum, ossia ciò che è richiesto. 
 Ma con il termine petitum si intendono due cose diverse: da un lato, il cosiddetto petitum immediato, che è il provvedimento che si chiede al giudice; dall’altro, il cosiddetto petitum mediato, che è la situazione sostanziale dedotta in giudizio.
 L’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni delle domande, vale a dire la causa petendi ossi la fattispecie costitutiva del diritto, è prevista dal n. 4 dell’art. 163 c.p.c. (Es. X chiede accertamento del suo diritto di proprietà su un bene, il p. Immediato è il provvedimento di accertamento del diritto, il p. Mediato è il diritto di proprietà sul bene e la causa petenti è il contratto di acquisto del bene). La causa petendi riveste, all’interno del processo, un ruolo diverso a seconda che si tratti di diritti auto-individuati o etero-individuati. I diritti auto individuati hanno, come elementi di identificazione, il soggetto, il bene ed il tipo di utilità garantita dall’ordinamento, la causa petendi non costituisce elemento di identificazione degli stessi. Al contrario i diritti etero individuati si identificano ( anche ) attraverso la fattispecie costitutiva, cioè la causa petendi perché, al moltiplicarsi delle fattispecie costitutive, si moltiplicano i diritti. La causa petendi, quindi, si unisce all’utilità garantita ed ai soggetti quale elemento di individuazione dei diritti in questione. Tornando ora all’art. 163 c.p.c., quanto appena visto significa che, per realizzare la sua funzione di atto che contiene una domanda giudiziale, la citazione deve enunciare la causa petendi, se si tratta di un diritto etero individuato; non è invece necessaria l’indicazione della causa petendi, se dedotto in giudizio è un diritto auto individuato. La mancanza di causa petendi, mentre porta alla nullità dell’atto introduttivo nel caso di diritti etero individuati, non comporta la stessa conseguenza nel caso di diritti auto individuati. La causa petendi, peraltro, rileva non solo come elemento della domanda giudiziale ( e come tale appartiene all’introduzione della causa), ma anche ( e sempre ) come elemento della trattazione, cioè rileva ai fini dell’accoglimento oppure del rigetto della domanda nel merito. Relativamente ai diritti etero individuati la causa petendi ha una duplice funzione (serve ad individuare il diritto e serve anche a farsi dare ragione), nei diritti auto individuati ha soltanto questa seconda funzione, cioè serve perché il giudice si convinca che l’attore ha ragione e quindi accolga la domanda. 2 costituzione spontanea, come quella per rinnovazione, ha quindi efficacia retroattiva. Con la costituzione del convenuto si acquisisce quindi al processo quella condizione per la pronuncia di merito, che è la regolare instaurazione del contraddittorio. La sanatoria del vizio di tale presupposto processuale non significa tuttavia che diviene del tutto irrilevante l’originaria nullità della citazione. La omissione o la incertezza circa uno degli elementi visti sopra, infatti, oltre a non consentire una pronuncia di merito, non permette al convenuto un’adeguata difesa: la costituzione del convenuto non comporta una convalidazione oggettiva, in quanto la sua presenza nel processo significa che il contraddittorio si è realizzato, ma non anche che si sia ben realizzato. Una convalidazione oggettiva in relazione a questo profilo si ha solo se il convenuto si sia difeso pienamente : la sola costituzione non è sufficiente. L’ art. 164, III c.p.c. prevede che il giudice , ove il convenuto lo richieda, deve fissare una nuova udienza di prima comparazione, nel rispetto dei termini previsti dall’art. 163- bis c.p.c. , per consentire al convenuto di depositare una comparsa di costituzione ai sensi dell’art. 167 c.p.c. venti giorni prima dell’udienza fissata. Ciò è quanto l’art. 164, III c.p.c. prevede espressamente per il caso in cui, nella citazione, sia stato assegnato un termine a comparire inferiore al legale, oppure sia omesso l’avvertimento di cui al n. 7 dell’art. 163 c.p.c. Ma la stessa regola deve valere anche per le altre tre ipotesi di nullità della vocatio in ius sempre che la omissione o la incertezza ad esse relative siano veramente tali.
 La previsione contenuta nell’art. 164 III c.p.c. , e relativa alla fissazione di una nuova prima udienza di trattazione, sia riferita espressamente a due ipotesi, in cui il convenuto ha avuto sicuramente conoscenza della pendenza del processo: ciò significa che, per disposizione esplicita del legislatore, la < riapertura> piena ed incondizionata del processo consegue a vizi dell’atto introduttivo, in dipendenza dei quali la difesa del convenuto è senz’altro possibile e solo più difficoltosa. Tale riapertura deve aver luogo allorché il vizio dell’atto introduttivo sia tale da rendere addirittura impossibile tale difesa così come accade per le altre tre ipotesi di nullità. La giurisprudenza della Corte di cassazione è unanime nell’affermare che il convenuto non ha alcun obbligo di attivarsi, per integrare gli elementi carenti della citazione: egli ha diritto di ricavare, dalla copia della citazione a lui notificata, tutto quello che gli serve per difendersi. Identica disciplina si ha se il convenuto si costituisce spontaneamente nel corso del processo e rileva un vizio della citazione. Se tale eccezione è fondata, egli ha diritto di chiedere la fissazione di una nuova prima udienza ex art. 183 c.p.c. , senza incorrere in decadenze o preclusioni. Ritenere diversamente significherebbe far ricadere sul convenuto incolpevole l’errore dell’attore ( che ha redatto una citazione nulla ) e l’errore del giudice ( che non si è accordo di tale nullità). NULLITA’ AFFERENTI ALL’EDITIO ACTIONIS
 La seconda parte dell’art. 164 c.p.c. si occupa dei vizi attinenti alla editio actionis. Dispone infatti il 4° co. che l’omissione o l’assoluta incertezza del requisito di cui al n. 3 o la mancata esposizione dei fatti di cui al n. 4 dell’art. 163 c.p.c. determinano la nullità della citazione. L’individuazione delle parti in senso sostanziale ( cioè dei titolari della relazione giuridica dedotta in giudizio ) rientra nell’editio actionis, in quanto necessario elemento identificatore del diritto fatto valere: una tale omissione riguarda il requisito di cui al n. 3 dell’art. 163 c.p.c.
 Diversa è la mancata esposizione dei fatti di cui al n. 4 dell’art. 164 c.p.c. La fattispecie costitutiva di un diritto è elemento per la identificazione dello stesso solo per i diritti c.d. etero individuati, mentre per i diritti c.d. auto individuati l’allegazione ( e la prova ) di una fattispecie costitutiva è condizione per l’accoglimento nel merito della domanda ma non per l’identificazione del diritto fatto valere. Ne consegue che la omessa esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda comporta vizio della citazione a causa della mancata individuazione del diritto fatto valere solo per i diritti etero individuati, mai per quelli auto individuati. Ci si chiede se la nullità, comminata dall’art. 164 IV c.p.c., per una citazione che non contenga l’allegazione della causa petendi, si riferisca solo ai diritti etero individuati o anche ai diritti auto individuati; è chiaro che, per ritenerla riferibile anche a questi ultimi, occorre concludere che i vizi della editio actionis si verifichino anche allorché sia individuato il diritto fatto valere. Quest’ultima conclusione sembra esclusa proprio dal regime della sanatoria dei vizi della editio actioni .
 Non si vede infatti per quale motivo un atto di citazione, con il quale si chiede l’accertamento di un diritto di proprietà individuato nei suoi elementi rilevanti, sia inidoneo, ad es. ad interrompere l’usucapione avversaria, o a far scattare l’art. 948 c.c., o a determinare l’applicazione dell’art. 111 5 c.p.c.; si dovrebbe altrimenti ritenere che tali effetti conseguano ( non all’esercizio del diritto ma ) alla allegazione di una fattispecie costitutiva del diritto stesso. Il che è palesemente assurdo. L’allegazione dei fatti costitutivi del diritto auto individuato, che non sia effettuata nell’atto introduttivo è possibile ai sensi dell’art. 183, V c.p.c.
 Si deve quindi concludere che l’art. 164 IV c.p.c. richiama le carenze relative ai requisiti di cui al n. 4 dell’art. 163 c.p.c. solo nei limiti in cui tali carenze impediscono l’individuazione della situazione sostanziale fatta valere. Il richiamo va integrato, con il requisito di cui al n. 2 dell’art. 163 c.p.c. ( individuazione delle parti in senso sostanziale); mentre va espunto il riferimento alla causa petendi per i diritti auto individuati. SANATORIA PER RINNOVAZIONE O INTEGRAZIONE. Allorché vi sia nullità della citazione con riferimento alla editio actionis è evidente che la sola costituzione del convenuto non è sufficiente a sanare tale nullità ; né si può pensare che l’identificazione del diritto possa provenire dal convenuto stesso: in primo luogo perché egli non è legittimato a sostituirsi all’attore nell’individuare il diritto che quest’ultimo vuol far valere; in secondo luogo, perché, se veramente il diritto non è individuabile, il convenuto non è in grado di sapere quale sia la situazione sostanziale che l’attore voleva far valere ( se ciò fosse invece possibile, allora la citazione non sarebbe nulla> es. l’attore chiede che il convenuto sia condannato a pagare 100 senza individuare il credito da adempiere). La sanatoria può provenire soltanto da un’attività dell’attore, il quale faccia acquisire al processo l’elemento carente, e cioè integri la propria domanda individuando la situazione sostanziale controversa. Se il convenuto è contumace, il giudice dispone la rinnovazione della citazione, integrata con gli elementi carenti della editio actionis. Se il convenuto è presente, il meccanismo previsto dall’art. 164, VI c.p.c. è costituito dal deposito, da parte dell’attore di una memoria contenente le necessarie integrazioni. La sanatoria conseguente ai vizi della editio actionis non ha efficacia retroattiva: gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono , secondo quanto prevede l’art. 164, V c.p.c. dal momento della rinnovazione della citazione oppure dal momento della integrazione della domanda con deposito, notificazione o scambio della memoria, contenente la necessaria integrazione. La sanatoria è irretroattiva per necessità: finché resta indeterminato il diritto fatto valere, non è possibile che operino gli effetti sostanziali e processuali della domanda. Nel caso dei vizi della citazione afferenti alla editio actionis, dunque, la sanatoria degli stessi ha come sola conseguenza la salvezza degli atti di impulso processuale, nonché il risparmio di una fase decisoria volta a chiudere il processo in rito. Solo in questo si differenzia la sanatoria di un vizio attinente alla edictio actionis dalla chiusura in rito del processo e dalla proposizione di una nuova ed autonoma domanda. Nel caso di mancata rinnovazione della citazione si applica, per identità di ratio, la disposizione dell’art. 164, II c.p.c. Nel caso di mancata integrazione il processo non può giungere ad una decisione di merito: si tratta solo di individuare lo strumento tecnico con il quale chiederlo. L’estinzione del processo non sembrerebbe a prima vista utilizzabile, in quanto l’art. 307 c.p.c. non prevede, come causa di estinzione, l’omessa < integrazione > di una domanda. E pur tuttavia tale integrazione altro non è che una rinnovazione della citazione sotto altra veste, sicché non pare azzardato ricollegare anche alla sua omissione l’estinzione del processo. 4) LE DIFESE DEL CONVENUTO
 L’attività del convenuto è prevista negli artt. 166 e 167 c.p.c. Il convenuto si difende attraverso una comparsa di risposta, che deve essere depositata in cancelleria almeno 20 gg prima dell’udienza indicata dall’attore nella citazione; è l’atto speculare della citazione. La comparsa di risposta manca necessariamente della vocatio in ius; manca anche della editio actionis, a meno che essa non contenga una domanda riconvenzionale o la dichiarazione della volontà di effettuare la chiamata in causa di un terzo. Se, con la comparsa di risposta, non si propongono nuove domande, o non si manifesta l’intenzione di chiamare in causa terzi, essa costituisce un atto che appartiene esclusivamente alla trattazione. Alcune attività devono essere, a pena di decadenza, contenute nella comparsa di risposta, altre possono sia essere inserite nella comparsa di risposta, sia essere compiute nel successivo corso del processo : art. 183 c.p.c. Distinguiamo le difese di 6 rito ( che riguardano la correttezza del processo ) dalle difese in merito ( che riguardano la fondatezza della domanda ). Il convenuto per prima cosa può rilevare i vizi del processo, che ne impediscono la decisione di merito; dunque , vizi attinenti ai presupposti processuali. Tale rilevazione può essere fatta anche successivamente, tranne i casi in cui il difetto del presupposto processuale non è rilevabile anche di ufficio ( ad.es. , un’eccezione di patto compromissorio). In tali ipotesi, vale la regola esattamente opposta: il convenuto deve sollevare la questione di rito, a lui riservata, nella comparsa di risposta.
 Per quel che riguarda invece le difese di merito, le attività che il convenuto può compiere si possono distinguere in:
 • DIFESE si distinguono in : difese semplici, o mere difese, se il convenuto contesta in fatto o in diritto quanto affermato dall’attore; • ECCEZIONI, quando il convenuto introduce in giudizio dei nuovi fatti storici che si pongono come impeditivi, modificativi o estintivi del diritto vantato dall’attore. Le eccezioni, si dividono in eccezioni rilevabili solo dalla parte ( eccezioni in senso stretto) ed in eccezioni rilevabili anche di ufficio ( eccezioni in senso lato). • Un altro possibile elemento della comparsa di risposta è la richiesta di MEZZI DI PROVA e la produzione di documenti, disposizione speculare al n. 5 dell’art. 163 c.p.c. Come l’attore con l’atto introduttivo può richiedere mezzi di prova o produrre documenti, così il convenuto con la comparsa di risposta può richiedere mezzi di prova o produrre documenti. Le attività sopra indicate ( mere difese, eccezioni e prove) possono essere compiute anche nell’ulteriore corso del processo, tranne le eccezioni in senso stretto, che debbono essere inserite nella comparsa di risposta. Il convenuto deve a pena di decadenza proporre le eccezioni in senso stretto nella comparsa di risposta. Egli deve, sempre a pena di decadenza, dichiarare la volontà di chiamare in causa un terzo, non importa se in forma innovativa o non. Inoltre, egli deve proporre le domande riconvenzionali. La nuova domanda del convenuto aumenta l’oggetto del processo: avremo quindi un processo con cumulo oggettivo poiché i diritti fatti valere sono più, anche se il processo rimane unico.
 Gli strumenti che, ad hoc ha a disposizione il convenuto sono la domanda riconvenzionale ( che si utilizza nei confronti di chi è già parte del processo) e la chiamata in causa del terzo ( che si utilizza nei confronti di chi non è ancora parte del processo), da inserirsi entrambe a pena di decadenza nella comparsa di risposta. La domanda riconvenzionale ( da non confondersi con la < causa riconvenzionale> disciplinata dall’art. 36 c.p.c.) e la chiamata in causa sono gli strumenti processuali con i quali si propone una nuova domanda rispettivamente contro chi è già parte e contro chi non lo è ancora. La principale differenza è che la prima non contiene la vocatio in ius; la seconda sì. Queste sono quindi il veicolo processuale per proporre nuove domande in corso di causa. Occorre tener distinti questi strumenti processuali ( che sono il contenente ) della domanda che mediante essi è proposta ( che è il contenuto). Lo stesso tipo di connessione può dar luogo, rispettivamente, ad una domanda riconvenzionale o ad una chiamata del terzo a seconda che il soggetto, nei cui confronti la domanda è proposta, sia già o non sia ancora parte del processo (esempi pag 21). Il convenuto deve, a pena di decadenza, con la comparsa di risposta manifestare la volontà di chiamare in causa un terzo, anche se la chiamata è non innovativa; il che accade quando la parte si limita a chiamare il terzo a partecipare al processo, al fine di rendergli opponibile la sentenza. L’art. 269 II c.p.c. stabilisce che il convenuto che intenda chiamare in causa un terzo oltre a dichiararlo nella comparsa di risposta, deve chiedere al giudice lo spostamento della prima udienza, al fine di poter citare il terzo con il rispetto dei termini di cui all’art. 163 – bis c.p.c. Il giudice non ha alcun potere di valutare la opportunità della chiamata in causa: il suo è un provvedimento vincolato. Infatti, la realizzazione del simultaneus processus, , è fondamentale per evitare il contrasto teorico di decisioni, e quindi non è possibile attribuire al giudice alcun potere discrezionale in proposito. Nella comparsa di risposta, il convenuto deve inserire le sue conclusioni, ossia ciò che egli chiede al giudice. Anche queste, entro gli stessi limiti già visti con riferimento alla citazione, possono essere modificate nel corso del processo.
 La nullità della domanda riconvenzionale ( beninteso per quanto attiene alla editio actionis, poiché , essa è priva della vocatio in ius) può essere sanata come quella della citazione, mediante il deposito di una memoria contenente gli elementi carenti ( art. 167, II c.p.c.). Anche qui, come per 7 La nomina del g.i. avviene con provvedimento del presidente del tribunale ( art. 168 . bis c.p.c.) : il giudice, così designato, non può essere sostituito ( art. 174 c.p.c.) se non < in caso di assoluto impedimento o di gravi esigenze di servizio>; in realtà i processi durano così a lungo che i mutamenti del g.i. possono essere molteplici. Comunque resta fermo l’intento perseguito dall’art. 174 c.p.c. , che è quello di garantire la unicità del g.i. persona fisica, salva diversa esigenza. 6) LA PRIMA UDIENZA La funzione ineliminabile della citazione è di contenere la domanda giudiziale, e quindi di individuare l’oggetto del processo. A sua volta, la comparsa di risposta è l’atto con il quale si può ampliare il processo oggettivamente e/o soggettivamente ( attraverso la domanda riconvenzionale e la chiamata in causa – innovativa oppure anche non innovativa – del terzo). L’art. 183 c..p.c. reintroduce nel nostro ordinamento le preclusioni che caratterizzavano il rito originario del codice del 1942, che erano state eliminate con la riforma del 1950, e che sono state richiamate in vita dal rito del lavoro del 1973. Il processo, strutturato secondo le PRECLUSIONI, è caratterizzato dalla divisione della fase di trattazione della causa in un primo momento, dedicato all’allegazione dei fatti ed alle richieste istruttorie, ed in un secondo momento, dedicato alla prova di quelli, fra i fatti allegati , che siano controversi; rimane così esclusa la possibilità che il processo, una volta giunto allo stadio successivo – possa < regredire> allo stadio anteriore al fine di introdurvi quegli elementi, la cui acquisizione è propria dello stadio superato. Proprio per l’impossibilità che le allegazioni e le richieste istruttorie siano effettuate nell’arco di tutta la trattazione, un processo così strutturato si dice caratterizzato dal < principio di preclusione>. Nella fase di trattazione propria del rito ordinario, in primo luogo è stata abbandonata la versione < rigida> del principio di preclusione propria del rito del lavoro, e la fase in cui si acquisiscono al processo i fatti controversi è separata da quella dedicata all’acquisizione delle istanze istruttorie e dei documenti ( art. 183 c.p.c.). In secondo luogo nella prima udienza di trattazione sono possibili acquisizioni ulteriori rispetto al contenuto degli atti introduttivi. Tali acquisizioni, che consistono in domande ed allegazioni , si ricollegano a due diversi presupposti. Da un lato, abbiamo le nuove acquisizioni che discendono dall’attuazione del contraddittorio, e cioè costituiscono la replica all’esercizio di poteri processuali altrui. Questo fenomeno è disciplinato dal co. 5, prima parte, dell’art. 183 c.p.c., ed è previsto anche dal sistema che più rigidamente applica le preclusioni. In altri termini, un ordinamento che non consentisse di poter reagire alle attività altrui attraverso l’esercizio di poteri speculari, sarebbe irrimediabilmente in contrasto con la garanzia costituzionale dell’art. 24. Vi è piuttosto da notare che il 4 co. dell’art. 183 c.p.c. prevede che, nella dialettica attuazione del contraddittorio entri anche, come soggetto attivo, il giudice. Il mancato adempimento dei doveri che al giudice sono attribuiti costituisce condizione per superare le preclusioni stabilite dall’art. 183 c.p.c. Dall’altro lato, abbiamo le nuove acquisizioni che non si ricollegano alla dialettica processuale, e cioè che non dipendono dall’esercizio di poteri processuali altrui, ma che configurano uno ius poenitendi della parte. Questo fenomeno è disciplinato dal comma quinto, ultima parte, dell’art. 183 c.p.c. , il quale consente la incondizionata precisazione e modificazione delle domande, allegazioni e conclusioni. L’art. 183 c.p.c. al primo e secondo comma, disciplina l’attività relativa alle questioni di rito. Ai sensi del primo comma, il giudice verifica la regolarità del contraddittorio e provvede a dare le disposizioni idonee per l’integrazione del contraddittorio nelle iposi di litisconsorzio necessario ( art. 102, II c.p.c. ); per la sanatoria delle nullità della citazione ( art . 164 c.p.c. ) e della domanda riconvenzionale ( art. 167 c.p.c.); per la sanatoria dei difetti di capacità e rappresentanza tecnica ( art. 182 c.p.c.) e dei vizi di notificazione della citazione ( art. 291 c.p.c.). Il secondo comma dello stesso art. 183 c.p.c. prevede che, disposta la sanatoria, il giudice fissa una nuova prima udienza. In tale udienza, se il vizio risulterà sanato, il processo potrà proseguire verso la decisione di merito. Altrimenti, esso dovrà chiudersi in rito attraverso la dichiarazione di estinzione. L’elencazione contenuta nell’art. 183, I c.p.c. costituisce una elencazione completa dei presupposti processuali, il cui vizio è sanabile dinanzi al giudice adito ; e quindi conferma il principio in virtù del quale il giudice di fronte ad un vizio sanabile non deve chiudere immediatamente il processo con sentenza di rito, ma deve dare le disposizioni per la sanatoria 10 dello stesso. Il giudice deve occuparsi non soltanto delle questioni sopra indicate, ma altresì di tutte quelle attinenti agli altri presupposti processuali, in modo da evitare che si passi alla trattazione del merito quando sussistono vizi processuali ( sanabili o insanabili ) ostativi alla decisione di merito. La riforma del 2006 ha fatto venir meno l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione che (sulla falsariga di quanto prevede l’art. 420 c.p.c. per il rito del lavoro) era stata introdotta dalla riforma del 1990 con il primo e secondo comma del previgente art. 183 c.p.c.Il legislatore del 2006 ha previsto ( art. 185 c.p.c.) che il tentativo di conciliazione abbia luogo solo se vi è richiesta congiunta delle parti. La riforma del 2006 ha anche eliminato la obbligatorietà dell’interrogatorio libero: il giudice procederà all’interrogatorio libero delle parti solo se e quando lo riterrà opportuno ( art. 117 c.p.c.). I poteri delle parti alla prima udienza di trattazione, possono essere distinti in due gruppi: il primo riguarda le repliche alle allegazioni, domande e deduzioni operate dalla controparte, ed i rilievi officiosi del giudice; il secondo riguarda lo < ius poenitendi>, e cioè le novità che non trovano la loro giustificazione nell’attuazione del principio del contraddittorio, in quanto non sono conseguenza dell’attività posta in essere dalla controparte e dal giudice. Il primo gruppo di poteri è disciplinato dalle prime due frasi del quinto comma, che prende in considerazione solo la posizione dell’attore, prevedendo che egli possa proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda e delle eccezioni proposte dal convenuto; che egli inoltre possa chiamare in causa un terzo, allorché l’esigenza di tale chiamata dipende dalle difese del convenuto. Possiamo quindi tentare di esemplificare : a) l’attore può proporre una domanda di accertamento incidentale o una reconventio reconventionis allorché il convenuto abbia contestato l’esistenza del diritto pregiudiziale, o rispettivamente, abbia introdotto in giudizio, in via di domanda o di eccezione, una situazione sostanziale ulteriore rispetto a quella individuata con la citazione. Così, chiesto dall’attore l’adempimento del contratto ed eccepita o domandata in via riconvenzionale del convenuto la nullità dello stesso, l’attore può chiedere la restituzione della sua prestazione, per l’ipotesi in cui il giudice ritenga nullo il contratto. b) L’attore può chiamare in causa il terzo, indicato dal convenuto come il vero titolare del diritto o dell’obbligo dedotti in giudizio; può anche chiamare in garanzia il terzo, quando il convenuto, in via riconvenzionale, chieda l’accertamento di un proprio diritto incompatibile con quello dedotto in giudizio dall’attore e tale quindi che, se fatto valere in via principale, avrebbe consentito la chiamata in garanzia. c) L’attore può poi senz’altro, di fronte ad una nuova domanda del convenuto, allegare fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto introdotto in tal modo in giudizio ( ad es., eccepire la prescrizione). Non è costituzionalmente lecito in alcun caso precludere i poteri e quindi occorre integrare le lacunose previsioni di questa prima parte del quinto comma dell’art. 183 c.p.c. Per quanto riguarda la posizione dell’attore, egli può anche compiere ulteriori allegazioni di fatti, quando tali allegazioni costituiscono la replica alle difese del convenuto o ai rilievi officiosi del giudice, non solo in riferimento alle eccezioni del convenuto ma anche con riferimento ai fatti costitutivi del diritto fatto valere dall’attore stesso (es. a fronte di una eccezione di prescrizione si può allegare un fatto interruttivo della stessa). Tutte le modificazioni della domanda che sono ammissibili in virtù dello < ius ponitendi > concesso dall’ultima parte del quarto comma dell’art. 183 c.p.c. sono a maggior ragione ammissibili allorché siano giustificate dall’attività difensiva del convenuto. Quanto visto finora vale non soltanto per l’attore, ma anche e specularmente per il convenuto: questi deve poter replicare alle novità legittimamente introdotte in giudizio dall’attore in prima udienza, attraverso la spendita di poteri processuali simmetrici.
 Alla domanda proposta dall’attore ai sensi dell’art. 183 c.p.c., il convenuto può rispondere con la proposizione di eccezioni, anche non rilevabili di ufficio ( ad es., prescrizioni). Alle eccezioni, che l’attore abbia contrapposto alla domanda riconvenzionale, il convenuto può opporre ulteriori fatti idonei ad impedirne gli effetti. E così via, applicandosi analogicamente al convenuto quanto è consentito all’attore in attuazione del principio del contraddittorio. 11 Il principio del contraddittorio, riguarda non soltanto le parti, ma anche il giudice.
 L’art. 183 c.p.c. 4° co. ripropone quel dovere del giudice di indicare alle parti le questioni rilevabili di ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione, in ossequio al principio di preclusione. Tale principio non comporta la rinuncia ai benefici che derivano dalla dialettica processuale, la quale si realizza non solo fra le parti, ma anche nei confronti del giudice.
 Con riferimento alla quaestio facti, un’eccezione, rilevabile e rilevata di ufficio, può legittimare l’introduzione di novità nel processo, finanche la proposizione di nuove domande. Così, se il giudice rileva di ufficio la nullità del contratto, che costituisce la causa petendi della domanda di adempimento, l’attore può proporre la domanda di restituzione delle prestazioni da lui effettuate, in adempimento del contratto stesso. Ma l’attore può anche dedurre elementi, volti a far ritenere inesistente la nullità del contratto.
 Per quanto attiene invece alla quaestio iuris, le parti debbono essere poste in grado di introdurre in giudizio le novità, allorché il giudice segnali loro quella che, a suo avviso, è la corretta ricostruzione in diritto della fattispecie della situazione sostanziale fatta valere. Il giudice deve indicare alle parti quale sia la corretta impostazione in diritto della controversia; le parti possono così operare le opportune modifiche alle loro difese, e soprattutto introdurre in giudizio quei fatti la cui allegazione era stata omessa nell’erroneo convincimento della loro irrilevanza.
 La riforma del 2009 ha stabilito espressamente che, se la questione rilevante di ufficio non è sottoposta all’esame delle parti, la sentenza è nulla ( art. 101, II c.p.c.) . Dunque, prima o poi il giudice dovrà segnalare la questione alle parti, se non vuole compiere un atto invalido. E allora meglio che la segnali subito, appena la rileva. Quanto appena visto costituisce il minimo che deve essere assicurato anche in un processo retto dalla più rigida versione del principio di preclusione.
 L’art. 183 c.p.c. 5° co. prevede uno < ius poenitendi> del tutto sganciato dallo svolgimento dialettico del processo, e cioè consente di introdurre novità non giustificate dalla difesa della controparte e dai rilievi di ufficio del giudice = le parti possono in ogni caso precisare e modificare domande, eccezioni e conclusioni. Sulla base di quanto dispone l’art. 167 c.p.c. , fra le attività ammesse dall’art. 183, quinto comma, ultima parte, c.p.c. , si deve escludere la proposizione di domande nuove e di eccezioni in senso stretto. Le une e le altre, infatti, possono essere proposte in sede di prima udienza di trattazione, solo se dipendono dalle attività compiute dalla controparte o dai rilievi officiosi, e questa evenienza è esclusa per definizione nell’ottica dello ius poenitendi.
 — Si ha precisazione quando la parte esplicita quanto già contenuto nelle sue precedenti difese, consiste essenzialmente nell’allegazione dei c.d. fatti secondari. — Si ha, al contrario, modificazione della domanda quando la parte allega in giudizio nuovi fatti storici principali, cioè nuovi e diversi elementi ( costitutivi) della fattispecie del diritto fatto valere. A chi ha proposto la domanda è consentito, purché non cambi la situazione sostanziale dedotta in giudizio, allegare in giudizio nuovi fatti storici, lo stesso dev’essere consentito a chi avverso tale domanda si difende, NON SOLO MODIFICANDO MA ANCHE PROPONENDO NUOVE ECCEZIONI purché siano rilevabili anche d’ufficio. Ciò è confermato da due considerazioni: - non avrebbe senso che l’art. 167 c.p.c. limitasse la sanzione della decadenza alle sole eccezioni in senso stretto, se si dovesse ritenere che anche la proposizione di eccezioni in senso lato non è possibile alla prima udienza di trattazione. - non si vede il motivo per il quale l’attore può introdurre in giudizio nuovi elementi della fattispecie, ed il convenuto no. La modificazione delle conclusioni, anch’essa prevista dall’art. 183, quinto comma, ultima parte, c.p.c., a questo punto viene a costituire solo il necessario adeguamento formale alle modificazioni di domande ed eccezioni consentite. Lo ius poenitendi non consente di proporre domande nuove, chiedendo la tutela di diritti diversi da quelli individuati con atti introduttivi. All’interno di questo confine, la proposizione di nuove eccezioni non comporta problemi in quanto l’eccezione rimane ontologicamente nell’ambito dell’oggetto processuale individuato dalla controparte. Pertanto gli eventuali diritti che il convenuto possa vantare nei confronti dell’attore, e che costituiscono ( anche ) fatti impeditivi, modificativi ed estintivi del diritto dedotto in giudizio dall’attore, possono essere fatti valere nella loro veste, appunto, di eccezioni ( riconvenzionali ) e non possono fondare domande riconvenzionali, che il convenuto avrebbe dovuto proporre con la comparsa di risposta. 12 necessaria da quanto prevede l’art. 101, II c.p.c., secondo il quale il giudice che fonda la sua decisione su una questione rilevata di ufficio e non sottoposta alle parti emette un provvedimento nullo. PRINCIPIO DI ACQUISIZIONE. Al di là dei casi appena visti ( e salva l’applicazione dell’istituto della rimessione in termini ) non sembra possibile una allegazione di fatti nell’ulteriore svolgimento del processo. Ciò non significa che il giudice non possa porre a fondamento della decisione anche i fatti che emergono da atti legittimamente ( e quindi anche tempestivamente ) acquisiti al processo : si pensi principalmente alle attività istruttorie. L’acquisizione dei fatti al processo può provenire sia dalle allegazioni delle parti sia da ogni altra attività che sia legittimamente compiuta. Ciò a condizione che non si tratti di fatti costitutivi che identificano un diverso diritto ( ovviamente etero determinato ) o di eccezioni in senso stretto : e questo perché nell’uno e nell’altro caso è necessaria una manifestazione di volontà della parte, che non può più essere emessa una volta decorso il termine ultimo per compierla ( a meno che non si verifichi una sopravvenienza, oppure un tardivo rilievo officioso del giudice ). Nell’ulteriore corso del processo resta possibile modificare le conclusioni solo in ordine a quei punti che non presuppongono un’alterazione né del diritto fatto valere né dei fatti allegati. Non esiste un criterio generale per stabilire ( in assenza di una previsione normativa ) la rilevabilità di ufficio o meno del vizio consistente nel compimento di un atto processuale al di là del termine ( in senso lato) previsto. Sicché, la qualificazione del termine stesso come posto nell’interesse della controparte oppure nell’interesse pubblico ( e quindi non disponibile dalla controparte, e rilevabile di ufficio ) costituisce soltanto una vuota etichetta. In giurisprudenza e dottrina si pensa che sia opportuno che la violazione delle norme che pongono le preclusioni sia rilevabile ( anche ) di ufficio e non sia superabile dalla volontà della controparte = qualificano le preclusioni stesse come poste nell’interesse pubblico. RICHIESTE ISTRUTTORIE. Le attività istruttorie possono essere già compiute con gli atti introduttivi : sia l’art. 163 c.p.c. sia l’art. 167 c.p.c., con riferimento rispettivamente alla citazione ed alla comparsa di risposta, prevedono che tali atti contengano le attività istruttorie. E così pure anche alla prima udienza e nella prima memoria di cui all’art. 183, VI c.p.c. può essere compiuta attività istruttoria. Ma, se pure nelle occasioni sopra indicate le parti non compiono attività istruttoria, ciò non determina alcuna preclusione. La prima preclusione che si incontra in materia istruttoria è quella prevista dall’art. 183, VI n. 2 c.p.c. : è in occasione della seconda memoria che le parti devono , a pena di preclusione, effettuare l’attività istruttoria che non abbiano già compiuto in precedenza. Infatti, il contenuto della memoria di cui al n. 3 è espressamente limitato alle “sole indicazioni di prova contraria”. Da ciò si ricava che le prove non richieste ed i documenti non prodotti con la memoria di cui al n. 2 non possono essere richieste e prodotti successivamente. L’espressione “ prova contraria” indica in senso proprio, le prove che hanno ad oggetto gli stessi fatti già oggetto di altra prova. Tale espressione può avere anche un significato più ampio, nel senso che con essa si può intendere l’allegazione di un fatto ostativo degli effetti giuridici del fatto oggetto della prova principale, e la contestuale deduzione delle prove ad esso relative. La scansione prevista dall’art. 183, VI n. 2 e 3 c.p.c. potrebbe non essere sufficiente per garantire il rispetto del diritto di difesa; ben potrebbe, ciascuna parte avere obiezioni circa l’ammissibilità, la rilevanza e l’efficacia delle prove richieste con la memoria di cui al n. 3. L’art. 183, VII c.p.c. non obbliga il giudice a fissare un’udienza apposita per discutere delle istanze istruttorie delle parti: però neppure glielo vieta. E’ quindi possibile che il giudice, dopo che le parti abbiano depositato le memorie di cui al comma sesto, anziché pronunciare l’ordinanza istruttoria, fissi una nuova udienza per discutere delle istanze istruttorie avanzate. AMMISSIONE DELLE PROVE. Non necessariamente il giudice deve procedere a tale valutazione in un unico momento, ma può benissimo provvedere intanto ad ammettere alcune prove, riservandosi di decidere sulle altre richieste una volta assunte le prove ammesse. Infatti, la parte che voglia spendere più mezzi di attacco o di difesa deve farli valere, in via alternativa o cumulativa, tutti insieme nella fase introduttiva del giudizio. Inconveniente del principio di preclusione : il necessario cumulo di tutti i mezzi di attacco e di difesa, e quindi un sovraccarico di attività processuali, alcune delle quali potrebbero risultare 15 superflue. Il giudice di fronte alle richieste istruttorie che necessariamente riguardano tutti i fatti controversi, non necessariamente deve ammetterle ad assumerle tutte in blocco. Ben può il giudice assumere le prove relative ad alcuni fatti, ad es., la nullità del contratto, e riservarsi l’ammissione delle altre all’esito dell’assunzione di quelle relative alla nullità. Se, infatti, le prove ammesse ed assunte dimostrassero la nullità del contratto, l’assunzione delle ulteriori prove sull’inadempimento, o sul pagamento sarebbero superflue. CALENDARIO DEL PROCESSO. Il provvedimento, con il quale il giudice ammette le prove, ai sensi dell’art. 81 – bis disp. Att. c.p.c. introdotto dalla riforma del 2009e modificato nel 2011 contiene anche il calendario delle udienze successive, destinate allo svolgimento dell’attività istruttoria, ed anche la fissazione dell’udienza in cui saranno precisate le conclusioni. Poiché dall’udienza di precisazione delle conclusioni decorrono i termini per la pronuncia della sentenza, è in teoria possibile sapere quando esso avrà fine. Se invece non vi è da svolgere attività istruttoria, viene subito fissata l’udienza di precisazione delle conclusioni. Il calendario è stabilito dal giudice dopo aver sentito le parti e tenendo conto delle caratteristiche della controversia nonché della necessità di assicurare la ragionevole durata del processo, ai sensi della convenzione dei diritti dell’uomo. Il calendario può essere modificato dal giudice, anche ad istanza di parte, quando vengono ad esistenza gravi motivi sopravvenuti, e che quindi non potevano essere presi in considerazione nella fissazione del calendario stesso. Il mancato rispetto dei termini fissati nel calendario può costituire fonte di responsabilità disciplinare del giudice e dei difensori delle parti, naturalmente se tale mancato rispetto è ingiustificato. La riforma del 1990, con l’art. 184 – bis c.p.c., aveva introdotto uno strumento generale di recupero e superamento delle decadenze maturate : se la parte dimostra di essere incorsa in decadenze per una causa ad essa non imputabile, il giudice istruttore la rimette nei termini ai sensi dell’art. 294, II e III c.p.c. : cioè assume le prove sull’impedimento e, se queste danno esito positivo, con ordinanza rimette la parte in termini. La rimessione in termini di una parte consente all’altra di compiere tutte le attività che costituiscono la replica a quelle che vengono compiute in virtù della rimessione in termini.
 La riforma del 2009 ha abrogato l’art. 184 – bis c.p.c. e ne ha trasferito il contenuto nell’art. 153 c.p.c. La diversa collocazione della norma è rilevante per il problema dell’ambito di applicazione dell’istituto: la nuova collocazione della rimessione in termini nell’ambito del primo libro del c.p.c. , all’interno della norma dedicata ai termini perentori, sicuramente consente l’applicazione dell’istituto ai termini per impugnare. Più difficile affermare l’applicazione anche ai termini per proporre la domanda, che sono appunto termini extraprocessuali, e come tali tendenzialmente estranei all’art. 153 c.p.c. Se , dunque il termine per la proposizione della domanda, è qualificato come < processuale > , tale dovrebbe essere anche ai sensi dell’art. 153 c.p.c. PROPOSTA DI TRANSAZIONE O CONCILIAZIONE. Art 185 bis cpc introdotto nel 2013 qualifica uno strumento volto a perseguire una risoluzione consensuale della controversia: il giudice istruttore può suggerire alle parti una soluzione transattiva o conciliativa tenendo conto della natura del giudizio, del valore della controversia e dell’esistenza di questioni di pronta e facile soluzione di diritto. La proposta può essere fatta dalla prima udienza fino all’esaurimento dell’istruttoria. Differisce dalla mediazione imposta al giudice ex d.lgs. 28/2010 ed è compatibile con essa, sono utilizzabili nel corso dello stesso processo. 7) L’ATTIVITA’ DEL GIUDICE ISTRUTTORE ( G.I) Secondo l’art. 176 c.p.c., i provvedimenti del g.i. ( salvo che la legge, disponga diversamente), hanno la forma dell’ordinanza. Le ordinanze del g.i. , ai sensi dell’art. 176 c.p.c., se pronunciate in udienza si ritengono conosciute dalle parti effettivamente presenti, e da quelle che dovrebbero essere presenti. Quindi l’assenza della parte ad un’udienza non comporta la necessità che l’ordinanza, pronunciata dal giudice in quella sede, le sia specificamente portata a conoscenza. Dato che l’ordinanza è stata pronunciata in udienza, e la parte doveva essere presente, se era assente ne subisce le conseguenze. Se, invece, l’ordinanza è pronunciata fuori udienza , essa deve essere portata a conoscenza dei legali delle parti costituite ( art. 170 c.p.c.). L’ordinanza può essere pronunciata fuori udienza in virtù dell’istituto della c.d. riserva ex art. 186 c.p.c. il quale prevede che normalmente il giudice emette le proprie ordinanze in udienza, e che 16 tuttavia può , a sua insindacabile scelta, riservarsi di pronunciare l’ordinanza nei cinque giorni successivi all’udienza. Il giudice si riserva quando ha necessità di studiare meglio la questione, prima di emettere l’ordinanza.
 Dato che le ordinanze hanno la funzione di far svolgere il più correttamente possibile la trattazione della causa e con esse il g.i. disciplina l’acquisizione al processo di tutti gli elementi utili per la fase decisoria, di per sé come regola generale le ordinanze del g.i. sono da lui stesso modificabili e revocabili, salvo tre eccezioni previste dall’art. 117 c.p.c. : 1) le ordinanze pronunziate sull’accordo delle parti, in materia di diritti disponibili. Tali ordinanze possono essere revocate dal giudice in virtù di un ulteriore accordo delle parti;
 2) le ordinanze dichiarate espressamente non impugnabili dalla legge, hanno la caratteristica di non pregiudicare mai la decisione della controversia, chiudendo così dei sub procedimenti all’interno del processo; 3) le ordinanze per le quali la legge predispone uno speciale mezzo di reclamo (es art 308 cpc). Basta che sia previsto in astratto uno speciale mezzo di reclamo perché l’ordinanza non sia più revocabile o modificabile dal g.i. Non è, invece, necessario che tale strumento sia effettivamente utilizzato. Le ordinanze ( art. 177, I c.p.c. ) non possono mai pregiudicare la decisione della causa; tutte le scelte fatte dal g.i. in sede di trattazione ed istruzione sono rivedibili ( da lui o dal collegio, a seconda che la decisione sia monocratica o collegiale) in sede decisoria. Fuori dai casi riservati alla decisione collegiale, il g.i. ha tutti i poteri del collegio e quello che si dice per quest’ultimo vale anche per il g.i. nelle cause che sono affidate alla sua decisione.
 Il g.i. non ha mai il potere di pronunziare definitivamente ( di decidere cioè in maniera non controllabile da parte del collegio ) sul merito della causa e sui presupposti processuali, vale a dire su tutte le questioni che debbono essere decise ( art. 279 c.p.c.) con sentenza. In relazione a tali questioni non si matura mai alcuna preclusione nel corso della trattazione. Qualunque opinione esprima il g.i., nel corso della trattazione, in ordine al merito ed ai presupposti processuali, al momento della decisione tali questioni dovranno essere riesaminate di ufficio. Diverso è il caso delle questioni di rito, che non attengono ai presupposti processuali, e che quindi non debbono essere decise con sentenza. Se il g.i. ha affrontato una di tali questioni nel corso della trattazione, le parti hanno il potere di riproporre la questione al collegio; ma se le parti non ripropongono la questione, si verifica una preclusione, perché il collegio non può riesaminarla di ufficio. L’art. 177, I c.p.c. dà il principio; l’art. 178, I c.p.c. fornisce lo strumento per l’applicazione della regola: < Le parti, senza bisogno di mezzi di impugnazione, possono proporre al collegio (nella fase decisoria) tutte le questioni risolute dal g.i. con ordinanza revocabile>. Le parti possono sempre riproporre tutto al collegio. Per alcune questioni tale riproposizione non è necessaria (perché il collegio deve affrontarle di ufficio) e tali sono le questioni da decidere con sentenza; per altre, invece, la riproposizione è necessaria (perché altrimenti il collegio non potrebbe riesaminare le decisioni prese dal g.i.) e tali sono le questioni che non devono essere decise con sentenza. Dal punto di vista delle parti non c’è differenza, perché le parti possono riproporre tutto; la differenza esiste, invece, dal punto di vista del collegio, che riesamina certe questioni d’ufficio, altre solo se sollecitato.
 Il primo e pregiudiziale controllo è quello di rito, cioè sulla possibilità di giungere ad una decisione di merito (art. 183, I c.p.c.). Infatti, la carenza o il vizio di un presupposto processuale rende inutile la raccolta del materiale, che serve per la decisione di merito. Effettuato positivamente il controllo sul rito, cioè sulla regolarità del processo, il giudice passa all’esame del merito: comincia a vedere quale materiale è necessario raccogliere per determinare il contenuto della decisione di merito.
 La norma che interessa è l’art. 187, I c.p.c., il quale dispone che < se la causa è matura per la decisione di merito senza bisogno di assunzione di mezzi di prova, il g.i. rimette le parti davanti al collegio>. Il giudice chiude la fase di trattazione e passa alla fase di decisione. La causa è matura per la decisione, senza bisogno di assunzione di mezzi di prova, in una pluralità di ipotesi.L’ipotesi principale e più frequente si ha quando , fra le parti, vi è una controversia solo in punto di diritto; il giudice deve stabilire puramente e semplicemente quali sono le conseguenze giuridiche dei fatti storici allegati dall’attore e confermati dal convenuto. 17 preliminare in concreto inidonea alla definizione del giudizio, non rimetterebbe la causa in decisione. Il discorso è simile per le questioni pregiudiziali di rito, di cui all’art. 187, III c.p.c. sono tali ed astrattamente idonee alla definizione del giudizio quelle che attengono ai presupposti processuali. Condizione per poter decidere nel merito è la sussistenza di tutti i presupposti processuale c.d. positivi e l’assenza di tutti i presupposti processuali c.d. negativi : basta che manchi o sia viziato anche un solo presupposto processuale positivo, o la presenza anche di un solo presupposto processuale negativo, perché il giudice debba, con pronuncia di rito, chiudere il processo dichiarando l’impossibilità di scendere all’esame nel merito. Tutte le questioni attinenti ai presupposti processuali sono quindi in astratto idonee a definire il giudizio; in concreto idonei a definire il giudizio sono, però, solo la mancanza o il vizio di un presupposto processuale positivo, o la presenza di un presupposto processuale negativo. In tal caso è inutile compiere l’attività istruttoria sul merito perché questa attività non sarebbe comunque utilizzata per la decisione. Nella stessa logica già vista per le questioni preliminari di merito, il g.i. rimette la causa in decisione solo quando ritiene carente o viziato ( in modo insanabile o in concreto insanato) il presupposto processuale positivo; oppure quando ritiene esistente il presupposto processuale negativo. Se è invece sollevata dalle parti una questione attinente ad un presupposto processuale, questione che però il giudice ritiene infondata, allora egli dispone che la questione pregiudiziale sia decisa unitamente al merito. Se il giudice, di fronte ad un eccezione, ad es., di incompetenza, rimette immediatamente la causa in decisione e in quella sede si dovesse ritenere l’eccezione infondata, essa deve tornare in istruttoria, e allora si è svolta un’attività ( la fase decisoria ) inutile. Dalla fase decisoria esce una sentenza che è non definitiva, perché non esaurisce il compito del giudice, ma lo costringe a rimettere la causa in istruttoria, affinché si completi la raccolta del materiale necessario per la sentenza definitiva. Gli errori di valutazione del g.i. sulla fondatezza delle preliminari o pregiudiziali comportano un’inutile spendita di attività processuale. RAPPORTO TRA RITO E MERITO. L’art. 187 III c.p.c., nel prevedere che le questioni pregiudiziali di rito possono essere decise unitamente al merito, conferma un importante principio generale. Fra questioni di rito e questioni di merito c’è di solito, un ordine di pregiudizialità : la questione di rito viene prima della questione di merito. La correttezza del processo condiziona la bontà del risultato processuale: se non sono rispettate le regole del processo, la pronuncia di merito è istituzionalmente inaffidabile, perché non è stata raggiunta secondo le regole che l’ordinamento si è dato. L’art. 187, III c.p.c. evidenzia che la pregiudizialità fra rito e merito è incondizionata solo al momento della decisione, e non anche al momento della trattazione. È soltanto al momento della decisione che il giudice, dovendo affrontare questioni di rito e questioni di merito, deve decidere prima quelle di rito. La pregiudizialità invece non sussiste in sede di trattazione. Spetta al g.i. condurre il processo secondo il canone dell’economia processuale, in modo da non svolgere attività inutile. Se sorge una questione di rito, il g.i. valuta se è fondata oppure no; nel primo caso, è inutile istruire il merito e quindi rimette subito la causa in decisione; se la ritiene infondata, è inutile investire subito il collegio, perché il collegio , dichiara infondata la questione, rinvierebbe la causa al g.i. per completare l’istruttoria. PROCESSO MONOCRATICO. La valutazione relativa alla fondatezza o meno delle questioni preliminari di merito e pregiudiziali di rito è propria di ogni giudice, anche di quello monocratico: può trovarsi nella situazione di scegliere fra la prosecuzione dell’istruttoria e la decisione immediata di una questione pregiudiziale o preliminare. Il potere di condurre il processo non può essere regolato dal legislatore in maniera rigida, perché soltanto il giudice del singolo processo può valutare la fondatezza delle questioni preliminari e pregiudiziali e quindi l’opportunità di passare subito alla fase decisoria; oppure l’infondatezza delle questioni preliminari e pregiudiziali, e quindi l’opportunità di istruire tutta la causa e di decidere le preliminari e le pregiudiziali a causa totalmente istruita. E’ peraltro naturale, che le sentenze non definitive siano meno frequenti nel processo a decisione monocratica rispetto a quello a decisione collegiale. Nel primo caso esse nascono necessariamente da un ripensamento del giudice istruttore, mentre nell’altro caso esse possono più frequentemente nascere da una diversa soluzione degli altri componenti del collegio. 20 Quando la decisione della causa è collegiale, la scelta del giudice istruttore è facilmente percepibile perché la causa passa al collegio o rimane dinanzi a lui; se la decisione è monocratica potrebbe far sorgere incertezza, in quanto potrebbe trattarsi di una vera e propria decisione sulla questione o di una sentenza non definitiva. A tal fine la giurisprudenza ha stabilito che l’opposizione del giudice istruttore per una decisione immediata della questione preliminare e pregiudiziale deve essere inequivoca e incontrovertibile. La possibilità di ritenere matura la causa e di emettere una sentenza definitiva su preliminare di merito evidenza quella che è una caratteristica della sentenza: la natura ipotetica della cognizione, e quindi, ad es., la possibilità di rigettare la domanda per l’esistenza di un fatto estintivo senza la necessità di previamente accertare la sussistenza della fattispecie costitutiva ( e quindi l’avvenuta nascita del diritto). Se nella decisione si dovesse seguire l’ordine logico e cronologico imposto dal diritto sostanziale, sarebbe impossibile, ad es., rigettare la domanda per prescrizione senza aver prima accertato che il diritto è sorto: un diritto che non è sorto non si può prescrivere. Ma poiché la decisione è deputata a fornire o negare la tutela richiesta, e non ad effettuare una ricognizione della realtà esistente ( il giudice non è uno storico: egli dispone per il futuro, non accerta il passato), essa assume la seguente struttura logica : < se anche il diritto fosse sorto, esso non sarebbe comunque oggi esistente>; oppure : < se anche il diritto esistesse, mancherebbe comunque la lesione dello stesso>; o ancora; < se anche il diritto esistesse, o fosse leso, la tutela richiesta non è comunque prevista per quel tipo di lesione di quel diritto>. In tutti i casi la richiesta di tutela è destinata ad essere rigettata. Quanto appena visto costituisce esplicazione del principio della ragione più liquida: se in un processo sussiste una ragione sufficiente per la decisione, la sentenza può fondarsi su di essa anche quando il motivo della decisione si pone, da un punto di vista logico, a valle di altre ragioni, che non sono affrontate e decise ( ad es., perché debbono essere istruite ).
 Conseguentemente nel nostro sistema non si applica il c.d. giudicato implicito, che postula un meccanismo decisionale che affronti le varie questioni nell’ordine che esse hanno secondo il diritto sostanziale. ES: si può prescrivere solo un credito che è sorto ma la domanda può essere rigettata per prescrizione anche senza aver accertato l’esistenza del credito > il rigetto per prescrizione non significa affatto accertamento che il credito è sorto. 9) LE ORDINANZE PROVVISIONALI Gli artt. 186- bis, ter e quater c.p.c. introducono tre strumenti per semplificare e/o abbreviare lo svolgimento del processo.
 A) l’art. 186 bis c.p.c. estende al rito ordinario un istituto già previsto dall’art. 423 c.p.c. per il rito del lavoro: l’ORDINANZA PER IL PAGAMENTO DI SOMME NON CONTESTATE. Può essere emessa solo ove le parti siano costituite, e presuppone che il convenuto ponga in essere una difesa articolata, ammettendo in parte ed in parte contestando di dovere certe somme. L’ammissione deve essere incondizionata e non subordinata. Il regime del provvedimento è quello delle ordinanze modificabili e revocabili ex artt. 177, I ( le ordinanze, comunque motivate, non possono mai pregiudicare le decisioni di merito ), II ( le ordinanze sono modificabili e revocabili dal giudice che le ha emesse ), e 178 I ( le parti possono riproporre, al momento del passaggio della causa in decisione, le questioni risolte dal giudice con ordinanza revocabile ) c.p.c. Ciò significa che la somma di cui all’ordinanza non viene < stralciata > dall’oggetto del processo, ma deve comunque essere ripresa in esame al momento della decisione, sia pure al solo scopo di confermare quanto già disposto. La non contestazione delle somme non dà quindi luogo ad una sorta di conciliazione parziale della controversia, fondata sull’accordo delle parti. Una tale ricostruzione è impedita dal regime del provvedimento sopra esposto : se il fondamento dell’ordinanza fosse un accordo fra le parti, la questione sarebbe definitivamente chiusa. Le somme inizialmente non contestate possono, quindi, essere contestate in seguito; e se alla fine del processo il giudice le riterrà non dovute terrà conto di ciò nella decisione. Se il processo si estingue, l’ordinanza mantiene efficacia esecutiva. B) ORDINANZA DI INGIUNZIONE, art. 186 – ter c.p.c. Il presupposto per l’emanazione del provvedimento è che la parte abbia a sua disposizione la prova scritta del credito, prova idonea ai sensi dell’art. 634 c.p.c. per ottenere il decreto ingiuntivo. Se la parte contro la quale è emessa 21 l’ordinanza è costituita, la richiesta di tale provvedimento ha senso solo se vi sono i presupposti per la concessione della provvisoria esecutività della stessa ex art. 642 e 648, I c.p.c. Infatti, avverso tale ordinanza la parte costituita non ha l’onere di proporre opposizione ( come accade per il decreto ingiuntivo); ma può chiederne la revoca e riproporre la questione al momento della precisazione delle conclusioni. Se il processo si estingue, l’ordinanza diventa definitiva e forma giudicato ( come accade per il decreto ingiuntivo : art. 653, I c.p.c.). Se la parte, contro la quale l’ordinanza è emessa è invece contumace, l’ordinanza le è notificata; se il contumace non si costituisce entro venti giorni dalla notificata, l’ordinanza diventa definitiva, acquista autorità di giudicato, ed il processo si chiude. Poiché è da presumere che la parte, la quale dispone della prova documentale idonea a richiedere un decreto ingiuntivo, ricorra direttamente a tale strumento ( e non al processo a cognizione piena ), l’ordinanza ingiuntiva trova una concreta utilità in due ipotesi: quando la prova scritta diviene disponibile in corso di causa ( ad es., perché prodotta da un litisconsorte o dalla controparte ) ; oppure quando l’ordinanza ingiuntiva è chiesta dal creditore, che sia convenuto in giudizio < in prevenzione > dal debitore.
 C) ORDINANZA SUCCESSIVA ALLA CHIUSURA DELL’ISTRUZIONE. L’ultima ordinanza provvisionale è prevista dall’art. 186 – quater c.p.c.; presuppone che sia esaurita l’istruzione della causa e che la causa non sia ancora passata alla fase decisoria. La sua funzione è quella di anticipare la tutela, risparmiando a chi ha proposto la domanda il tempo (lungo) fra la fine dell’istruttoria e la pronunzia della sentenza. L’ordinanza in oggetto è possibile esclusivamente con riferimento alle domande di condanna. Occorre tuttavia tener conto che oggetto dell’ordinanza può essere solo il pagamento di somme, la consegna o rilascio di beni: sono quindi escluse le domande di condanna ad un fare o ad un non fare. L’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruttoria è un provvedimento anticipatorio a cognizione piena, ma a decisione sommaria. La cognizione è piena perché la decisione è presa dopo l’esaurimento di un’istruttoria svoltasi nei modi ordinari; la decisione è sommaria perché il provvedimento non esonera il giudice dall’emettere la sentenza, e non esaurisce quindi il potere del giudice rispetto alle questioni oggetto dell’ordinanza stessa. L’ordinanza è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio. “Con l’ordinanza il giudice provvede sulle spese processuali” = l’ordinanza deve potenzialmente essere sostitutiva di una sentenza definitiva, e cioè può essere pronunciata in tutti i casi nei quali una sentenza di identico contenuto è qualificabile come sentenza definitiva. Si deve ritenere che il giudice possa rifiutare di emettere l’ordinanza quando la decisione della causa è complessa e comporta quindi un suo impegno rilevante in termini di tempo. La funzione dell’ordinanza, infatti, è di anticipare la tutela quando la decisione è poco impegnativa, e quindi veloce. Altrimenti l’istituto in esame si trasforma in un ingiustificato e inammissibile privilegio per le domande di condanna al pagamento di somme o alla consegna o rilascio dei beni nei confronti di tutte le altre domande. Dopo la pronunzia della ordinanza, possono verificarsi tre diversi effetti. 1. SENTENZA. Il processo prosegue verso la sentenza, che è in ogni caso sostitutiva dell’ordinanza. Affinché ciò accada è necessario che la controparte, entro trenta giorni dalla pronuncia dell’ordinanza ( se questa è emessa in udienza ) o dalla sua comunicazione ( se è emessa fuori udienza ), notifichi all’istante e poi depositi in cancelleria un ricorso nel quale manifesta la sua volontà di ottenere la sentenza. Una volta pronunciata la sentenza, se questa conferma solo in parte l’ordinanza, gli effetti prodotti da questa si mantengono nei limiti in cui siano sostituiti dagli effetti della sentenza. In relazione agli effetti prodotti dall’ordinanza e non “ confermati” dalla sentenza, si deve ritenere che la controparte possa chiedere la restituzione delle somme pagate o delle cose consegnate o rilasciate. Questa contromisura si rende necessaria per riequilibrare la posizione delle parti e per chiudere la controversia. Altrimenti si verificherebbe ( sotto il primo profilo) che colui che ha ragione con la sentenza non avrebbe titolo per farsi restituire immediatamente quanto infondatamente dato sulla base dell’ordinanza, e ( sotto il secondo profilo) che costui dovrebbe proporre una domanda di restituzione in un separato processo. 2. ESTINZIONE DEL PROCESSO. Sulla base del terzo comma l’ordinanza “acquista l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza”. L’ordinanza è impugnabile secondo le rispettive soccombenze, sulla base delle regole ordinarie. 22 strumento ( che può essere una dichiarazione, una rappresentazione grafica, o quale che sia ).
 Il problema che si pone è la valutazione della fedeltà del mezzo rappresentativo; disciplinato dall’art. 116, I c.p.c. il quale dispone che il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti. E’ questo il principio generale della libera valutazione delle prove. In contrapposizione alle PROVE LIBERAMENTE VALUTABILI, vi sono le PROVE LEGALI, in cui cioè la valutazione di attendibilità è fatta a priori dalla legge. Quando una prova è liberamente valutabile, il legislatore rinuncia a porre delle regole anche solo tendenziali, non rigide, alla valutazione di attendibilità; di fronte ad una di esse il giudice deve porsi il problema della sua attendibilità, e deve enunciare i criteri in base ai quali la valuta attendibile o inattendibile. Tali criteri devono essere convincenti, devono cioè fondarsi su regole che, ancorché non giuridiche e rimesse alla scelta del giudice, siano idonee a convincere che la valutazione di attendibilità è effettuata sulla base di un metro corretto. Spesso invece il giudice non valuta l’attendibilità della prova o usa criteri che non sono idonei a essere controllati razionalmente da chi legge la motivazione della sentenza. Valutazione secondo prudente apprezzamento significa dunque valutare l’attendibilità della prova secondo regole tratte dalla società civile, cioè secondo le massime d’esperienza: essendo comuni a tutta la società queste sono enunciabili e controllabili e possono essere giudicate come idonee o meno a valutare l’attendibilità della prova. Il giudice deve enunciare i criteri di valutazione in modo che si possa controllare se sono accettabili o meno (es. il giudice esclude l’attendibilità del testimone perché parente di una delle parti). Il giudice deve trarre gli elementi su cui impostare la valutazione dall’assunzione dello stesso mezzo di prova: nel momento in cui assume il mezzo di prova deve anche acquisire tutti gli elementi che sono utili a valutare l’attendibilità della prova stessa.
 Invece per la PROVA LEGALE il legislatore individua la regola di valutazione stabilendo che, al verificarsi di un determinato presupposto, il giudizio deve essere di attendibilità della prova; è esclusa in questi casi la libera valutazione del giudice. La differenza tra una prova legale e una prova libera non sta quindi nella maggiore efficacia dell’una rispetto all’altra, ma sta nel VINCOLO che attiene a quelle legali e non a quelle libere: ambedue sono ugualmente idonee a dimostrare l’esistenza del fatto. Laddove si tratta di prove in senso proprio una sola prova ( anche se liberamente valutabile) è sufficiente a provare il fatto. Accanto alle prove in senso proprio, il nostro ordinamento conosce anche delle prove minori che sono i cosiddetti ARGOMENTI DI PROVA, disciplinati dall’art. 116, II c.p.c. , e che possono essere desunti dalle risposte delle parti all’interrogatorio libero, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni disposte dal giudice e in generale dal contegno delle parti stesse nel processo. Un’altra categoria di argomenti di prova è prevista dall’art. 310, III c.p.c. : nell’ipotesi in cui il processo si estingue prima di giungere ad una sentenza di merito, se la domanda viene riproposta, le prove raccolte nel processo estinto sono valutate dal giudice come argomenti di prova. In tale situazione, le prove subiscono dunque una sorta di degradazione. L’argomento di prova da solo non è idoneo a far ritenere esistente un certo fatto, ma può essere usato come strumento per valutare e integrare i mezzi di prova in senso proprio ( in particolare, quelli soggetti al prudente apprezzamento del giudice ); è uno < strumento di contorno> , che serve , in relazione alle prove in senso proprio ( ad es., di fronte a due prove libere con esisto contrastante ) per valutarne l’attendibilità, oppure per stabilire, di fronte ad un mezzo di prova che non è del tutto concludente, se il fatto può ritenersi provato “ completando “ così una prova a di per sé insufficiente. Essenziale è tener presente che, sulla base dei singoli argomenti di prova, il giudice non può giungere a dichiarare il fatto esistente o inesistente.
 Ma altrettanto importante è tener presente che la giurisprudenza in materia è molto elastica. Le PRESUNZIONI ( prove indiziarie o critiche) si dividono in tre categorie : presunzioni assolute; presunzioni legali o semplici; presunzioni non stabilite dalla legge. • Le PRESUNZIONI LEGALI ASSOLUTE sono disciplinate dall’art. 2728, II c.c., e contro di esse non è ammessa prova contraria, salvo che questa sia consentita dalla legge (es. culpa in eligendo del datore di lavoro nella scelta del dipendente; art 599 cc in tema di capacità a ricevere per testamento). Nella realtà la presunzione legale assoluta altro non è che una norma di diritto sostanziale che modifica la fattispecie. Accanto alla presunzione legale assoluta, che NON 25 ammette prova contraria, vi sono le presunzioni legali assolute che ammettono non tutte ma soltanto alcune prove contrarie (es. art 2960 cc, 2954, 2955 cc). Ci sono poi le presunzioni assolute contestabili solo in via di domanda, ex art 238 cc (es. filiazione che risulta da un atto di stato civile e da un possesso di stato costituisce presunzione assoluta di conformità dello stato apparente a quello reale, non è possibile contestare la situazione in via incidentale). Le presunzioni legali assolute, che ammettono prova contraria, si distinguono in due categorie: presunzioni che ammettono solo certi tipi di prova e presunzioni che possono essere combattute solo proponendo un’apposita domanda. Le presunzioni legali semplici, o iuris tantum, secondo quanto stabilisce l’art. 2728, I c.c. < dispensano da qualunque tipo di prova coloro a favore dei quali esso sono stabilite>. La presunzione legale semplice opera un’inversione dell’onere della prova. Al verificarsi del presupposto previsto dalla norma, avviene nella fattispecie uno scambio : quello che normalmente è un fatto costitutivo diventa un’eccezione ; quella che è un’eccezione diventa un fatto costitutivo = si inverte l’onere della prova. Se l’eccezione diventa fatto costitutivo, sarà l’attore a doverlo provare e non più il convenuto; e viceversa. Conseguentemente il rischio della mancata prova passa dall’una all’altra parte a seconda della modificazione che la presunzione produce nella struttura della fattispecie. Le presunzioni legali semplici sono un fenomeno frequente, perché il legislatore spesso, attraverso esse, incide sull’onere della prova per raggiungere finalità più varie (es. art 2054 cc, obbligo di risarcimento del danno del conducente di un veicolo senza guida di rotaie, a patto che non provi di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno; art 1142 con presunzione di possesso intermedio).
 Le presunzioni legali semplici costituiscono uno dei meccanismo con cui il legislatore ripartisce il rischio della mancata prova. Le PRESUNZIONI SEMPLICI sono definite dall’art. 2727 c.c. come le conseguenze che il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignoto. Questo è l’elemento caratteristico della prova critica : oggetto della prova è un fatto di per sé non rilevante ( perché non è elemento della fattispecie ) che, attraverso un ragionamento presuntivo, consente di affermare l’esistenza o l’inesistenza di un fatto rilevante (perché elemento della fattispecie). La presunzione è il ponte logico che il giudice istituisce tra il fatto provato, ma di per sé irrilevante, e il fatto non provato ma rilevante. Le prove presuntive o indiziarie, contrariamente a quanto di solito si ritiene, non necessariamente hanno un’efficacia probatoria inferiore alle altre prove. L’efficacia della prova presuntiva sta nella forza dell’inferenza che lega il fatto noto a quello ignoto (es. l’alibi è una prova indiziaria forte, la non ubiquità è una regola non soggetta a smentite).
 L’art. 2729 c.c. prescrive che le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti. Nelle presunzioni semplici l’inferenza fra il fatto noto e quello ignoto è istituita dal giudice, sulla base di una regola che non è legale perché non è prevista dalla legge; il giudice la trae dalla massima d’esperienza, dalle regole di valutazione che sono proprie di una certa società in un certo momento storico, e quindi anche del giudice nella sua qualità di membro di quella società, del giudice non come esperto di diritto, ma come cittadino che vive in un certo tempo. La regola è quindi quella dell’id quod plerumque accidit, di ciò che accade normalmente, della normalità della inferenza da un certo fatto ( provato ma irrilevante ) ad un altro fatto ( non provato ma rilevante). L’inferenza si basa anche sulle nozioni di natura tecnica e scientifica (es. forza di gravità). Le presunzioni semplici devono essere gravi, precise e concordanti : con tale espressione il legislatore invita il giudice a stare attento alla scelta della regola di esperienza. Poiché la regola di inferenza deve essere attendibile, il giudice deve esplicitare quale è la regola che lo porta dal fatto noto a quello ignoto, inoltre se il nesso inferenziale è forte, anche una sola presunzione è sufficiente.
 Ci sono però dei limiti normativi alla utilizzazione delle presunzioni semplici: esse non possono essere usate nei casi in cui è esclusa la prova per testimoni. Quando un fatto incontra limiti nella prova testimoniale, gli stessi limiti valgono anche per la prova presuntiva (art 1417 cc consente ai terzi ma non alle parti la prova testimoniale della simulazione). Limiti legali di ammissibilità si pongono per tutte le prove, tranne che per le prove dirette come l’ispezione, che non ha limiti di ammissibilità ma solo di rilevanza. 26 INIZIATIVA ISTRUTTORIA OFFICIOSA. L’iniziativa per l’acquisizione delle prove al processo può provenire dalle parti o dal giudice. L’art. 115 c.p.c. statuisce che la regola è che il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove acquisite al processo su iniziativa delle parti ( ivi compreso il P.M. , che è parte come tutte le altre a questi effetti) e l’eccezione sono i casi, previsti dalla legge, in cui il giudice può assumere prove anche di sua iniziativa. I poteri istruttori del giudice sembrerebbero l’eccezione rispetto alla regola. In realtà non c’è margine per applicare questa contrapposizione fra regola ed eccezione. Sono i mezzi di prova disponibili d’ufficio l’ispezione di cose e di persone ( art. 118 c.p.c.); la richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione ( art. 213 c.p.c.); la testimonianza de relato ( art. 257, I c.p.c. : quando un testimone, nella sua deposizione, indica un altro soggetto che è a conoscenza dei fatti di causa, il giudice può d’ufficio sentire come testimone questo soggetto); l’esibizione in giudizio delle scritture contabili dell’imprenditore ( art. 2711, II c.c.); ed infine il giuramento suppletorio ( art. 2736 c.c.). Quanto appena visto vale per i processi a decisione collegiale; viceversa, per quelli a decisione monocratica con l’art. 281 – ter c.p.c. si ampliano i poteri di iniziativa istruttoria del giudice, che può disporre di ufficio la prova testimoniale al di là dei limiti previsti dall’art. 257, I c.p.c. Non è necessario che la notizia dell’esistenza di un terzo a conoscenza dei fatti di causa provenga da un testimone, ma è sufficiente che provenga da qualunque atto legalmente acquisito al processo, e dunque anche dalle allegazioni effettuate dalle parte stesse. L’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio deve avvenire con riferimento ai fatti allegati dalle parti. Il giudice può utilizzare i propri poteri istruttori per provare l’esistenza di fatti allegati dalle parti; non ha, dunque, poteri di allegazione d’ufficio. Infatti quando il processo ha ad oggetto diritti indisponibili che necessitano completezza di allegazioni il processo è integrato con la partecipazione del pubblico ministero, che ha potere di allegazione. Il giudice può esercitare i suoi poteri istruttori solo rispetto a fatti già allegati, e non può trasformarsi in un “ investigatore” alla ricerca di fatti rilevanti, ma non allegati. Quando l’iniziativa istruttoria proviene dalla parte, con un solo atto essa può compiere una duplice attività: l’allegazione del fatto e, contemporaneamente, la richiesta istruttoria che ha ad oggetto il fatto contestualmente allegato. La parte ha, infatti, il potere di allegazione e il potere istruttorio; il giudice ha solo il potere istruttorio. Ciascun mezzo di prova è soggetto al GIUDIZIO DI AMMISSIBILITÀ E DI RILEVANZA, che precede l’assunzione della prova. È un giudizio di diritto, e riguarda i limiti che l’ordinamento pone alla utilizzazione di determinati mezzi di prova, riguardanti sia il fatto da provare che lo strumento utilizzato. Alcuni mezzi istruttori ( confessione, giuramento) trovano, ad es., un limite nella natura disponibile del diritto cui il fatto da provare si riferisce, nel senso che essi sono utilizzabili solo laddove il diritto è disponibile; la prova testimoniale, invece, trova un limite nella natura del fatto da provare ( contratto e pagamento). Il giudizio di rilevanza si base sulla qualificazione giuridica del fatto che si vuole provare. Rilevante è quel fatto storico che integra un elemento della fattispecie del diritto fatto valere ( sia esso costitutivo, impeditivo, modificativo ed estintivo) o in via diretta oppure in via indiretta, cioè come fatto base su cui svolgere un ragionamento presuntivo (es. si vuole provare la presenza di tizio in un luogo, sono rilevanti sia i mezzi di prova con cui si chiede di dimostrare la presenza sia quelli con cui si chiede di dimostrarne l’assenza). Certi elementi della fattispecie sono dimostrabili soltanto attraverso un ragionamento presuntivo, cioè una prova indiretta; così , ad es., gli stati psicologici, e i fatti negativi, poiché non è possibile provare in via immediata ciò che non è stato.
 Il giudizio di rilevanza viene effettuato sulla base della ricostruzione delle fattispecie; è fondato su una valutazione ipotetica di colui che lo effettua. Niente esclude che poi, al momento della decisione , la valutazione di rilevanza sia diversamente operata; e quindi ciò che è stato ritenuto rilevante divenga irrilevante, e viceversa. Rilevante non è mai il mezzo di prova, ma il fatto oggetto della prova. L’ammissibilità è una qualificazione giuridica che investe talvolta il mezzo di prova e talvolta il fatto da provare; la rilevanza investe esclusivamente il fatto da provare.
 Il giudizio di ammissibilità e rilevanza è effettuato in momenti diversi, a seconda che si tratti di • prove precostituite > sono soggette al giudizio di ammissibilità e rilevanza soltanto al momento della decisione. L’acquisizione al processo delle prove precostituite avviene in maniera semplice ed è svincolata da qualunque giudizio preventivo di ammissibilità e rilevanza. 27 acquisizione si presenta difficoltosa per la complessità delle operazioni. Invece il consulente tecnico ha la possibilità di svolgere con più elasticità la propria opera, nel senso che opera fuori udienza, e quindi non è vincolato ai tempi ed ai ritmi delle udienze. Ciò libera il giudice dal compito di presenziare all’attività istruttoria che è , per così dire, “ delegata” al consulente. L’art. 198 c.p.c. fa riferimento all’esame contabile, ma la sua ratio può essere estesa anche ad altre ipotesi. Al consulente tecnico è affidato non solo il compito di valutare, sulla base delle sue cognizioni tecniche, i fatti accertati attraverso i normali mezzi di prova, ma anche il compito di accertare i fatti che sarebbero di difficoltosa e complessa acquisizione attraverso una normale istruttoria. Anche qui c’è la possibilità di nomina di consulenti tecnici di parte, che collaborano con il consulente tecnico d’ufficio nell’acquisizione dei dati: si realizza il contraddittorio ed il giudice può non seguire le risultanze della consulenza tecnica di ufficio ove si convinca, sulla base delle considerazioni dei consulenti tecnici di parte, che il consulente tecnico ha commesso degli errori o ci sono delle lacune nella sua opera. Dal punto di vista strettamente procedimentale, la nomina del consulente tecnico avviene con ordinanza del g.i. , come per gli altri mezzi istruttori. 12) LA PROVA DOCUMENTALE : PROFILI GENERALI
 La prova documentale ha la caratteristica di essere acquisita al processo attraverso la sua pura e semplice produzione agli atti di causa. Tale semplice acquisibili della prova documentale agli a sti di causa è determinata dalla sua struttura: il documento è qualunque oggetto che fornisce la rappresentazione di un fatto storico. Al di là dello scritto, sono documenti anche le rappresentazioni meccaniche (foto, nastri, videoregistrati, documenti elettronici). Proprio per questa sua struttura, talvolta la prova documentale costituisce la rappresentazione immediata del fatto storico; talaltra essa costituisce la rappresentazione di una prova del fatto storico: può fornire la prova immediata del fatto (es. video di un incidente stradale), oppure la prova di una prova del fatto (es. video di un soggetto che racconta lo svolgimento dell’incidente stradale).
 Fermo che si tratta sempre di documenti, è però chiaro che la efficacia probatoria del fatto narrato è diversa a seconda del contenuto della prova documentale.
 Il documento è il supporto che può contenere o la rappresentazione immediata del fatto ( e qui non sorgono problemi ) oppure la rappresentazione del fatto mediata da un’ulteriore prova : in tal caso è necessario stabilire la valenza documento dal punto di vista probatorio. Se il documento contiene la dichiarazione di un soggetto, esso prova che la dichiarazione è stata resa; per stabilire, però , se ciò che è oggetto della dichiarazione può ritenersi provato, occorre vedere chi ha reso la dichiarazione, a chi è stata resa, in che contesto, etc.; cioè occorre applicare le regole che disciplinano l’efficacia probatoria della dichiarazione. Si può così arrivare alla conclusione che i fatti provati attraverso il documento ( ad es., che Tizio ha dichiarato l’esistenza del fatto x ) non sono rilevanti perché ciò che è provato con il documento è un fatto ( una dichiarazione ) che non ha in sé valore probatorio. Pertanto, rimanendo fermo che Tizio ha narrato un certo fatto ( perché ciò è provato attraverso il documento), siccome la narrazione non ha valore probatorio, il fatto narrato non può ritenersi provato pur essendo provato che la dichiarazione è stata resa. 13) L’ATTO PUBBLICO
 L’atto pubblico costituisce una prova documentale. L’art. 2699 c.c. dà la definizione di atto pubblico e stabilisce le condizioni in presenza delle quali un documento può definirsi atto pubblico. Deve farsi con le richieste formalità; in mancanza scatta la previsione dell’art. 2701 c.c. in virtù del quale, ove l’atto pubblico non valga come tale per una serie di carenze, se l’atto è sottoscritto dalle parti, esso ha l’efficacia probatoria di una scrittura privata, nella quale si converte. In secondo luogo l’atto pubblico deve essere formato da un notaio o da un altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo in cui esso è formato.
 Non sono atti pubblici quelli che semplicemente provengono da un pubblico ufficiale, hanno sicuramente attendibilità ma non hanno pubblica fede e possono essere contestati con qualunque mezzo di prova senza utilizzare la querela di falso. La funzione di attribuire pubblica fede deve essere la funzione primaria e specifica del pubblico ufficiale affinché si possa parlare di atto pubblico. Atti pubblici sono quindi solo quelli in cui il pubblico ufficiale esercita la funzione 30 primaria di accertamento dei fatti (notaio, segretario comunale, cancelliere, ufficiale giudiziario), e non anche gli accertamenti strumentali all’esercizio di funzioni diverse. La giurisprudenza ha ampliato la nozione di pubblico ufficiale e di atto pubblico, ponendo il confine tra l’atto pubblico avente pubblica fede e atto pubblico non avente pubblica fede nella circostanza che quanto attestato dal p.u. sia o meno frutto di un suo apprezzamento, nel primo caso l’atto ha pubblica fede (vigile urbano accerta che un autoveicolo sostava in un certo luogo) e nel secondo no (es. vigile urbano dichiara che il fondo stradale era in buone/cattive condizioni). L’efficacia dell’atto pubblico è disciplinata dall’art. 2700 c.c.; fa “ piena prova”, cioè ha l’efficacia di una prova legale. La attendibilità di quanto risulta dall’atto pubblico è prevalutata dal legislatore in senso positivo di modo che il giudice non può, sotto nessun profilo, ritenere non attendibile quello che ha attestato il pubblico ufficiale. Il giudice che negasse attendibilità all’atto pubblico violerebbe la norma che gli impone una regola di comportamento. L’atto pubblico fa piena prova circa : • < la provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato> : il giudice non può porre in dubbio che il pubblico ufficiale abbia formato quel documento. Ciò non significa che il documento faccia piena prova anche della qualità di pubblico ufficiale del soggetto che lo ha formato (se un qualunque soggetto redige un atto autoattribuendosi la qualifica di notaio, non è che, solo per questo, si rende necessaria la querela di falso per contestare che il rogante sia effettivamente notaio). Affinché la provenienza del documento dal soggetto che lo ha rogato sia coperta dalla pubblica fede, occorre che quel soggetto sia effettivamente pubblico ufficiale. • < di tutto ciò che è avvenuto di fronte al pubblico ufficiale>. L’atto pubblico fa pubblica fede del c.d. estrinseco, cioè di tutto ciò che il pubblico ufficiale può attestare che sia avvenuto in sua presenza, o che lui ha compiuto. In presenza del pubblico ufficiale possono essere anche rese dichiarazioni delle parti, cioè il c.d. intrinseco. L’atto pubblico accerta in maniera piena che il soggetto ha reso la dichiarazione, ma la verità di ciò che è stato dichiarato rimane scoperta da pubblica fede. Il pubblico ufficiale non può attestare che sia vero quello che le parti gli hanno dichiarato. L’intrinseco della dichiarazione resa di fronte al pubblico ufficiale di per sé non è affatto coperto da pubblica fede. Qualora si tratti di una dichiarazione di scienza, il fatto dichiarato si considera pienamente provato se la dichiarazione ha a sua volta la caratteristica di una prova legale; se ha la caratteristica di una prova libera vale come prova libera; se ha la caratteristica di non essere prova, allora non vale assolutamente niente. Il documento ha una fungibilità di contenuti: la dichiarazione E NON LA VERIDICITÀ DEL CONTENUTO è attestata con identica efficacia. Perché il fatto dichiarato possa considerarsi provato, occorre valutare la dichiarazione secondo le regole normali. Se un contraente vuole contrastare le risultanze dell’atto pubblico, sostenendo, ad es., di non aver mai reso la dichiarazione in esso attestata, deve utilizzare la QUERELA DI FALSO, perché l’affermazione contrasta con quanto attestato dal notaio. Se un contraente vuole contrastare le risultanze dell’atto pubblico sostenendo, ad es., che il contratto è simulato, non serve la querela di falso, perché l’affermazione non contrasta con quanto attestato dal notaio, non urta con la pubblica fede dell’atto. Quindi, per contestare l’intrinseco, occorre utilizzare gli strumenti normali che l’ordinamento prevede. Se si tratta di dichiarazioni di fatti a sé favorevoli, la controparte non ha bisogno di contrastarle, perché esse non costituiscono prova. Se si tratta di dichiarazioni confessorie, il dichiarante può contrastarle nei limiti in cui la legge consente la revoca della confessione ( cioè per violenza o per errore di fatto). Se si vuole sostenere che l’atto era simulato, non si può farlo attraverso testimoni, poiché inter partes la prova della simulazione non si può dare per testimoni ( art. 1417 c.c.). Per contrastare l’estrinseco invece si deve utilizzare la querela di falso, che serve appunto per contrastare ciò che dall’atto pubblico è attestato con efficacia di prova legale.
 La querela di falso ( art. 221 ss c.p.c. ) è un processo sui generis perché, per regola generale, oggetto del processo sono situazioni sostanziali. Invece l’oggetto della querela di falso è la genuinità di un atto pubblico , e quindi un fatto, non un diritto. Al documento si possono imputare due tipi di falsità: il falso ideologico ed il falso materiale. FALSO IDEOLOGICO = il pubblico ufficiale ha attestato fatti diversi da quelli che sono avvenuti in 31 sua presenza (es. notaio scrive 10 anziché 100€). FALSO MATERIALE = quando l’atto nasce ab origine genuino, mentre successivamente ne viene alterato il testo. Del falso ideologico è responsabile necessariamente il pubblico ufficiale, mentre nel falso materiale l’alterazione materiale può provenire anche da soggetti diversi. La disciplina del falso in atto pubblico è contenuta nel codice penale, agli artt. 476 ss.
 La querela di falso si propone in via principale oppure in via incidentale. Si ha querela di falso IN VIA PRINCIPALE quando il processo ha ad oggetto immediato ed esclusivo la falsità dell’atto. Non c’è bisogno di attendere che il documento sia usato per poter proporre querela di falso: essa può essere proposta anche in via preventiva (es. se so che c’è un atto pubblico falso che mi riguarda, per poter proporre querela non c’è bisogno che attenda che qualcuno lo usi contro di me, ma posso prendere l’iniziativa e chiederne la dichiarazione di falsità in via principale). In tal caso, la domanda si propone con citazione davanti al tribunale, che è competente per materia. Parti del processo di querela di falso sono: il soggetto che ne afferma la falsità, il soggetto che utilizza o potrebbe utilizzare l’atto. Non ne fa parte il pubblico ufficiale. Si ha querela di falso IN VIA INCIDENTALE quando l’atto è usato come prova in un processo, avente un diverso oggetto e colui contro il quale è usato come prova, ne afferma la falsità. Se la proposizione della querela avviene in via incidentale, esiste un meccanismo di raccordo tra il processo principale, in cui è prodotto l’atto che si impugna, e il processo incidentale di falso. La proposizione della querela di falso è uno di quegli atti che sono riservati alla parte, e che il procuratore non può compiere a meno che non abbia un mandato speciale con il quale gli si è conferito tale potere. Proposta la querela di falso in via incidentale, il giudice deve interpellare la parte che ha prodotto il documento e chiederle se vuole mantenerne la produzione oppure lo vuole ritirare. Se la parte decide di ritirarlo allora il documento non è più utilizzabile in quel processo. Naturalmente la controparte può sempre proporre la querela in via principale, però in tal caso il processo di falso non incide sul processo in corso ( che, ove la querela di falso in via incidentale sia ammessa , è sospeso ex lege in attesa della decisione sulla querela di falso). Chi produce il documento può avere interesse a ritiralo, proprio per evitare la sospensione del processo nel quale il documento è stato prodotto.
 Se la parte non lo ritira, allora il giudice deve valutarne la rilevanza: è questo l’unico caso in cui la prova documentale è soggetta ad una valutazione preventiva di rilevanza. La rilevanza si determina sulla base del fatto rappresentato nel documento : se il giudice ritiene che il fatto rappresentato nell’atto è rilevante, perché integra direttamente o indirettamente un elemento della fattispecie del diritto dedotto in giudizio, ammette la proposizione della querela di falso. La controparte ha, ovviamente , anche qui il potere di proporre la querela di falso in via principale. Se il giudice che ammette la querela di falso è un giudice di pace o una corte di appello, occorre che la causa di falso sia riassunta di fronte al tribunale e ciò comporta la sospensione necessaria del processo originario. Se invece il processo pende di fronte al tribunale, allora il g.i. può istruire solo il processo di falso e sospendere l’istruzione della causa originaria; oppure istruire sia la causa originaria sia la causa di falso, e rimettere in decisione ambedue. Si ha così una sentenza con due capi : uno sulla querela di falso e l’altro sulla domanda originaria. È facile che la falsità, che si fa valere con la querela di falso, sia rilevante anche penalmente e quindi determini l’apertura di un processo penale ( a meno che il reato sia prescritto, o il suo autore sia morto, etc.). Secondo il cpp, la possibilità di sospensione del processo civile per pregiudizialità penale esiste limitatamente alle azioni risarcitorie e restitutorie che nascono dal reato, e sempre che si verifichino i presupposti dell’art. 75 c.p.p. Poiché il processo di falso non costituisce un’azione risarcitoria o restitutoria, la sospensione del processo civile non ha luogo; i due processi vanno avanti parallelamente e ognuno arriva automamente alla sua conclusione. Le due decisioni, pertanto, possono essere anche contrastanti: il giudice civile può accertare, ad es., che il notaio ha commesso un falso ideologico e il giudice penale assolverlo perché il fatto non è stato commesso; o viceversa. In ogni caso, non si ha un contrasto ( neppure teorico ) di giudicati, ma solo un contrasto fra accertamenti. Ai sensi dell’art. 654 c.p.c. è possibile in casi eccezionali che la sentenza penale faccia stato anche nel processo civile. In tal caso, se la sentenza penale passa in giudicato in un momento in cui essa può ancora essere recepita nel processo civile ( perché in quest’ultimo non sono ancora state precisate le conclusioni), allora ciascuna parte, producendo in 32 scrittura privata riconosciuta , autenticata, verificata ) e a ritenere che ciò che la parte dichiara è vero perché si tratta di fatti a lei sfavorevoli. Ma se la parte dichiara fatti a sé favorevoli rimane accertato, a livello di prova legale, che la parte ha reso quella dichiarazione; mentre la veridicità dei fatti narrati non è in alcun modo ricavabile dalla scrittura perché la dichiarazione non ha efficacia probatoria (es. scrittura privata in cui Caio afferma di avere dato in prestito 1000€ a Tizio, il giudice tiene fermo solo che la scrittura è effettivamente proveniente da Caio; ma l’esistenza dei fatti costitutivi del mutuo il giudice non può ricavarla da tale dichiarazione). Se invece Caio con scrittura autenticata, verificata o riconosciuta dichiara che Tizio gli ha restituito i soldi avuti a prestito, allora il giudice è vincolato a ritenere che : a ) la dichiarazione è stata emessa da Caio e b) la restituzione c’è stata, perché il fatto restituzione è provato da una dichiarazione avente natura confessoria, con efficacia di prova legale. La scrittura privata fa piena prova della provenienza della dichiarazione sino a QUERELA DI FALSO: ben potrebbe essere che il documento, la cui sottoscrizione è genuina, sia stato falsificato; siamo allora di fronte ad un falso materiale ( art. 485 ss c.p.).
 Mentre con l’atto pubblico è possibile solo la querela di falso, perché la provenienza delle dichiarazioni è accertata, contro la scrittura privata è ammissibile un disconoscimento e/o una querela di falso che incidono su due profili diversi. La querela di falso incide sulla falsità del documento, il disconoscimento incide sull’imputabilità del documento. Anche per la scrittura privata riconosciuta, autenticata o verificata, così come per l’atto pubblico, non è necessaria la querela di falso, quando si voglia contestarne l’intrinseco. [es. è prodotta contro tizio una scrittura privata in cui si attesta la compravendita di un bene per 100€, tizio sostiene che c'è stata una simulazione sul prezzo per cui il bene è stato venduto a 1000€. Per far valere la simulazione tizio non deve proporre la querela di falso, deve provare l’accordo dissimulato].
 Anche per la scrittura privata, come per l’atto pubblico, la querela di falso serve solo per contrastare ciò che è provato con efficacia di prova legale; mentre, per contestare la veridicità delle dichiarazioni non c’è bisogno di usare la querela di falso, ma si possono usare i mezzi che l’ordinamento offre e nei limiti in cui li offre. Il riconoscimento e la verificazione della scrittura privata danno certezza della provenienza delle dichiarazioni e, se ciò è attestato nella scrittura , che le dichiarazioni sono state fatte in quella DATA CERTA. Non è detto che la scrittura riporti la dat : ma se lo fa, anche la data è accertata con efficacia di prova legale. Naturalmente la data della scrittura privata è accertata con efficacia di prova legale solo fra le parti tra cui la scrittura privata forma prova; le scritture private sono opponibili ai terzi solo se hanno data certa. L’esigenza che la scrittura privata abbia data certa rispetto ai terzi nasce evidentemente dalla possibilità della retrodazione: le parti potrebbero retrodatare la scrittura, ciò significherebbe dare alle parti uno strumento per far venir meno retroattivamente effetti che, secondo le regole dell’ordinamento, si sono già prodotti a favore di terzi.
 Perché la scrittura privata abbia data certa, occorre che si verifichi una delle ipotesi previste dall’art. 2704 c.c., in primo luogo la scrittura può essere autenticata. Con l’autenticazione il notaio attesta non solo che la sottoscrizione è stata apposta da un certo soggetto ma anche che essa è stata apposta in un certo giorno, sempre naturalmente fino a querela di falso. In secondo luogo, la scrittura può essere registrata. La registrazione è un istituto che ha soprattutto scopi fiscali, tanto che per tutta una serie di atti sussiste l’obbligo, oltre che la possibilità , della registrazione.
 La registrazione si attua presentando un doppio originale dell’atto all’agenzia delle entrate che percepisce l’imposta relativa, timbra uno degli originali e l’archivia, e restituisce alla parte l’altro con l’attestazione che quel certo giorno è stata effettuata la registrazione dell’atto (può avvenire anche in via telematica). In terzo luogo, può sopravvenire un evento che dà certezza che la scrittura non possa essere stata formata successivamente, come, ad es., la morte o sopravvenuta impossibilità fisica di uno dei sottoscrittori. Se la scrittura porta la sottoscrizione anche di quel soggetto, ciò significa che la scrittura necessariamente era già stata formata prima che si fosse verificata l’impossibilità. Ancora : la scrittura può essere riprodotta in un atto pubblico.
 Infine, può verificarsi un altro fatto che stabilisca, in modo egualmente certo, l’esistenza in un certo giorno del documento; le ipotesi previste dall’art. 2704 c.c. non sono tassative. Sono altresì idonei tutti quei fatti da cui risulti sufficientemente certa la data di sottoscrizione del documento 35 (es., la produzione di un documento in giudizio, ove tale produzione sia debitamente attestata dal cancelliere). E’ invece molto discusso sei il timbro postale apposto sulla scrittura privata sia sufficiente a conferire alla stessa data certa. Un ultimo caso riguarda le quietanze. La data certa delle quietanze può essere fornita con ogni mezzo di prova tenuto però conto delle circostanze. Il giudice deve, cioè , preventivamente valutare se nella normalità di svolgimento di quel rapporto si usa rilasciare la quietanza con o senza data certa. Ci deve essere una valutazione preventiva di verosimiglianza del fatto che sia stata rilasciata una quietanza senza data certa. 15) LE ALTRE PROVE DOCUMENTALI
 Gli artt. 2705 e 2706 c.c. stabiliscono che il telegramma ha l’efficacia di una scrittura privata se il testo originale ( cioè il modulo che si presenta per la spedizione ) è sottoscritto dal mittente, oppure se è stato consegnato o fatto consegnare dal mittente medesimo anche senza sottoscriverlo. La sottoscrizione può essere autenticata dal notaio oppure può essere accertata dall’addetto alla posta; nel primo caso per contrastare l’autenticazione, si rende necessaria la querela di falso; nel secondo caso, invece, è ammessa qualunque prova contraria.
 Per il telex e il fax si pone il problema dell’individuazione del luogo da cui è partito e di quello in cui è arrivato. Ciò è possibile in quanto la trasmittente attesta giorno, ora, numero telefonico del mittente e del destinatario per il fax , e numero dell’apparecchio che trasmette e di quello che riceve per il telex. Bisogna poi valutare se si può stabilire con sufficiente certezza da quale soggetto è stato spedito e da quale soggetto è stato ricevuto. Il telex e il fax lasciano quindi l’incertezza sul fatto di essere stati spediti proprio da un certo soggetto e ricevuti da un altro.
 Evidentemente qui non si ha una prova legale in nessun caso ed è necessario valutare, volta per volta, a quale conclusioni bisogna arrivare circa la persona del mittente e quella del destinatario. Questi mezzi danno infatti certezza degli apparecchi trasmittente e ricevente, ma non della persona che è agli apparecchi.
 Secondo quanto affermato dall’art. 2709 c.c., le scritture contabili fanno prova contro l’imprenditore: non però come prova legale, ma come prova che può essere contrastata con qualunque altra prova contraria. Il contenuto delle scritture contabili non può essere scisso: la scrittura contabile deve, cioè , essere presa nella sua completezza, considerando quindi sia le partite favorevoli che quelle sfavorevoli, e quindi complessivamente i risultati della scrittura stessa. L’art. 2710 c.c. prevede che, nei rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa, le scritture contabili possono far prova anche a favore dell’imprenditore che le ha tenute, quando siano fatte valere contro un altro imprenditore ugualmente obbligato a tenere le scritture contabili. Può così accadere che le scritture contabili si annullino a vicenda, se dalle scritture dei due imprenditori risultano registrazioni contrastanti. La norma sfavorisce quindi l’imprenditore che non tiene regolarmente le proprie scritture contabili. Ai sensi dell’art. 2711, II c.c., l’ordine di esibizione dei libri contabili, per estrarne le registrazioni relative alla controversia in corso, può essere disposto dal giudice anche di ufficio.
 Sono documenti anche le riproduzioni meccaniche : si deve tener presente che per documento si intende non solo lo scritto, ma qualunque oggetto idoneo a registrare l’accadimento di un fatto storico. Le riproduzioni meccaniche, secondo quanto recita l’art. 2712 c.c. , sono le riproduzioni fotografiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose, cui oggi possiamo aggiungere anche quelle su nastro magnetico, su cassetta, su hard – disk , su C.D, D.V.D. o su memoria esterna del computer, su tutto quello che la tecnica offre per la rappresentazione meccanica dei fatti. Anche le rappresentazioni meccaniche, come tutti i documenti, possono contenere o la rappresentazione immediata del fatto direttamente o indirettamente rilevante, oppure la sua narrazione. Quando la rappresentazione meccanica documenta un’altra rappresentazione, per determinare l’efficacia probatoria della rappresentazione meccanica occorre stabilire l’efficacia probatoria di quanto in essa rappresentato. Le rappresentazioni meccaniche hanno efficacia di prova legale, quindi di piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, a condizione che colui contro il quale sono prodotte non ne disconosca la conformità ai fatti e alle cose medesime ( art. 2712 c.c.), sostenendone l’alterazione. Di fronte al silenzio della parte contro cui tali rappresentazioni sono prodotte, il giudice è tenuto a qualificarle come genuine ( non artefatte ). Se c’è invece una 36 contestazione sulla loro genuinità occorre procedere ad un’indagine circa l’attendibilità di queste prove. Se si giunge alla conclusione che non sono state artefatte, esse acquistano il valore di prova legale e in caso contrario non hanno alcuna efficacia probatoria.
 La rappresentazione di atti o fatti può essere anche informatica ex d.lgs. 82/2005 (codice dell’amministrazione digitale): il documento informatico ha forma scritta, ancorché esso per essere < percepito> necessiti di particolari apparecchiature. Il problema principale che pone il documento informatico riguarda la sua provenienza : la funzione che nella scrittura privata è svolta dalla sottoscrizione evidentemente qui deve essere sostituita da un diverso meccanismo che dia ( sufficiente ) certezza della sua imputabilità.
 Ex d.lgs. 82/2005, l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità. - documento info con firma elettronica: liberamente valutabile in giudizio; - Con firma elettronica avanzata / qualificata / digitale: efficacia ex art 2702 cc, l’utilizzo del dispositivo di firma elettronica si presume riconducibile al titolare, salvo che questi ne dia prova contraria. COPIE DEGLI ATTI. L’art. 2714 c.c. stabilisce che le copie di atti pubblici rilasciate da chi custodisce l’atto pubblico hanno la stessa efficacia dell’originale. Ciò che entra in circolazione non è quindi mai l’originale, ma sempre una copia, che è rilasciata e autenticata dal soggetto che custodisce l’originale. Sono quindi il notaio, il cancelliere , il funzionario dell’archivio notarile, etc., a rilasciare una copia dell’atto e ad attestarne la conformità all’originale da lui custodito. Stante l’impossibilità di circolazione dell’originale dell’atto pubblico è evidente la necessità di un meccanismo per far sì che la copia dell’atto pubblico possa circolare con la stessa efficacia probatoria dell’originale, altrimenti non sarebbe possibile utilizzare l’atto pubblico come prova. L’art. 2715 c.c. estende poi quando detto finora anche alle scritture private depositate presso un pubblico depositario (es. testamento olografo). FOTOCOPIE. L’art. 2719 c.c. stabilisce che le copie fotografiche di scritture hanno la stessa efficacia delle autentiche se la loro conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta. Perciò, se la parte produce in giudizio la fotocopia di un documento e la controparte non ne disconosce espressamente la conformità all’originale, la fotocopia del documento si presume rappresentare correttamente l’atto fotocopiato ed ha quindi la stessa efficacia dell’atto rappresentato. Il problema nasce nell’ipotesi cui vi sia un espresso disconoscimento. La giurisprudenza più recente equipara il disconoscimento di cui stiamo parlando a quello previsto dall’art. 214 c.p.c. , relativo alla sottoscrizione della scrittura privata : deve essere effettuato nella prima difesa successiva al momento in cui la fotocopia è stata prodotta in giudizio. Il disconoscimento fa sì che l’atto perda la propria efficacia probatoria. Le vie che quindi restano aperte dopo l’espresso disconoscimento sono due: o quegli stessi fatti si provano con altri mezzi di prova; oppure si produce l’originale da cui quella fotocopia è stata tratta ( o una copia autenticata dell’atto di cui è stata fatta la fotocopia). Anche qui l’incertezza sulla genuità della fotocopia ( conseguenza del disconoscimento di controparte ) comporta, finché tale incertezza perdura, la inutilizzabilità della fotocopia stessa come prova. ATTI DI RICOGNIZIONE. Ex art. 2720 c.c., sono previsti in relazione a rapporti di durata molto lunga nel tempo ed in pratica hanno lo scopo di rinnovare il titolo originario. Gli atti di ricognizione espressamente previsti dal nostro ordinamento sono due: 1. art. 969 c.c. in tema di enfiteusi stabilisce che il concedente può richiedere la ricognizione del proprio diritto da chi si trova in possesso del fondo enfiteutico, un anno prima del compimento del ventennio. 2. art. 1870 c.c. in tema di rendita perpetua, stabilisce che il debitore della rendita o di ogni altra prestazione annua che debba o possa durare oltre i dieci anni deve fornire a proprie spese al titolare, se questi lo richiede, un nuovo documento, trascorsi nove anni dalla data del precedente. [Questi meccanismi differiscono dalla ricognizione di debito art. 1988 c.c., che non è un meccanismo probatorio.] 37 ciò può accadere solo quando la dichiarazione sia resa in forma orale e nel contraddittorio, in modo che ciascuna delle parti possa contribuire all’individuazione ed all’acquisizione degli elementi utili per valutarne l’attendibilità. Si è posto il problema del valore probatorio della dichiarazione scritta, proveniente da un terzo, che contenga una dichiarazione di scienza da parte sua. Evidentemente in sé tale mezzo di prova è , in senso ampio, una prova documentale, perché ha la consistenza di un documento e viene acquisito agli atti di causa come si acquisiscono i documenti ( con la produzione o l’esibizione). Ma il documento è una prova che ha la caratteristica di contenere talvolta la rappresentazione immediata del fatto rilevante e talvolta delle narrazioni; in quest’ultimo caso occorre vedere di volta in volta che valore probatorio ha la narrazione, perché il fatto che essa sia contenuta in un documento non dice nulla dell’efficacia probatoria del documento stesso. 
 Di regola la dichiarazione scritta proveniente dal terzo non ha efficacia probatoria, perché l’ordinamento stabilisce che la modalità tipica di acquisizione della scienza del terzo al processo è la dichiarazione orale resa nel contraddittorio delle parti. Questo è lo strumento “ legale” di acquisizione al processo della conoscenza del terzo; pertanto gli strumenti diversi da quelli previsti dalla legge, proprio per il principio di legalità ( in senso ampio ), non hanno efficacia probatoria. Si può però riconoscere alla dichiarazione scritta proveniente da un terzo una efficacia probatoria in tutti i casi in cui la conoscenza del terzo non è acquisibile al processo nelle forme tipiche previste dalla legge. Se la conoscenza del terzo, contenuta nel documento, può essere acquisita al processo attraverso la audizione dello stesso come testimone, è evidente che la dichiarazione scritta non può avere efficacia probatoria, perché è acquisita al processo in forma non prevista dalla legge. A diversa conclusione si deve giungere quando non è possibile acquisire al processo la conoscenze del terzo nella forma tipica prevista dalla legge ( ad es., per morte dello stesso); in tal caso non si può ignorare la dichiarazione scritta ma il giudice deve sottoporla ad una valutazione di attendibilità ancora più rigorosa di quella propria della prova testimoniale, proprio per le modalità atipiche con cui la dichiarazione è stata acquisita. Se invece è possibile, occorre che il terzo sia sentito come testimone, in modo da rispettare il diritto di difesa ( quindi il principio del contraddittorio nell’assunzione della prova ) e da consentire l’acquisizione di tutti gli elementi utili per valutare l’attendibilità della dichiarazione. Ciò ovviamente non si realizza nella dichiarazione scritta , perché la forma di essa non consente di fare domande al teste, e di acquisire tutti i dati utili per la valutazione della sua attendibilità. La prova testimoniale incontra dei LIMITI DI AMMISSIBILITÀ in relazione ai contrati. L’ordinamento poi equipara, alla prova dei contratti , la prova del pagamento e della remissione del debito, che non hanno propriamente natura contrattuale ma per i quali esiste la stessa ratio di esclusione della prova testimoniale propria dei contratti. Questa ratio si fonda sul fatto che il contratto nasce dall’accordo delle parti e quindi niente impedisce alle parti di predisporre la documentazione scritta della loro attività contrattuale. E siccome la prova scritta è sicuramente più attendibile di quella per testimoni, allora l’esclusione della prova per testimoni nasce proprio dal fatto che l’ordinamento vuole spingere le parti a predisporre la documentazione della propria attività contrattuale. Il pagamento e la remissione del debito hanno anch’essi la caratteristica di essere documentabili, perché il soggetto che paga ha la possibilità di esigere che gli sia rilasciata la quietanza, cioè una dichiarazione di natura confessoria con cui si attesta di avere ricevuto un pagamento. Lo stesso accade per la remissione del debito : il debitore può chiedere al creditore, che volontariamente gli rimette il debito, di predisporre un’idonea documentazione. • LIMITE DEL VALORE DEL CONTRATTO. Il primo limite di ammissibilità della prova testimoniale è contenuto nell’art. 2721 c.c. < la prova per testimoni nei contratti non è ammessa quando il valore dell’oggetto eccede i 2.58 euro> . Il presupposto da cui parte il legislatore è che l’onere delle parti di procurarsi una documentazione scritta del contratto è esigibile solo nelle attività contrattuali di un certo valore economico e non ha senso per quelle di scarso valore. Proprio per questa ragione, l’art. 2721 cc dà al giudice la possibilità di superare il divieto, tenendo conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza. Il giudice per superare il divieto della prova testimoniale deve tener conto della qualità delle parti, della natura del contratto, e di ogni altra circostanza; valutando se la stipulazione del contratto per abitudine 40 diffusa in quella certa società e in quel certo momento , avvenga in forma scritta o orale. Se l’uso è che il contratto si stipula oralmente, il giudice ammette la prova testimoniale; se invece, è normale la stipulazione del contratto per scritto, il giudice non l’ammette (es. era uso che il contratto per acquisto delle bestie avvenisse in forma orale con una stretta di mano). Vi è poi l’ipotesi che il contratto sia documentalmente provato ma si chieda di provare per testimoni patti aggiunti o contrari antecedenti, contemporanei o successivi alla formazione del documento. - I patti aggiunti o contrai antecedenti e contemporanei > non possono essere provati per testimoni perché, nel momento in cui le parti consacrano documentalmente la loro volontà contrattuale, è inverosimile che omettano di documentare patti, che in quel momento sono già stati stipulati. - I patti aggiunti o contrari successivi alla formazione del documento > è possibile che la volontà delle parti, così come esistente nel momento in cui si è formato il documento, si sia successivamente modificata. Art. 2723 c.c. ammette la prova testimoniale quando al giudice, avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e alle altre circostanze, appare verosimile che siano stati stipulati patti senza che di essi sia stata redatta la documentazione. Si torna quindi allo stesso criterio dell’art. 2721 c.c. < appare verosimile> significa calare il patto aggiunto o contrario nel modo di essere di quel rapporto. Al di là della valutazione di verosimiglianza, la prova testimoniale è sempre ammessa ( art. 2724 c.c. ) in tre ipotesi :
 1) quando vi è un PRINCIPIO DI PROVA PER ISCRITTO. Dal testo della norma emerge sempre il criterio della verosimiglianza, ma qui la verosimiglianza è data dal fatto che la controparte ha per scritto fatto riferimento al contratto a alla sua modificazione, in modo da far apparire verosimile l’esistenza del contratto o del patto aggiunto o contrario; 2) quando il contraente era nell’IMPOSSIBILITÀ MATERIALE O MORALE di procurarsi una prova scritta (mutuo erogato ad un parente stretto normalmente non si documenta). 3) Quando il contraente ha SENZA SUA COLPA PERDUTO IL DOCUMENTO che gli forniva la prova. L’art. 2725 c.c. disciplina la prova testimoniale dei contratti che esigono la forma scritta = FORMA SCRITTA AD PROBATIONEM. Nei contratti con forma scritta ad substantiam, la forma scritta è un requisito di efficacia del contratto; se non ha tale forma, il contratto è nullo. I contratti con forma scritta ad probationem devono essere provati per iscritto, però sono validi ed efficaci anche se stipulati oralmente, per cui la forma scritta costituisce solo un limite alla prova. Contratti con forma scritta ad probationem sono, ad es., l’assicurazione e la transazione. In concreto, se il contratto ha la forma scritta ad probationem non è possibile usare la prova testimoniale, ma è possibile usare altre prove, come , ad es., la confessione o il giuramento. La prova del contratto è sottoposta alla più rigida disciplina prevista dall’art. 2725cc (e non a quella degli artt. 2721 ss cc). Invece i contratti con FORMA SCRITTA AD SUBSTANTIAM ( art. 1350 c.c. e altre previsioni di leggi speciali, ad es., licenziamento) hanno una disciplina diversa. Per essi la forma è requisito di validità e di efficacia del contratto; non è sufficiente dimostrare, sia pure con mezzi diversi dalla prova testimoniale, che il contratto è stato stipulato; occorre, invece, dimostrare che è stato stipulato in forma scritta. Secondo l’art. 2725 c.c. vi è la possibilità di usare la prova testimoniale in relazione ad un contratto con forma solenne solo quando la parte dimostra ( ovviamente anche per mezzo di testimoni) di avere perduto il documento senza sua colpa. L’esclusione della prova testimoniale, per i contratti che hanno forma scritta ad substantiam, tranne nel caso di perdita senza colpa del documento, spesso viene ricollegata alla irrilevanza della prova testimoniale. Si dice che sarebbe irrilevante la prova testimoniale della stipulazione orale del contratto, in quanto tale stipulazione orale non integra una fattispecie contrattuale idonea a produrre effetti. Il legislatore qui si mantiene sempre nella logica della esclusione della prova testimoniale dei contratti , ma in una forma più rigida. Per la prova testimoniale dei contratti aventi forma scritta, ad substantiam o ad probationem la parte non soltanto deve predisporre la prova scritta, ma la deve anche custodire; se perde colpevolmente la prova scritta, la prova testimoniale non è ammissibile. Il legislatore, in sostanza, onera le parti di procurarsi e di custodire la prova scritta, perché , nel momento in cui tale prova viene meno per colpa delle parti, essa non può essere 41 sostituita dalla prova testimoniale. Vi è quindi, oltre all’onere di predisporre, anche l’onere di conservare la documentazione, e soltanto quando tale onere è stato adempiuto, e pur tuttavia il documento si è perso, è ammessa la prova testimoniale, prova avente ad oggetto che il contratto è nato con la forma scritta ( quando la forma è ad substantiam) e che il documento si è perso successivamente senza colpa. La ratio rientra quindi in quella più generale dei limiti alla prova testimoniale dei contratti. DEDUZIONE DELLA PROVA TESTIMONIALE. La prova testimoniale deve essere dedotta mediante l’indicazione delle persone da interrogare e dei fatti formulati per capitoli di prova.
 Non tutti possono deporre come testimoni; le parti non possono testimoniare e i limiti per gli altri sogg sono posti dagli artt. 246-249 cpc. • INCAPACITÀ. L’art. 246 c.p.c. esclude coloro che hanno un interesse in causa che potrebbe legittimare la loro partecipazione al processo : coloro rispetto ai quali si sarebbe potuto realizzare il simultaneus processus ai sensi degli art. 103 ss c.p.c. Quindi sono incapaci a testimoniare i titolari di una situazione sostanziale connessa con quella oggetto del processo in modo tale da legittimare la loro partecipazione al processo, sotto qualsiasi veste. • DIVIETO. L’art. 247 c.p.c. escludeva la testimonianza dei parenti e affini, partendo dal presupposto della loro inattendibilità in quanto naturalmente non imparziali verso la parte a cui sono legati. La Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della norma, nella parte in cui pone un divieto assoluto alla testimonianza dei partenti ed affini, sulla base di una valutazione negativa generale della loro attendibilità. Pertanto, il coniuge, i parenti, gli affini , etc., possono essere sentiti dal giudice come testimoni, salva la valutazione della loro attendibilità (basata su regole di comune esperienza). • MINORI DI 14 ANNI. La stessa dichiarazione di incostituzionalità ha subito l’art. 248 c.p.c. il quale affermava che i minori degli anni 14 possono essere sentiti solo quando la loro audizione è resa necessaria da particolari circostanze. Essi non prestano giuramento. La norma conferma che la testimonianza è una dichiarazione di scienza e non una dichiarazione di volontà, altrimenti non potrebbe essere resa dal minorenne. La Corte costituzionale ha affermato l’incostituzionalità dell’esclusione , perché spetta al giudice valutare in concreto volta per volta l’attendibilità del testimone infraquattordicenne. • TESTIMONI TENUTI AL SEGRETO. Vi sono poi dei soggetti che hanno facoltà di non testimoniare ( art. 249 c.p.c.) : sono questi i testimoni indicati negli artt. 200, 201 e 202 cpc ( segreto professionale, d’ufficio, di stato etc). INTIMAZIONE. La presenza del testimone all’udienza fissata per l’espletamento della prova testimoniale si verifica o perché il testimone si presenta spontaneamente o perché egli viene invitato a presenziare a quella udienza. A tal fine la parte predispone l’intimazione prevista dall’art. 250 cpc e l’ufficiale giudiziario notifica ai testimoni ammessi dal giudice un invito a comparire all’udienza. In alternativa, può essere lo stesso avvocato ad effettuare l’intimazione ai testi ammessi mediante raccomandata, fax o posta elettronica certificata. Se la parte non fa intimare i testimoni, e questi non compaiono, sulla base dell’art. 104 disp. Att. c.p.c. , il giudice dichiara la decadenza della prova testimoniale. ASSUNZIONE. L’assunzione dei testimoni avviene previo loro giuramento, dopodiché il testimone dichiara le proprie generalità e i propri rapporti con le parti; quindi viene interrogato sui capitoli di prova che il giudice ha ammesso.
 TESTIMONI DI RIFERIMENTO. Gli artt. 252 e 253 c.p.c. prevedono che il giudice e le parti possono chiedere al testimone le informazioni relative agli elementi che valgono a valutarne l’attendibilità: “Se alcuno dei testimoni si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il g.i. può disporre d’ufficio che esse siano chiamate a deporre” ( art. 257, I c.p.c. ) E’ questo un altro dei poteri istruttori del giudice: si tratta del c.d. teste di riferimento. Ove, poi, si tratti di un processo a decisione monocratica, l’art. 281 – ter c.p.c. consente al giudice istruttore di disporre di ufficio la prova testimoniale anche quando la notizia dell’esistenza di un terzo a conoscenza dei fatti di causa provenga non da un altro testimone, ma dalle allegazioni effettuate dalle parti stesse. Ove le parti ed il giudice siano d’accordo, è possibile raccogliere la testimonianza anche per scritto, anziché in udienza nel contraddittorio delle parti. Il procedimento, assai complesso, è regolato dagli artt. 257 – bi c.p.c. e 103 – bis disp.att c.p.c. 42 di quanto risulta dalla dichiarazione confessoria ( naturalmente se essa costituisce piena prova; se, invece, la confessione è liberamente valutabile, possono essere utilizzati tutti i mezzi di prova volti a confermare o a contrastare il risultato confessorio). Errore di fatto = errore nella manifestazione della volontà: quello che nella teoria generale del negozio è detto errore ostativo (volevo dire 100 e ho detto 1000). Non è quindi sufficiente, perché sussista l’errore di fatto, dimostrare che la realtà storica è diversa da quella confessata. Occorre dimostrare di essere caduto in errore nel momento in cui si è resa la dichiarazione confessoria. Non è sufficiente l’errore oggettivo nella dichiarazione confessoria, bisogna dimostrare l’errore soggettivo del confidente nel momento in cui è stata resa la dichiarazione: la volontà di chi l’ha resa era diretta a dichiarare certi fatti, e ne sono stati dichiarati altri. Solo in tal caso può essere revocata l’efficacia probatoria della confessione. Lo stesso discorso, anche se più diretto, vale per la violenza. Le condizioni che consentono di togliere efficacia probatoria alla confessione servono per stabilire che tipo di atto sia la dichiarazione confessoria. Non è un negozio, ma è un atto in cui rileva la volontà del comportamento. Quando si rende una confessione è rilevante che il soggetto tenga volontariamente il comportamento dichiarato. In ciò consiste l’animus confitendi che è richiesto per l’efficacia della confessione. Tale espressione si deve intendere come la volontarietà del comportamento ( la volontà di rendere una dichiarazione di scienza, quali che ne siano gli effetti)e ciò spiega la differenza di efficacia probatoria fra la confessione resa alla parte e quella resa ad un terzo; diversità che non si spiegherebbe se la confessione non fosse una dichiarazione volontariamente indirizzata a certi soggetti: è un comportamento in cui rilevano violenza ed errore di fatto e che tuttavia è essenzialmente riconducibile al regime di un atto giuridico in senso stretto. La confessione può essere giudiziale ( art. 2733 c.c. ) o stragiudiziale ( art. 2735 c.c.): • CONFESSIONE STRAGIUDIZIALE è resa fuori dal processo. È una c.d. probatio probanda, cioè una prova che a sua volta deve essere provata, perché il fatto rappresentativo ( la dichiarazione confessoria ) è un fatto extraprocessuale e in quanto tale deve essere dimostrato al giudice. Se, al contrario, la confessione è giudiziale, il giudice la percepisce con i suoi sensi. Se la confessione è consacrata in un documento, essa è provata attraverso la produzione o l’esibizione del documento; ricollegandoci a quanto già detto circa la natura di < contenente > del documento, è chiaro che, se esso contiene una confessione, avremo una doppia prova legale: che la confessione è stata resa ( e questo è compito del documento); e che il fatto confessato effettivamente sussiste (e questo è compito della confessione). Se, però , la confessione non è contenuta in un documento, occorre acquisirla al processo attraverso altri mezzi di prova. L’art. 2735, II c.c. pone a questo proposito dei limiti alla prova testimoniale della confessione: se il fatto oggetto della confessione incontra dei limiti nella prova testimoniale ( perché si tratta di un contratto , di una quietanza, o di una remissione di debito), uguali limiti trova la prova della confessione stragiudiziale di questi stessi fatti. La prova testimoniale della confessione, che ha ad oggetto il fatto X , è allora ammessa alle stesse condizioni della prova testimoniale diretta del fatto X. La confessione giudiziale può essere SPONTANEA o provocata mediante INTERROGATORIO FORMALE ( art. 228 c.p.c.). La confessione spontanea può essere contenuta in qualunque atto del processo che proviene dalla parte direttamente ( art. 229 c.p.c.). Le dichiarazioni fatte dal difensore tecnico della parte non sono quindi confessioni, perché quest’ultimo non ha il potere di disporre del diritto oggetto del processo ( art. 84, II c.p.c.) e valgono come elementi che integrano la pacificità del fatto (ammissione e non contestazione). Il fatto confessato è un fatto provato; il fatto pacifico non ha bisogno di prova. Si ricordi, infine, che non danno luogo a confessione le dichiarazioni che la parte rende in sede di interrogatorio libero ( art. 117 c.p.c.). La confessione può essere provata mediante INTERROGATORIO FORMALE, che è un mezzo di prova costituendo, in quanto è lo strumento con cui si cerca di acquisire al processo la confessione della parte. Esso deve essere richiesto dalla parte ( non è disponibile d’ufficio) mediante la individuazione dei fatti, oggetto dell’interrogatorio , attraverso articoli separati e specifici, come per la prova testimoniale. Il giudice, di fronte alla richiesta di interrogatorio formale, deve valutarne l’ammissibilità e la rilevanza, come per qualunque mezzo di prova costituendo. La valutazione di ammissibilità viene effettuata con riferimento ai presupposti di efficacia della confessione. Quindi l’interrogatorio 45 formale non è ammissibile se l’eventuale confessione che si raggiunga in ordine al fatto non ha efficacia, ad es., perché si deduce un interrogatorio formale in relazione a diritti indisponibili: la confessione su diritti indisponibili non è efficace, quindi anche l’interrogatorio formale, che tende a raggiungere una confessione su fatti che si riferiscono a diritti indisponibili, è un mezzo di prova non ammissibile. E’ rilevante l’interrogatorio formale il cui oggetto è un fatto che, in via diretta o indiretta ( cioè attraverso il meccanismo presuntivo), integra un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo. L’ammissione dell’interrogatorio formale avviene con ordinanza istruttoria del g.i. , con la quale è fissata anche la data di espletamento dell’interrogatorio. All’udienza deve comparire personalmente la parte. Se la parte compare gli vengono letti gli articoli che sono formulati in senso sfavorevole alla parte che risponde. In sostanza, se la parte risponde < si > alle domande , rende una confessione. Nell’interrogatorio formale la parte non ha l’obbligo di dire la verità, quindi la dichiarazione di fatti non veri non è in alcun modo sanzionata (invece il testimone deve dire la verità). Se quindi, la parte risponde positivamente , si ha una confessione giudiziale. Se invece, la parte risponde negativamente, la prova è fallita ( come quando il testimone si presenta, ed alle domande postegli risponde “ non so”). L’interrogatorio formale non ha raggiunto alcuna efficacia probatoria, perché la dichiarazione di fatti a sé favorevoli non ha efficacia probatoria. Se, infine, la parte non si presenta, o presentandosi rifiuta di rispondere senza un giustificato motivo, il giudice al momento della decisione, valutato ogni altro elemento di prova , può ritenere come ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio ( art. 232 c.p.c.). 18) IL GIURAMENTO
 Altra prova di natura lato sensu dispositiva, esclusivamente costituenda, è il giuramento. Il nostro ordinamento conosce tre forme di giuramento. La distinzione fondamentale è tra giuramento decisorio ( art. 2736 n. 1 c.c.) e giuramento suppletorio ( art. 2736 n. 2 c.c. ). Una sottospecie del giuramento suppletorio è poi il giuramento estimatorio ( art. 241 c.p.c.). Del giuramento decisorio il legislatore non dà una definizione perché li limita a dire che “il giuramento decisorio è quello che una parte deferisce all’altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa”.
 Il giuramento decisorio si integra in realtà di due atti distinti, che provengono da due parti diverse: il deferimento del giuramento, che è opera di una parte, e un atto successivo, la prestazione del giuramento, che opera della controparte. Quindi la dichiarazione giurata di una parte in tanto ha valore probatorio in quanto sia stata preceduta da un atto della controparte, che è il deferimento del giuramento. La prova è costituita dalla dichiarazione di una parte, ma tale dichiarazione se manca il preventivo atto di deferimento non ha alcun valore probatorio.
 L’oggetto della dichiarazione è molto ambiguamente descritto dall’art. 2736 c.c. : < per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa >.
 Da un punto di vista generale, il giuramento può essere costituito in due modi diversi. Anzitutto può essere visto come un mezzo di prova ( al pari degli altri) con cui si arriva all’accertamento di un fatto storico. Una volta ottenuto, attraverso il giuramento, l’accertamento di un fatto storico, rimane pur sempre da qualificare tale fatto secondo le norme di diritto sostanziale; ed in secondo luogo resta possibile affiancare al fatto oggetto del giuramento la prova di altri fatti storici, che valgono in qualche modo a modificarne l’efficacia giuridica.
 L’art. 2736 n. 1 c.c. è sempre stato interpretato dalla giurisprudenza, sulla base di una tradizione storica, come una condizione di ammissibilità del giuramento: è ammissibile soltanto se esso esaurisce completamente ogni questione controversa all’interno di quel processo; il giuramento è decisorio se da esso e solo da esso dipende la decisione totale o parziale della causa. In pratica il giuramento è utilizzabile esclusivamente quando, una volta che sia stato deferito, al giudice resti soltanto da accertare < an iuratum sit> . La parte ha giurato : vince la causa; non ha giurato: perde la causa. In quest’ottica il giuramento non è un mezzo di prova come gli altri, ma è un mezzo sostitutivo della decisione del giudice; esso formalmente ha ad oggetto fatti, ma nella sostanza ha efficacia decisoria, perché taglia via tutte le altre questioni che pure in astratto si potrebbero ancora porre. Oggetto del giuramento sono sì fatti, ma la sua efficacia è tale che qualunque altro elemento di fatto o di diritto che valga a contrapporsi a ciò che si accerta con il giuramento non è più rilevante 46 nel processo. Se in un processo ci sono più fatti controversi il giuramento non può avere ad oggetto soltanto alcuni di essi, perché non avrebbe la caratteristica della decisorietà. Il giuramento ha pertanto per oggetto uno o più fatti, ma tale oggetto deve avere le caratteristiche della decisorietà, tale da esonerare il giudice da qualunque altra indagine che non sia quella di stabilire se il giuramento è stato o non è stato prestato. Il giuramento deve avere ad oggetto tutti i fatti, che sono controversi nel momento in cui viene deferito. Dopo il deferimento , nessun altro fatto può essere allegato o contestato. E’ ovvio, pertanto, che, per le sue caratteristiche, ancor più che per quelle della confessione, i LIMITI NATURALI DI AMMISSIBILITÀ DEL GIURAMENTO sono la disponibilità soggettiva, prevista dall’art. 2737 c.c. con il rinvio alla corrispondente norma della confessione ( art. 2731 c.c.: quindi per deferire il giuramento occorre la stessa capacità che occorre per confessare ) e la disponibilità oggettiva ( art 2739 c.c.). Il giuramento è costituito da una fattispecie complessa, composta dal deferimento e dalla prestazione. Ci dobbiamo quindi chiedere in capo a chi deve sussistere la disponibilità soggettiva: l’atto dispositivo non è la prestazione ma il deferimento, quindi capace di disporre deve essere colui che deferisce il giuramento e non chi lo presta. Infatti, il meccanismo inesorabilmente decisorio viene innescato dal deferimento : chi deferisce compie l’atto di disposizione del diritto, chi giura fa una pura e semplice dichiarazione di scienza a cui è costretto in virtù del deferimento operato dalla controparte. Quindi se in un processo che ha ad oggetto un diritto disponibile una parte ha limitata capacità dispositiva ed un’altra parte ha invece piena capacità dispositiva, la prima può prestare giuramento ma non può deferirlo, mentre la seconda ovviamente può sia deferire che prestare giuramento. Il giuramento presenta anche altri limiti di ammissibilità , che sono specificati nell’art. 27739 c.c.; invece la confessione è sempre ammissibile purché si riferisca ad un diritto oggettivamente e soggettivamente disponibile. Un ulteriore limite riguarda l’impossibilità di deferire il giuramento su un FATTO ILLECITO. La corretta individuazione di cosa significa < fatto illecito> postula l’individuazione della ratio della limitazione, cioè del motivo, per cui il legislatore impedisce il giuramento su un fatto illecito. La ragione è che si vuole evitare che la parte, a cui il giuramento è deferito, si trovi di fronte alla seguente alternativa : giurare, e quindi dichiarare l’esistenza di un fatto tale che possa sottoporla a procedimento penale oppure anche esporla al discredito sociale in quanto si tratta di un fatto penalmente irrilevante, ma socialmente disdicevole; oppure non giurare e perdere la causa. E poiché il giuramento è la dichiarazione di un fatto a sé sfavorevole sono molto rare le ipotesi in cui l’aver tenuto un comportamento penalmente rilevante o socialmente disdicevole costituisce un fatto favorevole per la parte che giura; normalmente un tale comportamento costituisce un fatto sfavorevole. Il giuramento è ammissibile tutte le volte in cui, invece, ciò che la parte deve dichiarare sotto giuramento è di non aver tenuto quel comportamento, perché in questo caso la parte non si trova nell’alternativa di cui sopra. Fatto illecito = comportamento penalmente rilevante o socialmente disdicevole che eccezionalmente costituisce un fatto favorevole al giurante. L’art. 2739 c.c. prevede inoltre che il giuramento non possa essere deferito per provare l’esistenza di un contratto per la validità del quale sia richiesta la forma scritta, quindi un contratto con forma scritta ad substantiam. Ovviamente il limite di ammissibilità del giuramento ha senso quando si chiede di giurare di aver stipulato in forma scritta un certo contratto, cioè quando la formula del giuramento è < giura di avere > oppure , a seconda dei casi < di non avere stipulato per scritto questo contratto>. Un giuramento sulla stipulazione orale di un contratto con forma scritta ad substantiam non avrebbe efficacia decisoria per le ragioni già dette quando abbiamo analizzato le norme sulla prova testimoniale. Inoltre, qui ritroviamo la differenza fondamentale fra i contratti con forma scritta ad substantiam e contratti con forma scritta ad probationem. La differenza si riscontra in relazione al giuramento, perché è possibile deferire il giuramento sulla stipulazione di un contratto per il quale è richiesta la forma scritta ad probationem e non anche per il contrato con forma scritta ad substantiam. Il giuramento non è utilizzabile per smentire le risultanze dell’estrinseco di un atto pubblico, in quanto coperte da pubblica fede (l’unico mezzo possibile è la querela di falso). Il limite vale solo per l’estrinseco; per l’intrinseco il discorso è diverso in quanto il giuramento ben è possibile ad es., sulla simulazione del contratto. Uno dei settori in cui è più frequente l’utilizzazione del giuramento è proprio l’intrinseco di un atto pubblico o di una scrittura privata.
 47 AMMISSIONE. Il giuramento, come tutte le prove costituende, è soggetto alla valutazione di ammissibilità e rilevanza da parte del giudice. La rilevanza riguarda la decisorietà: l’oggetto del giuramento deve essere tale per cui, una volta avuto, resti solo da stabilire an iuratum sit. Se ci sono più fatti controversi il giuramento su uno solo di essi non è decisorio: bisogna che il giuramento li coinvolga tutti. Nelle cause riservate alla decisione del collegio l’ammissibilità del giuramento è fatta dal g.i. se tra le parti non sorge controversia sull’ammissibilità o rilevanza del giuramento; altrimenti il g.i. rimette al collegio la decisione circa l’ammissione del giuramento. L’ordinanza che ammette il giuramento è notificata alla parte personalmente (quindi non al difensore ). La ratio della notificazione personale non sta nel fatto che vi siano state contestazioni, ma nelle conseguenze che ha la mancata prestazione del giuramento; e queste sono uguali sia che l’ordinanza sia pronunziata dal g.i. in assenza di contestazioni, sia che l’ordinanza sia pronunziata dal collegio in presenza di contestazioni. ASSUNZIONE. Nell’ordinanza ammissiva del giuramento vengono fissati il giorno e l’ora per raccoglierlo. Ciò avviene in udienza come previsto dall’art. 238 c.p.c. La parte deve prestare giuramento personalmente e, dopo aver giurato, prosegue leggendo la formula predisposta dalla controparte. Se il giurante modifica la formula del giuramento, il giuramento si considera non prestato, e ne segue la sua soccombenza. Se la parte non si presenta per giustificato motivo, il giudice dispone come nell’interrogatorio formale: fissa una ulteriore udienza per il giuramento anche fuori dalla sede giudiziaria. Nel nostro ordinamento esiste anche il GIURAMENTO SUPPLETORIO ( art. 2736 n. 2 c.c. ), che è deferito dal giudice. Il presupposto del giuramento suppletorio è la semiplena probatio: prova semipiena. Il giudice si trova nella situazione di dover applicare in maniera rigida la regola sull’onere della prova, dovendo, ad. es, ritenere come non provato il fatto provato al 50%. Il che comporterebbe il rigetto della domanda se la semiplena probatio si riferisse ad un fatto costitutivo o il rigetto dell’eccezione, se invece si riferisce ad un fatto impeditivo, modificativo o estintivo. Dunque la funzione del giuramento suppletorio è quella di evitare l’applicazione della regola sull’onere della prova, che impone di ritenere non provato un fatto che non è totalmente provato. Il giudice può sopperire a quella residua percentuale di prova mancante, deferendo il giuramento suppletorio a quella delle due parti che ha provato di più, cioè a favore della quale il fatto è provato in misura maggiore. Naturalmente l’efficacia del giuramento e le sanzioni penali sono uguali al giuramento decisorio; così come è necessaria la disponibilità oggettiva e soggettiva del diritto, oggetto del processo. Se dunque la parte cui è deferito il giuramento , giura , la prova si considera raggiunta ; altrimenti si considera non raggiunta. La funzione di integrazione della prova propria del giuramento suppletorio fa capire perché esso può essere deferito solo in fase decisoria e, nelle cause riservate al collegio, solo da questi ( art. 240 c.p.c.). Si tratta dunque di una delle ipotesi eccezionali in cui il potere di ammettere una prova non è del g.i. ma del collegio. Ciò dipende dalla funzione del giuramento; se esso serve ad integrare la prova non esaustiva di un fatto, la sussistenza di tale presupposto può essere accertata soltanto al momento della decisione; perciò soltanto il collegio , in quel momento valutando tutte le prove raccolte potrà , in ordine ad un fatto provato al 50% , deferire il giuramento alla parte che ha provato di più. Antecedentemente alla fase decisoria, non si sa ancora se dal complesso dell’istruttoria emerge una situazione di semiplena probatio. Il giuramento suppletorio non può essere riferito ( art. 242 c.p.c.); perciò o la parte cui il giudice ha deferito il giuramento giura e vince, o non giura e perde. Ed anche questo è logico, perché il giudice ha scelto la parte che deve giurare sulla base di chi si è maggiormente avvicinato alla prova del fatto e quindi è chiaro che le parti non possono ribaltare quello che è stata la valutazione del giudice.
 Infine c’è una sottospecie di giuramento suppletorio, che è il GIURAMENTO ESTIMATORIO: art. 2736, n. 2 cc ed art. 241 cpc. Queste norme vanno messe in collegamento con art 1226cc, che regola la valutazione equitativa del danno in termini risarcimento, mentre le norme sopra richiamate parlano del valore della cosa domandata. Esse presuppongono che la parte abbia preventivamente dimostrato il suo diritto sulla cosa domandata; che questa non possa essere consegnata ; e che sia insuscettibile di valutazione ( ad es., perché è andata distrutta ).
 50 Il giudice deve determinare il valore massimo ( c.d. taxatio) entro il quale egli sarà poi vincolato ad attribuire a colui che ha prestato il giuramento la somma di denaro che la parte ha giurato corrispondere al valore della cosa. Se la parte, giurando , indica un valore superiore a tale limite massimo, il giudice non è vincolato oltre il limite massimo. 19) L’ISPEZIONE, L’ESPERIMENTO GIUDIZIALE, IL RENDICONTO
 L’ispezione (art. 258 c.p.c.) può avere ad oggetto cose o persone ed è tipicamente una prova diretta, perché attraverso essa il giudice entra in contatto immediato con il fatto storico rilevante in causa (non c’è alcuna valutazione di attendibilità da effettuare). Secondo l’art. 118 cpc l’ispezione deve apparire indispensabile per conoscere i fatti di causa, quindi deve essere l’unico mezzo per accertare tali fatti; essa inoltre può essere disposta se comporta gravi danni per la parte o per il terzo, o la violazione di un segreto d’ufficio. Questi limiti riguardano indubbiamente le ispezioni di persone, e normalmente non si applicano alle ispezioni di cose, se non in casi marginali. Qualora l’ispezione di cose comunque produca un grave danno per la parte o per il terzo, torna applicabile l’art. 118 c.p.c. e l’ispezione non è possibile. L’ispezione è un mezzo di prova disponibile d’ufficio, il giudice vi può ricorrere anche senza l’istanza di parte. Il giudice deve procedere personalmente all’ispezione perché altrimenti verrebbe meno la natura di prova diretta; tuttavia nel caso di ispezione di persone il giudice può nominare un consulente tecnico perché vi proceda (consulenza tecnica con funzione istruttoria). Se la parte rifiuta l’ispezione della propria persona o della propria cosa, il giudice può valutare tale comportamento come argomento di prova, e quindi, insieme ad altre prove, può ritenere esistente il fatto che si voleva provare. Se invece si rifiuta il terzo, questi è soggetto ad una sanzione pecuniaria. Gli ESPERIMENTI GIUDIZIALI ( art. 261 c.p.c. ) non costituiscono una prova diretta, ma una prova presuntiva. Il giudice per accertare se un fatto si è verificato in un dato modo può ordinare che si proceda alla riproduzione del fatto stesso facendone eventualmente eseguire la registrazione (es. la parte dichiara di non aver potuto impedire l’incidente stradale a causa delle caratteristiche della strada; il giudice può fare l’esperimento per vedere se la manovra era necessaria).
 Si tratta di prova presuntiva perché il giudice non entra in contatto con il fatto storico rilevante, ma con la riproduzione di quel fatto e sulla base della regola di esperienza deduce, dalle modalità con le quali il fatto si è verificato durante l’esperimento, il modo in cui si è verificato il fatto storico rilevante.
 Il RENDIMENTO DEI CONTI ( art. 263 ss cpc) ha per un verso caratteristiche di mezzo istruttorio e per un verso può essere oggetto di una autonoma e separata domanda. L’obbligo di rendiconto è previsto da alcune norme del c.c. e di altre leggi. Fra le ipotesi più significative possiamo indicare: l’obbligo di rendiconto del tutore che amministra interessi del minore; l’obbligo del convivente, al momento della divisione dei beni, di rendere il conto all’altro dell’amministrazione che ha fatto dei beni comuni; l’obbligo di rendiconto dell’amministratore del condominio circa la gestione che ha effettuato; l’obbligo di rendiconto per gli amministratori di società di persone; l’obbligo di rendiconto per il custode del bene immobile sottoposto ad esecuzione; l’obbligo di rendiconto per il curatore del fallimento. Tutte le norme sopraindicate prevedono il compimento di attività nell’interesse e per conto di altri soggetti. L’obbligo di rendiconto è quindi, strettamente connesso con il compimento di attività nell’interesse o anche nell’interesse di altri soggetti.
 La funzione del rendiconto dal punto di vista sostanziale è quella di rendere possibile all’interessato di far valere i diritti o di adempiere agli obblighi che nascono dall’attività compiuta. L’obbligo di rendiconto riguarda ciò che è stato, ed il suo adempimento consiste nel fornire l’informazione dei fatti storici che sono accaduti (≠ da responsabilità per la gestione). Infatti l’obbligo di rendiconto è sempre uguale in tutte le ipotesi che lo prevedono ; la responsabilità per la gestione è diversa nelle varie ipotesi e si trova al di fuori di tale obbligo. Il rendiconto può essere effettuato in via principale, come oggetto di una autonoma domanda, oppure in via incidentale, come un procedimento istruttorio che si inserisce all’interno di un processo che ha ad oggetto una situazione sostanziale diversa dall’obbligo di rendiconto.
 In entrambi i casi può nascere controversia tra le parti circa la sussistenza dell’obbligo di rendere 51 il conto, in quanto il chiamato a rendere il conto può contestarne la sussistenza. In tal caso occorre pregiudizialmente accertare se c’è obbligo di rendiconto per poter poi procedere ai sensi degli artt. 263 ss c.p.c. Poiché tale accertamento ha ad oggetto l’obbligo sostanziale di rendere il conto, occorre che la controversia sia decisa con sentenza e solo dopo aver accertato l’esistenza dell’obbligo, si può procedere alla effettiva resa dei conti. Se invece l’obbligo di rendere il conto non è contestato, il passaggio alla fase di rendiconto dei conti può avvenire con ordinanza del giudice istruttore in quanto non c’è controversia tra le parti da decidere. Il rendiconto può essere richiesto in via incidentale o principale; può essere disposto con sentenza, se c’è contestazione tra le parti sulla sussistenza dell’obbligo di rendiconto, o con ordinanza se non c’è controversia. Del rendimento dei conti si occupa il cpc agli artt. 263 ss. La parte obbligata deve depositare in cancelleria il conto ( esposizione delle partite attive e passive ) con i documenti giustificativi, che provano le entrate e le uscite, almeno cinque giorni prima dell’udienza fissata per la discussione del conto: il deposito anticipato è previsto per dare la possibilità alle altre parti di esaminare il conto e di verificarne la accettabilità. - Se la controparte manifesta la volontà di accertare il conto, il giudice emette un’ordinanza con la quale ordina il pagamento delle eventuali somme dovute. Tale ordinanza non è impugnabile perché non fa altro che sancire il raggiungimento di un accordo fra le parti. - Se la controparte non intende accertare il conto, l’art. 264 c.p.c. le impone un onere specifico: deve specificare le partite che intende contestare ed i motivi della propria contestazione. Su tale contestazione si apre la discussione tra le parti. Se a seguito della discussione le parti trovano un accordo si riproduce la situazione vista precedentemente: il giudice emette un’ordinanza non impugnabile. Altrimenti decide con sentenza. L’art. 266 c.p.c. stabilisce che del conto approvato può essere chiesta la revisione soltanto in caso di errore materiale (errore di calcolo), omissione , falsità o duplicazione di partite (stessa partita è stata esposta due volte). L’art. 266 c.p.c. parla della revisione del conto “ che la parte ha approvato”, e sembrerebbe quindi limitare la revisione ai casi di accettazione del conto previsti dagli artt. 263 e 264 c.p.c. Si ritiene però, che per identità di ratio , la stessa disciplina si applichi anche ai conti approvati con provvedimento del giudice. 20) LA FASE DECISORIA
 Il g.i. rimette la causa in decisione nelle ipotesi previste dall’art. 187 c.p.c., oppure dispone per l’assunzione dei mezzi di prova richiesti dalle parti o di quelli che sono disponibili d’ufficio. Una volta assunti i mezzi di prova (sia quelli richiesti dalle parti sia quelli disposti d’ufficio), l’istruzione probatoria è finita. Interviene a questo punto l’art. 188 c.p.c. secondo il quale il g.i. , esaurita l’istruzione , ritiene la causa in decisione a norma dell’art. 189 c.p.c. La fine della fase istruttoria fa scattare l’ultimo atto della trattazione della causa che è la precisazione delle conclusioni; poi ha luogo la fase decisoria. La decisione della causa di solito è attribuita allo stesso g.i. ; nelle ipotesi previste dall’art. 50-bis c.p.c. , invece la decisione spetta al collegio. Il passagio al collegio determina non soltanto l’investitura del giudice in formazione diversa ( la fase decisoria è attribuita ad un collegio, composto da tre giudici) , ma anche e soprattutto il passaggio dalla fase di trattazione a quella decisoria: la cerniera fra la fase di trattazione e quella decisoria è costituita dalla precisazione delle conclusioni, prevista dall’art. 189 c.p.c. PRECISAZIONE DELLE CONCLUSIONI. Quando il g.i. rimette la causa al collegio a norma degli artt. 187 o 188 c.p.c., invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni, che sono le richieste che le parti fanno al collegio, possono avere ad oggetto le questioni più varie: istruttorie, di rito, di merito. Come minimo, le conclusioni devono avere ad oggetto la situazione sostanziale della quale si chiede la tutela; le parti devono dire al giudice che contenuto intendono che egli dia alla sentenza in relazione alla situazione sostanziale che è stata dedotta in giudizio. L’udienza di precisazione delle conclusioni è rilevante in più direzioni. Anzitutto è importante per ciò che attiene ai limiti temporali di efficacia della sentenza. La sentenza di merito, qualunque contenuto essa abbia, statuirà con riferimento alla situazione di fatto esistente al momento della precisazione delle conclusioni. Soltanto i fatti successivi a tale udienza possono essere posti a fondamento di una nuova domanda.
 52 Quindi se il collegio ritiene necessario assumere prove nuove deve rimettere la causa in istruttoria; se ritiene , invece, di rinnovare l’assunzione di prove già assunte, trattiene la causa presso di sé, e la causa non torna in trattazione , ma rimane in fase di decisione. La stessa disciplina vale per le cause a decisione monocratica. Nella pratica la facoltà di rinnovare l’assunzione delle prove non è mai utilizzata.
 COMPETENZA. L’art. 279 c.p.c. stabilisce che il collegio pronuncia ordinanza < quando decide soltanto questioni di competenza>. Qui la ordinanza ha gli stessi effetti della sentenza.
 QUESTIONI RILEVATE D’UFFICIO. L’art. 101, II c.p.c. impone al giudice che vuole fondare la sua decisione su una questione rilevata di ufficio e fino a quel momento non segnalata alle parti, come invece sarebbe dovuto accadere ex art. 183, IV c.p.c., di riservare la decisione e di assegnare alle parti un termine per il deposito di memorie relative alla questione indicata nell’ordinanza. Ciascuna delle parti potrà quindi addurre argomenti per convincere il giudice che la questione rilevata di ufficio debba essere decisa in un modo o in un altro (es. se il giudice rileva d’ufficio la nullità della clausola del contratto in quanto vessatoria, ciascuna parte potrà argomentare che essa è o non è effettivamente tale).
 Una volta realizzato il contraddittorio sulla questione rilevata di ufficio il collegio pronuncerà sentenza tenendo conto di quanto dedotto dalle parti.
 Tuttavia, la realizzazione del contraddittorio sulla questione rilevata di ufficio può comportare la pronuncia di un’ordinanza collegiale, con conseguente rimessione della causa in istruttoria. La questione rilevata di ufficio può giustificare l’allegazione di nuovi e diversi fatti, ed il conseguente svolgimento di attività istruttoria.
 La parte potrà, nella sua memoria, allegare un fatto reso rilevante dalla questione rilevata di ufficio ed effettuare la relativa attività istruttoria ( produzione di documenti e richiesta di prove costituende, es. la clausola non è vessatoria perché tizio era un professionista e come tale ha contrattato). In tal caso, il collegio non potrà pronunciare sentenza , ma dovrà rimettere la causa in istruttoria per dare sfogo alle deduzioni delle parti. L’art. 101 II c.p.c. è chiaro nel qualificare nulla la sentenza emessa senza che sia stato attuato il principio del contraddittorio: potrà essere impugnata invocando la nullità della stessa ed il giudice dell’impugnazione, riconosciuta fondata la censura , dovrà provvedere a sanare il vizio. Ciò talvolta potrà avvenire nello stesso processo di impugnazione; altre volte, invece, annullata la sentenza , il giudice dell’impugnazione rimetterà la causa al giudice a quo, affinché faccia ciò che non ha fatto prima. Più in particolare : se l’attuazione del principio del contraddittorio comporta solo la sottoposizione al giudice di argomenti per decidere la questioni rilevata di ufficio, le parti trovano nell’atto di impugnazione la sede per evidenziare al giudice dell’impugnazione quegli argomenti che non hanno potuto sottoporre al giudice della sentenza impugnata e per convincerlo della bontà delle proprie tesi (es. nell’esempio precedente, se l’unica questione da sottoporre al giudice dell’impugnazione riguarda la vessatorietà della clausola anche la Cassazione è in grado di decidere la questione). Se, invece, l’attuazione del principio del contraddittorio comporta la possibilità di effettuare nuove allegazioni e nuove richieste istruttorie, queste potranno essere effettuate in appello, ma non in cassazione: e ciò per la diversa struttura dei due mezzi di impugnazione. Dunque, mentre il giudice di appello darà sfogo dinanzi a sé all’attività resa rilevante dalla questione rilevata di ufficio dal giudice di primo grado, ma da questi non sottoposta al contraddittorio delle parti, la Cassazione non potrà che annullare la sentenza e rinviare la causa al giudice a quo. [Quando la parte impugna la sentenza lamentando la violazione dell’art 101 cpc deve indicare quale sia il pregiudizio subito, inserendo nell'atto di impugnazione quelle attività che avrebbe compiuto se il giudice della sentenza impugnata avesse rispettato la norma]. 22) LA SENTENZA DEFINITIVA E NON DEFINITIVA
 La differenza sostanziale che intercorre tra la decisione in forma di sentenza e quella in forma di ordinanza è che l’ordinanza non priva il giudice del potere di ritornare sopra quanto deciso: qualunque cosa egli dica con l’ordinanza può ripensarci, modificare e revocare l’ordinanza o più in generale riesaminare la questione già decisa senza bisogno di una revoca esplicita dell’ordinanza stessa (es. il g.i. ha assunto la prova ritenendola ammissibile, se riesamina la questione ritenendola non ammissibile non ha bisogno di revocare l’ordinanza con cui era stata ammessa).
 55 Invece la decisione con provvedimento che ha forma di sentenza ha le seguenti caratteristiche: il giudice, con la pronunzia della stessa, esaurisce il potere (e quindi anche il dovere) giurisdizionale in ordine alla questione decisa. L’esaurimento del potere giurisdizionale che consegue alla pronuncia di una sentenza assume significato in tre direzioni, che sono complementari ed interagenti fra di loro : • il giudice non può modificare o revocare il provvedimento emesso; • il giudice non può ridecidere ciò che ha già deciso; • quando, nel processo che prosegue dinanzi a lui, si troverà ad affrontare questioni dipendenti da quella già decisa, il giudice dovrà attenersi a ciò che ha accerto con la precedente sentenza. Es. il giudice con sentenza accerta che il capitale è dovuto, il processo prosegue per la decisione della domanda relativa agli interessi. Potrà negare l’esistenza del diritto agli interessi per x motivi, ma non potrà dire che non sono dovuti perché non esiste il diritto al capitale. 
 L’essersi pronunciato con sentenza comporta per il giudice un vincolo assoluto, dal quale non può in nessun caso liberarsi. Quando si parla di “giudice” si intende l’ufficio e non la singola persona fisica, tale principio vale anche nel caso in cui il magistrato venga sostituito.
 Se dunque quella appena descritta è la posizione del giudice , la posizione delle parti è analoga, ma con una fondamentale differenza: anche le parti sono vincolate alla sentenza pronunciata, ma possono contrastarla attraverso i mezzi di impugnazione. La sentenza vincola in egual misura il giudice e le parti: ma, mentre il giudice è vincolato in modo assoluto , perché non potrà in nessun caso liberarsi dagli effetti della sentenza, le parti possono utilizzare i mezzi di impugnazione per svincolarsi da tali effetti. La spendita dei mezzi di impugnazione costituisce un onere per le parti: i mezzi di impugnazione sono l’unico strumento attraverso il quale queste possono cercare di sottrarsi agli effetti della sentenza. Bisogna stare molto attenti a non confondere l’effetto di cui abbiamo appena parlato ( che si produce in virtù della semplice pronunzia della sentenza) con il giudicato, che si produce quando la sentenza non è più soggetta a determinati mezzi di impugnazione, e quindi raggiunge una ( relativa ) stabilità. L’effetto di cui stiamo parlando prescinde dalla formazione del giudicato, e si verifica per il solo fatto che sia pronunziata una sentenza. La perdita del potere decisorio derivante dalla pronunzia di una sentenza, secondo la giurisprudenza, si verifica anche quando il giudice ha pronunciato una sentenza inesistente (es. perché priva di motivazione). Quand’anche il vizio si produca nella fase decisoria ( ad es., mancata sottoscrizione), non è quindi possibile né la rinnovazione della fase decisoria né la integrazione mediante il procedimento di correzione degli errori materiali. Se il vizio si radica, invece, nell’atto introduttivo ( ad es., domanda proposta nei confronti di un soggetto inesistente ) è evidente che non vi sarebbe comunque possibilità di rimediare. ERRORE NELLA FORMA DEL PROVVEDIMENTO. Il giudice non può scegliere liberamente se adottare l’uno o l’altro tipo di provvedimento. La scelta è fatta dal legislatore che stabilisce quando il giudice deve pronunciare sentenza e quando ordinanza. La sottrazione al giudice del potere di stabilire in che modo decidere delle questioni, attraverso la scelta della forma da dare al provvedimento, ha carattere < pieno> . Infatti, se il giudice emette con forma di sentenza una decisione che avrebbe dovuto avere forma di ordinanza o viceversa, il regime del provvedimento dipende non dalla forma < in concreto> scelta dal giudice, ma dalla forma che < in astratto> il giudice avrebbe dovuto adottare; quella, cioè, imposta dalla legge. In conseguenza, se il giudice ammette una prova con sentenza ( questione per la quale è prescritta l’ordinanza ), né le parti possono impugnare il provvedimento, né il giudice perde il potere di riesaminare la questione al momento della decisione definitiva. Viceversa, se il giudice emette in forma di ordinanza un provvedimento che ai sensi dell’art. 279, II c.p.c. deve avere forma di sentenza, le parti hanno il potere di impugnare il provvedimento (che ha forma di ordinanza, ma in realtà ha contenuto di sentenza) e il giudice non può revocare l’ordinanza né riesaminare la questione che ha deciso, sia pure con la forma sbagliata. Quindi determinante è la forma prescritta dalla legge, non quella che per errore il giudice abbia adottato in concreto. Il principio della prevalenza della sostanza sulla forma ( rectius, della prevalenza della forma prescritta dalla legge sulla forma in concreto adottata dal giudice ) deve essere coordinato con i 56 casi in cui il giudice ha la scelta pregiudiziale sul se decidere o non decidere. Il giudice, infatti, è rigidamente vincolato alle previsioni normative per quanto riguarda la forma del provvedimento con il quale decide una questione; talora egli ha la facoltà di scegliere se decidere o non decidere, per il momento, quella questione: fermo rimanendo che, se decide di decidere, deve usare il provvedimento che gli impone la legge. In tal caso, la forma in concreto adottata è indicativa della scelta pregiudiziale effettuata (la questione si pone solo nelle cause a decisione monocratica). Il giudice pronuncia ordinanza tutte le volte che non deve pronunciare sentenza; in altri termini, tutte le questioni che sorgono durante lo svolgimento del processo sono risolte con ordinanza, tranne quelle previste dall’art. 279, II c.p.c., che individua le questioni da decidere con sentenza. Al processo con un solo oggetto fa riferimento l’art. 273, II n. 1- 2-3-4 c.p.c. La SENTENZA DEFINITIVA DI RITO è prevista dall’art. 279, II n. 1 (il collegio pronuncia sentenza quando definisce il giudizio decidendo questioni di giurisdizione) e n. 2 , parte prima (il collegio pronuncia sentenza quando definisce il giudizio decidendo questioni pregiudiziali attinenti al processo). Le questioni pregiudiziali sono le questioni attinenti alla giurisdizione, alla competenza o alle altre pregiudiziali di rito . Si tratta di tutte le questioni attinenti alla possibilità di pronunciare nel merito, in quanto riguardano la sussistenza di presupposti processuali. Se il giudice, esaminando una questione pregiudiziale, ritiene carente un presupposto processuale, la pronuncia ha esclusivamente un contenuto di rito ,visto che non si può scendere all’esame del merito ed è una pronuncia definitiva. Vi è quindi una rilevante differenza tra le questioni di rito < in genere>, che sono trattate con ordinanza, e le questioni di rito che attengono ad un presupposto processuale, che sono trattate con sentenza. I provvedimenti che decidono soltanto questioni di competenza hanno la forma dell’ordinanza ( art. 279, I c.p.c.): però si tratta di un’ordinanza anomala, che ha il regime giuridico e gli effetti di una sentenza, alla quale quindi può essere sotto tutti i profili equiparata.
 La SENTENZA DEFINITIVA DI MERITO è prevista dall’art. 279, II n. 2, parte seconda (il collegio pronuncia sentenza quando definisce il giudizio decidendo questioni preliminari di merito) e n. 3 (il collegio pronuncia sentenza quando definisce il giudizio decidendo totalmente il merito) c.p.c. Le questioni preliminari ( art. 187 c.p.c.) sono le questioni attinenti a ciascun elemento ( costitutivo, impeditivo, modificativo ed estintivo) della fattispecie del diritto dedotto in giudizio (es. il collegio si trova a decidere su un diritto rispetto al quale è invocata la prescrizione, se riconosce che l’eccezione è fondata, il collegio definisce il processo dichiarando l’inesistenza del diritto per avvenuta prescrizione e questa è una sentenza definitiva).
 Il n. 3 parla di definizione del giudizio con decisione totale del merito, e quindi sembra distinguere la decisione “ totale” del merito dalla decisione del merito su questioni preliminari, prevista dalla seconda parte del n. 2 . In realtà non vi è differenza: SI TRATTA DI QUESTIONI DI MERITO DEFINITIVE CHE HANNO SEMPRE LO STESSO OGGETTO, CIOÈ LA NEGAZIONE O L’AFFERMAZIONE DEL DIRITTO DEDOTTO IN GIUDIZIO. Non c’è una vera differenza tra definitiva su preliminare di merito e definitiva < totale > di merito, perché anche la definitiva su preliminare di merito definisce < totalmente > il merito, disciplinando esaustivamente la situazione che è stata dedotta in giudizio. Quindi: - si ha decisione di rito definitiva quando si dichiara non possibile la pronuncia di merito; - Si ha decisione di merito definitiva quando viene accolta o rigettata la domanda, il giudice adito esaurisce il suo compito giurisdizionale e chiude il processo. Le questioni di merito sono tutte equivalenti, ai fini dell’art. 187 c.p.c. , poiché ogni questione di merito è idonea alla definizione del giudizio, se relativa ad un elemento della fattispecie; allora si spiega come in realtà l’art. 279, n. 2 ultima parte e n. 3 c.p.c. disciplinano lo stesso fenomeno, perché la decisione di merito è sempre totale anche quando avvenga su una questione preliminare. SENTENZA NON DEFINITIVA. L’art. 279 n. 4 c.p.c. prevede l’ipotesi in cui il giudice < decidendo alcune delle questioni di cui ai numeri 1,2 e 3 non definisce il giudizio e impartisce distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa>. La pronuncia di sentenza non definitive di rito o di merito deve essere ricollegata alle questioni preliminari o pregiudiziali. 57 C. RISERVA. La terza possibilità che si offre al soccombente è di proporre riserva di impugnazione. Il termine riserva di < impugnazione > in realtà non è esatto, in quanto nel nostro sistema non esiste un istituto generale che prevede la possibilità di riservare l’impugnazione della sentenza non definitiva ma esiste solo la riserva di appello. Per quanto riguarda il ricorso per cassazione , l’art. 360 co. 3 cpc prevede espressamente che la sentenza non definitiva ( emessa in grado di appello o in unico grado ) non è immediatamente ricorribile in cassazione; il ricorso avverso tale sentenza può essere proposto, senza necessità di riserva, quando venga emessa una sentenza definitiva ( o parzialmente definitiva). Con riferimento al regolamento di competenza, vale invece la disciplina opposta: non essendo prevista una riserva di regolamento di competenza, la parte che è rimasta soccombente rispetto ad una pronuncia di sola competenza ha due alternative : o impugnarla immediatamente con il regolamento di competenza o non impugnarla affatto e farla passare in giudicato. Non ha la terza alternativa di riservarsi la scelta di proporre il regolamento di competenza una volta emessa la sentenza definitiva, perché rispetto al regolamento di competenza non è previsto l’istituto della riserva. Quindi, se anche nel prosieguo useremo il termine riserva di impugnazione, bisogna tener presente che tale espressione in realtà significa ( con riferimento alle sentenze non definitive ; una diversa disciplina vale per le sentenze parzialmente definitive ) riserva di appello. L’istituto della RISERVA DI APPELLO è regolato dall’art. 340 c.p.c. , il quale prevede che, contro la sentenza di cui all’art. 279 n. 4 c.p.c. ( sentenza non definitiva ) e quella prevista dall’art. 278 c.p.c. ( sentenza di condanna generica ) l’appello può essere differito ( cioè la parte può riservarsi di proporre appello ), purché la riserva sia effettuata, a pena di decadenza, nel termine per appellare e in ogni caso non oltre la prima udienza dinanzi al g.i. successiva alla comunicazione della sentenza stessa. Se l’udienza di prosecuzione del processo si svolge dopo che è scaduto il termine per appellare , la riserva deve essere fatta nel termine per appellare, quindi nel termine più breve. Se invece l’udienza si svolge prima della scadenza del termina per appellare la riserva deve essere fatta entro tale udienza. La riserva va effettuata entro il termine per appellare e comunque non oltre l’udienza successiva di prosecuzione della causa di fronte all’istruttore. Se tale udienza si svolge dopo la scadenza del termine per appellare, la parte ha un solo termine ( quello per appellare ) entro il quale o appella o fa la riserva; altrimenti la sentenza passa in giudicato. Se invece la prima udienza di prosecuzione si svolge prima che scada il termina per appellare, allora lo svolgimento di tale udienza costituisce il termine ultimo per proporre la riserva di appello, ma non il termine ultimo per appellare (esempio pag 193). SCIOGLIMENTO DI RISERVA. La riserva si scioglie ex art. 340, II c.p.c. quando in quel processo venga impugnata una successiva sentenza, vuoi che questa sia la definitiva, vuoi che ( essendo quel processo particolarmente sfortunato o il g.i. particolarmente incerto) venga emessa un’altra non definitiva che sia impugnata. Quindi alla prima sentenza che viene impugnata deve essere impugnata anche la sentenza per la quale è stata fatta la riserva; altrimenti quest’ultima passa in giudicato. Se ( art. 340, III c.p.c. ) contro una sentenza non definitiva qualcuno ha fatto riserva e altri ha impugnato ( bisogna naturalmente immaginare un processo con una pluralità di parti soccombenti ), la riserva non può mantenersi e bisogna che sia sciolta immediatamente. Finora abbiamo immaginato che la riserva sia sciolta quando viene impugnata una successiva sentenza nel corso dello stesso processo; però può accadere che, in quel processo, non vengano emesse altre sentenze, perché esso si estingue. ESTINZIONE DEL PROCESSO. L’art. 129, III disp att. c.p.c. prevede che, se il processo si estingue, la sentenza di merito contro la quale fu fatta la riserva acquista efficacia di sentenza definitive dal giorno in cui il provvedimento che pronuncia l’estinzione del processo diventa definitivo. Da questo momento comincia a decorrere il termine per impugnare la sentenza non definitiva in relazione alla quale sia stata fatta la riserva; termine che è di 30 gg se la non definitiva è stata notificata, o di un anno se non è stata notificata. L’art. 129 II disp. att. c.p.c. parla di sentenza < di merito>. La norma prevede lo scioglimento della riserva soltanto per la non definitiva di merito e non anche per le non definitive di rito perché le sentenze di rito non definitive perdono effetti se il processo si estingue ( art. 310, II c.p.c.). La sentenza che ha negato la prescrizione mantiene i suoi effetti nel caso in cui il processo si estingue e la domanda sia riproposta. 60 OPPORTUNITÀ DELLA SENTENZA NON DEFINITIVA. La figura della sentenza non definitiva costituisce una libera scelta del legislatore, che si basa sulla seguente considerazione : poiché si è svolta una fase decisoria ( le parti hanno effettuato le loro difese, il giudice si è studiato la questione ), mettiamola a frutto e utilizziamola per porre un punto fermo, attraverso un atto con effetti decisori come la sentenza. Un’altra opzione che si presenta al legislatore riguarda il regime di impugnazione di tale tipo di sentenza (IMPUGNABILITÀ IMMEDIATA O DIFFERITA).
 La ordinanza non definitiva di competenza è suscettibile solo di essere immediatamente impugnata e la sentenza non definitiva appellabile è suscettibile, a scelta della parte soccombente, di impugnazione immediata oppure di riserva di appello. Per quanto riguarda la sentenza non definitiva ricorribile per cassazione, l’art. 360 cpc stabilisce che il ricorso per cassazione non è proponibile avverso una sentenza non definitiva, la quale può essere impugnata per cassazione insieme alla sentenza definitiva, senza necessità che sia effettuata la relativa riserva. Il legislatore ammette l’appello ma non ammette l’impugnazione immediata in cassazione delle sentenze non definitive per ridurre il carico di lavoro della Corte di cassazione, che in tal modo è investita di un solo ricorso, anziché di due. Fra l’interesse della parte ad un immediato controllo della sentenza non definitiva e l’interesse del sistema a realizzare economia di attività, il legislatore privilegia il primo per quanto riguarda l’appello ed il secondo per quanto riguarda il ricorso per Cassazione. Invece il regime dell’impugnazione delle sentenze di condanna generica e delle sentenze parzialmente definitive non è diversificato: esse sono suscettibili di immediato ricorso per cassazione, oppure di riserva di ricorso , al pari di quanto accade per l’appello. 
 23 ) LA SENTENZA DI CONDANNA GENERICA La sentenza di condanna generica è disciplinata dall’art. 278 c.p.c. La norma individua il contenuto della condanna generica, distinguendo la sussistenza del diritto dalla quantità della prestazione dovuta: comunemente si indica come an debeatur e quantum debeatur.
 L’an attiene all’esistenza del diritto, il quantum attiene alla quantità della prestazione dovuta: problema che assume un rilievo primario per i diritti lato sensu risarcitori. In tali casi si tratta di individuare dapprima se il diritto esiste e chi sia l’obbligato e poi quale sia la quantità di danno che deve essere risarcita. L’an e il quantum possono essere dedotti in giudizio in maniera diversa. E’ possibile, per comune opinione giurisprudenziale e dottrinale, proporre già fin dall’inizio una domanda giudiziale limitata all’an, riservando la quantificazione in caso di esito favorevole della controversia ad un processo successivo. Se quindi , sin dall’inizio, l’attore si è limitato a proporre la domanda sull’an, il processo non si presenta diverso da qualunque altro processo fin qui esaminato ( se non per l’anomalia del suo oggetto, che non consiste nella definitiva decisione su un diritto, sibbene nella decisione di alcune questioni, che costituiscono l’an): il giudice accerta , con sentenza definitiva , solo la esistenza del diritto. Per poter decidere di una domanda limitata all’an è necessario il consenso ( o meglio il mancato dissenso) del convenuto. Inoltre a questa ipotesi non si applica il meccanismo della riserva di impugnazione, in quanto la sentenza sull’an decide di tutto quanto l’oggetto del processo, ed è quindi una sentenza definitiva. La sentenza di condanna generica si ha invece quando la domanda è stata proposta con riferimento all’intera situazione sostanziale ( cioè ricomprendendo sia l’an, che il quantum). Anche in questo caso si può arrivare ad una scissione della pronuncia sull’an da quella sul quantum: però è necessario, ex art. 278 c.p.c. ( norma che disciplina espressamente le ipotesi in cui la domanda coinvolge fin dall’inizio sia l’an che il quantum, e la separazione avviene in corso di causa ), che vi sia un’istanza di parte e che l’esistenza del diritto sia certa, ma occorre ancora effettuare attività istruttoria per la quantificazione della prestazione. In tali casi, il giudice può emettere una sentenza di condanna generica, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione. La sentenza di condanna generica è quindi una sentenza non definitiva. La giurisprudenza ha introdotto come ulteriore requisito per la possibile scissione dell’an dal quantum il mancato dissenso del convenuto. Di fronte all’istanza della parte ex art. 278 c.p.c. il convenuto che non vuole la separazione dell’an dal quantum deve esplicitamente opporsi: se consente o resta inerte, è possibile una pronuncia di condanna generica. I presupposti per la pronuncia di una condanna generica sono i seguenti : nel processo si deve essere acquisita 61 sufficiente certezza sull’esistenza del diritto, ma si deve ancora effettuare attività istruttoria per la quantificazione della prestazione; la parte che ha fatto valere il diritto ne deve fare richiesta; la controparte non deve opporsi alla richiesta. L’OGGETTO della sentenza di condanna generica ( sia quando la domanda ha come oggetto solo l’an , sia quando opera l’art. 278 c.p.c.) è l’accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose e della imputabilità di questo fatto. Rimangono stralciate dalla sentenza sull’an e affidate al giudizio sul quantum ( e quindi impregiudicate ) le questioni relative all’esistenza e quindi all’ammontare del danno o più in generale della prestazione; e anche il nesso di causalità tra il fatto potenzialmente produttivo del danno ed il danno stesso. Quindi ben è possibile, senza violazione del giudicato, che in un primo processo si accerti che Tizio è l’autore del fatto ed è quindi astrattamente obbligato, nei confronti di Caio, al risarcimento dei danni da questo subiti; e che in un secondo processo si accerti che Caio non ha subito nemmeno un centesimo di danno, oppure che il danno è stato prodotto da una causa diversa, e quindi rigettare la domanda. Tutto ciò perché le questioni relative all’esistenza e all’ammontare del danno e al nesso di casualità riguardano il quantum e quindi, rispetto ad esse, la sentenza sull’an non produce alcuna preclusione. CONTENUTO ED EFFETTI. La sentenza di condanna generica ha il contenuto di una sentenza di mero accertamento, ma è equiparata a certi effetti alle sentenze di condanna. Essa non è sufficiente per istaurare una esecuzione forzata: manca la quantificazione. L’art. 474 c.p.c. stabilisce che, per procedere ad esecuzione forzata, è necessario che il diritto sia liquido; la somma deve essere quantificata. Da tale punto di vista, la sentenza di condanna generica non è una condanna vera e propria. Sotto due profili è invece assimilata ad una sentenza di condanna : 1) Art. 2818 c.c. ( ipoteca giudiziale ): la sentenza di condanna generica è titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale che l’art. 2818 c.c. consente anche in base ad una sentenza che condanna < al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente >. La sentenza di condanna generica consente l’iscrizione della ipoteca giudiziale sui beni del debitore, per l’ammontare che determina l’attore stesso sotto la sua responsabilità. Se l’attore esagera e iscrive ipoteca per una somma maggiore di quella che poi risulterà dovuta, sarà responsabile per i danni provocati. 2) Art. 2953 c.c. ( prescrizione ) : le prescrizioni più brevi di quella decennale si trasformano in prescrizione decennale quando i diritti che si prescrivono in termini più brevi sono oggetto di sentenza di condanna. Se un credito per risarcimento danni per incidente stradale ( che ha una prescrizione breve di due anni ) viene accertato con sentenza di condanna, dal momento del passaggio in giudicato della stessa decorra un termine di prescrizione che non è biennale, ma decennale. Tutto questo vale anche per la condanna generica. Se il convenuto ritiene che manchi il nesso di causalità o manchi il danno ha interesse ad avere, sul diritto vantato dall’attore, una decisione globale e non “ sezionata “ su profili attinenti all’an e poi su quelli attinenti al quantum. Una volta emessa la sentenza di condanna generica, il processo prosegue per la quantificazione, se la domanda coinvolge sia l’an che il quantum. Se la domanda riguarda solo l’an, allora si ha una sentenza definitiva, ed occorre instaurare un altro processo per la quantificazione. Nel primo caso, invece, la sentenza di condanna generica è equiparata ad una sentenza non definitiva. La norma sulla RISERVA DI APPELLO ( art. 340 c.p.c. ) fa riferimento alla sentenza prevista dall’art. 278 c.p.c. Infatti, la sentenza di condanna generica rientra nella logica delle sentenze non definitive : chi è soccombente sulla condanna generica potrebbe poi essere vittorioso sulla sentenza di liquidazione. Il convenuto, che è vittorioso sulla definitiva, vede neutralizzato da questa il pregiudizio che riceve dalla sentenza di condanna generica. Ecco la logica della riserva: mi servo della possibilità di impugnare la sentenza di condanna generica all’esito del processo perché , se vinco sulla definitiva, allora non ho più interesse a coltivare la questione sull’an. Alla sentenza di condanna generica si applica la disciplina vista per le sentenze non definitive: riserva , impugnazione immediata, passaggio in giudicato; nel caso di impugnazione immediata, biforcazione del processo, sospensione del processo sul quantum o contemporanea prosecuzione dei due processi, raccordo attraverso l’art. 336, II c.p.c. etc. RISERVA DI RICORSO PER CASSAZIONE. La sentenza non definitiva è soggetta ad un diversificato regime di impugnabilità a seconda che si tratti di appello o ricorso per cassazione, la sentenza di condanna generica è viceversa suscettibile di ricorso immediato in cassazione, o in 62 efficacia esecutiva alla sentenza. Con altra terminologia, si distingue una esecutività in senso lato ( l’efficacia della pronuncia in generale), ed una esecutività in senso proprio ( l’efficacia della pronuncia di condanna ). In ambo i casi si fa riferimento agli artt. 282 e 337 c.p.c., e si conclude che le sentenze di condanna sono sempre immediatamente efficaci, in qualunque grado siano emesse. Si controverte, invece, del momento in cui divengono efficaci le sentenze di accertamento e costitutive: l’opinione prevalente ritiene che tali sentenze divengono efficaci quando passano in giudicato formale ( art. 327, I c.p.c.); un’opinione minoritaria ritiene che siano immediatamente efficaci, fin dal momento in cui sono state pronunciate. La questione va probabilmente impostata in modo diverso. L’effetto proprio della sentenza di merito è uno solo e consiste nell’individuare le regole di condotta che disciplinano i comportamenti di due o più soggetti, con riferimento ad un bene della vita giuridicamente protetto. In ciò si esplica la funzione giurisdizionale dichiarativa e sotto questo profilo la sentenza di condanna non differisce dagli altri tipi di sentenza, poiché anch’essa detta regole di comportamento. Il punto è che l’essere titolo esecutivo non costituisce un effetto ricollegabile alla funzione dichiarativa, perché il legislatore individua i titolo esecutivi secondo ragioni che niente hanno a che vedere con l’efficacia dichiarativa degli stessi. Pertanto che la sentenza di condanna abbia efficacia esecutiva niente ci dice in ordine ai suoi effetti dichiarativi, cioè agli effetti propri della funzione giurisdizionale esercitata: quella dichiarativa.
 Analogamente, non incide sul problema che dobbiamo affrontare la circostanza che la pronuncia della sentenza produca effetti su altri processi o su altri provvedimenti. Le uniche regole di condotta che vincolano le parti, una volta concluso il processo con la formazione del giudicato, sono quelle contenute nell’ultima sentenza pronunciata: quelle contenute nei provvedimenti precedenti è come se non fossero mai venute ad esistenza.
 Si può anche sostenere che la sentenza è efficace, le regole di condotta in essa contenute sono vincolanti, fin dal momento della sua pubblicazione: ma si tratta di efficacia evanescente se e finché quella pronuncia è impugnabile. In realtà dunque finché la sentenza non è passata in giudicato non possiamo ancora dire se le regole di condotta in essa contenute sono veramente vincolanti per le parti, poiché vi è sempre la possibilità che, attraverso le impugnazioni ordinarie, si giunga al risultato che quelle regole di condotta non sono mai state vincolanti per le parti. Per questa ragione l’art. 2909 c.pc. afferma che l’accertamento , il quale fa stato fra le parti, gli eredi e gli aventi causa, proviene dalla sentenza passata in giudicato.
 Un’altra e diversa questione attiene alla EFFICACIA RETROATTIVA o meno della sentenza: in altri termini, se la regola di condotta che essa enuncia si applica anche ai comportamenti antecedenti alla sua efficacia. Esempio : le sentenze della Corte costituzionale producono effetti dal giorno successivo alla loro pubblicazione sulla gazzetta ufficiale; ma gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità sono retroattivi. Conseguentemente, risulta secundum ius il comportamento di chi non ha applicato la norma incostituzionale, e contra ius il comportamento di chi la norma incostituzionale ha applicato. Esempio : la sentenza, che pronuncia la risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c. , ha normalmente effetti retroattivi ( art. 1458 c.c.). La regola è che la sentenza ha efficacia retroattiva, quantomeno fino al momento della domanda. A ciò si fa eccezione solo per alcune sentenze, incidenti sugli status, che non hanno efficacia retroattiva (es. la sentenza di divorzio). Se si ritiene che le pronunce di mero accertamento o costitutive divengano efficaci solo quando passano in giudicato, ci si chiede come possa avere efficacia esecutiva una pronuncia di condanna, che è dipendente da una pronuncia non ancora efficace. La dottrina più antica ritiene che, se la pronuncia di accertamento o costitutiva diviene efficace solo al momento del passaggio in giudicato, una pronuncia condannatoria consequenziale a quella di accertamento o costitutiva può avere effetti solo dopo il passaggio in giudicato di quest’ultima. Finché non sia divenuta efficace la pronuncia pregiudiziale, non si può attuare quella consequenziale di condanna; pertanto, secondo quella dottrina, l’esecutività secondo le regole ordinarie qui non è operata. Se, invece, si ritiene che la pronuncia di accertamento o costitutiva acquista efficacia fin dalla sua pubblicazione, ecco che la pronuncia consequenziale di condanna può essere esecutiva secondo le regole ordinarie. Senonché, nella dottrina più recente è venuto meno il passaggio intermedio: si è detto che non sequitur il condizionamento dell’efficacia della pronuncia accessoria di condanna all’efficacia della pronuncia pregiudiziale di mero accertamento 65 o costitutiva. Non esistono norme del nostro ordinamento che consentono di distinguere tra pronunce condannato rie pure e pronunce condannato rie consequenziali a domande costitutive o di mero accertamento. Una volta saltata la consequenzialità tra la previa efficacia della pronuncia pregiudiziale costitutiva o di mero accertamento e la efficacia della pronuncia dipendente di condanna si sdrammatizza il problema che stiamo affrontando; non è più rilevante sapere quando acquista efficacia la sentenza di mero accertamento o costitutiva, perché l’efficacia della sentenza di condanna, dipendente da un capo pregiudiziale di mero accertamento o costitutivo, è pacificamente ritenuta regolata dagli artt. 282 e 337 c.p.c. 26) LA CORREZIONE DELLA SENTENZA
 La modificazione della sentenza di primo grado di solito deve essere ottenuta attraverso i mezzi di impugnazione. Tuttavia non sempre è necessario utilizzare i mezzi di impugnazione per giungere ad una modificazione della pronuncia emessa. In alcuni casi, infatti, è esperibile il procedimento di correzione, disciplinato dagli art. 287 e sgg. c.p.c., il quale trova la sua ragione d’essere nella distinzione tra errori di giudizio, cioè errori nella formazione della volontà del giudice, ed errori nella manifestazione della volontà. Mentre nel primo caso debbono essere esperiti i mezzi di impugnazione, nel caso di errori nella manifestazione della volontà è esperibile il procedimento di correzione.
 I provvedimenti suscettibili di correzione sono anzitutto le sentenze, anche quando sia pendente il giudizio di appello. La diversa regola contenuta nell’art 287 cpc che non consentiva la correzione delle sentenze contro le quali fosse stato proposto appello è stata dichiarata incostituzionale e la sentenza può essere sottoposta a correzione anche se è stato proposto appello. Sono suscettibili di correzione anche le ordinanze non revocabili ( art. 177 c.p.c. ), in quanto, se l’ordinanza è revocabile, l’errore può essere fatto valere attraverso l’istanza di revoca.
 La correzione, secondo l’art. 287 c.p.c., è possibile nelle ipotesi di omissioni, errori materiali, ed errori di calcolo. Queste ipotesi integrano quell’errore nella manifestazione della volontà , che costituisce il presupposto dell’istituto. L’errore nella manifestazione della volontà , che deve essere ricavabile dagli atti stessi del processo, si colloca appunto nella esteriorizzazione di una volontà che inequivocabilmente si è formata in maniera corretta e che soltanto si è espressa in maniera errata.
 L’errore di calcolo non pone particolari problemi anche perché difficilmente il giudice effettua il calcolo nella sentenza; di solito si limita ad indicare gli elementi per effettuare il calcolo. Es. il giudice condanna a pagare la somma di €1000 per capitale, più interessi legali dalla scadenza del credito al saldo, e non svolge aritmeticamente il calcolo degli interessi dovuti.
 Di fatto la correzione della sentenza è utilizzata soprattutto per la mancata, incompleta o erronea indicazione delle parti o dei beni oggetto della controversia, quando si debba procedere ad esecuzione forzata, oppure all’iscrizione o trascrizione dell’atto, o più in generale alla pubblicità dello stesso. In tutti gli altri casi il procedimento di correzione non è di per sé necessario, perché , essendo appunto l’errore evidente, fra le parti non sorge contestazione su di esso; al contrario, l’esatta indicazione delle parti, dei beni , etc. , diviene necessaria quando la sentenza costituisce titolo esecutivo, oppure è soggetta a pubblicità perché, dovendo essa operare nei confronti dei terzi, quello che non è indicato nell’atto reso pubblico non ha valore rispetto ai terzi; e quindi è necessario ricorrere al procedimento di correzione.
 Il procedimento di correzione si svolge in modo semplice: se le parti sono d’accordo possono chiederla con ricorso congiunto e il giudice provvede con decreto. Se invece la correzione non è chiesta da tutte le parti, allora bisogna instaurare il contraddittorio con le parti ( che non hanno fatto la richiesta); nel loro contraddittorio , il giudice provvede con ordinanza, il cui contenuto è annotato sull’originale della sentenza. La sentenza, esclusivamente per ciò che attiene alle parti corrette, è impugnabile con i mezzi spendibili contro di essa ( appello, se è appellabile; ricorso per cassazione, se si tratta di sentenza di appello o in unico grado). La parte che non è d’accordo con la correzione impugna non il provvedimento di correzione, ma la sentenza, esclusivamente però con riferimento alle modificazioni introdotte dal provvedimento di correzione. Ciò conferma che l’ordinanza di correzione non è un provvedimento a sé stante, ma è un provvedimento che ha l’effetto di modificare la sentenza a cui si riferisce. Ecco perché, anche formalmente, il 66 provvedimento di correzione si attua trascrivendo materialmente il suo contenuto sull’originale dell’atto che è stato corretto. 
 27) LA CONTUMACIA E L’ASSENZA
 Può essere che una o più parti non si presentino nel processo: abbiamo così la contumacia, disciplinata dagli artt. 290 ss cpc, che può definirsi come la mancata costituzione di una parte. La COSTITUZIONE IN GIUDIZIO è l’attività con cui una parte si presenta in giudizio ed acquisisce la concreta possibilità di compiere gli atti processuali. Quindi la contumacia presuppone la avvenuta acquisizione della qualità di parte: solo chi ha la qualità di parte può essere contumace, perché solo costui può costituirsi in giudizio. Chi non ha la qualità di parte non può essere contumace. La qualità di parte si acquisisce, sia per l’attore sia per il convenuto, con la notificazione della citazione. Quindi l’avere effettuato o l’essere stati destinatari della notificazione di un atto introduttivo o di un atto di chiamata in causa ( per quanto riguarda i terzi) è l’elemento indispensabile perché questi soggetti possano essere contumaci, in quanto costituisce il presupposto affinché costoro acquisiscano la qualità di parte e possano costituirsi nel processo. La nozione di parte individua tre fenomeni distinti:
 1) la parte come titolare della situazione giuridica dedotta in giudizio ( parte in senso sostanziale); 2) la parte come soggetto destinatario degli effetti degli atti processuali (parte in senso processuale);
 3) la parte come colui che può compiere atti nel processo, essendo o meno destinataria degli effetti di questi atti ( parte in senso formale). La distinzione è importante perché la contumacia è dichiarata rispetto a colui che può compiere gli atti del processo e quindi della parte in senso formale. Ciò discende dalla stessa nozione di costituzione: con la costituzione la parte si presenta di fronte al giudice e manifesta la volontà di volersi difendere attivamente. In sostanza la costituzione è l’attività con cui chi ha assunto la qualità di parte manifesta la volontà di volere spendere, in concreto, quei poteri che in astratto l’ordinamento attribuisce a ciascuna parte. L’instaurazione del contraddittorio e la costituzione sono due fenomeni essenzialmente diversi: l’instaurazione del contraddittorio è finalizzata all’assunzione della qualità di parte e viene logicamente prima della costituzione, perché realizza l’astratta possibilità di difesa, mettendo il soggetto evocato in giudizio in grado di difendersi. La costituzione è la concreta realizzazione della difesa; il soggetto, messo in grado di difendersi attraverso l’instaurazione del contraddittorio e attraverso la susseguente assunzione della qualità di parte, decide di utilizzare in concreto quei poteri che l’ordinamento prevede in astratto a favore di colui che è parte del processo. L’instaurazione del contraddittorio e la assunzione della qualità di parte si ha nel convenuto con la notificazione dell’atto introduttivo. Ricevendo tale notificazione, il convenuto è avvertito della pendenza del processo; per il fatto di essere chiamato in giudizio, il convenuto ha una serie di poteri che l’ordinamento gli garantisce. Con la costituzione il convenuto manifesta la volontà di spendere in concreto questi poteri. Dalla contumacia va distinta l’ASSENZA. Assente è colui che, essendosi costituito, non partecipa ad una attività processuale. L’assenza presuppone l’avvenuta costituzione della parte: la costituzione esclude la contumacia. Se poi la parte costituita diserta il processo, in tutto o in parte ( non si presenta ad una, alcune o magari a tutte le udienze), essa non è contumace ma assente.
 La distinzione fra contumacia e assenza è importante perché, una volta che la parte si è costituita, non si applicano più le norme del procedimento in contumacia, ma vige un principio diverso: la parte costituita è considerata presente a tutte le attività che vengono effettuate. Infatti l’art. 176, II c.p.c. stabilisce che < le ordinanze pronunciate in udienza si ritengono conosciute dalle parti presenti e da quelle che dovevano comparirvi>. Da questa norma si può ricavare il principio per cui, una volta che la parte si sia costituita, la eventuale assenza alle attività del processo non comporta alcuna modificazione delle regole ordinarie; quindi la parte costituita e poi assente si considera presente a tutte le attività svolte nel processo.
 VALUTAZIONE DELLA CONTUMACIA. Anzitutto la contumacia non rileva ai fini della possibilità di emettere pronunce di merito: quindi la costituzione delle parti non integra un presupposto processuale. Non è perciò necessario per poter emettere una pronuncia di merito, che tutte le parti si costituiscano. Per giungere ad una pronuncia di merito, è necessario che il contraddittorio 67 Riepilogando le situazioni che si possono avere sono le seguenti: A. Il convenuto è costituito. Diventa perciò irrilevante stabilire se la citazione o la sua notificazione sono nulle o valide, perché in ogni caso la costituzione del convenuto sana i vizi del contraddittorio (convalidazione oggettiva di tali vizi perché si realizza la costituzione del convenuto, che costituisce lo scopo della instaurazione del contraddittorio). Il processo potrà allora procedere verso la decisione di merito, salvo il caso di nullità dell’edictio actionis. B. Il convenuto non si è costituito e il contraddittorio è stato validamente instaurato. Siamo nell’ipotesi della contumacia volontaria e si applicano gli artt. 292 ss cpc. C. Il convenuto non si è costituito e il contraddittorio non è stato validamente instaurato per la nullità della citazione o della sua notificazione. Siamo qui in presenza di un vizio di un presupposto processuale. Quando il giudice riscontra il vizio di un presupposto processuale, vizio suscettibile di sanatoria (es. nullità della notificazione), il giudice non può chiudere immediatamente il processo con pronuncia di rito, ma deve previamente dare disposizioni per la sanatoria del presupposto processuale carente o viziato. Tutto ciò è puntualmente riscontrabile nell’art. 291 c.p.c., il quale aggiunge che < la rinnovazione impedisce ogni decadenza>. La sanatoria della nullità della notificazione ha quindi efficacia retroattiva, opera ex tunc, e il processo si considera pendente a tutti gli effetti fin dal momento della prima notificazione viziata e non dal momento della rinnovazione della notificazione. Aver acquisito che la rinnovazione della notificazione ha effetto retroattivo, quanto alla pendenza del processo, non significa però che, se prima della rinnovazione della notificazione siano stati compiuti atti relativi alla trattazione del merito, la sanatoria del vizio comporti convalidazione di tali atti.
 Gli effetti sostanziali e processuali della domanda decorrono, in caso di sanatoria, dalla prima notificazione ( quella nulla ), ma gli atti relativi alla trattazione del merito, compiuti fra l’inizio del processo e la sanatoria del vizio non sono opponibili al convenuto. Il convenuto ha diritto, se vuole, a far rinnovare l’attività già compiuta; ma può anche con un proprio atto di volontà convalidare l’attività già compiuta. Sarà il convenuto a stabilire se e quali atti vuole che siano di nuovo compiuti nel contraddittorio. La convalida degli atti compiuti non ha luogo per il solo fatto che è sanato il vizio del presupposto processuale ( attraverso la rinnovazione della notificazione, oppure la spontanea costituzione del convenuto), ma perché il convenuto manifesta la volontà di tener buoni gli atti del processo compiuti quando sussisteva il vizio, e quindi tra la notificazione di tale atto e la sua rinnovazione ( o la sua spontanea costituzione). Un'altra ipotesi di contumacia involontaria del convenuto riguarda la nullità della citazione in sé ( e non della sua notificazione) ex art. 164 c.p.c. Pertanto, prima di dichiarare la contumacia del convenuto il giudice deve esaminare, oltre alla validità della notificazione, anche la validità della citazione. Se riscontra un vizio della citazione il giudice provvede ai sensi dell’art. 164, II e V c.p.c. Analogamente il giudice deve provvedere per tutti gli altri vizi relativi alla instaurazione del contraddittorio ( ad es., incapacità del convenuto). L’art. 171, III c.p.c. prevede a questo proposito che < la parte che non si costituisce è dichiarata contumace con ordinanza del g.i. > . Si ha quindi un provvedimento del g.i. dichiarativo della contumacia, la cui portata pratica è stata però largamente svuotata in via interpretativa, perché ciò che conta non è che la parte non costituita sia dichiarata contumace ma l’effettivo rispetto degli artt. 292 ss cpc. Se il giudice NON dichiara contumace una parte ma poi, di fatto, nessuna delle norme degli artt. 292 ss cpc viene violata, non si realizza alcuna ipotesi di nullità. D’altro lato, l’applicazione degli artt. 292 ss cpc prescinde dalla dichiarazione di contumacia, nel senso cioè che il rispetto di tali norme va direttamente ricondotta non alla dichiarazione del giudice, ma all’effettiva esistenza della contumacia della parte. Se una parte è contumace, gli artt. 292 ss cpc vanno rispettati, vuoi che il giudice la dichiari contumace, vuoi che non lo faccia; viceversa, se una parte non è contumace, non è necessario rispettare gli artt. 292 ss cpc, vuoi che il giudice non l’abbia dichiarata contumace , vuoi che, per sbaglio, l’abbia dichiarata contumace. Il provvedimento dichiarativo della contumacia non costituisce, quindi, presupposto di applicazione delle regole sulla contumacia. Quello che conta non è , infatti, ciò che il giudice ha dichiarato, ma l’effettiva esistenza di una situazione di contumacia. Il procedimento contumaciale si differenzia dal procedimento normale 70 essenzialmente per il fatto che ( art. 292 c.p.c.) alcuni atti del processo debbono essere notificati al contumace, mentre non sono notificati alla parte costituita. Gli atti che devono essere notificati personalmente al contumace possono essere distinti in tre gruppi. NOTIFICAZIONE DELLE NUOVE DOMANDE. Del primo fanno parte gli atti che contengono la proposizione di domande nuove ( ad es., la domanda riconvenzionale, l’atto di intervento). Del secondo gruppo fanno parte gli atti che hanno ad oggetto alcuni provvedimenti istruttori: in particolare, le ordinanze ammissive dell’interrogatorio formale e del giuramento. NOTIFICAZIONE DI ATTI ISTRUTTORI. Un’altra ipotesi che rientra in questo secondo gruppo è stata introdotta dalla Corte costituzionale: si tratta della notificazione al contumace del verbale di causa in cui si dà atto della produzione di una scrittura privata. Se dalla produzione della scrittura privata è dato atto nella citazione allora il contumace ne viene a conoscenza e sa che è stato prodotto quel documento; se, invece, il documento è prodotto in corso di causa il contumace non viene a conoscenza della produzione. L’art. 214 c.p.c. prescrive che il disconoscimento della scrittura privata deve essere effettuata dalla parte contro la quale la scrittura è prodotta e che, in mancanza di disconoscimento, la scrittura privata si considera riconosciuta. In un procedimento contumaciale la scrittura privata, non potendo essere disconosciuta da un soggetto, come il contumace, che non compie atti del processo ( il contumace , per disconoscere la scrittura privata, deve costituirsi: ma in tal caso non è più contumace ), deve essere necessariamente posta dal giudice a fondamento della decisione. Secondo la Corte costituzionale questo meccanismo viola il diritto di difesa, in quanto il contumace non sa della produzione della scrittura e quindi non può decidere di costituirsi per disconoscerla = l’art. 292 c.p.c. è incostituzionale nella parte in cui non prevede la notificazione al contumace del verbale in cui si dà atto della produzione della scrittura privata. NOTIFICAZIONE DELLA SENTENZA. Il terzo gruppo è costituito dalla notificazione della sentenza : art. 292, IV c.p.c. La notificazione della sentenza fa decorrere il termine breve per l’impugnazione. La parte ha la possibilità di scegliere se far decorrere il termine breve, notificando la sentenza al difensore della controparte ( art. 285 c.p.c.); oppure non notificare la sentenza e attendere il termine lungo. Se la parte vittoriosa vuole far decorrere il termine breve nei confronti del contumace, deve notificargli la sentenza personalmente. IRRAGIONEVOLEZZA DELLA DISCIPLINA. La disciplina appena esposta è criticabile dal punto di vista dell’opportunità . Alla base della decisione di rimanere contumace, c’è una valutazione della parte riferita all’oggetto del processo, cioè alla situazione sostanziale dedotta in giudizio con la domanda. La parte ritiene che, in relazione a quella situazione sostanziale, non ha interesse a difendersi: gli sta bene anche rimanere soccombente. Va da sé che per il rispetto del diritto di difesa debbono quindi essere notificati al contumace tutti gli atti che contengono domande nuove, perché in relazione al diverso oggetto del processo il contumace deve essere messo in grado di valutare ex novo se ha interesse a costituirsi oppure se mantiene l’interesse a non costituirsi. Per i provvedimenti istruttori la disciplina legislativa aggravata dalla corte cost non è invece irragionevole, in quanto non c’è alcun motivo che giustifichi la loro notificazione al contumace. Il contumace può comunque costituirsi in ogni momento della causa, fino all’udienza di precisazione delle conclusioni ( cioè finché il processo si trova in fase istruttoria).
 COSTITUZIONE TARDIVA DEL CONTUMACE. Naturalmente il contumace che si costituisce tardivamente deve accettare il processo nello stato in cui si trova. Il contumace può compiere tutti gli atti processuali che avrebbe potuto fare nel momento in cui si costituisce se fosse stato costituito fin dall’inizio( la costituzione può essere fatta in cancelleria oppure in udienza). Quindi gli atti che sono preclusi in quel momento alla parte costituita sono preclusi anche al contumace; gli atti che sono possibili in quel momento alla parte costituita sono possibili anche al contumace. Vi è però un’eccezione ancora una volta a suo beneficio: il contumace può sempre disconoscere le scritture private che sono state prodotte, anche se è trascorso l’ultimo momento utile per il disconoscimento ( cioè la prima udienza o la prima risposta successiva alla produzione : art. 214 c.p.c.). Se egli fosse stato costituito e non avesse disconosciuto la scrittura privata, in quel momento non potrebbe più disconoscerla. Se invece la parte, rimasta contumace, si costituisce in una certa udienza e la scrittura privata è stata prodotta due udienze prima , essa mantiene il 71 potere di disconoscerla, nonostante che ormai sia decorso il termine normale per il disconoscimento. L’ult. Co. Dell’art 294 cpc deve intendersi implicitamente abrogato. La RIMESSIONE IN TERMINI è un istituto in virtù del quale il contumace è abilitato a compiere attività che per lui sarebbero precluse. La rimessione in termine si può avere quando vi è una nullità dell’atto introduttivo o della sua notificazione; oppure quando la parte dimostra che la sua contumacia è dovuta a causa a lei non imputabile. Per quanto riguarda la mancata costituzione per causa non imputabile, si tratta di valutare, volta per volta, quando è che sussista una causa non imputabile. L’esperienza giurisprudenziale a questo proposito è scarsa, e quasi tutta di segno negativo ( non sono state ritenute sufficienti, ad es., una malattia, o un viaggio). Dal punto di vista processuale, l’art. 294, II c.p.c. stabilisce che il giudice ammette la prova dei fatti che hanno prodotto l’impedimento, assume la prova di questi fatti e, se li ritiene provati, rimette il contumace in termine. Il provvedimento è dato con ordinanza: la questione, comunque decisa con ordinanza ( sia nel concedere la remissione in termini sia nel negarla ), è poi riproponibile al momento della precisazione delle conclusioni ex art. 178 , I c.p.c. Se la questione è riproposta, in sede di decisione il giudice la riesamina e la decide con sentenza, impugnabile attraverso i normali mezzi di impugnazione. Nel caso di nullità della citazione l’art. 164 c.p.c. , prevede che, quando si avveda della nullità della citazione, il giudice debba fissare una nuova prima udienza e ciò anche se il vizio dell’atto introduttivo non ha impedito affatto al convenuto di venire a conoscenza della pendenza del processo ( art .164, III c.p.c. ). D’altro lato, la nullità della notificazione , per essere tale, deve aver inciso causalmente sulla mancata conoscenza del processo: altrimenti, la notificazione non è nulla. 28) LA SOSPENSIONE La sospensione costituisce un arresto nella sequenza degli atti processuali, a cui consegue una stasi del processo che entra in uno stato di quiescenza ma con la prospettiva di poter essere ripreso; la sospensione determina una fermata del processo ( che non prelude ad una chiusura definitiva), in attesa di qualcosa che consenta di proseguire il processo. Le ipotesi di sospensione sono raggruppabili in tre gruppi: 1. la sospensione propria prevista dall’art. 295 c.p.c. 2. la sospensione concordata su istanza delle parti, prevista dall’art. 296 c.p.c. Si tratta di istituto defunto perché, secondo la norma, il giudice istruttore su istanza di tutte le parti può sospendere il processo per un periodo non superiore a 3 mesi. La sospensione concordata è stata introdotta dal legislatore come strumento per ottenere una pausa del processo utile, ad es., nelle ipotesi di trattative tra le parti. Si ricordi che, secondo l’art. 81 II disp. att.c.p.c. , l’intervallo fra due udienza non deve essere superiore a 15 gg . Oggi tale istituto è desueto perché tra un’udienza e l’altra decorrono di solito ben più di tre mesi: quindi è sufficiente un semplice rinvio all’udienza successiva per avere una dilazione maggiore di quella massima che si può ottenere con la sospensione su istanza delle parti. 3. Vi è infine, un folto gruppo di ipotesi di sospensione c.d. impropria, che trovano la loro disciplina non nell’art. 295 c.p.c., sibbene in altre norme processuali. La sospensione impropria differisce dalla sospensione c.d. propria perché l’art. 295 c.p.c. , presuppone due processi che hanno due oggetti diversi; invece la sospensione impropria riguarda tutte quelle ipotesi in cui, su di un processo in corso, si innesta un altro processo il quale ha ad oggetto una questione relativa alla domanda oggetto del primo processo e la pendenza del secondo processo, che genera dal primo, produce la sospensione del processo originario. La questione, che viene tratta e decisa nel secondo processo ( quello che determina la sospensione), non potrebbe essere oggetto di un autonomo processo per carenza di dimensione oggettiva; il processo che determina la sospensione dell’altro ha ad oggetto non la tutela di una situazione sostanziale, ma una questione ( processuale o di merito) relativa all’unica situazione sostanziale dedotta in giudizio. In altri termini: nella sospensione propria vi sono due litispendenze; nella sospensione impropria ve ne è una sola. Alla diversità di presupposti corrisponde, anche una diversità di disciplina: ad es., il provvedimento che dispone una sospensione impropria non è impugnabile con il regolamento di competenza, come invece lo è il provvedimento che dispone una sospensione propria. 72 quella dipendente è frutto di una scelta del nostro legislatore. Per ragioni di economia processuale ( evitare la doppia istruttoria ) il nostro legislatore ha effettuato la scelta contenuta nell’art. 295 c.p.c. ; la quale , però, ha l’inconveniente di allungare la durata del processo sulla situazione dipendente, il cui processo deve arrestarsi in attesa che passi in giudicato la decisione sulla situazione pregiudiziale. Tuttavia la sospensione opera pienamente qualora la causa dipendente sia proposta dopo la proposizione della causa pregiudiziale. Nel caso inverso, invece, e cioè quando la causa dipendente sia proposta prima di quella pregiudiziale, la sospensione si verifica solo se nel momento in cui la causa pregiudiziale è proposta nella causa dipendente l’istruttoria relativa alla situazione pregiudiziale non è già stata compiuta. Qualora al contrario nel processo relativo alla situazione dipendente sia già stata effettuata l’istruttoria sulla situazione pregiudiziale la sospensione non si verifica, perché ormai si è già prodotto l’evento ( la doppia istruttoria sulla situazione pregiudiziale ), che essa ha la funzione di evitare. EFFICACIA DELLA SENTENZA. Il presupposto per la sospensione è che l’emananda sentenza sul diritto pregiudiziale faccia stato nel processo sulla situazione dipendente; si sospende in attesa di una sentenza che non potrà essere disattesa nella decisione del diritto dipendente. Se, infatti, la sentenza emessa nel primo processo non fa stato nel secondo le ragioni della sospensione vengono meno. Qualora il giudice del processo dipendente debba comunque farsi una propria opinione sul modo di essere della situazione pregiudiziale e quindi debba svolgere un’apposita trattazione ed istruttoria relativa alla stessa, non si realizza più alcuna economia processuale. La vincolatività della pronuncia sulla situazione pregiudiziale nel processo sul rapporto dipendente sussiste sempre quando le parti dei due processi sono le stesse perché, in virtù dell’art. 2909 c.c. , il giudicato fa stato ad ogni effetto anche quando opera con riferimento alla situazione dipendente. Quando le parti del processo relativo alla situazione pregiudiziale sono diverse dalle parti del processo relativo alla situazione dipendente, ai fini della sospensione occorre preventivamente stabilire, sulla base delle regole sui limiti soggettivi di efficacia della sentenza, se l’emananda sentenza sulla situazione pregiudiziale, oggetto del processo tra Tizio e Caio, farà stato una volta emessa anche nei confronti di Sempronio e quindi anche nel processo sul rapporto dipendente che si sta svolgendo tra Caio e Sempronio. Se la risposta è positiva allora la sospensione opera; se la risposta è negativa è inutile operare la sospensione in attesa di una sentenza che non potrà essere utilizzata. PREGIUDIZIALITÀ AMMINISTRATIVA. Una sospensione del processo civile si può avere anche in relazione ad un processo amministrativo. Si noti bene però che ciò non accade per la giurisdizione generale di legittimità: quando di fronte al giudice amministrativo è contestata la illegittimità di un provvedimento amministrativo. In tali caso, il giudice civile conosce incidenter tantum della invalidità del provvedimento amministrativo e se del caso lo disapplica ( art. 4 L 2248/1865). Una pregiudizialità si ha invece nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, quando il giudice amministrativo conosce anche dei diritti soggettivi. Se sulla situazione pregiudiziale è pendente controversia di fronte al giudice amministrativo, il processo che ha ad oggetto la situazione dipendente e che pende innanzi al giudice ordinario resta sospeso in attesa della definizione della causa pregiudiziale. Per quanto riguarda la PREGIUDIZIALITÀ PENALE al processo civile, il c.p.c. non ha una norma generale con cui si prevede che tutte le volte in cui un processo penale possa portare ad una pronuncia efficace in sede civile si debba sospendere il processo civile in attesa della definizione di quello penale. Nell’attuale c.p.p. esistono norme ( art. 651 ss c.p.p.) che prevedono tutta una serie di ipotesi di efficacia del giudicato penale nel processo civile [le ipotesi più comuni sono le domande restitutorie e risarcitorie che si hanno quando un fatto-reato fonda un diritto al risarcimento o alla restituzione].
 Ora il cpp pur prevedendo l’efficacia in sede civile della sentenza penale che accerta un reato o un fatto che sono elemento della fattispecie di un diritto soggettivo, non ha previsto in via generale la sospensione del processo civile tutte le volte in cui oggetto del processo penale sia un fatto – reato, il cui accertamento abbia potenzialmente efficacia vincolante all’interno del processo civile. Non essendo prevista, in via generale, la sospensione del processo civile in attesa della sentenza penale, ogni processo prosegue per conto proprio. Se poi la sentenza penale passa in giudicato in un momento in cui nel processo civile non sono ancora state precisate le conclusioni, 75 l’accertamento effettuato in sede penale è recepito all’interno del processo civile ( beninteso , se la sentenza è efficace in sede civile ai sensi degli artt. 651 ss c.p.c.). Il c.p.p. ha stabilito che ogni processo va avanti per conto proprio, se il giudicato penale arriva in tempo utile per essere recepito nel processo civile lo si recepisce ; altrimenti non esplica alcun effetto nel processo civile. DOMANDE RISARCITORIE E RESTITUTORIE. C’è però un’eccezione: il processo civile nel quale sono fatti valere diritti risarcitori o restitutori , è sospeso in attesa dell’esito del processo penale in due ipotesi ( art. 75 c.p.c.): • se si è avuta la costituzione di parte civile (istituto del processo penale che consente, a chi ha un diritto risarcitorio o restitutorio, di farlo valere in sede penale) e successivamente tale costituzione è stata volontariamente revocata (cioè la parte civile si è ritirata dal processo penale, ed ha trasferito l’azione in sede civile). La sospensione non si verifica quando la parte civile viene esclusa dal processo penale, perché il giudice ritiene che non ci siano gli estremi per costituirsi parte civile ( art. 88 c.p.c.). • quando la domanda in sede civile è stata proposta dopo l’emanazione della sentenza penale di primo grado. Il danneggiato dal reato, titolare del diritto restitutorio o risarcitorio, è rimasto inerte: non ha proposto né domanda in sede civile né si è costituito parte civile nel processo penale. Egli propone, in sede civile, la domanda risarcitoria o restitutoria dopo che è stata pubblicata la sentenza penale di primo grado. Anche in questo caso il processo civile è sospeso in attesa della sentenza definitiva penale. Nelle due ipotesi sopra viste si ha non soltanto l’efficacia della sentenza penale in sede civile, ma anche la sospensione del processo civile in attesa del giudicato penale. La sospensione opera solo per le domande restitutorie e risarcitorie: non opera quando il fatto reato è rilevante per diritti diversi. DIVERSI TIPI DI SOSPENSIONE. Bisogna distinguere fra la sospensione legale (il processo si arresta automaticamente al verificarsi della fattispecie prevista dalla legge ) e la sospensione giudiziale ( l’arresto si produce non al verificarsi dell’evento, ma in virtù del provvedimento del giudice , con il quale si dispone la sospensione del processo). In realtà la sospensione è sempre < legale > , perché è sempre prevista dalla legge. La differenza fra sospensione legale e sospensione giudiziale sta negli effetti del provvedimento che emette il giudice, e soprattutto nelle conseguenze che derivano dalla mancata, erronea sospensione. All’interno della sospensione giudiziale, dobbiamo poi ulteriormente distinguere le ipotesi di sospensione a presupposti vincolanti da quelle che comportano una valutazione di opportunità da parte del giudice. Quando la sospensione dipende da una valutazione di opportunità del giudice, per ragioni strutturali essa è necessariamente giudiziale, in quanto può verificarsi soltanto in seguito al provvedimento con cui il giudice, valutando l’opportunità della sospensione , la dispone. La sospensione legale si verifica automaticamente quando si completa la fattispecie sospensiva; il provvedimento del giudice non è elemento costitutivo della fattispecie dell’effetto sospensivo, ma è meramente ricognitivo di un effetto che si è già verificato. Se il giudice non sospende il processo quando se ne sono verificati i presupposti, gli atti compiuti successivamente sono automaticamente nulli ex art. 298 c.p.c. Siccome la sospensione si verifica al maturarsi della fattispecie sospensiva sia che il giudice ne prenda atto sia che, sbagliando, vada avanti nel processo le cose non cambiano: se c’è fattispecie sospensiva tutti gli atti compiuti dopo sono nulli. Si ha la sospensione legale a seguito della proposizione del regolamento di competenza; della rimessione alla Corte costituzionale; della rimessione alla Corte di giustizia della Unione europea. Sospensione giudiziale. Nelle ipotesi di sospensione ex art. 295 c.p.c. ( ed in altre ipotesi di sospensione c.d. impropria : ad es., la querela di falso), pur essendo il giudice vincolato ai presupposti previsti dalla norma, e non avendo il potere di valutare l’opportunità della sospensione, tuttavia il provvedimento di sospensione è costitutivo dell’effetto sospensivo: il provvedimento con cui il giudice sospende il processo è un elemento della fattispecie dell’effetto sospensivo. Pertanto se il giudice, sbagliando, non sospende il processo, non si verifica l’effetto di cui all’art. 298 c.p.c.: gli atti compiuti sono validi, nonostante che il processo dovesse essere sospeso e non lo sia stato. 76 PROCEDIMENTO E PROVVEDIMENTO. La rilevazione della fattispecie sospensiva, cioè dei presupposti in presenza dei quali il giudice deve emettere il provvedimento di sospensione avviene anche d’ufficio, senza necessità di istanza di parte. Non hanno effetto accorti fra le parti per evitare la sospensione lì dove l’ordinamento la prescrive. Il provvedimento di sospensione è un’ordinanza del collegio o del g.i. ,a seconda che la causa sia o meno affidata alla decisione collegiale. Il provvedimento ha la forma di ordinanza perché non definisce il giudizio ex art. 279 c.p.c. e quindi non assume la forma della sentenza. Il provvedimento non ha neppure astrattamente la possibilità di definire il giudizio : infatti o il giudice ritiene che la fattispecie sospensiva non ci sia e allora il processo va avanti o il giudice ritiene che la fattispecie sospensiva ci sia e allora non chiude il processo ma lo sospende. L’ordinanza che dispone la sospensione ex art. 295 c.p.c. ( non anche quella che la nega, o che dispone una sospensione diversa da quella dell’art. 295 c.p.c.) è impugnabile con il regolamento di competenza ex art. 42 c.p.c. Ciò consente alla Corte di cassazione di controllare la sussistenza della fattispecie sospensiva e, se del caso, di far ripartire il processo erroneamente sospeso. CONSEGUENZE DELLA MANCATA SOSPENSIONE. Nelle ipotesi di sospensione legale, l’effetto sospensivo si produce automaticamente e resta irrilevante il provvedimento del giudice che è meramente ricognitivo della già verificata sospensione. Anche se manca tale provvedimento, gli atti compiuti successivamente al mutuarsi della fattispecie sospensiva sono nulli, perché l’effetto sospensivo si è comunque prodotto = gli atti dovranno essere rifatti ex novo. Nelle ipotesi di sospensione giudiziale, al contrario, se il processo non è sospeso, è il giudice dinanzi al quale è impugnata la sentenza ad emettere il provvedimento di sospensione non emesso dal giudice di primo grado sempre che, nel momento in cui pronuncia , siano ancora esistenti i presupposti per la sospensione. Se, ad es., medio tempore sulla questione pregiudiziale si è formato il giudicato, la sospensione non avrebbe più senso. Si tratterà di recepire la sentenza definitiva sulla causa pregiudiziale e non di sospendere il processo in attesa di un qualche cosa che ormai si è avuta. Non è quindi rilevante quando pronuncia il giudice d’appello sapere se il giudice di primo grado ha sbagliato o meno a non sospendere il processo; l’importante è che in quel momento sussistano i presupposti per la sospensione. EFFETTI. Secondo l’art. 298 II cpc la sospensione interrompe i termini in corso, che ricominciano a decorrere ex novo dalla ripresa del processo. La sospensione del processo non produce quindi una sospensione, sibbene una interruzione dei termini. Durante la sospensione non possono essere compiuti atti del processo. Gli atti compiuti dopo il provvedimento di sospensione ( nel caso di sospensione giudiziale ) o dopo il maturarsi della fattispecie sospensiva ( nel caso di sospensione legale ) sono nulli e quindi debbono essere compiuti di nuovo una volta che il processo riprende la sua corsa. L’impossibilità di compiere atti del processo trova due eccezioni abbastanza rilevanti: la prima riguarda la tutela cautelare. L’apertura alla tutela cautelare del processo sospeso è prevista dall’art. 669 quater , II c.p.c.
 La seconda eccezione è prevista dall’art. 48 c.p.c., che, in tema di regolamento di competenza ( che costituisce un’ipotesi di sospensione legale ), stabilisce che il giudice del processo sospeso possa autorizzare il compimento degli atti che ritiene urgenti. La norma è pacificamente applicabile a tutte le altre ipotesi di sospensione, sia legali che giudiziali. Da notare la differenza tra provvedimenti cautelari e atti urgenti. Il processo cautelare non fa parte del processo sospeso, è autonomo e parallelo: la possibilità di chiedere la tutela cautelare, quando il processo di merito è sospeso, si può riconoscere anche a prescindere dalla espressa previsione dell’art. 669 – quater c.p.c. perché sospendere il processo di merito non significa impossibilità di proporre quel diverso, ancorché parallelo processo, che è il processo cautelare. L’art. 48 c.p.c. riguarda invece proprio gli atti del processo sospeso: soprattutto riguarda gli atti di istruzione probatoria che si rendono necessari e indifferibili proprio a causa della sospensione del processo ( ad es., una consulenza tecnica su un immobile che si sta deteriorando). Questi sono atti interni al processo sospeso, che possono essere autorizzati in caso di necessità .
 La RIASSUNZIONE DEL PROCESSO SOSPESO deve avvenire nel termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza sulla questione pregiudiziale o dalla cessazione dell’impedimento previsto dall’art. 75 del c.p.p. 77 scadenza del termine per il deposito degli scritti defensionali, se non c’è richiesta di discussione orale. Il verificarsi di un evento interruttivo dopo la discussione non produce alcun effetto se non in caso di riapertura dell’istruzione cioè quando il giudice, anziché emettere la sentenza definitiva, emette un’ordinanza istruttoria o una sentenza non definitiva accoppiata ad un’ordinanza istruttoria o una sentenza non definitiva accoppiata ad un’ordinanza di rimessione in istruttoria. Si deve tuttavia ritenere che la previsione vada integrata con le ipotesi in cui il giudice dispone che si svolga di nuovo la fase decisoria, senza quindi che sia riaperta l’istruzione; oppure disponga la rinnovazione delle prove ai sensi dell’art. 281 c.p.c. Nei casi sopra indicati, l’evento interruttivo non produce alcun effetto perché la ratio dell’interruzione è di salvaguardare l’effettività del contraddittorio. Poiché, da un certo momento in poi della fase decisoria, l’unico soggetto che compie atti del processo è il giudice ( attraverso la deliberazione e la pubblicazione della sentenza), è chiaro che il verificarsi di un evento interruttivo in tale periodo non ha alcuna incidenza, perché le parti non hanno atti da compiere e quindi non c’è necessità di salvaguardare l’effettività del contraddittorio. Se, però, la causa non viene decisa con sentenza definitiva, si ritorna alla regola normale, perché ci saranno ulteriori atti da compiere e quindi riprende vigore l’esigenza di salvaguardare l’effettività del contraddittorio. Questo primo gruppo di fattispecie interruttive attiene alla parte o al suo rappresentante legale.
 La maggior parte degli atti del processo però non è compiuta direttamente dalla parte, ma da un difensore, cioè dal rappresentante tecnico della parte: il secondo gruppo di eventi interruttivi riguarda il rappresentante tecnico. Anche queste ipotesi rientrano nella ratio dell’interruzione: siccome è il difensore che compie gli atti del processo, se si verificano rispetto a costui gli eventi che vedremo per garantire l’effettività del contraddittorio si rende necessario interrompere il processo.
 EVENTI CHE ATTENGONO AL DIFENSORE.L’art. 301 c.p.c. individua come eventi interruttivi che attengono al difensore la morte o la perdita del c.d. ius postulandi, cioè del potere di stare in giudizio in nome e per conto della parte, a causa della radiazione o sospensione dall’albo del difensore stesso. In tutte queste ipotesi il difensore non può più compiere atti del processo e quindi ritorniamo alla logica dell’interruzione. Non sono eventi interruttivi per espressa previsione dell’art 301 ult. comma c.p.c. la revoca della procura da parte del cliente o la rinuncia al mandato da parte del difensore, che sono atti volontari. Giustamente il legislatore ritiene che deve essere cura della parte munirsi di un altro difensore e in queste ipotesi addirittura si ha, nei confronti della controparte, la c.d. ultrattività della procura ( art. 85 c.p.c.). Per la controparte il difensore è sempre tale anche se il potere rappresentativo non esiste più finché la parte interessata non abbia provveduto a sostituirlo. E’ discusso se la cancellazione volontaria dell’avvocato dall’albo determini l’interruzione del processo: la risposta prevalente è negativa, e si ritiene che essa deve essere accomunata alla rinuncia alla procura, perché appunto discende da un comportamento volontario del legale.
 Gli eventi interruttivi che si producono in capo al difensore determinano l’interruzione automatica ( art. 301, II c.p.c., che rinvia all’art. 299 c.p.c.). Gli atti eventualmente compiuti dopo il verificarsi dell’evento interruttivo che riguarda il difensore sono nulli per il solito meccanismo degli artt. 304 c.p.c., che rinvia all’art. 298 c.p.c. Si ritiene che, se gli eventi che attengono al difensore si verificano dopo la chiusura della discussione, essi non abbiano rilevanza in analogia a quanto dispone l’art. 300, ultimo comma c.p.c. , con riferimento alla parte. Anche riguardo al difensore vale la considerazione per la quale se non vi sono più atti da compiere è inutile interrompere il processo; salvo, anche qui, che non vi sia pronuncia di una sentenza definitiva. RIPRESA DEL PROCESSO. L’interruzione ha lo scopo di garantire l’effettività del contraddittorio tra i soggetti che debbono continuare il processo stesso; l’interruzione è un effetto nel quale è insita la possibilità di proseguire il processo stesso. Sono previsti due meccanismi : la prosecuzione e la riassunzione. I. La prosecuzione si verifica quando l’iniziativa per rimettere in moto il processo, è presa dalla parte, in relazione alla quale si è verificato l’evento interruttivo. si ha la costituzione volontaria della parte interessata 80 II. Nella riassunzione l’iniziativa per rimettere in moto il processo è presa dalla controparte. In questo caso si rende necessario un atto di riassunzione del processo che contenga la vocatio in ius del soggetto che avrebbe potuto spontaneamente proseguire il processo. SUCCESSIONE NEL PROCESSO. Per individuare i soggetti che ex art 303 cpc debbono costituirsi per proseguire il processo occorre distinguere a seconda dei vari eventi interruttivi. Se l’evento interruttivo consiste nella morte della persona fisica o nell’estinzione della persona giuridica si applica l’art. 110 c.p.c. : il processo è proseguito da o riassunto nei confronti del successore universale. Ex art 2504 bis cc prevede che per fusione o incorporazione la società risultante prosegue in tutti i rapporti anche processuali in corso. Una facilitazione è peraltro introdotta dall’art. 303, II c.p.c. : entro l’anno della morte l’atto di riassunzione può essere notificato nell’ultimo domicilio del defunto, collettivamente e impersonalmente a tutti gli eredi. Spetta poi agli eredi, se lo vogliono, costituirsi in giudizio. Ciò costituisce l’unica ipotesi nel nostro sistema, in cui un soggetto diventa parte del processo senza essere individuato: gli eredi, con tale notificazione diventano parti processuali senza essere individuati nominativamente. Se essi non si costituiscono anche la sentenza, in via del tutto eccezionale, perde di concretezza. In questo caso, la sentenza si pronuncia nei confronti degli < eredi di Caio> e si dovrà stabilire in altra sede chi essi siano nella realtà. ACQUISTO O PERDITA DELLA CAPACITÀ E DEL POTERE RAPPRESENTATIVO. Nel caso di perdita di capacità della parte la prosecuzione o la riassunzione sono effettuate rispettivamente da parte o nei confronti del rappresentante legale. Nel caso di acquisto della capacità la prosecuzione o la riassunzione sono effettuate da e nei confronti del soggetto che ha acquistato la capacità. Nel caso del mutamento del rappresentante legale il processo va proseguito o riassunto da e nei confronti del nuovo rappresentante legale. Nel caso di morte o perdita dello ius postulandi del difensore, invece, occorre distinguere , perché la prosecuzione avviene con la nomina di un nuovo rappresentante tecnico ( in pratica, la parte il cui rappresentante tecnico è morto, radiato, o sospeso, per proseguire il processo nomina un altro rappresentante tecnico, che si costituirà in giudizio); invece l’atto di riassunzione deve essere notificato alla parte personalmente ( costituisce, poi, onere della parte, che si è vista notificare l’atto di riassunzione, nominare un nuovo rappresentante tecnico, che si costituirà in giudizio). La PROSECUZIONE avviene attraverso la costituzione in giudizio, come prevede l’art. 302 c.p.c. ; tra l’altro la prosecuzione si può avere anche prima che l’interruzione sia dichiarata. L’atto di RIASSUNZIONE invece proviene dalla controparte ed è rivolto a far presente agli interessati la volontà di mandare avanti il processo. L’atto di riassunzione è disciplinato dall’art. 125 disp. att. c.p.c. ; esso non è un atto con cui si propone una domanda ma un atto di impulso processuale. Proprio per questo, esso può essere compiuto indifferentemente da una qualunque parte interessata a rimettere in moto il meccanismo. La riassunzione del processo ha gli stessi effetti della prosecuzione; una volta notificato l’atto di riassunzione il processo prosegue dal punto in cui era rimasto al momento della interruzione (ma i termini iniziano a decorrere di nuovo per intero). Se in conseguenza dell’evento interruttivo si è prodotto anche il venir meno della parte (destinatario degli effetti degli atti processuali) si ha anche una successione nel processo ex art. 110 c.p.c. Questo non è un problema che riguarda l’interruzione; è un evento ulteriore che può combinarsi o meno con l’interruzione, ma non rileva immediatamente ai fini della stessa. Se il processo non viene tempestivamente riassunto o proseguito, si ha l’ESTINZIONE. Il termine perentorio per riassumere il processo è di tre mesi, che secondo il testo originario dell’art. 305 c.p.c. decorrono dall’interruzione; ma su questo punto vi sono stati alcuni interventi della Corte costituzionale. Infatti quando l’interruzione ha luogo in seguito a dichiarazione del difensore il termine decorre da un evento che è noto alle parti; al contrario nei casi di interruzione automatica ( ex artt. 299 c.p.c. , eventi interruttivi che si verificano prima della costituzione; 300, III c.p.c., eventi interruttivi che riguardano la parte che si difende personalmente; 301 c.p.c. , eventi interruttivi che riguardano il difensore della parte ) l’interruzione si verifica a prescindere dal fatto che essa sia resa nota nel processo; ed allora si poteva verificare un’estinzione misteriosa del processo. 81 L’estinzione era detta “misteriosa” perché il termine per riassumere la causa decorreva da un evento che poteva essere ignoto alle parti del processo. A seguito degli interventi della Corte costituzionale, oggi dobbiamo distinguere: il termine per la prosecuzione o la riassunzione del processo decorre , nelle ipotesi di interruzione automatica, dalla conoscenza dell’evento interruttivo. Nelle ipotesi di interruzione dichiarata o certificata dall’ufficiale giudiziario invece il termine decorre dalla dichiarazione o certificazione ( perché in questo caso l’interruzione è ricollegata ad un evento percepibile dalle parti del processo e quindi i sei mesi decorrono da tale momento). Per salvare il termine è sufficiente il decorso del ricorso in riassunzione; l’attività successiva può essere compiuta anche oltre i tre mesi. 
 30) L’ESTINZIONE
 L’estinzione ha due radici : la < rinuncia agli atti>, disciplinata dall’art. 306 c.p.c. , e < l’iniziativa delle parti>, disciplinata dall’art. 307 c.p.c. RINUNCIA AGLI ATTI: si rinuncia all’attività compiuta in quel processo e quindi anche alla richiesta di tutela giurisdizionale. Stabilisce espressamente l’art. 310 c.p.c. che l’estinzione del processo non estingue l’azione e la domanda resta riproponibile. Pertanto la rinuncia agli atti ha effetti diretti esclusivamente processuali, non incide immediatamente sulla situazione sostanziale dedotta in giudizio e quindi va tenuta distinta da tutti quei fenomeni che operano in primis su quest’ultima : ad es., la transazione, la rinuncia al diritto ( proprio), il risarcimento del diritto ( altrui), etc., che operano appunto in via immediata sulla situazione sostanziale dedotta in giudizio e solo in via mediata sul processo. Quindi tutto ciò che incide sul merito non costituisce una rinuncia agli atti o quanto meno non è solo una rinuncia agli atti; la rinuncia agli atti è un fenomeno che attiene esclusivamente al processo, non incide direttamente sul merito e consente la riproposizione della domanda (quindi l’apertura di un nuovo processo che abbia ad oggetto la stessa situazione sostanziale). Vi possono essere peraltro effetti indiretti dell’estinzione del processo sulla situazione sostanziale dedotta in giudizio : v., ad es., l’art. 2945 , III c.c.
 La rinuncia agli atti deve necessariamente provenire da chi ha proposto la domanda ( normalmente, quindi, dall’attore ) e deve essere accettata dalle parti costituite che hanno interesse alla prosecuzione del processo. Talvolta è sufficiente la rinuncia agli atti dell’attore per estinguere il processo; talaltra, invece, la rinuncia agli atti dell’attore deve essere accettata dalle altre parti. Questa seconda ipotesi presuppone che le altre parti siano costituite e che abbiano interesse alla prosecuzione del processo. ACCETTAZIONE DELLE PARTI. Le parti costituite hanno interesse alla prosecuzione del processo quando possono aspettarsi dal giudice un provvedimento che abbia effetti per loro più favorevoli dell’estinzione. L’interesse delle altre parti alla prosecuzione del processo si ha quando esse si sono difese esclusivamente nel merito della causa; perché in questo caso la prosecuzione del processo potrebbe portare ad un rigetto nel merito della domanda dell’attore, che, per le altre parti, è più favorevole dell’estinzione ( in quanto l’estinzione consente all’attore la riproposizione della domanda; il rigetto nel merito invece non lo consente in quanto si forma il giudicato). Le altre parti non hanno viceversa interesse alla prosecuzione del processo quando si sono difese solo o anche in punto di rito, chiedendo cioè al giudice di dichiarare l’impossibilità di giungere ad una pronuncia di merito. Se le altre parti hanno sollevato eccezioni relative ai presupposti processuali tali che, se accolte, si avrebbe una sentenza di rito, allora costoro non hanno interesse alla prosecuzione del processo, perché gli effetti dell’estinzione sono identici a quelli della sentenza di rito. In pratica, le altre parti ottengono la tutela che hanno richiesto anche con l’estinzione ( anziché con la dichiarazione d’incompetenza, ad es., o di carenza di giurisdizione), perché la pronuncia di rito ha gli stessi effetti dell’estinzione, in quanto ambedue consentono la riproposizione della domanda. Alla stessa conclusione si deve giungere anche quando le altre parti si siano difese sia in rito che in merito. Ciò perché l’ordine con cui il giudice deve esaminare le questioni di rito e di merito non è disponibile dalle parti. In presenza di una eccezione di rito ed una difesa nel merito il giudice deve esaminare, al momento della decisione, prima la questione di rito e poi quella di merito. La parte non può alterare l’ordine delle questioni. Quindi manca l’interesse alla prosecuzione del processo sia a chi si difende solo in rito sia a chi si difende anche in rito : se c’è una difesa di rito, manca l’interesse alla prosecuzione del processo.
 82 estinzione il processo giunge ad una decisione di merito. Se invece, con riferimento all’inattività qualificata, il legislatore non prevede che al mancato compimento di attività volta a sanare i vizi di presupposti processuali consegua l’estinzione del processo, la conseguenza è la chiusura del processo con sentenza di rito (es. il legislatore non prevede che, ad attore contumace, il convenuto debba manifestare la volontà di proseguire il processo a pena di estinzione, la conseguenza sarebbe la chiusura in rito del processo con sentenza che dichiara il vizio). L’istituto della estinzione per inattività è al servizio di due scopi del tutto diversi: - inattività semplice è funzionale alla scelta del legislatore di non prevedere che il processo, una volta messo in moto, vada avanti d’ufficio fino alla sua conclusione; - l’inattività qualificata è funzionale alla mancata sanatoria di vizi dei presupposti processuali, e quindi è istituto alternativo alla pronuncia di rito e di questa più veloce per impedire una pronuncia di merito. RILEVAZIONE L’art. 307, IV c.p.c. prevede che l’estinzione opera di diritto ed è dichiarata dal giudice anche d’ufficio. Mancando ogni diversa previsione legislativa, non vi sono limiti temporali per la rilevazione dell’estinzione: essa può essere rilevata in ogni stato e grado del processo. Può essere eccepita anche dalla parte interessata. EFFICACIA RETROATTIVA. Una volta che l’estinzione sia stata rilevata o eccepita il giudice, se ritiene maturata la fattispecie estintiva, dichiara l’estinzione del processo. La dichiarazione ha effetto retroattivo; il processo si considera estinto non da quando l’estinzione è dichiarata dal giudice, ma da quando è maturata la fattispecie estintiva. L’art. 307, IV c.p.c. stabilisce che l’estinzione opera di diritto: cioè la dichiarazione di estinzione ha effetto retroattivo. L’estinzione è dichiarata con due modalità diverse, a seconda che la causa sia di decisione collegiale oppure monocratica. Nella decisione collegiale dobbiamo ulteriormente distinguere a seconda che l’estinzione sia eccepita nella fase di trattazione oppure nella fase decisoria. - Fase decisoria (di fronte al collegio) : il collegio se la accoglie provvede sempre con sentenza; se la rigetta e non pronuncia sentenza ma solo un’ordinanza istruttoria, il collegio provvede pure alla decisione di estinzione con ordinanza. La questione può essere riproposta quando la causa tornerà in fase decisoria. La sentenza sull’estinzione è normalmente impugnabile con l’appello e successivamente con il ricorso per Cassazione, come tutte le sentenze. - fase di trattazione: sulla eccezione pronuncia il g.i. con ordinanza. L’ordinanza con cui il g.i. nega che si sia verificata l’estinzione e quindi rigetta la relativa eccezione, non è reclamabile immediatamente dal collegio. La parte che aveva proposto l’eccezione e si è vista dar torto, può riproporre la questione con la precisazione delle conclusioni al momento del passaggio alla fase decisoria. Quando il processo prosegue il controllo sull’ordinanza del g.i. che pronuncia sull’eccezione di estinzione è pertanto rimesso alla fase decisoria. Anche quando il g.i. accoglie l’eccezione e dichiara l’estinzione pronuncia ordinanza: contro di essa deve essere previsto un mezzo di controllo, perché essa chiude il processo, e quindi non è possibile rinviarne il controllo ad un momento successivo ( la fase decisoria), appunto perché tale momento successivo non ci sarà. L’ordinanza che dichiara l’estinzione è un provvedimento in senso lato < definitivo> nel senso che se nessuno propone reclamo esso chiude in maniera inoppugnabile il processo e ha sostanzialmente gli stessi effetti della sentenza con cui il collegio dichiara l’estinzione. L’ordinanza , con cui il g.i. dichiara l’estinzione, è immediatamente reclamabile al collegio ai sensi dell’art. 178 c.p.c. Il collego decide con ordinanza non impugnabile se accoglie il reclamo, ritenendo che l’estinzione non c’è stata perché la questione può essere riproposta al momento della precisazione delle conclusioni. Se, invece, il collegio rigetta il reclamo pronuncia sentenza perché il provvedimento definisce il processo e pertanto nei suoi confronti deve essere possibile l’esperimento dei mezzi di impugnazione. La sentenza è emessa in camera di consiglio ( art. 308, I c.p.c.). , e quindi sempre senza l’udienza pubblica di discussione. PRONUNCIA NELLE CAUSE A DECISIONE MONOCRATICA. Il secondo gruppo di ipotesi riguarda il caso in cui la decisione della causa è affidata ad un giudice monocratico ( giudice di pace, e g.i. nelle cause a decisione non collegiale). Qui l’eccezione di estinzione è decisa con ordinanza, se è rigettata: la questione è riproponibile con la precisazione delle conclusioni. L’eccezione è decisa con sentenza se è accolta perché allora il processo si chiude ed occorre che la decisione sia controllabile con i mezzi di impugnazione. 85 La disciplina degli EFFETTI DELL’ESTINZIONE è comune sia all’estinzione per rinuncia agli atti sia all’estinzione per inattività. RIPROPONIBILITÀ DELLA DOMANDA. Secondo l’art. 310 c.p.c. l’estinzione del processo non estingue l’azione. Ciò significa che l’estinzione del processo di per sé non incide né sulla situazione sostanziale dedotta in giudizio né sulla possibilità di chiedere la tutela giurisdizionale. Pertanto la domanda proposta in un processo dichiarato estinto è riproponibile. Tuttavia l’estinzione del processo può però avere un’incidenza indiretta sulla disciplina della situazione sostanziale dedotta in giudizio: determina la perdita degli effetti sostanziali della domanda. La domanda può ben essere riproposta ma gli effetti della prima domanda, quella proposta nel processo estinto, si perdono e quelli che si producono in virtù della seconda domanda prenderanno tempo appunto dalla data di proposizione di quest’ultima, es. p. 271. L’estinzione rende INEFFICACI GLI ATTI COMPIUTI ( art. 310, II c.p.c.). Gli effetti degli atti processuali si perdono perché il processo si estingue e si estinguono anche gli effetti degli atti compiuti. Vi sono però due eccezioni.
 Mantengono effetti le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo (sentenze non definitive). Non mantengono invece effetti le sentenze di rito: anche qui si deve far riferimento alle sentenze non definitive di rito, cioè a quelle che affermano l’esistenza di un presupposto processuale positivo o negano l’esistenza di un presupposto processuale negativo. Infatti dopo la rinuncia di una sentenza definitiva di rito l’estinzione del processo non è più possibile perché la sentenza definitiva di rito chiude il processo. L’inefficacia extraprocessuale delle sentenze non definitive di rito non esclude che, invece, le sentenze definitive di rito producano effetti anche al di fuori del processo in cui sono state pronunciate.
 Alla regola delle efficacia solo endoprocessuale delle sentenze non definitive di rito si fa eccezione per due ipotesi: - ordinanze che regolano la competenza > ordinanze in tema di competenza emesse dalla Corte di cassazione non solo in sede di regolamento di competenza, ma anche in sede di ricorso ordinario ex art. 360 n. c.p.c. - sentenze pronunciate dalla Cassazione a sezioni unite > disciplinano la giurisdizione. Infatti ex art. 382 c.p.c. si desume che la sentenza della Cassazione sulla giurisdizione è vincolante per tutti i giudici dell’ordinamento; lo stesso deve accadere se il processo si estingue. Quindi, se si è avuta una pronuncia della Cassazione e dopo tale pronuncia il processo si estingue, la sentenza della Cassazione sulla giurisdizione rimane ferma. La domanda deve essere riproposta allo stesso giudice e nel processo così riproposto non potrà più sollevarsi la questione di giurisdizione, perché tale questione è già stata decisa con efficacia di giudicato dalla sentenza della Cassazione emessa nel precedente processo. L’ultimo punto riguarda la sopravvivenza, all’estinzione del processo, delle PROVE RACCOLTE. Stabilisce l’art. 310, III c.p.c. che “le prove raccolte solo valutate dal giudice a norma dell’art. 114 secondo comma”, che disciplina i c.d. argomenti di prova. Dobbiamo chiederci se tutte le prove raccolte degradano ad argomenti di prova. Una prima esclusione è certa: i documenti prodotti nel processo estinto, se prodotti di nuovo nel secondo processo, hanno l’efficacia loro propria perché erano prove precostituite nel primo e sono prove precostituite anche nel secondo processo. Essi non sono, cioè , prove “ raccolte” in senso proprio. La norma si riferisce perciò soltanto alle prove costituite nel processo estinto: bisogna allora chiarire quale sia la ratio della disposizione. Infatti è pacifico che le prove costituite che siano liberamente valutabili ( specialmente le prove testimoniali) nel secondo processo hanno valore di argomenti di prova. Il dubbio riguarda le prove legali raccolte nel primo processo: quindi essenzialmente la confessione giudiziale e il giuramento. Le prove legali sono prevalutate dal legislatore, mentre in relazione alle prove liberamente valutabili il legislatore rimette al giudice l’individuazione e la raccolta degli elementi che servono per valutarne l’attendibilità. Se la ratio dell’art. 310, III c.p.c. è quella di non costringere un giudice a valutare una prova sulla base di elementi che sono stati raccolti in un altro processo si deve concludere che, laddove la valutazione è fatta dal legislatore ( come accade per le prove legali ), non c’è motivo che la prova degradi ad argomento di prova. Soltanto le prove liberamente valutabili degradano ad argomenti di prova, mentre le prove legali mantengono il loro valore, in 86 quanto per esse non sussiste la ratio della disposizione. Secondo la giurisprudenza assolutamente costante della Corte di cassazione l’utilizzazione delle prove raccolte nel processo estinto è subordinata all’istanza di parte: il giudice non può acquisirle di ufficio. 31) IL PROCEDIMENTO INNANZI AL GIUDICE DI PACE
 L’art. 311 c.p.c. rinvia alle regole valide per il processo dinanzi al tribunale con una duplice limitazione:
 a) non si applicano le norme del processo dinanzi al tribunale che siano espressamente derogate dagli artt. 316 ss. b) il secondo limite deriva dall’ultimo inciso dell’art. 311 c.p.c., il quale rinvia per il processo dinanzi al giudice di pace al processo dinanzi al tribunale in composizione monocratica, però con la riserva di compatibilità ( “ in quanto applicabili”) . Il secondo limite riguarda quindi la non applicazione al processo dinanzi al giudice di pace, di tutte le norme del processo dinanzi al tribunale che decide in composizione monocratica e che sono incompatibili con il processo innanzi al giudice di pace. Così ad es., le norme che disciplinano la difesa tecnica non si applicano nelle cause nelle quali la parte sta in giudizio di persona. Il processo innanzi al giudice di pace presenta alcune semplificazioni rispetto a quello monocratico di tribunale: sia la domanda ( art. 316, II c.p.c.) sia la difesa del convenuto possono essere orali. In tal caso, spetta al giudice di pace redigere il verbale contenente la domanda ( che è notificata, a cura dell’attore, al convenuto) o le difese del convenuto. La domanda ha sostanzialmente lo stesso contenuto previsto dall’art. 163 c.p.c. , ma i termini a difesa sono dimezzati ( art. 318 c.p.c. ).
 Le parti possono costituirsi direttamente all’udienza ( art. 319 c.p.c.): ciò significa che nessuna decadenza si produce per il convenuto fino alla prima udienza del processo. Anche innanzi al giudice di pace vale il principio di preclusione: ma la distinzione fra la fase dell’allegazione dei fatti e la fase delle richieste istruttorie ( e del deposito dei documenti) è meno netta. Si può avere la fissazione di una seconda udienza per ulteriori richieste istruttorie solo quando nella prima udienza si sono avute novità in punto di domande e/o di allegazione dei fatti e/o di attività istruttoria ( art. 320, IV c.p.c.). La discussione della causa avviene normalmente in forma orale, ma niente vieta che le parti depositino anche difese scritte. La sentenza non può essere pronunciata in forma orale, come prevede l’art. 281 – sexies c.p.c. per il procedimento innanzi al giudice monocratico di tribunale, ma è depositata nella cancelleria entro 15 giorni dalla discussione. 32) I PROFILI GENERALI DELLE IMPUGNAZIONI
 Il sistema delle impugnazioni ha come costante funzione la modifica o l’annullamento della sentenza emessa. Il processo di primo grado è chiuso con una decisione che può avere i più vari contenuti: di rito, di merito; di accoglimento totale, o parziale, o di rigetto della domanda.
 La sentenza è vincolante in modo assoluto per il giudice che l’ha emessa, mentre per le parti lo è solo in modo relativo: perché appunto esiste il sistema delle impugnazioni. Il principio dell’onere dell’impugnazione ( art. 161, I c.p.c.) impone alle parti in linea di principio ( salve eccezioni : art. 161, II c.p.c. ) di far valere la nullità della sentenza mediante i mezzi di impugnazione.
 In uno “stato di natura”, e cioè ove il legislatore non intervenga e non preveda mezzi di impugnazione, gli errores in procedendo sono sempre rilevanti e producono la invalidità della sentenza, portano all’inefficacia della stessa; tale inefficacia può essere eccepita in ogni sede nella quale la sentenza sia utilizzata contro la parte soccombente, fino a che gli strumenti di stabilizzazione non rendono irrilevante tale invalidità. Al contrario, gli errores in iudicando (le regole di condotta enunciate nella sentenza non trovano fondamento nella realtà sostanziale esistente) producono la ingiustizia della sentenza, sono sempre irrilevanti: il contenuto della decisione non può essere messo in discussione, sostenendo la difformità di quanto accertato dalla realtà sostanziale preesistente. Ora questo stato di natura non è riscontrabile negli ordinamenti moderni: tuttavia qualche traccia di esso è ancora percepibile. Ad es., il lodo arbitrale è sempre e comunque impugnabile per gli errores in procedendo ( quindi, per l’invalidità dello stesso), mentre l’impugnazione per gli errores in iudicando ( quindi, per l’ingiustizia dello stesso) è possibile solo se le parti l’hanno prevista. Ancora : nei processi in cui la giuria emette un verdetto immotivato 87 usare i mezzi di impugnazione cessa quando la sentenza impugnata non ha mai prodotto o non produce più un giudicato sostanziale. Ciò può accadere in due direzioni. A) SENTENZA INESISTENTE. l’art. 161, I c.p.c. istituisce la regola della conversione delle nullità della sentenza in motive di impugnazione. Il secondo comma dello stesso articolo prevede peraltro una deroga : il principio della conversione non si applica se la sentenza è inesistente. Quando il vizio della sentenza non porta alla semplice nullità ma alla inesistenza, non è necessario ( anche se è possibile ) far valere tale vizio attraverso i mezzi di impugnazione. La parte si trova dunque di fronte ad una alternativa : se è ancora possibile, può far valere l’inesistenza della sentenza attraverso il mezzo di impugnazione. Se la parte non può ( ad es. , perché i termini sono scaduti ) oppure non vuole utilizzare l’appello, può far valere il vizio di inesistenza anche in un separato processo ( ad es., in sede di opposizione all’esecuzione), oppure riproponendo la domanda e, di fronte alla possibile eccezione di giudicato della controparte, replicare che il giudicato in realtà non esiste perché la precedente sentenza è inesistente. La parte può quindi utilizzare i mezzi di impugnazione come strumenti facoltativi. Non nel senso banale che li usa se vuole ( perché ciò vale per tutti i mezzi di impugnazione), ma nel senso di strumenti alternativi, proprio perché riescono a dare la stessa tutela di quella data da altri strumenti che la parte ha a disposizione. B) Le SOPRAVVENIENZE in fatto o in diritto consentono la riproposizione della domanda. Noi sappiamo che, per ciò che attiene ai limiti temporali di efficacia della sentenza, il referente è l’udienza di precisazione delle conclusioni per quanto riguarda i fatti e la pubblicazione della sentenza per quanto riguarda le norme. Se dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni si verifica un fatto nuovo, rilevante per l’esistenza del diritto dedotto in giudizio; o se, dopo la pubblicazione della sentenza, viene modificata la norma sulla quale si è basata la pronuncia, la parte che ha interesse ad impugnare può scegliere tra dedurre tali novità con i mezzi di impugnazione o riproporre un’altra domanda, allegando la sopravvenienza. La scelta è possibile solo quando i mezzi di impugnazione sono utilizzabili ; altrimenti , la parte può solo instaurare un nuovo processo. Fra le sopravvenienze che determinano la possibilità di superare i limiti di efficacia della sentenza non vi sono mezzi di prova. L’esistenza di un mezzo di prova nuovo non è di per sé idonea a superare i limiti di efficacia temporale della sentenza, ma consente soltanto ( quindi obbliga la parte) all’utilizzazione dei mezzi di impugnazione, nei limiti in cui ciò è consentito. Quindi i fatti nuovi e le norme nuove consentono di proporre una nuova domanda; le prove nuove (riferite a fatti vecchi) sono invece utilizzabili solo attraverso e nei limiti in cui possono essere messe a fondamento di un mezzo di impugnazione. OGGETTO DI IMPUGNAZIONE, stabilisce l’art. 323 c.p.c. , sono le sentenze. Non sono invece oggetto di impugnazione gli altri provvedimenti del giudice, in particolare le ordinanze ( che sono lo strumento classico di gestione del processo), perché essi, ai sensi dell’art. 177 c.p.c. , non possono mai pregiudicare la decisione della causa. Esse possono essere sempre modificate o revocate dal giudice che ha pronunciate. Inoltre ex art. 178 c.pc. “le parti possono proporre al collegio tutte le questioni risolte dal g.i. con ordinanza revocabile”. Le ordinanze NON sono quindi autonomamente impugnabili, perché refluiscono nella sentenza. Il giudice con la sentenza ( talora anche ex officio, sempre su istanza di parte ) ha il potere di riesaminare le questioni risolte con ordinanza , per cui l’eventuale lamentela della parte contro un’ordinanza diventa una lamentela contro la sentenza che ha confermato l’ordinanza. Il giudice quando pronuncia una ordinanza non perde il potere di tornare sulla questione che ha deciso; soltanto quando pronuncia sentenza perde tale potere. Dovendo (su istanza di parte oppure ex officio) riesaminare la questione affrontata con l’ordinanza, l’effetto dell’ordinanza si incorpora nella sentenza, per cui la lamentela è proposta non contro l’ordinanza ma contro la sentenza che abbia posto l’ordinanza a suo fondamento (es. ordinanza con cui il giudice non ammette una prova). Ci sono però ex art. 177 c.p.c. ORDINANZE NON MODIFICABILI E NON REVOCABILI che quindi pongono dei punti fermi, non più rivedibili al momento della sentenza. In questo caso non è la sentenza, ma è già l’ordinanza che produce il pregiudizio. Se si analizzano si può notare che nella maggior parte dei casi il pregiudizio non si avvera: es. art. 177 , n. 1 c.p.c. si tratta di ordinanza pronunciate sull’accordo delle parti e quindi se la parte è d’accordo non avrà niente di cui lamentarsi; n. 3, si tratta di ordinanze reclamabili al collegio, quindi un sistema di controllo esiste. 90 Rimangono le ordinanze dichiarate espressamente non impugnabili dalla legge ( art. 177, n. 2 c.p.c.) che non sono modificabili né revocabili né reclamabili : rispetto ad esse si pone il problema della tutela delle parti, in quanto vi deve essere un qualche strumento di controllo. Ma il più delle volte le ordinanze dichiarate espressamente non impugnabili dalla legge riguardano questioni processuali che non incidono sulla decisione finale. Ad es., sono ordinanze non impugnabili quelle che ordinano la cancellazione della causa dal ruolo, ciò non pregiudica la decisione finale, perché la parte può riassumere la causa; quelle che danno o tolgono l’esecutività provvisoria: ma, anche qui la decisione finale è destinata ad assorbire e superare l’ordinanza; quelle che irrogano la multa ad un testimone, esse riguardano il testimone e non incidono sulla decisione finale. Quindi le ordinanze non impugnabili perché tali dichiarate dalla legge, comunque non pregiudicano la decisione della causa ai sensi del primo comma dell’art. 177 c.p.c. Al contrario, per il testimone che si è visto irrogare la multa il provvedimento è definitivo; se non vi sono altri strumenti di controllo, a suo favore scatta l’art. 111 Cost.: egli può impugnare per cassazione l’ordinanza. La forma dell’ordinanza è, così , strettamente connessa con la sua intrinseca riesaminabilità . Sono decise con sentenza quelle questioni (art. 279 c.p.c.) che riguardano ciò su cui l’ordinamento vuole che il giudice, una volta che ha deciso , non possa ritornare ( e proprio a tal fine gli impone di usare la forma della sentenza); sono invece decise con ordinanza le questioni sui cui l’ordinamento vuole non far perdere al giudice che le decide il potere di ritornare. PREVALENZA DELLA FORMA LEGALE SULLA FORMA ADOTTATA. Uno dei problemi più delicati si ha quando il giudice emette un provvedimento nella forma sbagliata. L’ordinamento prevede che il giudice decida di certe questioni con ordinanza, e di certe altre con sentenza. La soluzione ormai concorde, quantomeno nella giurisprudenza, dice rilevante la forma che la legge impone, non quella che il giudice in concreto utilizza. Quindi rilevante è il tipo di potere che il giudice in concreto spende e non la forma dell’atto con cui in concreto il potere è speso. Il principio della prevalenza della forma prescritta dal legislatore su quella in concreto adottata dal giudice non è applicabile quando il legislatore conferisce al giudice la scelta fra decidere o accantonare una questione, per la quale il legislatore prescrive la forma della sentenza. In questo caso l’emanazione di un’ordinanza significa che il giudice ha scelto di non decidere ( per il momento ) la questione, per la cui decisione è imposta la forma della sentenza. SENTENZA IN SENSO SOSTANZIALE. Il principio della prevalenza della forma prescritta sulla forma in concreto adottata non ha niente a che vedere con l’impugnazione in Cassazione ex art. 111 Cost. dei provvedimenti aventi forma diversa dalla sentenza per scelta del legislatore (e non per errore del giudice). In altri termini: prima si era in presenza di un errore del giudice; qui il giudice segue correttamente le prescrizioni normative che gli impongono di pronunciarsi con un provvedimento avente forma diversa dalla sentenza. Qualunque forma il legislatore abbia prescritto per il provvedimento se esso è definitivo ( cioè se non è riesaminabile né dal giudice che l’ha emesso né da alcun altro giudice, ed i suoi effetti non sono riassorbili in un altro provvedimento emesso nello stesso o in altro processo), ha ad oggetto una situazione sostanziale protetta, e se contro di esso non sono previsti ulteriori mezzi di controllo, allora scatta la disposizione dell’art. 111 Cost. ed il provvedimento è suscettibile di ricorso immediato in Cassazione. In altri termini, l’espressione “ sentenza” usata dall’art. 111 Cost. è stata interpretata in senso sostanziale e non formale. Il legislatore costituente quando ha parlato di sentenza intendeva riferirsi ai provvedimenti che hanno la funzione della sentenza: cioè ai provvedimenti decisori contro i quali non è ammessa altra tutela (es. l’ordinanza che dispone sulla provvisoria esecuzione della sentenza appellata ex art 351 cpc non è suscettibile di ricorso in Cass perché gli effetti sono riassorbibili dalla sentenza di appello). RILEVANZA DELLA QUALIFICAZIONE DELL’OGGETTO DEL PROCESSO. Talvolta l’utilizzazione di un mezzo di impugnazione dipende dalla domanda proposta dalla parte. Ebbene in tal caso rilevante è la qualificazione data dal giudice di primo grado alla domanda proposta, indipendentemente dalla esattezza di tale qualificazione.
 La distinzione più importante all’interno dei mezzi di impugnazione è quella fra i mezzi di impugnazione ordinari ed i mezzi di impugnazione straordinari. I primi realizzano una prosecuzione del processo di primo grado e quindi costituiscono fasi interne di un unico 91 processo, di una litispendenza unica. I secondi sono azioni sotto veste di impugnazione, e quindi aprono un nuovo processo, solo esteriormente ricollegato al processo precedente. Un'altra rilevante distinzione, che attiene al modo di operare del mezzo di impugnazione, deve essere effettuata fra mezzi di gravame o impugnazioni sostitutive e mezzi di impugnazione in senso stretto o impugnazioni rescindenti. • Nei mezzi di gravame la parte soccombente ha il potere di provocare direttamente il riesame della pronuncia impugnata semplicemente lamentandone l’ingiustizia e, correlativamente, il giudice del mezzo di gravame viene investito del potere di riesaminare le questioni già esaminate dal giudice della sentenza impugnata sulla base della pura e semplice richiesta della parte ed ha gli stessi poteri che aveva il giudice che ha emesso la sentenza impugnata. • Nel mezzo di impugnazione in senso stretto la parte soccombente deve, invece, affermare e provare che nel provvedimento impugnato è presente uno dei mezzi tassativamente previsti dal legislatore per quel mezzo di impugnazione. Il giudice viene a sua volta investito non del potere di ridecidere ma del potere di controllare se quel vizio c’è o non c’è. Ciò per quanto concerne la fase iniziale dell’impugnazione. Se ci spostiamo alla fase finale, nei mezzi di gravame la pronuncia ha sempre effetti sostitutivi rispetto alla pronuncia impugnata, anche se è identica ad essa come contenuto ( e ciò proprio perché il giudice opera il controllo ridecidendo le questioni a lui sottoposte). Nei mezzi di impugnazione in senso stretto, invece, occorre distinguere, in quanto il rigetto dell’impugnazione lascia intoccata la pronuncia impugnata, mentre l’accoglimento dell’impugnazione annulla la sentenza impugnata. Dopo l’annullamento se necessario segue un’ulteriore fase, detta rescissoria ( in contrapposizione a rescindente, che è la fase di accertamento dell’estinzione del vizio), con cui lo stesso giudice del rescindente o altro giudice emana un’altra sentenza per sostituire quella annullata. Nel nostro sistema i mezzi di impugnazione sono così distribuiti:
 - Mezzi di gravame = l’appello ( tranne alcune eccezioni), l’opposizione di terzo ordinaria ( se si accoglie la configurazione, che di tale mezzo dà la dottrina prevalente) e il regolamento di competenza. - mezzi di impugnazione in senso stretto = la revocazione, l’opposizione di terzo revocatoria e solo parzialmente la cassazione. 33) IL GIUDICATO FORMALE E LE IMPUGNAZIONI STRAORDINARIE
 I mezzi di impugnazione nel nostro ordinamento sono tipici, previsti dalla legge. In materia processuale non vale il principio dell’autonomia negoziale. I mezzi di impugnazione sono elencati nell’art. 323 c.p.c. e sono : • L’appello; • Il ricorso per Cassazione; • La revocazione; • L’opposizione di terzo; • Il regolamento di competenza. Non è un mezzo di impugnazione il regolamento di giurisdizione ( art. 41 c.p.c.), che è infatti un mezzo preventivo, in quanto oggetto di esso non è la pronuncia di un giudice ma una questione di giurisdizione. Conseguentemente il regolamento di giurisdizione non ha come funzione la rimozione di una scadenza ( il che costituisce la funzione tipica dei mezzi di impugnazione), ma opera sottraendo al giudice adito il potere di decidere della questione di giurisdizione e trasferendo tale potere alla Corte di cassazione. L’art 324 c.p.c. ci dà la nozione di GIUDICATO FORMALE. Esso afferma che si intende passata in giudicato la sentenza che non è soggetta a taluni mezzi di impugnazione, e ciò o perché si è perso il potere di proporli (a causa del decorso del termine, o dell’acquiescenza) oppure perché tali mezzi sono già stati esperiti. Una volta perso o speso il potere di utilizzare i mezzi di impugnazione previsti dall’art. 324 c.p.c. , la sentenza viene definita come passata in giudicato formale. Il giudicato formale riguarda la sentenza come atto, mentre il giudicato sostanziale riguarda gli effetti di merito di una sentenza che, come atto, è passata in giudicato formale. 92 ciò significa che queste domande producono nuovi effetti sostanziali. Infatti le domande di impugnazione ordinaria (appello, revocazione ordinaria, ricorso per Cassazione, e regolamento di competenza) non sono soggette a trascrizione perché la domanda proposta in primo grado produce effetti che coprono l’intero arco della litispendenza: dalla proposizione della domanda stessa al passaggio in giudicato formale. Quindi è logico che non si trascrivono le domande di appello o di ricorso in Cassazione perché, fino al passaggio in giudicato formale, opera sempre la trascrizione della domanda proposta in primo grado. Il fatto che il legislatore preveda che siano, invece, soggette a trascrizione le domande di impugnazione straordinaria significa che, con il passaggio in giudicato formale della sentenza, cessano gli effetti sostanziali della domanda originaria, si riapplicano le norme di diritto comune e, quando si propone la domanda di impugnazione straordinaria, questa produce una nuova litispendenza e quindi dei nuovi effetti della domanda che si riferiscono alla realtà sostanziale quale essa è al momento della proposizione della domanda di impugnazione straordinaria; una realtà sostanziale modificata dagli effetti prodottosi in virtù dell’applicazione, nel periodo intermedio fra il passaggio in giudicato formale e la proposizione della domanda di impugnazione straordinaria, delle norme c.d. di diritto comune (esempio p. 300). AUTONOMA LITISPENDENZA. L’art. 2652, n. 9 c.c. fa toccare con mano che, al di là dell’ipotesi specificamente disciplinata, gli effetti della litispendenza originaria non si estendono alla impugnazione straordinaria. Le impugnazioni straordinarie sono azioni sotto veste di impugnazione e differiscono, rispetto alla riproposizione della domanda, solo per la competenza, per il procedimento e per il regime di impugnazione della sentenza con cui viene decisa l’impugnazione straordinaria. Ma sotto tutti gli altri profili (operazioni logiche che deve fare il giudice, effetti sostanziali della proposizione dell’impugnazione straordinaria ) non c’è alcuna differenza tra la tecnica prescelta dal nostro legislatore e l’ipotetica tecnica, che prevedesse la possibilità di far valere quello che, de iure positivo, è oggi il motivo di impugnazione straordinaria, anziché con la tecnica dell’impugnazione, con una domanda in primo grado così come accade per le sopravvenienze in fatto o in diritto, che, appunto, danno luogo alla apertura di un ordinario processo di cognizione e non ad un’impugnazione straordinaria. Il nostro legislatore non prevede, per la proposizione delle impugnazioni straordinarie, un termine di decadenza finale svincolato dalla scoperta del vizio. Alle naturali esigenze di stabilizzazione della realtà sostanziale, quale scaturisce dalla sentenza impugnabile in via straordinaria, sopperiscono gli istituti di diritto sostanziale ( prescrizione, usucapione, estinzione per non uso, etc. ). Quindi in astratto la sentenza può essere impugnata in via straordinaria anche dopo cento anni dalla sua pubblicazione: solo che il diritto che con l’impugnazione straordinaria si fa valere
 sarà certamente prescritto o estinto per non uso o estinto per l’usucapione altrui, etc. 
 34) LA LEGITTIMAZIONE E L’INTERESSE A IMPUGNARE
 Dal punto di vista soggettivo occorre distinguere i mezzi di impugnazione proponibili dalla parte dai mezzi di impugnazione proponibili dai terzi. Per “parte” si intende colui che ha assunto la qualità di parte in senso processuale (colui a cui sono imputati gli effetti degli atti processuali). Quindi, in caso di rappresentanza, parte è il rappresentato e non il rappresentante. Il mezzo di impugnazione utilizzabile da colui che non ha assunto la qualità di parte è l’opposizione di terzo. Gli altri sono tutti mezzi di impugnazione della parte, con alcune eccezioni: in certi casi i mezzi di impugnazione della parte sono utilizzabili anche da colui che non è stato tale nella fase processuale che ha portato all’emanazione della sentenza che si impugna. - 1° eccezione > si ricollega alle ipotesi di successione nel diritto controverso. L’ultimo comma dell’art. 111 c.p.c. stabilisce che il successore nel diritto controverso può impugnare la sentenza emessa contro il suo dante causa. Il successore nel diritto controverso può impugnare la sentenza con i mezzi propri della parte, anche se non è stato chiamato o non è intervenuto nella precedente fase processuale. L’espressione “ ed è impugnabile anche da lui” va intesa come deroga esplicita alla regola per cui solo chi è stato parte può impugnare la pronuncia con i mezzi propri della parte. - 2° eccezione > si ricollega alla sostituzione processuale che si ha quando, eccezionalmente, il processo è condotto dal legittimato straordinario senza la presenza del legittimato ordinario. In 95 tal caso il sostituto non è parte processuale però, essendo egli il titolare del rapporto dedotto in giudizio, è parte in senso sostanziale e come tale gli si imputano gli effetti di merito della sentenza ( invece gli effetti di rito della sentenza non gli si imputano, appunto perché non è parte processuale); su tale caratteristica si innesta la 2° eccezione: il sostituto può impugnare con i mezzi propri della parte, nonostante che non sia stato parte ( in senso processuale ) proprio perché sostituto. - 3° eccezione > ( controversa ma da risolvere positivamente) è l’impugnazione della sentenza ai sensi dell’art. 2900 c.c. cioè in via surrogatoria da parte del creditore del soccombente. La possibilità per il rappresentato di proporre impugnazione non costituisce eccezione alla regola in quanto il rappresentato è parte in senso processuale. L’interesse e la legittimazione ad impugnare debbono essere presenti, affinché la domanda di impugnazione possa essere esaminata. INTERESSE AD IMPUGNARE. Costituisce un’applicazione del presupposto processuale generale enunciato dall’art. 100 c.p.c. , cioè dell’interesse ad agire. L’interesse ad agire viene in luce come interesse al risultato del processo: ovviamente l’interesse al mezzo è sempre presente, posto che gli effetti, che si possono ottenere attraverso l’esercizio dei mezzi di impugnazione, non possono essere ottenuti dalla parte soccombente in via stragiudiziale attraverso l’esercizio di propri poteri sostanziali. L’interesse ad impugnare si verifica attraverso la seguente constatazione : la sentenza di impugnazione che abbia il contenuto richiesto con la domanda di impugnazione deve dare una tutela maggiore di quella che dà la sentenza che si impugna. L’accoglimento dell’impugnazione deve essere utile: deve servire a qualcosa. Non c’è interesse ad impugnare quando, ancorché la impugnazione sia fondata e quindi sia accolta nei termini richiesti, ciò che dà il giudice dell’impugnazione non è più quello che ha dato il giudice della sentenza impugnata. Per sapere se una parte ha interesse ad impugnare occorre quindi mettere a confronto due elementi: la sentenza che si vuole impugnare e la domanda di impugnazione. Se l’accoglimento della domanda di impugnazione dà alla parte una tutela maggiore di quella che gli dà la sentenza impugnata, vi è l’interesse ad impugnare. LEGITTIMAZIONE AD IMPUGNARE, presuppone la soccombenza. Essere soccombenti significa che con il provvedimento che si vuole impugnare si è ottenuta una tutela inferiore a quella richiesta. Naturalmente non è sufficiente tener conto di quanto richiesto negli atti introduttivi: le richieste della parte possono essere modificate nel corso del processo stesso. Per valutare la soccombenza occorre quindi tener conto delle richieste che le parti avanzano al momento della precisazione delle conclusioni. Per sapere se una parte è soccombente occorre quindi mettere a confronto ciò che la parte ha chiesto nell’udienza di precisazione delle conclusioni e ciò che gli ha dato la sentenza. Se la sentenza gli ha dato una tutela ( almeno ) equivalente a quella che la parte aveva chiesto questa non è soccombente e quindi non può impugnare ( quantomeno non può impugnare per prima; avrà pertanto bisogno che l’iniziativa di un’altra parte soccombente la rimetta in gioco c.d. impugnazione incidentale). Cominciamo a vedere i casi in cui la soccombenza non esiste: dobbiamo immaginare che la parte si è difesa con certi argomenti e che il giudice su alcuni di questi le abbia dato torto (se il giudice ha accolto tutte le richieste, allora il problema non si pone). Può essere che la parte, pur essendosi vista respinti alcuni argomenti che aveva proposto, tuttavia non sia soccombente e manchi della legittimazione a proporre l’impugnazione in via principale. Al momento della decisione il giudice che pure abbia accantonato le questioni di rito che sono sorte durante il processo, deve tuttavia affrontare e risolvere le questioni di rito prima di affrontare quelle di merito. Le pronunce di rito non impediscono la riproposizione della domanda, sempre che possa essere rimossa la causa che ha portato alla chiusura del processo. Invece le sentenze di merito hanno efficacia di giudicato sostanziale: proiettano i loro effetti sul diritto sostanziale e rendono incontrovertibili ( nel rispetto dei limiti oggettivi, soggettivi e temporali) l’esistenza o l’inesistenza della situazione sostanziale, oggetto della decisione. • DIFESE IN RITO E RIGETTO NEL MERITO. La prima ipotesi è che il convenuto si sia difeso soltanto in rito, e il giudice abbia rigettato la domanda dell’attore nel merito. Esempio: il convenuto si è difeso solo eccependo l’incompetenza; il giudice ha ritenuto infondata l’eccezione di incompetenza ma ha ritenuto che la domanda dell’attore andasse rigettata nel merito. Il convenuto non ha interesse ad impugnare ( ancorché si è vista rigettare l’eccezione di 96 incompetenza), perché la vittoria nel merito gli dà una tutela superiore a quella che egli stesso aveva chiesto. Se infatti il convenuto avesse ottenuto ciò che aveva chiesto ( definizione del processo per ragioni di competenza, o più in generale di rito), tale pronuncia non avrebbe impedito all’attore di riassumere (per l’incompetenza) o di riproporre la domanda in un separato processo. Nel processo riassunto o nel secondo processo il convenuto sarebbe potuto poi rimanere soccombente nel merito. Invece, pur avendo il giudice rigettato la difesa in rito del convenuto, poiché è stata ritenuta infondata nel merito la domanda dell’attore, la pronuncia dà al convenuto una tutela maggiore in quanto, se la sentenza passa in giudicato, essa impedisce all’attore di riproporre la domanda ( meglio, da al convenuto una difesa, l’eccezione di cosa giudicata, spendibile nel caso di riproposizione della domanda ). • DIFESE IN RITO E IN MERITO, RIGETTO SOLO NEL MERITO. La seconda ipotesi è che il convenuto si sia difeso in rito o in merito e il giudice abbia rigettato la domanda nel merito. Qui la soluzione è semplice: il convenuto ha ottenuto quella fra le tutele richieste che lo garantisce di più. Quindi sicuramente non è né legittimato ad impugnare ( perché non è soccombente) né ha interesse ad impugnare ( perché l’accoglimento dell’impugnazione, e quindi la chiusura del processo in rito, gli dà meno di quanto abbia ottenuto dalla sentenza impugnata).
 • DIFESE IN RITO E IN MERITO, RIGETTO NEL RITO. La terza ipotesi è che il convenuto si sia difeso in rito o in merito e il giudice abbia rigettato la domanda in rito. Per poter affrontare la questione occorre precisare che il convenuto non può condizionare l’esame delle questioni da lui sollevate, nel senso di alterarne l’ordine naturale vincolando il giudice all’esame delle questioni di rito solo dopo aver esaminato le questioni di merito. (es. se il convenuto si difende eccependo l’incompetenza e la prescrizione, l’ordine con cui il giudice deve esaminare le questioni sollevate dal convenuto consiste nel preliminare esame delle questioni di rito). Il convenuto che si sia difeso in rito e in merito non può impugnare ( per carenza di legittimazione ) la sentenza che accolga l’eccezione di rito. Il convenuto avrebbe interesse ad impugnare chiedendo il rigetto nel merito quando la sentenza ha accolto l’eccezione di rito, ma non è legittimato ad impugnare in quanto manca la sua soccombenza; lui stesso ha chiesto il rigetto in rito e non può condizionare l’ordine di esame delle questioni, alterando i rapporti fra rito e merito. Un convenuto che si difende in rito e in merito sa che il giudice esaminerà per prime le questioni di rito e, qualora le trovi fondate, chiuderà il processo senza passare all’esame del merito. Il convenuto, che voglia far esaminare dal giudice le sue difese di merito, ha soltanto una via: rinunciare a proporre le questioni di rito. Se il convenuto vuole che il giudice esamini senz’altro le questioni di merito deve rinunciare a far valere quelle di rito. Il convenuto, nei cui confronti è instaurato un processo viziato relativamente ad un presupposto processuale, ma che ritiene di potersi fondatamente difendere nel merito, deve fare una scelta di strategia processuale: puntare direttamente al rigetto nel merito, omettendo di sollevare le questioni di rito; oppure difendersi anche nel rito, sapendo però che non potrà lamentarsi se il giudice accoglie la difesa di rito. Se il convenuto rinuncia a sollevare le questioni di rito e punta tutto al rigetto in merito della domanda non è però sicuro di ottenere quello che vuole, perché, se la questione di rito è rilevabile di ufficio il giudice, se la ritiene fondata, può autonomamente rilevarla: in tal caso l’accoglimento della pregiudiziale di rito impedirà l’esame del merito . • DIFESE IN MERITO E RIGETTO IN RITO. Però il convenuto potrà in tal caso impugnare la sentenza di rito essendo soccombente: egli aveva chiesto una pronuncia di merito e non l’ha avuta: siamo dunque nella quarta ipotesi, nella quale il convenuto si è difeso solo nel merito, ed il giudice ha rigettato la domanda in rito rilevando d’ufficio una questione processuale. Egli ha interesse ad impugnare perché ciò che chiede al giudice dell’impugnazione è una tutela maggiore di quella che ha ricevuto con la sentenza che impugna. Ha legittimazione ad impugnare perché è soccombente ( in quanto ha avuto meno di quello che ha chiesto) e quindi non gli è di ostacolo il principio di auto responsabilità , ed il divieto di venire contra factum proprium. • DIFESE IN RITO E RIGETTO IN MERITO: il convenuto si difende facendo valere più eccezioni di rito e il giudice ne accoglie una e rigetta o assorbe le altre. Secondo l’opinione corrente il convenuto non ha interesse ad impugnare perché il rigetto in rito è sempre uguale qualunque sia il difetto del processo su cui si fonda la decisione; la decisione non è vincolante al di fuori del processo in cui è stata emessa e, non essendo vincolante, il motivo di rigetto in rito diventa 97
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