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Procedura Penale – riassunto Fondamenti di procedura penale, Sintesi del corso di Diritto Processuale Penale

Riassunto del testo Fondamenti di procedura penale, di A.Camon, C. Cesari, M. Daniele, M.L. Di Bitonto, D. Negri, P.P. Paulesu, F

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 06/10/2020

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Scarica Procedura Penale – riassunto Fondamenti di procedura penale e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 1 INTRODUZIONE Che rapporto c’è tra il diritto penale sostanziale e la procedura penale? • Il diritto penale sostanziale è costituito da una serie di norme che individuano le fattispecie criminose e le conseguenti sanzioni legate a questa fattispecie. Si tratta di un principio di legalità e tassatività. • Il processo penale è costituito dall’insieme delle regole che predeterminano le modalità con le quali si accerta se un reato è stato commesso, chi ne è l’autore e la tipologia di sanzione che in concreto deve essere applicata a quel procedimento nell’ipotesi in cui il processo sfoci in una condanna. Partendo da questo presupposto, la prima conseguenza è che il processo penale è strumentale rispetto al diritto penale sostanziale. La procedura penale, quindi, è strumentale al diritto sostanziale. In realtà, specialmente negli ultimi tempi, questo rapporto agisce in senso biunivoco: si colloca in una dimensione di reciprocità. Oggi, spesso, si interviene sul piano sostanziale per risolvere problemi processuali. Pensiamo all’associazione di stampo mafioso (416-bis c.p.): perché il legislatore ha introdotto un reato di questo tipo? Per motivi processuali: i Pubblici Ministeri non riuscivano a dimostrare e accertare il concorso di persone nel reato (la collaborazione nel reato) e quindi ad accertare il reato stesso. Siccome era difficile riuscire a ottenere la prova dello scopo e del concorso di colpa nel reato, il legislatore ha elaborato questa fattispecie criminosa, riuscendo a colpire e perseguire l’appartenenza a un sodalizio come reato. Diamo ora una definizione di processo penale: il processo penale è un complesso di regole formalizzato (quindi regolato dalla legge) che ha come obiettivi l’accertamento di un fatto di reato e l’individuazione del responsabile ai fini del giudizio di condanna o di assoluzione. Individuato cos’è il processo penale, qual è lo scopo del processo penale? Certamente esso mira ad accertare la verità, ma che cosa si intende per verità? Non si tratta di una verità assoluta, perché il processo penale è un procedimento che segue determinate regole, ma la verità del processo va intesa come corrispondenza ai fatti conosciuti e conoscibili all’interno del processo e alle prove disponibili in quel determinato processo. Non si può parlare nel processo penale di una verità assoluta, bensì di una verità coerente con le regole cristallizzate che presiedono quel processo. Il giudice penale non può accertare un fatto all’infinito, ma a un certo punto deve necessariamente fermarsi, perché deve raggiungere un epilogo, il quale è dato dal giudicato. Esiste, in tal proposito, un principio costituzionale, che si aggancia anche a un principio CEDU, per cui il processo deve avere una ragionevole durata; per questo non può essere procrastinato all’infinito. È fondamentale per la certezza del diritto che la macchina processuale si arresti, che il sipario si chiuda e che quindi si giunga ad un accertamento definitivo. L’esigenza di arrivare ad un giudicato si collega al principio secondo cui il processo deve avere una ragionevole durata e, perché il processo abbia una ragionevole durata, esso non può durare all’infinito. È vero anche, che esistono dei mezzi di impugnazione straordinaria che consentono di scardinare il giudicato: si tratta della revisione delle sentenze penali. Ma rimane strumenti eccezionali. Altra coordinata importante è la seguente: il processo penale, come sappiamo, nell’ipotesi in cui intervenga una condanna consente di erogare una pena. Qui si inserisce, però, un problema: il processo penale, per il solo fatto di esistere a prescindere dal suo epilogo, è di per sé una pena? Questo è il problema dei problemi, è la base di tutta la procedura penale. Il processo penale ha di per sé una sua componente afflittiva? Vediamo i vari aspetti: o nel processo penale ci sono degli strumenti cautelari che incidendo sulla libertà personale presentano una spiccata componente afflittiva, rappresentando di conseguenza una sorta di pena (si pensi all’arresto preventivo o all’arresto in flagranza di reato); o il processo penale, per funzionare, necessità di una peculiarità sconosciuta agli altri processi: l’uso della forza. Nel processo penale sono autorizzate e legittimate attività che, se compiute fuori del processo, costituirebbero illeciti penali. Si pensi ad esempio alla perquisizione personale, al sequestro, a un’intercettazione telefonica: non si stà forse agendo sulla libertà personale? o il processo penale, di per sé, costituisce una pena per l’opinione pubblica, la quale può sfociare in anticipati giudizi di colpevolezza. Molto spesso ci si trova di fronte a due processi: quello reale che si svolge nelle aule dei tribunali e quello virtuale nei salotti televisivi È perciò importante il rispetto delle regole predeterminate dal legislatore, regole che hanno come obiettivo quello di consentire a chi esercita il potere afflittivo (Pubblico Ministero) di accertare i reati. Il modo con cui vengono codificare e strutturate queste regole rappresenta la nota distintiva di un sistema processuale. I due modelli di sistemi che caratterizzano il diritto processuale penale sono: a) il sistema inquisitorio (o tendenzialmente inquisitorio); b) il sistema accusatorio (o tendenzialmente accusatorio). Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 2 Come si fa a chiarire se un codice di procedura penale è ispirato al sistema inquisitorio oppure a quello accusatorio? Bisogna guardare a come sono strutturate le regole di cui parlavamo prima. Le chiavi di lettura, che ci aprono le porte a questi sistemi, sono le seguenti: • il modo in cui viene regolato il rapporto tra la fase investigativa (di ricerca e raccolta delle prove) e la fase dibattimentale (di schieramento ed elaborazione delle prove). Se un processo tende a privilegiare la fase di ricerca e a dare più peso a questa fase rispetto a quella dibattimentale siamo di fronte a un sistema tendenzialmente inquisitorio. Se ci troviamo di fronte a un processo, come quelli di common law, che privilegiano il momento dibattimentale come sede esclusiva di elaborazione della prova siamo di fronte a un sistema tendenzialmente accusatorio; • il peso che viene dato al fattore oralità. Se il processo privilegia l’oralità come strumento di formazione della prova ci troviamo di fronte a un processo tendenzialmente accusatorio. Se, invece, un processo tende a privilegiare la scrittura (es. verbali) a scapito dell’oralità, allora siamo in presenza di un processo tendenzialmente inquisitorio. Il nostro codice privilegia l’oralità rispetto alla scritta; • il ruolo che viene assegnato all’impugnazione. Potrebbe sembrare che più impugnazioni ci sono più il sistema sia accusatorio, ma in realtà così non è. I sistemi tendenzialmente accusatori, infatti, concentrano le risorse probatorie in primo grado e tendono a restringere le ipotesi di impugnazione, limitandole ai soli vizi particolari di forma o per questioni di natura squisitamente processuale (es. USA). Nei sistemi tendenzialmente inquisitori accade il contrario: non ci si accontenta di ciò che avviene in primo grado, ma si preferisce dare ampio spazio all’impugnazione. Il nostro codice per alcuni versi guarda al sistema accusatorio, ma per altri versi mantiene ancora un’impronta fortemente legata alla tradizione inquisitoria. Esso, infatti, può essere qualificato come accusatorio nel momento in cui privilegia la fase dibattimentale e l’oralità, ma per quanto riguarda le impugnazioni esso mantiene la sua impostazione inquisitoria. La corte di Strasburgo, attraverso alcune sentenze, è intervenuta in tal senso, spingendo il nostro legislatore a modificare il tradizionale sistema inquisitorio. Il nostro sistema non prevede l’appello, ma prevede soltanto il ricorso in Cassazione; si potrebbe, quindi, giungere al momento in cui il nostro legislatore decide di sopprimere l’appello senza andare contro a quelli che sono i principi della nostra carta costituzionale. Da questo, si può evincere che anche la Costituzione sembrerebbe essere favorevole al venire meno dell’appello. Fonti del processo penale 1) Costituzione; 2) Sistema CEDU: è fonte del processo tramite le sentenze della Corte di Strasburgo. Lo strumento per ottenere giustizia è il ricorso individuale: ogni cittadino può ricorrere alla Corte di Strasburgo quando sono esauriti i rimedi di ricorso interni (primo grado; appello; Cassazione e poi Corte di Strasburgo). Ci sono due tipi di sentenze della Corte: a. sentenze che si basano su un fatto concreto che dichiarano che è stata violata una norma; b. “sentenze pilota”: sentenze con cui la Corte di Strasburgo dice agli stati che c’è una lacuna su una certa materia; 3) sistema comunitario: si fa riferimento al Trattato di Lisbona (direttive e regolamenti sono fonti all’interno del nostro ordinamento). Lo strumento per ottenere giustizia è il rimedio del rinvio pregiudiziale. Struttura del processo penale Nel processo penale italiano operano figure che vengono definite soggetti processuali: è la prima parte del codice che si occupa di queste figure, individuandone le caratteristiche salienti. Questi soggetti sono: - il giudice; - il Pubblico Ministero; - l’indagato/imputato; - la persona offesa dal reato (la c.d. vittima del reato); - il danneggiato del reato (che talvolta potrebbe non coinciderne con a persona offesa). Alcune di queste figure possono, poi, trasformarsi da soggetti processuali a parti processuali, e questo si verifica nel momento in cui inizia il processo: cioè quando, chiusa la fase delle indagini, inizia la fase tecnicamente processuale, inizio che è dato dall’esercizio dell’azione processuale e cioè della formulazione dell’imputazione. Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 5 scenario nazionale è entrato in una fase di profondo cambiamento, iniziata a metà del Novecento e tuttora in divenire; ci troviamo in un momento di transazione legato ai mutamenti economici, sociali e politici dovuti alla globalizzazione e agli sviluppi della tecnologia. Ai fini che qui rilevano il suo attuale sito è che alla legge parlamentare si stanno affiancando fonti di natura sovranazionale. È una possibilità contemplata dalla nostra stessa Costituzione, la quale riconosce che la sovranità nazionale trova dei limiti nelle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, negli ordinamenti internazionali volti ad assicurare la pace e la giustizia fra gli stati e negli obblighi che discendono dal diritto internazionale pattizio. In questo insieme di prescrizioni spiccano, per la procedura penale, due grandi sistemi di produzione giuridica: a. quello del Consiglio d’Europa, che nel 1950 ha adottato la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, la quale è stata recepita dal nostro ordinamento e che contiene diverse prescrizioni rilevanti nei processi penali; b. quello dell’Unione europea, che è un ordinamento internazionale volto ad assicurare la pace e la giustizia tra gli stati. Grazie alle modifiche introdotte nel Trattato di Lisbona è dotata di una propria competenza nella materia della procedura penale; nello specifico, l’art. 82 del TFUE le conferisce il potere di legiferare tramite direttive in tema di cooperazione giudiziaria, cioè in merito all’attività di assistenza reciproca tra stati volte a reprimere i reati a dimensione sovranazionale. Inoltre, è possibile che il Consiglio, previa approvazione del Parlamento europeo, emani un regolamento volto ad istituire una Procedura europea, competente a svolgere indagini in merito a reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione e ad esercitare l’azione penale di fronte ai componenti di organi giurisdizionali dei singoli stati. L’Unione si è dotata anche un di una apposita Carta dei diritti fondamentali (c.d. Carta di Nizza), la quale possiede lo stesso valore giuridico dei Trattati ed è destinata a interferire sul modo in cui le garanzie processuali dovranno essere modellate a livello interno. Il valore orientativo del diritto giurisprudenziale Nei sistemi di common law, caratterizzati dal precedente giurisprudenziale, una delle fonti ufficiali della procedura penale è rappresentata dalle sentenze pronunciate dai giudici, che si affiancano alle leggi emesse dagli organi parlamentari. Sono diversi i termini del discorso per il nostro ordinamento, dove le decisioni dei giudici di merito, della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale non costituiscono fonti dotate di rango formale; il loro valore vincolante è confinato ai dispositivi emessi in rapporto a ciascun singolo caso: la necessità di applicare o no una pena a una determinata persona, oppure l’illegittimità costituzionale di una data norma processuale penale. Esso non si estende alle interpretazioni delle norme che ne stanno alla base. Le stesse considerazioni valgono per la Corte EDU, alla quale l’art.32 CEDU assegna la competenza a decidere su tutte le questioni che riguardano l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione Europea, nonché per le decisioni della Corte di giustizia europea, che ha il compito di assicurare il rispetto del diritto comunitario nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati. L’assenza del vincolo del precedente nel nostro sistema è il portato della netta separazione dei poteri di derivazione illuministica che contraddistingue gli ordinamenti degli Stati dell’Europa continentale. Il potere di produrre norme, in questa visione, dovrebbe spettare solo agli organi direttamente eletti dai cittadini: una caratteristica che i giudici italiani e quelli europei non possiedono. Il che spiega perché l’art. 101 Cost. prevede che i giudici sono soggetti «soltanto alla legge». Se il diritto giurisprudenziale non ha valore formale, non va però dimenticato che spesso le interpretazioni operate dalla giurisprudenza sono indispensabili per tradurre le norme dettate dal legislatore in regole concretamente applicabili nel singolo caso. Ciò avviene, anzitutto, a causa dell’ambiguità e delle incompletezze del diritto legislativo; è frequente, inoltre, che nella prassi vengano in gioco situazioni che le norme processuali non regolamentano. Di conseguenza, è inevitabile che ad essi ponga rimedio la giurisprudenza. Vi è poi un’altra ragione per cui il diritto giurisprudenziale assume un ruolo cruciale ed è rappresentata dalla presenza nel sistema di norme che non fissano regole, ma si limitano a porre principi (es. norme costituzionali). Presentano una struttura simile le prescrizioni della Convenzione europea, per tale ragione oggetto di una estesa implementazione ad opera della corte EDU. Altrettanto elastica appare, infine, la configurazione delle norme dell’Unione europea in materia di processo penale, le quali solo raramente si presentano come fattispecie complete ed autosufficienti, ma tendenzialmente fissano obiettivi che devono essere attuati dagli stati; inevitabile, pertanto, che la Corte di giustizia europea ne specifichi la portata. Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 6 Insomma, la rilevanza del diritto giurisprudenziale interno ed europeo appare tale per cui è consentito conferirgli un importante valore orientativo. I giudici rimangono liberi di adottare interpretazioni delle norme processuali penali diverse da quelle rinvenibili nei precedenti; tuttavia, saranno portati a seguire quest’ultimi, discostandosene solo in presenza di solide ragioni. Le gerarchie: dalla piramide alla rete Un altro criterio di distinzione è dato dalla gerarchia delle norme processuali penali, a sua volta dipendente dalla gerarchia delle fonti. Anche sotto questo profilo ci troviamo in una fase di cambiamenti: § la gerarchia dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese è di tipo piramidale e si fonda sul binomio Costituzione-legge ordinaria. Stando a questo assetto, il giudice sarebbe tenuto a interpretare la seconda conformemente alle indicazioni della prima e, laddove non fosse possibile, a sollevare una questione di legittimità di fronte alla Corte Costituzionale; § con l’apertura ai formanti europei la gerarchia delle fonti si aggrovigliata e la struttura piramidale è oggetto di una progressiva erosione a favore di una configurazione a rete nell’ambito della quale i rapporti di forza sono molto meno netti. La supremazia della Costituzione sulla legge ordinaria resta tutt’ora valida, ma essa è complicata dal fatto che la sovranità in materia processual-penalistica non è più di esclusiva competenza dello stato ma si è frammentata e si è ridistribuita su vari livelli, non solo interni ma anche sovranazionali. La componente sovranazionale della rete Il rango della Convenzione Europea nel sistema delle fonti trova la sua matrice nell’art. 117 Cost., ai sensi del quale il potere legislativo statale va esercitato nel rispetto dei vincoli che provengono non solo dalla Costituzione, ma anche dagli altri obblighi internazionali, tra i quali rientrano quelli assunti dall’Italia con la sottoscrizione della CEDU. Da qui la possibilità di affermare che la Convenzione Europea, sebbene sia stata recepita con una legge ordinaria, abbia un valore superiore rispetto a quello delle norme approvate dal Parlamento, arrivando anch’essa ad integrare un parametro di legittimità tale da giustificare l’eventuale proposizione di questioni di fronte alla Corte Costituzionale. Come abbiamo già detto le prescrizioni della CEDU si esauriscono in un catalogo di principi dal contenuto generico; ciò spiega perché la Corte Costituzionale abbia precisato che ad integrare il parametro di legittimità siano le prescrizioni convenzionali non in sé considerate, ma nel significato che viene loro attribuito dalla giurisprudenza della Corte europea. Non vi è uniformità di vedute sulla portata di tale affermazione. Vi è chi ha sostenuto che ne sarebbe derivato un vero e proprio vincolo formale alle letture della CEDU operate dai giudici di Strasburgo. Già si è visto, però, come i principi fondamentali del nostro sistema non consentano di attribuire un’efficacia del genere al diritto giurisprudenziale. Il che porta a ribadire che il case law della Corte europea si limita a possedere un valore orientativo, destinato a pesare tanto più quanto siano rispettate talune condizioni che si possono così sintetizzare: a) le norme enucleabili dalle decisioni della Corte europea vanno considerate in stretto collegamento rispetto al caso concreto nell’ambito del quale sono state elaborate. Di conseguenza, saranno invocabili solo in rapporto a casi successivi che siano contraddistinti da elementi di significativa somiglianza; b) le norme della Corte europea risultano invocabili nella misura in cui siano l’espressione di un’«interpretazione consolidata» nella giurisprudenza di Strasburgo. Se così non fosse non sarebbero tali da veicolare un orientamento costantemente seguito dalla Corte e vi sarebbero spazi maggiori per discostarsene; c) non potrebbero mai assumere il rango di parametri di legittimità le norme della Corte europea che si trovassero in radicale conflitto con le prescrizioni della Costituzione italiana; d) le norme della Corte europea elaborate in rapporto a casi analoghi, espressione di un’interpretazione consolidata e compatibili con la Costituzione sono soggette al c.d. margine di apprezzamento nazionale. Ciò significa che vanno applicate tenendo conto della misura in cui esistessero norme interne che risultassero equivalenti: vale a dire norme che, pur non prescrivendo le stesse garanzie indicate dai giudici di Strasburgo, risultassero comunque capaci di attuare i medesimi valori ritenuti meritevoli di prevalere dalla Corte europea; e) i margini per discostarsi dalle norme della Corte europea aumentano qualora queste ultime esprimano standard di tutela dei diritti meno elevati di quelli apprestati dalle norme nazionali (c.d. principio di massima espansione delle garanzie). Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 7 La componente eurounitaria della rete Gli artt. 11 e 117 Cost. consentono che la sovranità e la potestà legislativa nazionali trovino limitazioni anche nelle norme dell’Unione europea, tra cui spiccano le norme rinvenibili nella Carta di Nizza, nelle direttive e nei regolamenti rilevanti per il processo penale. Si tratta di prescrizioni che, in presenza di certe condizioni, sono fornite di un’efficacia diretta: generano l’obbligo in capo ai giudici nazionali di disapplicare le eventuali norme interne contrastanti, senza la necessità di sollevare una questione di incostituzionalità volta a rimuovere queste ultime. Il requisito essenziale affinché tale efficacia possa manifestarsi è che siano norme precise e incondizionate, vale a dire fornite di un contenuto precettivo sufficientemente definito, nonché suscettibili di poter essere applicate senza ulteriori interventi da parte del legislatore nazionale. Non va nemmeno trascurato che l’efficacia diretta non può esplicarsi a danno dei privati (es. aggravando la responsabilità personale), ma solo a loro favore. Si è visto come in ambito processuale le raramente le norme eurounitarie contengano fattispecie complete e, di conseguenza, la loro effettiva valenza si coglie nelle implementazioni che ricevono grazie all’interpretazione della Corte di giustizia europea. Se, inoltre, si considera che la portata dei diritti fondamentali riconosciuti dall’Unione europea deve essere uguale a quello assicurato dalla CEDU, emerge come contribuiscano a precisare il contenuto delle garanzie processuali anche le interpretazioni operate dalla Corte EDU; ciò comunque non significa che le interpretazioni siano vincolanti per i giudici nazionali. Si tenga, poi, presente che vale un’altra limitazione all’efficacia diretta delle norme eurounitarie, da tempo individuata dalla Corte Costituzionale: esse non giustificherebbero la disapplicazione delle norme interne quando ne derivasse una lesione dei principi fondanti del nostro ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona umana (c.d. controlimiti), tali da esprimere valori così importanti da non poter essere sottoposti neppure a revisione costituzionale. Nelle situazioni in cui le norme dell’Unione non fossero in grado di esprimere un’efficacia diretta, determinerebbero un’efficacia indiretta, suscettibile di concretizzarsi in un obbligo di interpretazione conforme: i giudici nazionali dovrebbero attribuire alle norme interne il significato maggiormente compatibile con le prescrizioni eurounitarie, salvo il rispetto dei controlimiti costituzionali. In caso di insanabile contrasto tra norme interne e norme eurounitarie, poi, dovrebbe essere sollevata una questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 11 e 117 Cost. Le tecniche interpretative Le norme processuali penali sono oggetto di una elaborazione interpretativa finalizzata a stabilirne il significato più corretto. Le tecniche interpretative sono le più varie: alcune più tradizionali ed altre che rappresentano il portato dell’apertura al diritto europeo e della complicazione della gerarchia delle fonti che ne è derivata. Nello specifico: • la tecnica classica e tuttora preminente è rappresentata dalla interpretazione letterale (art. 12 preleggi) e si stabilisce che nell’applicare la legge non si può attribuirle altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Se rappresenta un metodo che rispetta al massimo la separazione dei poteri, è però insufficiente a cause delle ambiguità e delle incompletezze delle prescrizioni legislative; • un’altra tecnica è quella dell’interpretazione estensiva, che consiste nel maggior ampliamento possibile dell’area operativa delle norme sulla base della littera legis; ma come tale non risulta concettualmente distinguibile dall’interpretazione letterale; • un’ulteriore possibilità è rappresentata dalla analogia, che si risolve nell’applicazione di norme dettate per casi simili o materie analoghe (art. 12 preleggi), ossia situazioni che, pur non perfettamente identiche, presentano significativi elementi di somiglianza con quella esplicitamente regolata; • vi è poi l’interpretazione sistematica, che consiste nell’attribuzione alle norme del significato più in linea con i principi generali che informano il sistema processuale. Ad essa si affianca l’interpretazione teleologica, cioè la ricostruzione del significato delle norme alla luce delle finalità perseguite dal legislatore. Non è detto, comunque, che le tecniche interpretative siano risolutive. A fronte di molteplici possibilità ermeneutiche, esiste solo un limite: nessuna tecnica potrebbe mai legittimare un’interpretazione contra legem. Consente di superare il limite dell’interpretazione contra legem, per converso, la disapplicazione premessa a favore delle norme dell’Unione europea: i giudici hanno la possibilità di rendere inefficaci le norme nazionali e di Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 10 Al terzo comma troviamo, poi, una serie di garanzie che riguardano la persona accusata di un reato. Qui si parla esclusivamente del processo penale. La legge assicura che una persona accusata di reato sia in breve tempo informata circa la natura e i motivi dell’accusa, disponga del tempo e delle condizioni per preparare la difesa e abbia la facoltà di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico. Egli ha poi diritto all’acquisizione di ogni mezzo di prova a lui favorevole e ha diritto a un’interprete. Questa norma ricalca esattamente il contenuto dell’art. 6 CEDU. Analizziamo ora nel dettaglio questa disposizione: - l’accusato ha diritto di informazione in merito alla natura e motivi dell’accusa: ci si riferisce all’imputazione, cioè un’accusa cristallizzata in quell’atto capace di generare l’origine del processo che è per l’appunto l’imputazione. L’accusato deve essere reso edotto in modo accurato circa i motivi dell’accusa: non sono, infatti, ammesse imputazioni generiche. L’art. 65 c.p.p. prevede, infatti, che durante l’interrogatorio, all’interrogando l’accusa venga formulata in forma chiara e precisa; - l’accusato ha diritto a un tempo ragionevole per preparare la sua difesa. Nel processo penale, infatti, esistono i c.d. termini a difesa: l’imputato può chiedere un congruo periodo per prendere cognizione degli atti e per informarsi sui fatti oggetto del procedimento in modo tale da preparare la sua difesa; - molto importante è anche il riferimento alla facoltà dell’accusato di interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico e di ottenere la loro convocazione (citazione) a giudizio: questo diritto di interrogare o far interrogare si esplica davanti a un giudice terzo. Qui, la Costituzione si riferisce al contraddittorio inteso come garanzia individuale, come diritto dell’accusato di poter formulare le domande nel processo davanti a un giudice terzo nei confronti di chi lo accusa. Questa norma è importante perché, in passato, accadeva nel processo penale che spesso l’accusato non era in condizioni di poter formulare domande a chi lo aveva accusato. Cioè, chi era stato accusato era posto nelle condizioni di poter esaminare, contro-esaminare e formulare domande nei confronti di chi lo aveva accusato. Esempio: Tizio, accusava Caio e nel momento in cui il difensore di Caio si rivolgeva a Tizio, interrogandolo, questo si avvaleva del diritto al silenzio. Il legislatore, quindi, ha fatto un passo ulteriore: il legislatore non ha però trascurato la possibilità che colui il quale abbia accusato possa trincerarsi nel diritto al silenzio. Quindi, per non far cadere nel vuoto le garanzie, ha introdotto la seconda parte del quarto comma, il quale stabilisce che «La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore». Se il terzo comma riguarda le garanzie dell’accusato, la seconda parte del quarto comma chiarisce cosa succede se chi, dopo aver accusato altri, si sottrae volontariamente e per libera scelta alle domande di colui che è stato accusato; Ora ci dobbiamo occupare del contraddittorio come metodo di formazione della prova, quindi visto nella sua dimensione oggettiva. Questa garanzia del contraddittorio in senso oggettivo la troviamo fotografata sempre nel quarto comma dell’art. 111, nella sua prima proposizione, la quale stabilisce che «il processo penale è regolato dal principio del contradditorio nella formazione della prova». Il legislatore salda il contraddittorio alla prova: il contraddittorio diventa un metodo per la costruzione ed elaborazione della prova. Quindi, secondo il legislatore costituzionale il contradditorio è il metodo principale attraverso il quale si formano le prove; quindi, può dirsi prova solo quella che viene forgiata nel contraddittorio. Formazione della prova significa che le parti devono contribuire direttamente alla formazione della prova davanti a un giudice terzo e il luogo dove quel metodo del contraddittorio si realizza al massimo livello è il dibattimento. Il vantaggio che dà questa regola è che il giudice, quando decide, ha un patrimonio di conoscenze che è maturato davanti ai suoi occhi. Se così non fosse, il giudice dovrebbe decidere sulla base di prove che si sono formate altrove. Questa regola è il principio di immediatezza tra giudice che assiste al nascere della prova e giudice che decide. Ecco perché il nostro sistema penale è un sistema tendenzialmente accusatorio. Questa regola del contraddittorio presenta però delle eccezioni. Queste eccezioni si trovano nel quinto comma dell’art. 111 e riguardano situazioni esterne al dibattimento. Per evitare che alcune eccezioni venissero a nascere a seguito della prassi giurisprudenziale, il legislatore ha deciso di prevederle in modo analitico. Nello specifico, queste si presentano: a) quando c’è il consenso dell’imputato: il legislatore vuole valorizzare il consenso dell’imputato come situazione che legittima possibili deroghe al contradditorio come formazione della prova legate al Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 11 dibattimento. Quindi, ci sono dei casi in cui l’imputato, prestando il proprio consenso, fa si che una prova sia valida (costituzionalmente ortodossa) anche se formatasi al di fuori del dibattimento. Esempio classico è l’applicazione della pena su richiesta delle parti (patteggiamento): quanto l’imputato e il P.M. decidono di optare per il patteggiamento, la parte rinuncia alla formazione della prova in dibattimento in cambio di uno sconto di pena e/o di altri benefici. Se non ci fosse questa eccezione, il nostro sistema sarebbe incostituzionale; b) quando c’è un’ipotesi di impossibilità di natura oggettiva: il legislatore prende la considerazione l’ipotesi che una prova non possa essere creata in dibattimento per situazioni di natura oggettiva che consentano il recupero di qualcosa che è avvenuto al di fuori del dibattimento. Esempio: Tizio rende una deposizione alla polizia giudiziaria, ma in seguito viene colpito da infermità mentale per cui non gli è possibile affermare nuovamente il tutto in dibattimento. La prova, quindi, può essere individuata attraverso il recupero di quanto dichiarato al di fuori del dibattimento; c) quando c’è un’ipotesi di provata condotta illecita: il legislatore intende alludere a un fenomeno di non genuinità della prova penale. Quando leggiamo “illecita” ci riferiamo a qualsiasi comportamento illecito non consentito dalla legge che va a pregiudicare la genuinità della prova. Esempio: Tizio è testimone e rende delle dichiarazioni alla polizia giudiziaria nel corso delle indagini; si presenta poi al dibattimento e fornisce una versione dei fatti diversa da quella a suo tempo fornita durante le indagini. In questo caso, se Tizio dice aver cambiato versione perché indotto da pressioni esterne siamo in presenza di una provata condotta illecita. Il significato della illiceità sta nell’alludere non necessariamente a qualcosa che sia un reato. In questo caso il legislatore non vuole rinunciare alla prima dichiarazione, cioè quella resa fuori dal dibattimento in quanto, essendo resa in un tempo più vicino a quello della commissione del delitto, si ritiene essere più genuina. Se non ci fosse una norma di questo tipo, i processi penali sarebbero gestiti dai testimoni. Il precipitato tecnico, a livello di legge ordinaria, della provata condotta illecita è l’art. 500 c.p.p. Altro principio ancora è il principio di motivazione delle sentenze e dei provvedimenti giurisdizionali. Siamo sempre nell’ambito dell’art. 111 Costituzione, il quale sostiene al sesto comma che «tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati». La motivazione è la giustificazione della decisione e contiene le ragioni che la sorreggono. Ci sono dei sistemi che sono definiti “a verdetto immotivato”, cioè sistemi che non si preoccupano della motivazione (sistemi di common law): c’è una giuria che esprime una decisione (immotivata), la quale viene cristallizzata poi dal giudice. La spiegazione di questo fenomeno sta nel fatto che la giuria è l’espressione diretta del popolo, il quale accetta la decisione di quest’organo a prescindere dalla motivazione. Nel nostro sistema, invece, la giustizia è amministrata dai giudici in nome del popolo (e non dal popolo, come nei sistemi di common law). Da questo, deriva, nel nostro sistema, la necessità della motivazione. Quest’ultima ha una duplice funzione: a) endoprocessuale: consente alle parti di ricostruire a posteriori il ragionamento del giudice; quindi, la parte, conoscendo a posteriori il ragionamento del giudice, può decidere di impugnare; b) extraprocessuale: la collettività ha la possibilità di giudicare chi giudica, formando un’opinione su coloro che hanno giudicato. I requisiti della motivazione sono i seguenti: § è modulabile, cioè nel processo penale è possibile incontrare diverse tipologie di motivazione. Essa può essere dosata sulla base del provvedimento. La motivazione, però, non può mai essere omessa; § è indisponibile, cioè le parti non possono chiedere al giudice di non motivare. Anche nel patteggiamento, infatti, la sentenza è sempre motivata, sebbene in modo succinto; § è pubblica; § è completa, cioè deve presentare livelli qualitativi e quantitativi elevati circa la motivazione in merito a un certo provvedimento. Deve spiegare perché ha ritenuto valide le prove, deve contenere la puntuale risposta a tutto ciò che era presente nell’imputazione e deve spiegare, in modo qualitativamente esaustivo, il perché è stato dato un determinato peso a una prova e quindi, non solo deve spiegare perché si è tenuto conto delle prove a carico, ma anche perché non si è tenuto conto delle prove a discarico. Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 12 Altro principio costituzionale è il principio del ricorso per Cassazione per violazione di legge. L’art. 111 Cost., settimo comma, nella parte precedente alla sua riforma prevede il ricorso per Cassazione contro le sentenze e contro i provvedimenti in materia di libertà personale. Per quanto riguarda il ricorso contro le sentenze, questo svolge due funzioni essenziali: - quella di introdurre il giudizio di legittimità: la Cassazione deve verificare se la sentenza impugnata sia o meno esente da vizi. La Cassazione non dovrebbe sindacare il merito della causa, cioè non dovrebbe sindacare l’attendibilità delle prove e la fondatezza dell’imputazione; - attivare la funzione nomofilattica: la Cassazione deve garantire l’uniformità e la certezza del diritto. La funzione nomofilattica attinge al principio di uguaglianza: i cittadini sono uguali di fronte alla legge solo se la legge viene uniformemente interpretata. Tuttavia, dal momento che nel nostro sistema non c’è il vincolo del precedente, la funzione nomofilattica potrà sempre essere solo tendenziale. In Cassazione è possibile anche il ricorso contro i provvedimenti in materia di libertà personale: questo codifica il principio dell’habeas corpus, cioè la tutela della libertà dell’individuo e quindi la possibilità dell’individuo di ricorrere per Cassazione ogniqualvolta vi sia un provvedimento che leda la sua libertà personale. L’art. 111 Cost. dice che è sempre ammesso il ricorso per Cassazione, senza parlare dell’appello. In tutta la Costituzione, infatti, non c’è traccia dell’appello. Questo potrebbe portare alla soppressione dell’appello o comunque a una riduzione sensibile dello stesso. Il vantaggio si avvertirebbe sulla durata ragionevole del processo, ma, al contempo, lo svantaggio sarebbe il “mutilamento del sistema” perché tutto si scaricherebbe sulla Corte di Cassazione, che sarebbe spinta a sentenze di merito, che non dovrebbe invece emettere. La Corte di Strasburgo ha affermato che un sistema sarebbe compatibile con la CEDU anche se non prevedesse l’appello, purché garantisse sempre il diritto a una verifica di legittimità di una sentenza, cioè purché ci sia uno strumento equipollente al nostro ricorso per Cassazione. 1° ottobre 2019 L’art. 111 Cost. parla di terzietà e imparzialità del giudice: queste due caratteristiche del giudice presuppongono altre garanzie, le quali sono costituite dall’indipendenza del giudice. Quindi, parliamo di indipendenza del giudice se ci riferiamo all’organo e parliamo di indipendenza della magistratura se ci riferiamo alla magistratura nel suo complesso. Vediamo i vari profili che caratterizzano la garanzia di indipendenza. ART. 101 COST. L’art. 101 Cost. afferma che «la giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge» Con questa espressione si realizza il primo livello di indipendenza del giudice. Ogni giudice è soggetto soltanto alla legge, quindi ogni giudice (che sia civile, penale o amministrativo) è soggetto soltanto alla legge. Si ravvisa, qui, la tendenziale ritrosia del nostro sistema ad accogliere la tecnica del precedente giudiziale. In altri sistemi, al contrario, capita che le decisioni dei giudici siano soggette anche alle decisioni degli altri giudici: nei sistemi di common law, infatti, una sentenza costituisce un precedente per le successive decisioni. Innanzitutto, il giudice è soggetto soltanto alla legge e, solo in un secondo momento, può tener conto della decisione di un altro giudice. Questo è un problema che si pone a livello di procedura civile e, soprattutto, di procedura penale. Nella procedura penale, infatti, avviene spesso che i giudici cambino le loro opinioni: di qui il problema dato dal fatto che ci sono diverse soluzioni interpretative con riferimento agli stessi casi, soprattutto in Corte di Cassazione. Ma come fa la Corte di Cassazione a garantire l’uniformità dei diritti se è lei la prima a disattendere le stesse sue decisioni? In merito a questo fenomeno, il legislatore è intervenuto cercando di risolvere i conflitti tra le sezioni semplici e le sezioni unite armonizzando le decisioni della Cassazione. ART. 104 COST. Sempre con riferimento all’indipendenza, la Costituzione all’art. 104 Cost. tratta sempre dell’indipendenza, ma stavolta con riferimento non al singolo organo, ma alla magistratura nel suo complesso. Il primo comma di questo articolo sancisce, infatti, che «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere». Si fa qui riferimento all’indipendenza dai poteri diversi da quello giudiziario, quindi da quello legislativo e quello esecutivo. Naturalmente, perché la magistratura possa essere indipendente nei confronti degli altri poteri, è necessario che ci sia un organo che vigila sulla sua attività: questo è il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM). Si tratta di un organo di cuscinetto, perché funge appunto da cuscinetto tra la magistratura e gli altri poteri: questo ruolo di cuscinetto lo svolge soprattutto con riferimento al potere disciplinare di cui è dotato nei confronti dei magistrati. C’è il c.d. autogoverno della magistratura, perché la magistratura si autogoverna e questo lo fa soprattutto attraverso l’autonomia nell’applicazione delle sanzioni disciplinari. Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 15 potere trovi la sua compiuta legittimazione occorre proteggere chi ancora questa compiuta legittimazione del potere punitivo non l’ha subita. Fino a una condanna definitiva il potere punitivo non ha la sua compiuta legittimazione perché, in questo lasso di tempo, si annida il rischio dell’errore giudiziario. Quindi, prima che il processo termini, occorre tutelare chi questo processo lo sta subendo. Il principio di non colpevolezza si pone come principio che tutela l’individuo rispetto al potere punitivo statutale. Non è rilevante parlare di innocenza o non colpevolezza, perché le espressioni mutano a seconda del contesto culturale di riferimento: se parliamo con un collega americano parlerà sempre di innocenza; nella CEDU in inglese e francese si parla sempre di innocenza. Il nostro legislatore, invece, parla di non colpevolezza. A differenza del passato, la distinzione è esclusivamente lessicale e non ha delle ricadute sul piano applicativo. La presunzione di non colpevolezza (o di innocenza) presenta due risvolti processuali. Essa viene intesa come: a) regola di trattamento: intesa in tal senso sancisce il divieto di trattare l’imputato alla stregua di un colpevole durante il processo. Da questo divieto scaturisce una conseguenza sul piano sanzionatorio, cioè il divieto di utilizzare strumentalmente la custodia cautelare (restrizione della libertà personale durante il processo) come una pena anticipata. Questo perché altrimenti le restrizioni alla libertà personali durante il processo si tradurrebbero nell’applicazione di una pena a chi ancora non è stato condannato; b) regola di giudizio: intesa in questo senso, invece, significa che nel dubbio va sempre privilegiata la soluzione completamente liberatoria nei confronti dell’imputato, cioè in dubio pro reo. Ritorniamo alla regola di trattamento. Ma quando sorge il pericolo durante il processo? Sicuramente quando il giudice decide di applicare la custodia cautelare: è qui che bisogna verificare se c’è un rispetto della regola di trattamento o meno. Si potrebbe obiettare che: proprio perché esiste la custodia cautelare automaticamente viene violata la presunzione di non colpevolezza. A primo impatto potrebbe sembrare così, ma in realtà le cose sono diverse. Infatti, non è possibile non prevedere un sistema cautelare in un processo: per cui bisogna far sì che la custodia cautelare possa conciliarsi con la presunzione di non colpevolezza. Per fare questo, occorre che la custodia cautelare si fondi e che sia finalizzata a soddisfare esigenze strumentali al processo e non alla pena, cioè che gli obiettivi della custodia cautelare siano strumentali alle esigenze processuali e non alle istanze sostanziali punitive di applicazione della pena. Bisogna, quindi fare in modo che la custodia cautelare non funga da pena anticipata. Per far si che questo obiettivo venga raggiunto, il sistema prevede tre obiettivi cautelari: 1) pericolo di inquinamento della prova: questo soddisfa istanze di tipo processuale ed è compatibile con la presunzione; 2) pericolo di fuga: anche questo soddisfa istanze di tipo processuale e, quindi, è compatibile con la presunzione; 3) pericolo di reiterazione del delitto: è possibile adottare la custodia cautelare quando vi è il pericolo che il soggetto, se lasciato libero, possa commettere ulteriori delitti della stessa specie o altri delitti tassativamente indicati dalla norma. Come si colloca questa norma rispetto alle precedenti? In tal caso, partiamo dalla premessa che in questo caso vi è una doppia presunzione: - l’imputato è considerato presunto colpevole per il reato commesso; - l’imputato è anche considerato presunto colpevole per il possibile reato futuro. Qui entra in gioco l’esigenza di prevenzione speciale, in quanto si utilizza il processo penale in chiave di prevenzione speciale. Quindi, la custodia cautelare sembrerebbe strumentale a un’anticipazione di pena perché si fonda su una doppia presunzione: sembra violare due volte quello che è il principio di non colpevolezza. Quindi, questo obiettivo resta costituzionalmente eccepibile, sospetto alla luce della presunzione di non colpevolezza. Secondo il professore questa finalità cautelare andrebbe, addirittura, eliminata dal sistema in quanto incompatibile con l’art. 27. Cost. Se si segue questa teoria, cioè si afferma che questo obiettivo cautelare è compatibile con la presunzione di non colpevolezza, allora si sta ammettendo che il processo penale italiano svolge anche una profilassi di tipo criminale, volto a impedire delitti futuri. La regola di trattamento ha una ricaduta anche al di fuori del processo, perché se consiste nel divieto di trattare l’imputato come colpevole durante il processo, occorre anche evitare che al di fuori del processo si consolidino trattamento colpevolisti. Quindi, sotto questo profilo, il divieto di trattare l’imputato come colpevole durante il processo dovrebbe tradursi anche nel divieto di far apparire l’imputato come colpevole. Nei sistemi moderni esiste, infatti, il c.d. paradosso mediatico: balza spesso agli occhi che nella prima parte del procedimento c’è un focus con riguardo all’imputato; all’inizio c’è una forte attenzione dei media sull’imputato e poi, man mano che il procedimento prosegue, questa attenzione tende a annebbiarsi. Al termine del processo, infine, accade spesso Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 16 che all’assoluzione venga prestata meno attenzione rispetto a quella prestata nei confronti delle prime battute. Questo comporta, di conseguenza, un anticipato giudizio di colpevolezza. Ecco che la presunzione di colpevolezza svolge una funzione importante non solo all’interno del processo, ma anche all’esterno. Questo è un risultato a cui è approdata da tempo la corte di Strasburgo, la quale sostiene che i giudici degli stati membri devono sempre utilizzare un linguaggio tecnicamente sorvegliato, cioè che non dia una visione di colpevolezza dell’imputato. Lo stesso deve essere osservato ai media, i quali devono rimanere all’interno dei limiti al diritto di cronaca giudiziaria. C’è un articolo (114 c.p.p.) che cerca di realizzare un compromesso tra la presunzione di non colpevolezza e il divieto di cronaca giudiziaria. C’è un aspetto da analizzare e sintetizzare: qual è il termine di durata della presunzione di non colpevolezza? Leggendo l’art. 27 Cost. la risposta è: la presunzione dura fino alla condanna definitiva. Logicamente noi associamo la condanna definiva al giudicato. Se così è, l’imputato non può essere considerato colpevole fino al giudicato. Quindi, nessuna pena può essere anticipata prima della formazione del giudicato, cioè prima che il processo sia giunto al suo definitivo epilogo. Da tempo, però, nel nostro sistema c’è l’aspirazione ad anticipare le pene o i trattamenti sanzionatori prima del giudicato. Questa tesi si scontra, però, su dati tecnici: chi sostiene questa tesi afferma che, vista l’urgenza di anticipare la pena, è necessario interpretare alla luce di questa esigenza il concetto di condanna definitiva presente nella Costituzione, e questo nel senso che tale espressione non allude al giudicato, bensì alla prima condanna nei confronti dell’imputato (sentenza di primo grado: prima occasione in cui i giudici penali hanno adottato una sentenza nei confronti dell’imputato). Una contro obiezione può però essere la seguente: la nostra Costituzione prevede il ricorso per Cassazione. Quindi, il concetto di condanna definitiva non può non essere interpretato anche alla luce dell’art. 111 Cost. che prevede, per l’appunto, il ricorso per Cassazione. Contro i provvedimenti dei giudici, infatti, è sempre previsto il ricorso per Cassazione. Quindi, per essere considerata definitiva, una condanna deve essere passata prima per questo ricorso. Intesa come regola di giudizio, la presunzione ci dice come va risolto in processo il problema del fatto incerto. Mentre nel processo civile c’è una equivalenza e uguaglianza di posizione tra le parti (per cui la regola di giudizio si fonda su una primaria esigenza di giustizia distributiva), nel processo penale le cose stanno diversamente, perché la regola di giudizio non mira a soddisfare l’esigenza di equità bensì una più importante e incisiva istanza di libertà. C’è, quindi, un interesse che il processo penale considera primario rispetto ad altri e questo è cristallizzato nella presunzione di non colpevolezza. Le regole di giudizio nel processo penale devono rappresentare un precipitato tecnico della presunzione di non colpevolezza e l’immediato precipitato tecnico della presunzione è il principio in dubio pro reo. Esiste, infatti, una disposizione nel codice di procedura penale che cristallizza tale principio (art. 530 c.p.p.), perché stabilisce che l’imputato va assolto quando manca la prova a carico, quando le prove sono contraddittorie oppure insufficienti. In tal modo, questa norma non sta facendo altro che cristallizzare il principio in dubio pro reo. Nel nostro sistema, come possiamo vedere, non esiste oggi il proscioglimento per insufficienza di prove. Siccome, però, il principio in dubio pro reo non è soddisfacente e si è reso necessario un passaggio ulteriore per garantire più efficacemente la presunzione. Nel 2006, infatti, è stata introdotta un’altra regola di giudizio che va a rafforzare la presunzione di non colpevolezza: si tratta del principio di non colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Questo principio, al quale fanno da sempre riferimento i sistemi anglosassoni, è codificato anche nostro sistema all’art. 533 c.p.p. In sintesi, abbiamo quindi due regole rafforzative della presunzione di non colpevolezza: a) l’art. 530 c.p.p. sull’in dubio pro reo, il quale ci dice che cosa è sufficiente per assolvere; b) l’art. 533 c.p.p., il quale ci dice che cosa è necessario per condannare. Quindi, l’art. 530 ci dice che in presenza di un ragionevole dubbio è possibile assolvere l’imputato; se si vuole procedere alla condanna dello stesso, invece, occorre un passo ulteriore: bisogna poter dichiarare che l’imputato è colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. È nella sentenza di Cogne che la Cassazione ha precisato cosa intende per colpevolezza ad di là di ogni ragionevole dubbio, disponendo che essa possa dirsi realizzata quando il dato probatorio acquisito lascia fuori solo eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili, ma la cui realizzazione della fattispecie concreta non trova il benché minimo riscontro nelle emergenze processuali. Nel caso di specie la Corte dice che è impossibile che qualcun altro potesse essersi introdotto nell’abitazione e aver ucciso il bambino, per cui l’unica ipotesi plausibile era quella per cui fosse stata l’imputata (madre del bambino) ad averlo ucciso. All’opposto nel caso di omicidio della studentessa inglese, avvenuto a Perugia, gli imputati sono stati assolti perché non è stata raggiunta la prova di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio: la Corte non ha detto che sono innocenti, ma ha detto che, alla luce delle prove portate, non possono essere giudicati colpevoli. Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 17 2 ottobre 2019 ART. 24 COST.: Diritto di difesa Questo principio costituzionale è disciplinato dall’art. 24 Cost., il quale esordisce che «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi». Questa dichiarazione riguarda in genere giurisdizioni diverse dalla nostra, ma in parte riguarda anche il processo penale e questo nella misura in cui ci sia qualcuno che intende rivendicare un diritto (agire in giudizio). Questo soggetto, che può diventare parte nel processo penale, è la parte civile o, meglio, il danneggiato del reato quando decida di costituirsi parte civile. Egli sfrutta la giurisdizione penale per soddisfare istanze privatistiche, istanze che potrebbe soddisfare davanti al giudice naturale (civile), ma che per vari motivi intende esercitare nell’ambito del processo penale. I sistemi di common law spesso non conoscono la parte civile, tant’è che può esserci anche un contrasto tra giudicati. Se svolgiamo trovare l’aggancio costituzionale della pretesa civilistica nel processo penale, questa è la disposizione da osservare. L’art. 24 procede poi affermando che «la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento». Notiamo, innanzitutto, che qui si parla di inviolabilità quale valore tendenziale a cui bisogna aspirare, ma che non si può realizzare compiutamente, altrimenti dovremmo concludere che nel processo penale non possano esistere eccezionali limiti al diritto di difesa. Poi si parla di difesa in ogni stato e grado del procedimento, espressione con cui si evoca sia la progressione orizzontale, sia quella verticale. Quindi, nei vari segmenti in cui si snoda il processo penale, la difesa va considerata inviolabile. La risultante di questo ragionamento è che il diritto di difesa va garantito anche nella fase delle indagini e quindi nella fase investigativa: non solo come reazione all’iniziativa del P.M. (indagine pubblica), ma si articola anche come iniziativa autonoma del difensore. La locuzione indagine- difensiva, infatti, si riferisce alla garanzia del diritto di difesa durante le indagini. Come può essere interpretata questa garanzia della difesa nel processo penale? Nel processo penale, questa garanzia della difesa può essere interpretata in due modi: a) come garanzia individuale: si tratta di una prospettiva squisitamente individualistica perché focalizza l’attenzione sulle esigenze del singolo, cioè di chi agisce difendendosi nel processo come imputato o indagato; b) come garanzia della giurisdizione: questo concetto, invece, fotografa un’esigenza di garanzia e di legittimità dell’intera giurisdizione penale, nel senso che riconoscere un’efficace difesa significa non solo tutelare il singolo, ma anche legittimare, all’interno e all’esterno, la giurisdizione penale. Vediamo un paio di esempi: - pensiamo alla difesa d’ufficio: si tratta di un difensore nominato dall’autorità quando l’imputato/indagato non è assistito e non c’è nessuna analisi individuale del soggetto. Lo stato ha interesse a che venga a realizzarsi una difesa effettiva, ma il difensore è pagato dal cliente; - pensiamo al gratuito patrocinio: in questo caso, il difensore è pagato dallo stato, in quanto in capo allo stato sussiste un interesse a che venga fornita una efficace difesa tecnica a un soggetto che per motivi reddituali non riuscirebbe ad accedervi. In entrambi i casi, lo stato si preoccupa così di tutelare il diritto di difesa di quel soggetto. Come si assicura il diritto alla difesa nel corso dello svolgimento del processo penale? Il diritto di difesa penale, nel corso del procedimento, assume questi connotati: • diritto di conoscere il contenuto dell’accusa e le successive modificazioni della stessa (l’accusa, infatti, può cambiare perché nel corso del processo si può passare da un certo reato a un altro); • diritto di difendersi ricercando, cioè il diritto di difendersi indagando e facendo indagini (indagini difensive); • diritto di difendersi provando, cioè allegando e introducendo prove nel processo; • diritto di ottenere una corretta valutazione delle prove allegate: questo diritto viene soddisfatto nella decisione da parte di un giudice superiore. Per verificare se questo diritto è stato rispettato, l’imputato ha a disposizione la motivazione della sentenza. COLLEGAMENTO con l’art. 192 c.p.p. (regole di valutazione della prova) e art. 546 c.p.p. (requisiti della sentenza, tra cui quello della motivazione della sentenza penale): queste regole trovano la loro legittimazione in quella particolare protezione del diritto alla difesa che consiste nel diritto di ottenere una corretta valutazione delle prove allegate. Esistono, per l’appunto, regole nel codice che devono servire al giudice per procedere a una corretta valutazione della prova; • diritto di difendersi negoziando. Il problema è che nel processo penale moderno esiste la giustizia negoziata (es. patteggiamento), ma ci sono anche altre forme di accordi tra imputato e P.M. che possono portare a modifiche; Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 20 ipotesi restrittive (detenzione, ispezione, perquisizione). Si può, quindi, evincere che una simile restrizione ricorra quando è annullata ogni libertà di movimento, così come è parimenti scontato che in tale nozione rientrino l’ispezione e la perquisizione personali, che sono forme di compressione della libertà consistenti, rispettivamente, nel prender visione coattivamente di parti del corpo nascoste alla vista e nel ricercare coattivamente cose indosso a una persona. Che dire invece dei casi in cui la libertà di movimento non sia completamente eliminata, ma risulti circoscritta a determinati ambiti territoriali? Vietare a qualcuno di recarsi in un luogo o costringerlo a restarci significa limitare la sua libertà personale oppure restringere la sua libertà di circolazione? Il dubbio presenta importanti implicazioni concrete, poiché diverse sono le regole costituzionali, a seconda che si abbia riguardo alla libertà personale (art. 13 Cost.) o alla libertà di circolazione (art. 16 Cost.), presidiata soltanto da una riserva di legge rinforzata, ma non alla riserva di giurisdizione e dall’obbligo di motivazione del provvedimento restrittivo. È lo stesso art. 16 Cost. a offrire un criterio per distinguere gli ambiti di applicabilità delle due previsioni: esso individua il proprio facendo riferimento alle limitazioni della libertà di circolazione stabilite dalla legge in via generale (es. divieto di accesso a una zona interessata da un’alluvione imposto dal Sindaco del Comune). Se ne desume, pertanto, che quando il divieto di accesso a un luogo, o l’obbligo di residenza, riguardi esclusivamente una persona determinata e non una generalità indefinita di individui, allora a venire in rilievo non è la libertà di circolazione bensì la libertà personale dell’individuo, con tutto ciò che ne consegue. ART. 14 COST.: La libertà di domicilio Nell’impianto della Costituzione la libertà di domicilio è legata strettamente alla libertà della persona: essa, infatti, è regolata nella disposizione successiva che ne detta una disciplina quasi identica. L’art. 14 Cost., infatti, esordisce con l’enunciazione di inviolabilità e prosegue fissando, per gli atti che comprimono il bene protetto, un rinvio alle garanzie prescritte per la tutela della libertà personale. Questo si spiega in quanto il domicilio è considerato una “proiezione spaziale della persona” e in esso l’ordinamento non tutela la proprietà, il possesso o la detenzione, bensì l’individuo e la sua relazione con un ambiente nel quale può esplicare la sua personalità. Da questa ratio possiamo trarre alcuni corollari: la libertà del domicilio viene compressa non solo quando si penetra fisicamente all’interno dello spazio protetto (es. ispezioni, perquisizioni), ma anche quando un frammento della vita che lì si svolge viene carpito dall’esterno (es. intercettazioni ambientali o riprese visive). Proprio perché l’art. 14 Cost. ricalca quasi perfettamente l’art. 13 Cost., per gran parte dei problemi interpretativi che esso pone si può rinviare all’analisi appena svolta. Bisogna affrontare una questione specifica: l’art. 13 Cost. adopera un’espressione volutamente generica, che assoggetta alle garanzie ivi previste «qualsiasi altra restrizione della liberta personale»; non così l’art. 14 Cost., che prevede soltanto ispezioni, perquisizioni e sequestri. Combinando questo dato con la previsione sull’inviolabilità del domicilio, la dottrina aveva per lo più concluso nel senso che l’elenco fosse tassativo e che ogni atto di limitazione diverso da quelli espressamente nominati fosse proibito. Il problema è esploso tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo, quando l’evoluzione della tecnologia ha portato apparecchi di videoregistrazione sufficientemente piccoli e versatili da permettere agli organi di indagine di filmare di nascoso l’interno delle mura di casa; sennonché, le riprese visive non compaiono tra le limitazioni alla libertà domiciliare previste dall’art. 14 Cost. A questo punto, investita della questione, la Corte Costituzionale non ha accolto l’interpretazione restrittiva di cui abbiamo appena detto e ha, al contrario, ritenuto che il riferimento alle ispezioni, perquisizioni e sequestri non è espressivo dell’intento di tipizzare le limitazioni permesse, escludendo al contrario quelle non espressamente contemplate. ART. 15 COST.: Libertà e segretezza delle comunicazioni Questa libertà completa il trittico dei diritti inviolabili. L’art. 15 Cost. esordisce anch’esso con la proclamazione di inviolabilità e subordina anch’esso la limitazione del bene protetto alla duplice garanzia della riserva di legge e della riserva di giurisdizione. Anche sul piano dei valori, così come la libertà di domicilio rappresenta un’espansione spaziale della persona, così la libertà di comunicare ne costituisce una “proiezione spirituale”. L’art. 15, però, esibisce anche una vistosa differenza: diversamente dagli articoli precedenti, non consente alla polizia alcun margine di intervento autonomo, nemmeno per casi urgenti, potendo questa libertà essere compressa soltanto a seguito di un atto motivato dell’autorità giudiziaria. La scelta del costituente non è immotivata e le ragioni che hanno spinto per questa decisione sono le seguenti: - gli atti che limitano la libertà della persona o quella del domicilio spesso toccano un unico soggetto, mentre quando si controlla una comunicazione le persone coinvolte sono come minimo due. Si fa quindi sentire l’esigenza di proteggere i diritti dei terzi; Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 21 - ispezioni e perquisizioni sono atti palesi, nel senso che l’interessato può esserne a conoscenza sin dal momento in cui vengono compiuti. Al contrario, le intercettazioni devono, per evidenti ragioni, essere eseguite all’insaputa del destinatario. Quindi, quando un atto di indagine viene eseguito alla luce del solo, l’interessato può esercitare un controllo contestuale al compimento dell’atto stesso e questo rappresenta una forte garanzia. Siccome questa garanzia, nelle intercettazioni foniche, manca, il costituente ha avvertito l’esigenza di dettare una disciplina più rigorosa. L’art. 15 Cost. protegge soltanto le comunicazioni riservate, cioè svolte con modalità tali da essere in linea di principio sottratte alla conoscenza dei terzi (es. telefonate, lettere spedite in busta chiusa, colloqui vis-à-vis). Un caso su cui si è discusso molto riguarda i dati “esteriori” dei messaggi (es. l’utenza da cui proviene la telefonata, il numero contattato, il luogo e l’ora della conversazione): queste informazioni costituiscono una categoria intermedia tra le notizie pubbliche e quelle riservate. Se gli organi di indagine volessero acquisirle, dovrebbero rispettare i limiti di cui all’art. 15 Cost.? La Corte Costituzionale ha risposto positivamente stabilendo che la stretta attinenza della libertà e della segretezza della comunicazione al nucleo essenziali dei valori della personalità comporta un particolare vincolo interpretativo, diretto a conferire a quella libertà un significato espansivo. IL CODICE DI PROCEDURA PENALE - PARTE STATICA 1 I SOGGETTI Ai soggetti è dedicato il libro di apertura del codice di procedura penale e molteplici sono le chiavi di lettura per comprendere quanto contenuto in questo libro. Emblematica è la scelta sottesa all’art. 1, rubricato giurisdizione penale: questa previsione segna la presa di distanza dal codice previgente, il cui primo articolo riguardava la disciplina dell’azione penale obbligatoria. Il nuovo codice, invece, intende esaltare la centralità della giurisdizione e abbandonare la concezione inquisitoria del processo espressa nella preminenza dall’accusa e nella convinzione che l’unica finalità del processo penale sia l’effettività dell’apparato punitivo, assicurata attraverso l’obbligatorietà dell’azione. Parimenti significative sono le disposizioni riguardanti l’azione penale (art. 50 c.p.p.) e le funzioni della polizia giudiziaria (art. 55 c.p.p.), poiché sia l’una che l’altra testimoniano e rimandano ai nuovi assetti sistematici. Innovative, poi, le norme (artt. 90 ss.) che ampliano il novero dei privati legittimati a interloquire nel procedimento penale, ricomprendendovi la persona offesa, gli enti e le associazioni rappresentativi di interessi resi dal reato. Nel complesso, la disciplina dei soggetti riguarda protagonisti e comprimari del dramma che si inscena davanti a un giudice per stabilire se una persona vada punita oppure no ed ha il merito di raccogliere in un unico corpus le regole riguardanti ciascuno di loro. Anche tale scelta, però, non è senza significato. La ricomprensione in un unico libro di regole concernenti soggetti diversi quanto a ruolo, fisionomia istituzionale ed estrazione professionale ha il senso “politico” di superare l’impronta gerarchica di regole e istituti della giustizia penale. Nel nuovo codice, infatti, privati e autorità si muovono, o almeno dovrebbero muoversi, su un piano paritario e tutti i soggetti condividono con pari dignità la responsabilità della conduzione del procedimento. IL GIUDICE Premessa politico-istituzionale Implicita nell’idea di processo è la figura del giudice, in quanto l’esplicazione del metodo dialettico esige la presenza di un organo terzo e imparziale, senza il quale non sarebbe realizzabile lo schema caratteristico del contraddittorio; al contempo, il rispetto del contraddittorio nelle sue differenti declinazioni rappresenta un percorso obbligato per il giudice, perché la sua sentenza spiega effetti relativamente immutabili sulla vita dell’imputato. Giudicare se punire o no una persona è funzione sovrana in quanto tale storicamente condizionata dalle diverse forme che la sovranità assume nei diversi ordinamenti. Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 22 Semplificando, può dirsi che la concezione del giudice quale organi distinto dal titolare del potere sovrano si realizza in epoca moderna, dando forma a due diverse tipologie di giudice: § nei sistemi dell’Europa continentale prende piede l’organizzazione burocratica degli uffici giudiziari: il giudice appartiene all’apparato statale e viene selezionato secondo procedure burocratico- amministrative, sulla base della sua qualificazione tecnico-giuridica; § nei sistemi di common law la figura del giudice è bicefala: - da un lato, c’è un organo a composizione laica (la giuria) che pronuncia un verdetto immotivato di colpevolezza o non colpevolezza dell’imputato; - dall’altro lato, c’è un giudice professionale reclutato per la sua abilità tecnico-giuridica che dirige lo svolgimento del giudizio, presiede l’attività di assunzione delle prove e risolve le questioni di diritto che eventualmente possano porsi. Prima di affrontare la disamina delle norme che il codice di procedura penale dedica alla figura del giudice, occorre essere consapevoli del fatto che esse si riferiscono a un giudice funzionario, selezionato per concorso, cui la legge demanda la decisione in ordine ai profili sia di fatto che di diritto che la Costituzione garantisce con la massima indipendenza nei confronti del potere esecutivo e delle giurisdizioni superiori. I giudici penali La parola giudice è una qualifica normativa, che trova riscontro nel testo costituzionale, i cui contenuti sono stabiliti dalle norme di ordinamento giudiziario, la cui osservanza viene talvolta in rilievo quale condizione della stessa validità dell’atto processuale. Il giudice esercita la funzione giurisdizionale, il cui schema triadico implica l’esistenza di un organo terzo e imparziale dianzi al quale interloquiscono due parti dialetticamente contrapposte, in funzione dell’emissione di un provvedimento – la sentenza – il cui tratto caratteristico è la sua attitudine a passare in giudicato, vale a dire a divenire situazione giuridica tendenzialmente immodificabile. L’esercizio delle funzioni giurisdizionali penali presuppone la qualifica di magistrato, che si consegue per concorso ed è formalizzata in un decreto ministeriale. L’assegnazione all’ufficio compete al CSM. I giudici cui si riferisce il codice sono: o il Tribunale, che può pronunciarsi in composizione collegiale o monocratica; o la Corte d’assise, che è un collegio a composizione mista, formato da sei cittadini comuni e due magistrati. Le sentenze pronunciate dal Tribunale e dalla Corte d’assise sono suscettibili d’impugnazione e i corrispondenti giudici di secondo grado sono la Corte d’appello e la corte d’assise d’appello. A Roma ha sede la Corte di Cassazione, supremo organo giurisdizionale del Paese, cui sono destinati i ricorsi avverso le sentenze di primo grado inappellabili, oppure impugnate direttamente in Cassazione. La competenza: profili generali La necessità di suddividere il lavoro giudiziario tra i molteplici giudici penali presenti nel nostro ordinamento, da un lato, e il diritto di ciascuno a non essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.), dall’altro, impongono la previsione di regole sulla cui base individuare il giudice tenuto a pronunciarsi su una specifica vicenda. Alla soddisfazione di tali istanze risponde la disciplina della competenza, attraverso cui il legislatore fissa criteri sulla cui base determinare quale sia l’organo giurisdizione tenuto, per legge, ad esercitare la funzione giurisdizione relativamente a un fatto concreto. Non è corretto, come sostengono alcuni, definire la competenza come la misura della giurisdizione; meglio dire che, in attuazione della regola di cui all’art. 25 Cost., la legge predetermina attraverso una molteplicità di criteri quale sia il giudice tenuto a pronunciarsi su un certo fatto concreto. Nondimeno, ciascun magistrato è titolare in toto del potere giurisdizionale e può pronunciare sentenza in relazione a qualsiasi fatto, anche se non rientrante nella sua competenza. Tuttavia, quando si pronunci un giudice incompetente il sistema prevede una serie di rimedi per ovviare a una simile inosservanza. Se ne ricava che i giudici incompetenti a giudicare un certo fatto siano stati tenuti ad esimersi dal pronunciarsi in merito ad esso. Le regole sulla competenza svolgono anche un’importante funzione pratica, quella di suddividere il lavoro giudiziario tra i diversi giudici in maniera razionale ed equa; esse rappresentano, pertanto, un fondamentale criterio organizzativo, volto ad assicurare l’efficienza delle istituzioni giudiziarie. Sono due i criteri tradizionali attraverso i quali si ripartisce la competenza dei giudici, entrambi i quali fanno inevitabile riferimento all’oggetto del processo, cioè al fatto in ordine al quale il giudice è chiamato a pronunciarsi. Nello specifico: Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 25 o il criterio generale per individuare la competenza per materia determinata dalla connessione è la preferenza per il giudice superiore. Pertanto, se i fatti connessi rientrano alcuni nella competenza per materia del Tribunale e altri in quella della Corte d’assise, il giudice competente per connessione è la Corte d’assise (art. 15 c.p.p.); o quando i diversi reati sono attribuiti allo stesso giudice competente per materia, collocato presso sedi territoriali diverse, la competenza spetta al giudice territorialmente competente per il reato più grave o a quello competente per il reato commesso per primo in caso di pari gravità di reati connessi (art. 16 c.p.p.). Nell’ipotesi di connessione di cui alla lettera a), se le azioni o le omissioni sono state commesse in luoghi diversi e dal fatto è derivata la morte di una persona, il giudice territorialmente competente è quello del luogo in cui si è verificato l’evento. La connessione cumula in capo allo stesso ufficio la competenza dei diversi reati connessi, ma non comporta la celebrazione simultanea dei diversi procedimenti davanti allo stesso ufficio giudicante, che ha luogo solo quando risultino i presupposti della riunione (art. 17 c.p.p.). Durante le indagini preliminari, invece, è il P.M. a scegliere se procedere separatamente oppure svolgere indagini contestuali relativamente ai distinti procedimenti connessi. Conflitti di giurisdizione La disciplina dei conflitti di giurisdizione e di competenza serve ad assicurare effettiva applicazione alle previsioni sulla cui base il legislatore procede, da un alto, al riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudici speciali e, dall’altro, alla distribuzione della competenza tra i diversi giudici penali. Si tratta di rimedi destinati a garantire che nessuno venga distolto dal proprio giudice naturale precostituito per legge. Allo stesso tempo, però, serve a prevenire la moltiplicazione di attività giurisdizionale in relazione al medesimo procedimento, della cui cognizione deve essere investito un unico giudice, ovvero serve a contrastare l’inerzia del giudice. Il conflitto di giurisdizione e quello di competenza insorgono quando il giudice ordinario e altro giudice speciale o più giudici ordinari affermino o neghino la propria giurisdizione oppure la propria competenza. Il conflitto è positivo, nel caso in cui i diversi giudici si riconoscono aventi giurisdizione o competenza, mentre è negativo nel caso in cui ciascuno si ritenga deficitario dell’una o dell’altra e su tali basi intenda spogliarsi del procedimento. Se nessuno dei giudici in conflitto propizia la cessazione di esso mediante declaratoria conforme all’affermazione di competenza o incompetenza dell’altro giudice, l’organo deputato a risolvere l’impasse è la Corte di Cassazione, alla quale la questione viene rimessa dal giudice che rileva la sussistenza del conflitto con ordinanza. Il conflitto può anche essere denunciato dal P.M. presso uno dei giudici in conflitto o da altra parte privata. La Corte di Cassazione, assunte le informazioni e acquisiti gli atti e documenti necessari, decide con sentenza in esito al procedimento in camera di consiglio; tale pronuncia è vincolante nel corso del processo, a meno che non emergano nuove risultanze da cui discenda una modifica della qualificazione giuridica del fatto oggetto del procedimento. Dopo la pronuncia della Corte di Cassazione restano efficace le prove già acquisite dal giudice poi dichiarato incompetente, ma sono utilizzabili sono in udienza preliminare o ai fini delle contestazioni di cui agli artt. 500 e 503 c.p.p. La figura del giudice La norma di apertura del c.p.p. (ART. 1 C.P.P.) si riferisce genericamente alla giurisdizione penale. Nello specifico afferma che «la giurisdizione penale è esercitata dai giudici previsti dalle leggi di ordinamento giudiziario secondo le norme di questo codice». Da questa disposizione ricaviamo che le regole sulla giurisdizione fanno riferimento all’ordinamento giudiziario e poi alle disposizioni del c.p.p. Quando si parla di giudici ci si riferisce a diversi organi che operano nelle fasi del procedimento penale. Abbiamo: o il giudice per le indagini preliminari, introdotto nel 1999 (c.d. G.I.P.): il legislatore lo ha chiamato in questo modo (e non giudice delle indagini preliminari), perché non ha voluto creare un giudice ad hoc esteso a tutte le indagini preliminari, ma ha preferito configurare questo giudice come un giudice ad acta: questo significa che il giudice non gestisce le indagini preliminari, ma interviene solo per fornire risposte alle parti con riferimento ad atti tassativamente previsti (gestisce gli atti). Si tratta quindi di un giudice dei singoli atti (per le indagini preliminari e non delle indagini preliminari). Il G.I.P., infatti, interviene solo quando le parti gli chiedono qualcosa. Esempio: abbiamo detto che l’organo competente ad adottare misure cautelari è il giudice, e in particolare il gip; quindi quello che accade è che il pubblico ministero chiede al gip la misura cautelare e il gip la dispone, ma la richiesta spetta appunto al postulante. Altro esempio è quello relativo all’incidente probatorio, la cui competenza è del gip, ma il gip non può disporlo d’ufficio bensì solo previa richiesta del Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 26 soggetto interessato (che può essere il difensore o il pubblico ministero). Quindi vediamo che giudice ad acta significa che il giudice per le indagini preliminari non gestisce il procedimento e le indagini, ma gli atti compiuti in quelle indagini e può agire solo nei casi previsti tassativamente dalla legge. Il legislatore del 1999 ha creato questa figura perché non ha voluto che si ripetesse la brutta esperienza del vecchio giudice istruttore, che era il giudice che costruiva l’istruttoria, impadronendosi di questa fase, che poi pesava sul dibattimento; quindi questo comportava che il giudice istruttore si impadroniva di tutta la fase istruttoria, gestendola per intero, e poi questo pesava in modo decisivo sul dibattimento. Una soluzione di questo tipo, invece, oggi non potrebbe più essere accolta perché violerebbe il principio costituzionale del contraddittorio nella formazione della prova e il terreno elettivo del contraddittorio nella formazione della prova è il dibattimento; quindi dopo l’introduzione dell’art. 111 Cost. una cosa del genere non sarebbe più possibile. Quindi il G.I.P. interviene solo quando le parti lo autorizzano a intervenire; pertanto, anche laddove vi sia necessità di una certa misura cautelare, il G.I.P. comunque non può disporla se il pubblico ministero non gliela richiede. Si tratta, pertanto, di una figura molto importante ma alla quale non è attribuita alcuna egemonia. Il giudice per le indagini preliminari è un organo monocratico, cioè è costituito da un’unica persona fisica; esiste presso il tribunale ordinario e anche presso il tribunale dei minori. o il tribunale nelle sue due versioni di tribunale in composizione collegiale e tribunale in composizione monocratica. La linea di demarcazione è la seguente: al di sotto dei 10 anni di reclusione siamo nell’ambito di competenza del tribunale in composizione monocratica, mentre al di sopra di tale soglia siamo nell’ambito della competenza del tribunale in composizione collegiale. Questa distinzione è molto importante nel processo penale, perché la collegialità in una materia come quella penale è fonte di garanzia. Se si è giudicati da tre persone si può sicuramente contare su un minor arbitrio. Al contrario, però, la monocraticità garantisce la velocità. Quando si distingue la diversa composizione del tribunale penale non si usa, di solito, l’espressione “competenza” bensì si usa l’espressione “attribuzione”. Questo perché la competenza è l’unità di misura della giurisdizione di un organo e l’attribuzione a seconda che sia monocratico o collegiale; o il tribunale dei minorenni, che si occupa dei casi in cui l’imputato sia u minorenne; o la Corte d’appello e la sezione per i minorenni presso la Corte d’appello; o la Corte d’Assise, che giudica in merito a quei reati considerati di particolare gravità. Si tratta dell’unico residuo della giuria popolare, in quanto ci sono 6 giudici togati e 2 giudici scelti tra i cittadini. In secondo grado, poi, c’è la Corte d’Assise d’appello; o la Corte di Cassazione, divisa in sezioni; o il magistrato di sorveglianza, il quale è un giudice monocratico che si occupa di decidere sulle istanze che emergono in fase di esecuzione della pena (permessi premio, permessi per svolgere un’attività lavorativa, ecc.); o il giudice di pace. Chiarito questo punto, analizziamo una regola molto importante del c.p.p., nello specifico all’ART. 2 C.P.P.: si parla di cognizione del giudice penale. Questo articolo sancisce che «il giudice penale risolve ogni questione da cui dipende la decisione, salvo che sia diversamente stabilito». Questa regola esprime il c.d. principio di autosufficienza della giurisdizione penale: significa che il giudice penale è legittimato a risolvere tutte le questioni che emergono e si affacciano sulla scena del processo e che gli servono per decidere. Queste questioni possono essere questioni di natura civile, di natura penale, ma anche di natura amministrativa. Per decidere, ad esempio, se sussistono gli estremi per il reato di furto si deve anzitutto accertare la proprietà o l’altruità della cosa mobile oggetto di furto. In caso di appropriazione indebita, ancora, si dovrà accertare il presupposto, cioè il possesso. Per verificare ancora se sussista un reato edilizio, il giudice dovrà verificare il presupposto amministrativo, cioè se c’era una concessione, se c’è stato uno spostamento rispetto ai limiti della concessione edilizia, ecc. Da questi esempi si può, quindi, comprendere che cosa si intenda per autosufficienza: il giudice non ha bisogno di nessun altro per risolvere il problema; non deve aspettare che un altro giudice (competente per quel profilo) decida per lui, perché egli ha urgenza di decidere subito: questo è il principio dell’autosufficienza della giurisdizione penale e che esprime la priorità del processo penale rispetto a tutti gli altri processi. Qual è il risultato della decisione incidentale del giudice penale che risolve quella questione emergente? La risposta si trova al secondo comma dell’art. 2 c.p.p.: «la decisione del giudice penale che risolve incidentalmente una questione civile, amministrativa o penale non ha efficacia vincolante in nessun altro processo». Cosa significa? Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 27 Significa che su quello stesso diritto di proprietà il giudice civile potrebbe decidere in modo diverso e contrastante rispetto alla decisione del giudice; ma se le due decisioni contrastanti vanno entrambe a giudicato, come si risolve la questione? Con un mezzo di impugnazione straordinaria, cioè la revisione. Esiste però un’eccezione. Rileggiamo il primo comma dell’art. 2 c.p.p. «il giudice penale risolve ogni questione da cui dipende la decisione, salvo che sia diversamente stabilito»: fino alla parola decisione siamo nell’ambito della regola, mentre dopo comprare l’eccezione. Cosa vuol dire «salvo che sia diversamente stabilito»? C’è un rinvio, in quanto questa espressione rinvia all’articolo successivo, cioè l’ART. 3 C.P.P. (questioni pregiudiziali). Le questioni pregiudiziali presenti nel c.p.p. rappresentano, quindi, un’eccezione alla regola del principio dell’autosufficienza della giurisdizione penale. Per questione pregiudiziale si intende una questione che deve essere risolta al fine di adottare la sentenza penale: il legislatore vuole, quindi, individuare delle materie specifiche, la cui soluzione è necessaria ai fini della soluzione, ma che richiedono una disciplina diversa rispetto a quella prevista dal principio di autosufficienza della giurisdizione penale. Il giudice penale ha quindi bisogno che un altro giudice intervenga per lui. Siccome, però, l’intervento dell’altro giudice comporta un allungamento dei tempi del processo, il legislatore ha ristretto le eccezioni alle sole questioni di stato di famiglia e di cittadinanza. Esempio: il reato di maltrattamenti in famiglia richiede come presupposto l’esistenza dello stato di famiglia. Per risolvere questa questione il giudice ha bisogno dell’intervento di un altro giudice, in quanto siamo nell’ambito di operatività delle eccezioni. Dispone nello specifico l’art. 3 c.p.p. che «quando la decisione dipende dalla risoluzione di una controversia sullo stato di famiglia o di cittadinanza, il giudice, se la questione è seria e se l’azione a norma delle leggi civili è già in corso, può sospendere il processo fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce la questione». Quindi, affinché il giudice penale possa sospendere il processo fino al passato in giudicato della sentenza civile che definisce la questione, si richiedono una serie di requisiti: - la questione deve essere seria, cioè deve avere un fondamento; - la questione civile deve essere in itinere, cioè deve essere incardinato in un procedimento non penale su quel fatto. Questa sospensione del procedimento penale non paralizza completamente l’attività del giudice penale, ma lascia spazio, all’interno del procedimento, per il compimento di atti urgenti. Cosa significa atti urgenti? In primis ci si riferisce all’incidente probatorio, che si attiva nel caso in cui la prova è a rischio. Concentriamoci, ora, sull’espressione «può sospendere il processo». Questo vuol dire, innanzitutto, che il giudice penale gode di un margine di discrezionalità: il giudice dovrebbe sospendere il processo, ma non vi è obbligato. Il legislatore non ha imposto la sospensione al giudice perché la sospensione va contro il principio della ragionevole durata del processo; ecco anche perché è comunque prevista la possibilità di compiere atti urgenti. Supponiamo che il giudice non sospenda il processo. Qui, quale problema si pone? Si potrebbe verificare un conflitto di giudicati e in quel caso lo strumento sarebbe sempre quello della revisione. Soffermiamoci sul quarto comma dell’art. 3 c.p.p.: «la sentenza irrevocabile del giudice civile che ha deciso una questione sullo stato di famiglia o di cittadinanza ha efficacia di giudicato nel procedimento penale». Questo è uno dei pochissimi casi in cui il giudice penale dipende da latri giudici e in cui la decisione penale dipende da decisioni non penali. Infatti, vi è in genere la primazia della decisione penale sulle altre decisioni. Questa disposizione significa che se il giudice civile, con sentenza irrevocabile (passata in giudicato), conclama che quello stato di famiglia esiste (quindi l’imputato è legato alla persona a cui non ha dato assistenza da un vincolo familiare), il giudice penale deve concludere per la sussistenza del reato, perché quel presupposto e quella pregiudizialità che era necessaria per la decisione penale è stata decisa con sentenza irrevocabile dal giudice civile. 7 ottobre 2019 Tutela fornita dal codice alla imparzialità del giudice Dobbiamo ora vedere come il codice (legge ordinaria) provvede a salvaguardare l’imparzialità del giudice. Con riferimento all’imparzialità del giudice dobbiamo distinguere: a- imparzialità come organo giudicante considerato nel suo complesso: in questo caso ci riferiamo alla tutela di un collegio, il che si traduce anche nella tutela di una sede dove il collegio esercita le sue funzioni; b- imparzialità come persona fisica: ci riferiamo il singolo giudice. Fatta questa premessa ci accorgiamo che anche il codice tende ad operare questa differenza e quindi prevedere diversi istituti e diverse forme di tutela dell’imparzialità del giudice in un senso o nell’altro. Il codice prevede, quindi, diversi istituti; vediamoli: • rimessione del processo (artt. 45 ss.) mira a tutelare l’imparzialità del giudice come organo; Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 30 b. se l’imputato non la presenta personalmente, perché questa istanza sia ammissibile è necessaria la presenza di un procuratore speciale. Quest’ultima svolge la funzione di rendere edotta chi la (la procura) rende dell’importanza dell’atto. Infatti, la procura speciale, fa sì che l’imputato sia responsabilizzato, cioè, si renda conto dell’atto che sta compiendo. Si tratta, in particolare, della procura speciale ad acta (procura posta per compiere un determinato atto). Dopo aver presentato la richiesta, che deve contenere i motivi che si riallacciano ai presupposti visti precedentemente, a decidere è la Corte di Cassazione, alla quale vanno trasmessi gli atti. In Corte di Cassazione c’è una sezione particolare (VII sezione), che si chiama sezione-filtro: essa ha un potere di scrematura anticipata dei ricorsi. In questo caso, la sezione-filtro non è chiamata a decidere sulla fondatezza dell’istanza di rimessione, ma deve decidere se quell’istanza di rimessione presenta quei requisiti formali richiamati poc’anzi (se presentata da un soggetto legittimato; procura speciale; se vi sia la firma del soggetto legittimato o se vi sia la procura speciale; se sia stata presentata al di fuori dello spazio in cui può essere presentata, cioè al di fuori di “in ogni stato e grado del processo di merito”). L’importanza della sezione-filtro si evince quando si deve comprendere in merito alla disciplina degli effetti della richiesta di rimessione. L’ART. 47 C.P.P. è un articolo molto importante, ma un po’ “disordinato”. L’approccio corretto deve, infatti, sfruttare la chiave di lettura della sezione-filtro. Questa richiesta che effetti produce? 1. un primo effetto è la sospensione del processo, la quale è facoltativa. Quando si verifica questa richiesta, il giudice al quale la stessa è presentata, può sospendere il processo. Questo è previsto nel primo comma dell’art. 47 c.p.p. Il giudice può sospendere il processo fino a che non interviene la pronuncia da parte della sezione-filtro; 2. c’è poi un divieto assoluto di sospensione (secondo comma, ultimo periodo dell’art. 47 c.p.p.), quindi un divieto di sospendere quando la richiesta di sospensione non è fondata su elementi nuovi rispetto a quelli allegati a sostegno di una precedente rimessione. Si tratta di una sorta di deterrente: il legislatore vuole, infatti, evitare che la rimessione venga utilizzata come strumento ostruzionistico; 3. un altro effetto è quello della sospensione obbligatoria (prima parte del secondo comma dell’art. 47 c.p.p.): si tratta di un’ipotesi molto importante perché il giudice, in questo caso, deve sospendere il processo. L’art. 47, infatti, stabilisce che «prima dello svolgimento delle conclusioni e della discussione non possono essere pronunciati il decreto che dispone il giudizio o la sentenza, quando ha avuto notizia dalla Corte di Cassazione che la richiesta di rimessione è stata assegnata alle sezioni unite ovvero a sezione diversa dalla sezione filtro». Esempio: il giudice di Venezia deve sospendere il processo quando ha avuto notizia che a Roma la richiesta di rimessione è passata dalla sezione filtro ad un’altra sezione. Bisogna agganciare la sospensione obbligatoria ex secondo comma dell’art. 47 ai presupposti della rimessione ex art. 45 c.p.p. Questa regola è stata introdotta perché non si vuole che quel processo raggiunga l’epilogo della sentenza o il decreto che dispone il giudizio, se ci si trova prima dello svolgimento delle conclusioni e della discussione. Considerando che la rimessione può essere chiesta “in ogni stato e grado del processo”, prendiamo atto che l’udienza preliminare è parte processo, in quanto presuppone l’imputazione. A questo punto, dato che ci può essere la possibilità di sospendere il processo in udienza preliminare, è giusto il riferimento al “decreto che dispone il giudizio” e alla “sentenza, perché essi si hanno rispettivamente alla fine dell’udienza preliminare e dopo l’udienza preliminare (= la sentenza rappresenta l’epilogo del processo). Il legislatore non vuole assolutamente che un giudice, inteso come organo, sospettato di non essere imparziale possa pronunciare una sentenza. Che ne è della prescrizione? La rimessione era finalizzata a sospendere il processo e a far decorrere su un altro binario la prescrizione (che, invece, continuava ad andare avanti). Il legislatore ha introdotto il legittimo sospetto, ma ha anche affermato che durante la sospensione del processo sussiste la sospensione dei termini prescrizionali. L’istanza di rimessione è indipendente alla possibilità di far decorrere i termini di prescrizione. Quando si verifica questa sospensione il giudice non è completamente paralizzato: se c’è la sospensione obbligatoria, il giudice non può adottare determinati provvedimenti, ossia la sentenza o il decreto di citazione in giudizio, ma non impedisce altro. Infatti, il giudice può compiere legittimamente compiere atti urgenti (art. 47 c.p.p.), ossia, atti a rischio dispersione (es. incidente probatorio: può sorgere l’esigenza di sentire un testimone, perché può rendersi irreperibile; in questo caso, anche se il processo è sospeso, il giudice può comunque attivarsi). La Cassazione decide in camera di consiglio con ordinanza, che viene comunicata al giudice che procede. Se l’ordinanza è di accoglimento il processo si sposta nella sede designata dalla legge. Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 31 Che ne è degli atti processuali compiuti davanti al giudice originario? Dobbiamo considerare l’esigenza di conservare tali atti. Questi atti vanno ripetuti? Dobbiamo considerare l’ART. 48 C.P.P. (decisione). Il giudice, designato dalla Corte di Cassazione, deve rinnovare gli atti precedentemente compiuti, a due condizioni: 1. quando vi sia l’istanza di parte; 2. quando sia possibile ripetere l’atto. Esempio: se l’atto consisteva in una testimonianza e il testimone si era reso irreperibile, come facciamo a riesaminarlo nella nuova sede? rimarrà valida la testimonianza resa nella prima sede. Secondo quanto stabilito, poi, dall’ART. 49 C.P.P. è possibile procedere a una nuova richiesta di rimessione. Nello specifico: a. se l’istanza di rimessione precedente è stata rigettata per manifesta infondatezza (cioè la Cassazione non ha ravvisato i presupposti dell’art. 45 c.p.p.), essa può essere ripresentata, purché fondata su elementi nuovi; b. se, invece, la precedente istanza di rimessione è stata rigettata perché la sezione filtro l’aveva stimata inammissibile, essa può essere ripresentata anche sulla base degli stessi elementi originari, perché, in questo caso, non c’è stata una sezione della Corte di Cassazione che ne ha valutato la fondatezza, ma essa è stata semplicemente respinta a causa della mancata presenza dei requisiti formali. Il legislatore, di recente, ha previsto che, se l’istanza di rimessione è stata rigettata per questioni relative alla sua fondatezza, chi la presentata può essere condannato ad una somma piuttosto elevata (art. 48 c.p.p.). L’obiettivo è scoraggiare la presentazione di istanze di rimessione. 8 ottobre 2019 Consideriamo il giudice come PERSONA FISICA. Per tutelare questo tipo di imparzialità il legislatore ha previsto tre strumenti fondamentali: a. l’incompatibilità endoprocessuale del giudice, cioè un’incompatibilità che riguarda il rapporto del giudice con un dato processo (sfera interna); b. l’astensione; c. la ricusazione. ① L’incompatibilità Il meccanismo dell’incompatibilità è piuttosto delicato perché comporta l’esclusione di un giudice da un determinato processo e la sua sostituzione con un altro giudice. Siccome ci stiamo occupando dell’imparzialità del giudice come persona fisica, quando c’è un’incompatibilità di questo giudice bisogna sostituirlo con un altro giudice che svolge le stesse funzioni e che si trova sullo stesso livello. L’incompatibilità è disciplinata dagli ARTT. 34 SS. C.P.P. Abbiamo tre grandi categorie di incompatibilità: • l’incompatibilità che nasce dal pregresso esercizio del giudice di determinate funzioni (terzo comma dell’art. 34 c.p.p.): l’aver esercitato in precedenza determinate funzione impedisce al giudice di proseguire la sua attività in quel processo. Il legislatore teme che il giudice non sia imparziale e, allora, interviene a priori. Il messaggio che vuole lanciare il legislatore è l’esigenza processuale di separazione dei ruoli. Si inserisce nell’ideologia di un processo penale accusatorio in cui si valorizza la separazione dei ruoli; • l’incompatibilità derivante da rapporti di parentela (art. 35 c.p.p.): «nello stesso procedimento non possono esercitare funzioni, anche separate o diverse, giudici che sono tra loro coniugi, parenti o affini fino al secondo grado». Qui ci troviamo di fronte a un meccanismo che opera all’interno di un medesimo procedimento, il che significa che ci troviamo di fronte a giudici che hanno operato in diverse fasi dello stesso procedimento. Esempio: se Tizio ha svolto una funzione in ambito cautelare ed è parente di un altro giudice che svolge una funzione nel dibattimento, allora il giudice che viene dopo sarà incompatibile. Di conseguenza, dovrà essere sostituito; • l’incompatibilità legata alla pregressa adozione da parte del giudice di determinati provvedimenti (art. 34 c.p.p.): l’espressione “determinati provvedimenti” è la chiave di lettura per comprendere la ratio di questo meccanismo e il senso e il motivo per cui la Corte Costituzionale ha avvertito l’esigenza di intervenire. Questa incompatibilità nasce a causa dell’adozione da parte del giudice dello stesso procedimento di particolari provvedimenti. Questa norma va studiata, innanzitutto, pensando al dato Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 32 normativo presente nel codice (art. 34 escluso l’ultimo comma) ed è stata anche bersaglio di una serie di pronunce della Corte Costituzionale, per effetto delle quali l’area operativa della norma risulta più ampia di quella che appare guardando l’art. 34 c.p.p. Le sentenze della Corte Costituzionale, nelle quali essa esordisce con l’espressione «nella parte in cui non prevede» costituiscono esse stesse una norma, in quanto possono essere classificate come sentenze costituzionali additive. Il contenuto di queste sentenze, quindi, ha lo stesso valore di quello che troviamo all’interno dell’art. 34 c.p.p. Bisogna a questo punto distinguere tra: - l’incompatibilità che riguarda la progressione verticale del processo (cioè progressione per gradi): il giudice che ha pronunciato o a concorso a pronunciare la sentenza in un grado del procedimento: a. non può partecipare (esercitare funzioni di giudice) negli altri gradi; b. non può partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento da parte della Corte di Cassazione (la Corte di Cassazione, infatti, può decidere di rinviare con rinvio o senza rinvio); c. non può partecipare al giudizio di revisione (impugnazione straordinaria). Il messaggio che lancia il legislatore è che l’incompatibilità resiste e persiste anche dopo il giudicato; - l’incompatibilità che riguarda la progressione orizzontale del processo (cioè progressione per fasi): non può partecipare al giudizio: a. il giudice che ha adottato la decisione finale in sede di udienza preliminare; b. il giudice che ha deciso sulla richiesta di giudizio immediato; c. il giudice che ha adottato il decreto penale di condanna; d. il giudice che ha deciso sull’impugnazione relativa alla sentenza di non luogo a procedere. Esempio: il G.U.P. (giudice dell’udienza preliminare) di Treviso ha deciso di adottare il decreto di citazione a giudizio (si andrà, quindi, a giudizio e l’imputato sarà sottoposto a dibattimento); questo G.U.P., Mario Rossi, non potrà partecipare, in quanto persona fisica, al dibattimento, cioè non potrà essere giudice monocratico del dibattimento; se, invece, il giudice è di tipo collegiale, Mario Rossi non potrà far parte di quel collegio. Questo è importante anche in chiave strategica: il difensore può far valere tale incompatibilità, se ne ricorrono gli estremi. Tale strumento può essere per l’appunto utilizzato anche con scopo para- ostruzionistico. Un ulteriore importante disposizione è il comma 2-bis dell’art. 34: il G.I.P. non può svolgere funzioni di G.U.P. Originariamente questa esigenza non era avvertita, dopo sì: l’esigenza sta nel separare le funzioni del G.I.P. dalle funzioni del G.U.P. nello stesso procedimento, ossia chi ha utilizzato le funzioni di giudice per le indagini preliminari (nello stesso procedimento) non può svolgere le funzioni di giudice dell’udienza preliminare. Sia il G.I.P. che il G.U.P. sono organi monocratici nel procedimento ordinario; in quello minorile, il G.U.P., invece, è di tipo collegiale. Nel caso in cui si tratti di organi monocratici il problema è più delicato: questo vuol dire che in un tribunale, Tizio che ha svolto le funzioni di G.I.P., non può presiedere l’udienza preliminare; e, di conseguenza, non potrà nemmeno essere il giudice del giudizio abbreviato. Questo comporta una serie di problemi nei tribunali, soprattutto in quelli di piccole dimensioni. Questa regola presenta alcune eccezioni: 1. comma 2-ter: l’incompatibilità del G.I.P. o del G.U.P. non opera in alcuni casi, ad esempio quando il G.I.P. ha adottato provvedimenti relativi a permessi di colloquio, oppure a trattamenti sanitari. Questo perché non si tratta di provvedimenti che incidono sul giudizio di assoluzione o colpevolezza (quindi sull’alternativa innocenza-colpevolezza dell’imputato), bensì di provvedimenti che riguardano l’organizzazione del processo. Quindi, non hanno ripercussioni sulle sorti del procedimento; 2. comma 2-quater: il profilo dell’incompatibilità G.I.P.-G.U.P. assume un connotato particolare quando si ha a che fare con il meccanismo dell’incidente probatorio. Quindi, il legislatore ci dice che quando il G.I.P. ha presieduto l’incidente probatorio (si anticipa una prova che altrimenti rischierebbe di andare dispersa), allora non scatta l’incompatibilità con l’udienza preliminare (G.U.P.). In questo caso, quindi, se il giudice Tizio presso il tribunale di Treviso ha presieduto l’incidente probatorio perché l’avvocato gli ha chiesto di anticipare una testimonianza, quello stesso G.I.P. può assumere, poi, le funzioni di G.U.P. in quello stesso Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 35 L’inimicizia esiste sempre tra le parti e il giudice, perché il giudice non può accontentare tutte le parti. Il processo penale, dal più semplice al più complesso, è intriso di schermagli e dialettica tra il giudice e le parti, che inevitabilmente conduce a fenomeni di inimicizia. Posto che il processo penale crea situazioni che possiamo definire come inimicizia, dobbiamo capire cosa intende il legislatore con il termine inimicizia, perché altrimenti ogni singola schermaglia produrrebbe una istanza di ricusazione. La Corte di Cassazione ha detto che si ha inimicizia grave e dunque può sostenere un’istanza di ricusazione a condizione che trovi la sua fonte in situazioni esterne al processo. Quindi, che vi siano elementi sintomatici, dimostrativi di un contrasto maturato all’esterno del processo. Esempio: supponiamo il caso che ci siano delle prove di precedenti litigi al di fuori del processo tra il giudice e l’imputato: questa situazione è considerata dalla Corte di Cassazione come una situazione di inimicizia. Quando viene presentata l’istanza di ricusazione, il problema che bisogna porsi sul piano operativo è il seguente: che cosa può/deve/non deve fare il giudice? Quando il giudice è colpito da un’istanza di ricusazione ci troviamo di fronte a un giudice sospettato di non essere parziale e, quindi, su cui pende una sorta di ipoteca di non imparzialità. Bisogna comunque distinguere il momento in cui viene presentata l’istanza di ricusazione e il momento in cui si decide sull’istanza stessa. Il legislatore si preoccupa di rispondere a questa domanda: che cosa succede in questo lasso di tempo? Il legislatore stabilisce, come nella rimessione, che il giudice non possa pronunciare (in caso di giudice monocratico) o concorrere (in caso di giudice collegiale) a pronunciare sentenza. Si tratta di limiti che riguardano il giudice colpito da un’istanza di ricusazione. Quando può essere pronunciata l’istanza di ricusazione? L’istanza di ricusazione può essere pronunciata: a) se siamo nell’udienza preliminare, fino al momento in cui avviene la costituzione delle parti; b) se siamo in giudizio, il termine è quello che riguarda le discussioni. L’art. 419 c.p.p., infatti, allude al fatto che, prima dell’apertura del dibattimento, ci sono delle questioni preliminari che possono essere sollevate e, tra queste, c’è anche la ricusazione del giudice; c) in tutti gli altri casi, la ricusazione va presentata prima del compimento dell’atto da parte del giudice. Altro aspetto importante: posto che l’astensione e la ricusazione poggiano su una piattaforma di presupposti comune, può accadere che ci sia un concorso di astensione e ricusazione. Questo si può verificare, ad esempio, nel caso in cui il giudice si astenga, ma nel frattempo venga colpito da una decisione che accerta l’esistenza di un’ipotesi di ricusazione. Gli organi competenti a decidere sulla ricusazione sono: o in caso di ricusazione di un giudice del tribunale, della corte di Assise e della corte di Assise d’appello, la decisione della corte d’appello; o in caso di ricusazione di un giudice della corte d’appello, la decisione spetta sempre alla corte d’appello, ma a una sezione diversa rispetto a quella a cui appartiene il giudice colpito dall’istanza di ricusazione; o in caso di ricusazione di un giudice della Corte di Cassazione, la decisione spetta alla Corte di Cassazione, ma a una sezione diversa rispetto a quella a cui appartiene il giudice colpito dall’istanza di ricusazione. Per evitare che la ricusazione diventi un’arma ciclica, è previsto che i giudici che decidono in merito alla ricusazione non possano essere a loro volta ricusati. Cosa succede se l’istanza di ricusazione viene accolta? In tal caso, il giudice non può più compiere alcun atto nel procedimento; la decisione in materia di ricusazione, poi, chiarisce quali atti precedentemente compiuti dal giudice ricusato conservano efficacia. Il giudice, infine, va sostituito. IL PUBBLICO MINISTERO Una disposizione importante è l’ART. 50 C.P.P., il quale individua le caratteristiche dell’azione penale. Abbiamo visto che il P.M. è il portatore della pretesa punitiva statuale e il principale dovere che egli ha è il dovere di esercitare l’azione penale. Ebbene, il primo comma dell’art. 50 traduce, a livello di legge ordinaria, l’art. 112 Cost. e fissa le coordinate di questa azione. Se analizziamo questo articolo, notiamo che stabilisce che «il pubblico ministero esercita l’azione penale quando non sussistono i presupposti per la richiesta di archiviazione»: l’espressione “esercita l’azione penale” può essere tradotta come “il P.M. ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” quando non sussistono i presupposti per l’archiviazione. Il P.M. non ha modo di sfuggire a questa alternativa: o archivia o deve agire esercitando l’azione penale. Quindi, se il PM non chiede l’archiviazione, ha l’obbligo di esercitare l’azione penale. Il secondo comma dell’art. 50 sancisce, poi, il principio della ufficialità dell’azione penale e stabilisce che l’azione penale, di regola, è esercitata d’ufficio. Il secondo comma dell’art. 50 c.p.p. stabilisce che questo accade «quando non è necessaria la querela». La regola è, quindi, quella della ufficialità dell’azione penale, e questo si ha Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 36 quando il P.M., per agire, non ha bisogno della sollecitazione di altri soggetti. Ci sono, però, alcuni casi in cui P.M., per agire, ha bisogno della sollecitazione di altri soggetti: si pensi ai reati a querela di parte. È entrata in vigore la legge definita “codice rosso”, tesa a rafforzare la vittima del reato nel processo. Si stanno creando in questo modo delle vittime particolari, al punto di distinguere le vittime ordinarie dalle vittime di genere. Il problema, però, è che si potrebbero creare delle vittime più protette di altre. Infatti, è giusto tutelare le vittime di genere, ma c’è però il rischio di violare il principio di uguaglianza. Per certe tipologie di vittime si vuole cambiare il reato, da reato perseguibile a querela di parte, a reato perseguibile d’ufficio. Questo perché c’è quella che i criminologhi chiamano la “cifra oscura”, ossia reati che sì sussistono, ma non vengono denunciati. Il rovescio della medaglia di questo problema è il seguente: il rischio è che i P.M. si trovino dinnanzi ad un carico di lavoro eccessivo (se sono loro a dover perseguire tali reati d’ufficio) e si verrebbero a creare anche in questo caso dei reati di serie A e dei reati di serie B. L’autorizzazione a procedere è stata sostituita con una sostituzione ad acta: oggi il P.M. può procedere nei confronti del parlamentare, ma non può compiere determinati atti senza il consenso della camera a cui il soggetto appartiene. Il terzo comma dell’art. 50 stabilisce il principio dell’irretrattabilità dell’azione penale. Per comprendere bene questo principio, dobbiamo partire da una regola che gestisce tutto il processo penale. Questa regola comporta che una volta esercitata l’azione penale, questa azione, di regola non può mai essere interrotta. Gli unici casi in cui può essere interrotta sono quelli tassativamente previsti dalla legge. Quindi, una volta partita l’azione, questa non può essere interrotta e non si può tornare indietro: quindi, se viene esercitata l’azione penale il processo approderà inevitabilmente a una sentenza. Questa regola è presente perché, nel processo penale, una volta esercitata l’azione penale da parte del P.M., la palla passa al giudice, il quale viene investito del potere decisorio e l’epilogo non può che essere la sentenza. I casi in cui l’azione penale può essere interrotta devono essere tassativamente previsti dalla legge. Abbiamo già incontrato un caso: le questioni pregiudiziali. Gli epiloghi dell’udienza preliminare sono o la sentenza di non luogo a procedere oppure il decreto (si va al dibattimento e poi alla sentenza). E se poi il PM continua ad esercitare l’azione penale impugnando, si andrà al ricorso in appello e al ricorso per Cassazione. C’è quindi una coerenza del sistema. La distribuzione dei procedimenti tra i diversi uffici del P.M. Gli uffici del P.M. sono distribuiti presso i diversi giudici del nostro ordinamento: le funzioni del P.M. sono così esercitate: § nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado, dai magistrati della Procura della Repubblica presso il Tribunale; § nei giudizi di impugnazione, dia magistrati della Procura generale presso la Corte d’appello o presso la Corte di Cassazione; § presso i giudici militari e minorili sono istituiti i relativi uffici di accusa. Il P.M. mutua la propria legittimazione all’espletamento delle indagini preliminari e delle altre funzioni d’accusa dalla competenza del giudice presso il quale è istituito; in altri termini, la distribuzione degli affari penali tra i diversi giudici sulla base della disciplina della competenza è il criterio sulla cui base è ripartita tra i diversi uffici del P.M. di primo grado la titolarità del potere-dovere di svolgere l’attività investigativa prodromica all’eventuale esercizio dell’azione penale. Tuttavia, la ripartizione dei procedimenti tra i vari uffici del P.M. è semplificata rispetto a quanto avviene per il giudice, perché un unico ufficio – la Procura della Repubblica presso il Tribunale – svolge funzioni d’accusa per i reati che competono al Giudice di pace, al Tribunale e alla Corte d’assise. Di conseguenza, le indagini saranno suddivise tra le procure in senso per così dire “orizzontale, secondo le regole sulla competenza per territorio e per connessione. Invece, per il procedimento di primo grado, l’ufficio dell’accusa è sempre la Procura della Repubblica presso il Tribunale, salvi i casi in cui vengano in considerazione reati devoluti al Tribunale per i minorenni o a quello militare. Quindi, non è necessario prendere in considerazione le regole sulla distribuzione verticale (per materia). In caso di avocazione, le funzioni di P.M. sono esercitate da un magistrato della Procura generale presso la Corte d’appello (art. 51 c.p.p.). Le specifiche peculiarità di alcuni fenomeni delittuosi ha indotto il legislatore ad attribuire in taluni casi le funzioni di P.M. nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado all’ufficio della Procura della Repubblica che ha sede presso il Tribunale del luogo dove si trova la Corte d’appello. Con riguardo a fenomeni delittuosi di particolare complessità, infatti, caratterizzati per la loro diffusione in territori ampi e contesti sociali articolati, l’efficienza investigativa dipende anche dalla capacità degli inquirenti di mettere in relazione tra loro diversi fatti di reato posti in essere in differenti luoghi. Inizialmente questa centralizzazione in sede distrettuale riguardava solo i procedimenti di criminalità organizzata di stampo mafioso; successivamente, è stata allargata anche ad Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 37 altre tipologie di reato, come ad esempio ai delitti con finalità di terrorismo, ai cybercrimes, la pedofilia e la pedopornografia. Nell’ambito dell’ufficio della Procura distrettuale, il Procuratore della Repubblica costituisce una Direzione distrettuale Antimafia, per la trattazione dei soli procedimenti relativi ai reati indicati nell’art. 51, comma 3-bis, c.p.p. Al fine, poi, di realizzare un coordinamento dell’attività investigativa è stato istituito, nell’ambito della Procura generale presso la Corte di Cassazione, l’ufficio della Direzione nazionale Antimafia, divenuta successivamente anche antiterrorismo. La disciplina dei contrasti Nella formulazione originaria del codice non era previsto alcun controllo volto ad assicurare che il P.M. che sta svolgendo le indagini sia proprio quello istituito presso il giudice competente a pronunciarsi in ordine ai fatti per i quali si sta procedendo. Si aveva riguardo solo all’esigenza di evitare situazioni di stallo e a tal fine soccorreva la disciplina dei contrasti negativi tra P.M. (art. 54 c.p.p.), che si realizzano quando due distinte procure della Repubblica escludono entrambe la propria legittimazione a svolgere indagini. In questo caso, il compito di dirimere il contrasto spetta alla Procura generale presso la Corte d’appello, o a quella istituita presso la Corte di Cassazione. Su sollecitazione di uno degli uffici in contrasto, dopo aver esaminato gli atti, il Procuratore generale determina quale ufficio debba procedere e ne dà comunicazione sia a quello riconosciuto legittimato anche per i contrasti positivi, consistenti nella duplicazione o moltiplicazione di indagini da parte di P.M. appartenenti a diverse procure, in ordine al medesimo fatto ed a carico della stessa persona (art. 54-bis c.p.p.). Nel caso di contrasto positivo o negativo relativo ai reati di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, occorre distinguere tra due situazioni: a. se il contrasto sorge tra diverse direzioni distrettuali, la soluzione di esso spetta sempre alla Procura generale presso la Corte di Cassazione, ma questa deve prima chiedere alla Procura nazionale antimafia e antiterrorismo un parere; b. se il contrasto riguarda una Procura della Repubblica del distretto e la Procura distrettuale, la sua soluzione è affidata alla Procura generale presso la Corte d’appello, che è tenuta ad informare la Procura nazionale del provvedimento adottato. Da ultimo, con l’introduzione dell’art. 54-quater, è stata riconosciuta la facoltà della persona sottoposta alle indagini e della persona offesa dal reato di dare impulso al procedimento incidentale di verifica della legittimazione allo svolgimento delle indagini dell’ufficio del P.M. che sta procedendo. In tali casi, la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa dal reato possono presentare nella segreteria del P.M. procedente una richiesta di trasmissione degli atti a favore di altro P.M. tenuto legittimato. L’ufficio destinatario della richiesta si pronuncia entro 10 giorni e, se l’accoglie, trasmette gli atti alla Procura della Repubblica indicata. Se, invece, non riconosce la legittimazione allo svolgimento delle indagini, la parte che ha presentato la richiesta ha la facoltà di investire della questione il Procuratore generale presso la Corte d’appello o la Corte di Cassazione. In tutti i casi in cui un ufficio del P.M. succede ad altro istituto presso diverso Tribunale in esito alla trasmissione o alla designazione disciplinate negli artt. 54 ss. c.p.p., gli atti di indagine compiuti prima conservano il regime di utilizzabilità consueto. LA POLIZIA GIUDIZIARIA La polizia giudiziaria è l’organo di cui dispone il P.M. ai fini dell’espletamento delle sue prerogative istituzionali; anche l’autorità giurisdizionale può avvalersi della polizia giudiziaria per eseguire provvedimenti ordinatori e ordinanze applicative di misure cautelari personali o reali. La polizia giudiziaria è così qualificata per distinguerla dalla polizia amministrativa o di prevenzione, il cui compito è quello di impedire la commissione di illeciti penali o amministrativi. La polizia giudiziaria, invece, interviene successivamente alla commissione del reato e svolge le funzioni individuate nell’art. 55 c.p.p., vale a dire: a. funzione informativa: prendere notizia di reati, anche di propria iniziativa; b. funzione investigativa: ricercare gli autori; c. funzione assicurativa: assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale. Queste funzioni possono essere esercitate ad iniziativa della stessa polizia giudiziaria, oppure sotto la direzione o su delega del P.M. La diretta disponibilità della polizia giudiziaria da parte dell’autorità giudiziaria sancita nell’art. 109 Cost. serve ad assicurare l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione penale, evitando che l’esecutivo possa in qualche modo condizionare l’accertamento processuale, le cui sorti dipendono essenzialmente proprio Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 40 Nel processo penale esiste una regola fondamentale: tutto ciò che non è vietato è consentito; se, infatti, il legislatore vuole vietare qualcosa lo deve indicare espressamente. Quindi, sulla base di questo principio, leggendo attentamente l’art. 62, l’espressione «le dichiarazioni comunque rese» può essere letta nel seguente modo: tutto ciò che non è dichiarazione, ma che viene avvertito dalla polizia giudiziaria, potrebbe formare oggetto di testimonianza. Pensiamo, ad esempio, al caso che l’ufficiale di polizia giudiziaria veda Tizio e Caio scambiarsi del denaro: questo potrebbe costituire oggetto di testimonianza, in quanto non si tratta di una dichiarazione. Questa limitazione del divieto è stata prevista al fine di pregiudicare lo svolgimento delle indagini. Se volessimo incasellare questa disposizione all’interno di una cornice più vasta, potremmo dire che questa norma si colloca all’interno dell’area della c.d. testimonianza indiretta (art. 195 c.p.p.). Il secondo comma dell’art. 62 individua, poi, un’estensione del divieto alle dichiarazioni rese dall’indagato/imputato soggetto a programmi terapeutici, di recupero o di riabilitazione volti a scongiurare il rischio che questi possa porre in essere delitti sessuali a danno di minori. Ci sono, infatti, dei programmi di riabilitazione nei confronti di questi indagati per evitare che possano commettere altri reati di questo tipo. Durante questi programmi di recupero, l’indagato o l’imputato può raccontare delle cose al professionista (allo psicologo): ciò che viene raccontato al professionista, serve solo a quest’ultimo e non può essere utilizzato a fini processuali. Il legislatore ha voluto evitare che le dichiarazioni rese in questi contesti possano formare oggetto di testimonianza. L’ART. 63 C.P.P. si occupa di dichiarazioni indizianti e si tratta di una disposizione usata molto frequentemente e altrettanto delicata, perché, se non utilizzata correttamente, potrebbe pregiudicare gli esiti del processo. Questa disposizione è strutturata su due diverse fattispecie, il che vuol dire che ci sono due situazioni diverse che sottendono garanzie differenti e un regime di utilizzabili-inutilizzabilità differente. Nello specifico: a) c’è, anzitutto, una prospettiva che possiamo definire fisiologica, prevista dal primo comma dell’art. 63 c.p.p., il quale stabilisce che «se davanti all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria una persona non imputata ovvero una persona non sottoposta alle indagini rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l’autorità procedente ne interrompe l’esame, avvertendola che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti e la invita a nominare un difensore. Le precedenti dichiarazioni non possono essere utilizzate control la persona che le ha rese». Quindi, i passaggi quali sono? Esempio: Tizio non è né indagato né imputato, bensì una persona sentita a sommarie informazioni. È stato commesso un reato a Treviso e la polizia giudiziaria sente delle persone che possono raccontare qualcosa di utile ai fini delle indagini (potenziali testimoni). Tizio è, quindi, estraneo al procedimento. Accade che le dichiarazioni di Tizio fanno insorgere degli indizi di reità a suo carico: scatta quindi qualcosa che induce l’autorità a ritenere che in quelle dichiarazioni ci siano degli elementi di reità a cario del dichiarante (dichiarazione autoincriminante). A questo punto bisognerà tutelare Tizio e, per questo, il legislatore prevede l’art. 63. L’autorità deve interrompere l’esame e avvisare Tizio che, a seguito delle sue dichiarazioni, potranno essere svolte delle indagini contro di lui e lo invita a nominare un difensore. Questo vuol dire che si avverte Tizio che, alla luce delle sue dichiarazioni, ci sono fondati motivi per ritenere il suo coinvolgimento nella commissione reato. Se questa garanzia non fosse prevista e l’esame non fosse interrotto, Tizio continuerebbe a rendere dichiarazioni sprovvisto di tutele. Quindi, il messaggio che vuole lanciare l’autorità è quello del mutamento della qualifica: prima viene sentito come testimone e, successivamente, a seguito della notitia criminis derivante da queste dichiarazioni autoincriminanti, viene sentito come indagato. Si pensi al caso di favoreggiamento, piuttosto che quello del concorso di persone nel medesimo reato. Un COLLEGAMENTO sistematico che possiamo fare un questo caso è quello con l’art. 198 c.p.p., il quale, al secondo comma, sostiene che «il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale». Questa è una disposizione di carattere generale che si applica in tutto l’arco del procedimento: vale non solo nella fase processuale, ma anche nella fase procedimentale. Il coordinamento di queste due norme è il seguente: se il testimone sa già in anticipo che una o più sue dichiarazioni, che ancora non ha reso, potrebbero determinare l’insorgere di una notitia criminis (quindi di una sua responsabilità penale), si avvale dell’art. 198. Il secondo comma di questo articolo, quindi, agisce in via preventiva; il primo comma dell’art. 63, invece, agisce a posteriori, in quanto individua una garanzia a beneficio di un soggetto nel momento in cui sta rendendo queste dichiarazioni (ha già detto qualcosa). L’autorità giudiziaria di cui parla l’art. 63 potrebbe essere anche il giudice. Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 41 Che cosa succede quando c’è questo avviso? Succede che scatta la sanzione dell’inutilizzabilità relativa, che colpisce le dichiarazioni rese da quel soggetto prima dell’avviso. Le precedenti dichiarazioni (precedenti all’avviso), in quanto autoincriminanti, non possono essere utilizzate contro colui che le ha rese: questo perché rese prima dell’avviso e prima che sia stato nominato un difensore. A partire dal momento in cui arriva il difensore, lo stesso soggetto inizierà ad essere sentito come indagato e quindi bisognerà prestare attenzione a ciò che verrà dichiarato. Al contrario, queste dichiarazioni potranno essere utilizzate contro altri soggetti. Si pensi, ad esempio, al caso in cui Tizio si autoincrimina, ma le dichiarazioni da lui rese potranno essere utilizzare come notitia criminis nei confronti di altri soggetti. Questa si chiama, per l’appunto, inutilizzabilità relativa: relativa perché la dichiarazione non può essere utilizzata nei confronti di chi l’ha resa ma la si può utilizzare nei confronti di altri; b) Il secondo comma dell’art. 63 c.p.p. individua, poi, la seconda fattispecie e sancisce che «se la persona doveva essere sentita sin dall’inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alla legge, le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate». In questo caso, come vediamo, la persona doveva già essere sentita fin dall’inizio come indagato o imputato. Questa è una norma punitiva nei confronti dell’autorità, la quale doveva sentire quel soggetto come indagato o imputato fin dall’inizio, ma ha fatto finta di niente. Questa norma, quindi, sancisce una garanzia ancora più forte: le dichiarazioni rese da questo soggetto non possono essere utilizzate nei confronti di nessuno. Per chiudere questo discorso, c’è un problema giurisprudenziale che riguarda l’art. 63 c.p.p.: ci si chiede se, nel caso di dichiarazioni indizianti (prima ipotesi), una conversazione captata telefonicamente tra due soggetti da cui emergono indizi di reità possa cadere o meno nel cono d’ombra dell’art. 63. La Corte di Cassazione, per non applicare a questo caso l’art. 63, ha sostenuto l’inapplicabilità dell’art. 63 in quanto le dichiarazioni non sono rese davanti (al cospetto) all’autorità giudiziaria. Potremmo dire che l’art. 63 si arricchisce di questa ulteriore garanzia, traducibile come consapevolezza di trovarsi di fronte all’autorità giudiziaria. L’INTERROGATORIO della persona sottoposta a indagini (artt. 64 e 65 c.p.p.) L’interrogatorio viene percepito, nel nostro sistema, come strumento di difesa; al contrario, nei sistemi tendenzialmente inquisitori l’interrogatorio è visto come uno strumento per ottenere le prove (cioè per provare qualcosa o consentire all’autorità di ricavare delle prove). Se interpretiamo bene l’art. 64 e 65 c.p.p. capiamo il senso di tutte queste regole. ART. 64 C.P.P. L’art. 64 c.p.p. si riferisce alle regole generali per l’interrogatorio, cioè individua una serie di regole che si applicano in tutte le figure di interrogatorio che si trovano nel codice (ad esempio, all’interrogatorio di garanzia effettuato dal PM, all’esito delle indagini, in udienza preliminare). L’interrogatorio, a prescindere dal contesto, è sempre uno strumento di difesa. Il primo comma stabilisce che «la persona sottoposta alle indagini, anche se in stato di custodia cautelare o se detenuta per altre cause, interviene libera nell’interrogatorio (cioè non può essere sottoposto a misure di costrizione fisica), salve le cautele necessarie per prevenire il pericolo di fuga o di violenze». Il secondo comma dell’art. 64 individua un divieto di utilizzare, neppure con il consenso di questo soggetto, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminarsi o alterare la capacità di ricordare e valutare i fatti. C’è, quindi, un divieto assoluto di utilizzare strumenti che possano ledere o influire sulla capacità di ricordare o valutare i fatti, nonostante questi possano aiutare l’autorità. Il nostro sistema va contro tutti metodi che, anche se potrebbero agevolare l’autorità, implicano necessariamente una situazione di debolezza del soggetto. Quindi, ad esempio, non sono ammissibili: la macchina della verità; il siero della verità. Il divieto riguarda tecniche o metodi; nello specifico: - con il termine tecnica si richiama qualcosa di scientifico: ad esempio, è stato dimostrato che il sottoporsi alla macchina della verità determina una variazione del battito cardiaco; - per metodo si intende qualcosa che non è scientifico, ma che potrebbe comportare una pressione: quindi, minacce velate non sono consentite. Queste regole possono essere classificate come garanzie propedeutiche all’interrogatorio, cioè garanzie che devono essere garantite all’indagato prima che inizi l’interrogatorio. Una norma analoga è presente anche nell’art. 188 c.p.p.: mentre nell’art. 64 siamo nell’ambito di un interrogatorio, nel 188 fa si che si applichi lo stesso principio in materia di prove. Prevale, quindi, l’esigenza di civiltà rispetto all’esigenza di ottenere informazioni. Si deve prestare attenzione al fatto che, anche se il soggetto Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 42 dà il suo consenso, non è possibile utilizzare metodi/tecniche idonee a inficiare la sua libertà di autodeterminazione o che possano ledere la sua capacità di ricordare. In aggiunta a queste garanzie propedeutiche ce ne sono altre: si pensi agli avvisi forniti dall’autorità nei confronti di colui che deve essere interrogato, prima che abbia inizio l’interrogatorio (terzo comma). Questi avvisi sono: a. l’autorità deve avvisare il soggetto che le sue dichiarazioni sono utilizzabili contro di lui. L’articolo 64 è da leggere come complemento dell’art. 63, cioè: - se il soggetto si autoincrimina, le dichiarazioni rese prima della barriera auto-incriminatrice non possono essere utilizzate contro di lui. (art. 63); - quando inizia l’interrogatorio, il soggetto viene ascoltato come indagato ed egli sa che le sue dichiarazioni potranno essere utilizzate nei suoi confronti (art. 64); b. l’autorità deve avvertire il soggetto che può avvalersi del diritto al silenzio, eventualità che non impedisce la prosecuzione del procedimento. Questo non può essere inteso come una forma di non collaborazione e, infatti, a fronte del silenzio non sono previste conseguenze negative; c. nel processo penale può accadere che un soggetto possa rendere delle dichiarazioni autoincriminanti, ma può accadere anche che possa rendere delle dichiarazioni contro altri. In altre parole, può rendere delle dichiarazioni su fatti che riguardano sé stesso, ma può rendere anche dichiarazioni che riguardano l’altrui responsabilità. In passato accadeva che un soggetto, dopo aver accusato l’altro, si facesse in seguito scudo avvalendosi del diritto al silenzio in merito a quelle dichiarazioni, impedendo al difensore di controesaminarlo. Il legislatore ha, quindi, introdotto di responsabilizzare chi sceglie volontariamente di accusare l’altro: tu, nel momento in cui vieni interrogato, non puoi accusare altri sottraendoti poi alle domande del difensore di colui che hai accusato. La soluzione adotta a monte, quindi, è questa (art. 64); tra gli avvisi che devono essere formulati all’interrogando ci deve essere un avviso ben preciso: se egli renderà dichiarazioni su fatti che riguardano la responsabilità di altri, assumerà con riferimento a questi fatti, l’ufficio di testimone, a meno che non vi siano particolari situazioni di incompatibilità con tale ufficio di testimone. Un COLLEGAMENTO sistematico può essere fatto con l’art. 197-bis c.p.p. Il legislatore, infatti, nel caso che abbiamo appena visto, si sta riferendo a una particolare figura di testimone (introdotta nel 2001): se a un soggetto viene dato questo avviso specifico, questo soggetto diventerà testimone assistito; esso, contrariamente da un testimone normale, è assistito da un difensore e questo perché egli ha un obbligo di rispondere più ampio rispetto a quello che ha un testimone normale. Esso, infatti, può essere destinatario di domande su fatti altrui, cioè su quelle porzioni di dichiarazione con le quali lui ha accusato altri. Nel caso di testimone assistito, il difensore che ruolo ha? Se leggiamo la lettera c) dell’art. 64 si evince che il difensore dovrà verificare che le domande che vengono fatte riguardino solo i fatti altrui, in quanto il testimone è diventato tale solo con riferimento alle dichiarazioni che riguardano fatti altrui. Ma, è facile o difficile distinguere tra fatto proprio e fatto altrui? Non è sempre facile capire dove finisce il fatto proprio e dove inizia il fatto altrui. Analizziamo ora i presidi sanzionatori che sono previsti con riferimento all’ipotesi in cui questi avvisi risultino omessi. È chiaro che viene responsabilizzata l’autorità, ma se l’autorità non avvisa l’interrogando bisogna capire cosa succede. Le sanzioni sono disciplinate dal comma 3-bis dell’art. 64. Bisogna, però, distinguere gli effetti a seconda di quale avviso risulti omesso: • se è stato omesso l’avviso relativo all’uso della dichiarazione nei confronti di colui che sta per essere interrogato o riguarda il diritto al silenzio, allora la sanzione è quella dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese della persona interrogata; • se viene omesso l’altra tipologia di avviso (di cui alla lettera c), la sanzione prevista è quella per cui le dichiarazioni che riguardano la responsabilità di altri non potranno essere utilizzate nei confronti di questi ultimi e la persona interrogata in ordine a quei fatti non assumerà l’ufficio di testimone assistito. Quale norma costituzionale che abbiamo visto potrebbe essere evocata in questo caso? L’art. 111 Cost. con particolare riferimento al diritto dell’accusato di interrogare o far interrogare colui che lo ha accusato e, inoltre, la disposizione che prevede l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da chi si sottrae all’interrogatorio volontariamente o per libera scelta. ART. 65 C.P.P. Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 45 vero imputato è deceduto? Qual è la ricaduta processuale di questo evento? L’art. 69 stabilisce che, anche in questo caso, il giudice deve sentire il P.M. e il difensore; inoltre, anche qui, il giudice ha l’obbligo di chiudere il procedimento in applicazione dell’art. 129, che, anche in questo caso, consente al giudice di risolvere il problema (vedi primo comma art. 69 c.p.p.). Siccome la morte dell’imputato estingue il reato e non può esserci processo senza reato, la sentenza sarà di rito. Inoltre, l’accertamento della responsabilità presuppone che il reato sia comunque in essere; se esso scompare, allora scompare anche il processo: per questo la sentenza sarà di rito e non di merito. Un COLLEGAMENTO sistematico che possiamo fare con riferimento all’art. 69 c.p.p. è l’art. 649 c.p.p. (ne bis in idem interno). Il legislatore ci dice che, quando c’è la morte dell’imputato, non funziona il principio del ne bis in idem, bensì quello del bis in idem. Il legislatore ha previso questo in modo lungimirante: ha ipotizzato, infatti, la possibilità che si possa riaprire il processo, ipotizzando di conseguenza la possibilità che si verifichi un errore sulla morte dell’imputato. Perché non pensare anche a un epilogo di merito? L’art. 129 viene richiamato, infatti, nella sua interezza e l’art. 129 prevede sia sentenze di rito che sentenze di merito. C’è spazio per una sentenza di merito in questo caso? Pensiamo a un processo reale: si accerta la morte dell’imputato e viene emessa una sentenza di rito. La sentenza non accerta niente. Se ci sono, però, delle prove a sostegno dell’imputato deceduto, ecco che è possibile comunque presentare queste prove in processo a fronte dell’esigenza di ottenere il riconoscimento della piena innocenza dell’imputato, nonostante la sua morte. Infatti, la Corte di Cassazione ha stabilito che il difensore ha diritto, nonostante l’epilogo di rito, di presentare le prove in ordine all’innocenza dell’imputato e riconosce in capo al giudice il potere/dovere di prendere in considerazione queste prove e, ove ritenute fondate, sostituire la sentenza di rito con una sentenza di merito. Il codice adotta metodi differenti, nel senso che con riferimento al P.M. e al giudice, dal punto di vista statico, si limita a norme organizzative; per l’imputato, invece, si dilunga su norme di tutela. Gli accertamenti sulla capacità dell’imputato (artt. 70 ss. c.p.p.). Vediamo, infine, gli accertamenti sulla capacità dell’imputato. Ci sono agganci costituzionali? Si, perché la capacità dell’imputato è una proiezione del diritto di difesa e del diritto all’autodifesa. A questo punto, dobbiamo chiarire cosa si intende per capacità dell’imputato, perché stiamo parlando di capacità processuale dell’imputato, che non ha niente a che vedere con la capacità di intendere e di volere che abbiamo studiato in ambito sostanziale. La capacità processuale dell’imputato è la capacità di partecipare coscientemente e consapevolmente al processo. Ma questo cosa vuol dire? Significa capacità di rendersi conto e avere prontezza e consapevolezza della natura, valore ed effetti degli atti che vengono compiuti nel processo e che toccano la sfera di questo soggetto (imputato). Il riferimento costituzionale è importante perché questa è una grande garanzia. Il processo inquisitorio si disinteressa dell’imputato e quindi anche del modo con cui l’imputato partecipa al processo. Nel nostro codice è il contrario. Qual è il fattore scatenante che può inficiare questa capacità? Il codice lo individua nell’infermità mentale, ma solo quando sia tale da incidere sulla cosciente partecipazione al processo. In questo caso, ai sensi del primo comma dell’ART. 70 C.P.P., se il giudice ha fondato motivo di ritenere che l’imputato, per effetto di questa infermità mentale, non sarebbe in grado di partecipare coscientemente al processo, se non vi è l’esigenza di prosciogliere (cioè se non ci sono i presupposti per il proscioglimento), disporrà una perizia e, quindi, nominerà un medico o un collegio che accerti la sussistenza o meno dell’infermità mentale. Deve trattarsi comunque di una infermità mentale in grado di menomare la capacità di partecipare coscientemente a un processo. Ci deve essere un rapporto causa-effetto eziologico. Infatti, una cosa sulla quale prestare attenzione è la seguente: il legislatore ha alzato l’asticella nel momento in cui stabilisce che solo e esclusivamente nel caso di infermità mentale – e non di altre situazioni particolari che compromettano la psiche del soggetto– si determina una incapacità processuale. Ad esempio, un blackout mentale non necessariamente compromette la partecipazione a un processo. Non bastano situazioni particolari di oscuramento della capacità, bensì ci deve essere proprio una situazione di infermità mentale. Se si fosse mantenuto elastico, il legislatore avrebbe dato uno strumento agli avvocati. Cosa succede durante l’espletamento della perizia? Durante la perizia, ai sensi del secondo comma dell’art. 70, il giudice non rimane completamente bloccato, quindi il processo non cade in una stasi completa; quello che il giudice può fare durante la perizia è anzitutto assumere prove (per esempio tramite incidenti probatori) e, in secondo luogo, deve assumere le prove a discarico prodotte dal difensore in attesa dell’esito della perizia. Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 46 Poi cosa succede se il perito dà risposta positiva? Se il perito dà una risposta positiva (ART. 71 C.P.P.), cioè diagnostica uno stato di infermità mentale che non consente all’imputato di partecipare al processo, ma questo stato è reversibile, allora il giudice, con un’ordinanza, sospende il processo, sempre che non ci siano i presupposti per un proscioglimento o per un non luogo a procedere. Questa sospensione, infatti, non impedisce le c.d. vie di fuga (proscioglimento). Vediamo ora com’è intervenuta la riforma del 2017 e com’è cambiato lo scenario relativo al controllo su questa capacità. Prima di questa riforma, per effetto della sospensione del giudice, il processo entrava in una sorta di limbo e l’imputato non maturava nemmeno la possibilità di uscire dal processo e succedeva che, ogni sei mesi, si facevano delle verifiche in merito a questa incapacità. Questo comportava un fenomeno che veniva definito fenomeno degli eterni giudicati. Nel 2017 è stato introdotto il concetto di incapacità irreversibile: l’ART. 72-BIS tenta di fornire una risposta al problema degli eterni giudicati. Se dagli accertamenti del perito risulta che c’è una situazione di incapacità irreversibile, allora – non c’è più l’infinita protrazione semestrale – questo soggetto ottiene la fuoriuscita dal processo penale ottenendo dal giudice: a. una sentenza di non luogo a procedere, se siamo in udienza preliminare; b. una sentenza di non doversi procedere, se siamo in dibattimento. Di che tipo di sentenza si tratta? Siamo di fronte a una sentenza di rito: infatti, se il perito dovesse commettere una diagnosi sbagliata lo strumento della sentenza di rito permette l’operatività del bis in idem e il processo si potrà riaprire. È opportuno fare un COLLEGAMENTO sistematico tra l’art. 72-bis e l’art. 345 c.p.p. il quale prevede la possibilità di riaprire e ricominciare da capo il procedimento, anche nell’ipotesi che abbiamo appena studiato. È come se ci fosse la mancanza di una condizione di procedibilità. IL DANNEGGIATO: LA PARTE CIVILE Un cenno va fatto anche alla vittima del reato durante il processo penale. Iniziamo ad analizzare il ruolo del danneggiato (parte civile) all’interno del processo. Per comprendere bene questo ruolo, bisogna partire da una premessa: lo stesso fatto storico può presentare una doppia illiceità: a) una illiceità penale; b) una illiceità civile. Questa doppia manifestazione dello stesso fatto storico la troviamo cristallizzata nell’art. 185 c.p., secondo cui ogni reato che cagioni un danno patrimoniale o non patrimoniale obbliga colui che lo ha commesso a risarcire il danno. Chi commettere un reato, infatti, subisce anche delle conseguenze sul piano civilistico (risarcitorie/restitutorie). Per tollerare l’innesto di un’azione civile in una giurisdizione non civile bisogna che ci sia questo collegamento tra il danno e il reato. Occorre, nello specifico, che questo collegamento sia diretto e immediato. Il rapporto tra processo penale e parte civile è sempre più problematico, perché il codice “accetta la parte civile ma non la vuole”: da un lato il codice la incentiva e dall’altro lato la disincentiva. Quando il danneggiato si costituisce parte civile, la prima cosa che il giudice penale deve fare è verificarne la legittimazione, cioè deve verificare se esiste un rapporto diretto tra il danno e il reato. Il primo compito del giudice penale è, infatti, verificare se sussistono i presupposti dell’art. 185, ossia se sussistono il reato e il danno e se sussiste il nesso immediato e diretto tra i due. Siccome abbiamo detto che non c’è stata la forza di rinunciare alla parte civile, rovesciando il discorso, potremmo chiederci: perché non si rinuncia alla parte civile nel processo penale? Perché si ritiene che la parte civile nel processo penale trovi una solida giustificazione in merito a tre punti: 1) l’economia dei giudizi: in forza della quale per uno stesso fatto che presenta due profili di illiceità si instaura un unico processo, quindi di tutto si occupa il giudice penale, che conosce anche dei profili risarcitori; 2) evitare il conflitto tra giudicati: cioè evitare che il giudice penale dica A e il giudice civile dica B; 3) la superiorità dell’accertamento penale rispetto alle altre forme di giurisdizione: si ritiene che nessun altro giudice abbia poteri così forti e penetranti come il giudice penale. In forza di questo principio si ritiene di dover inserire la parte civile nel processo penale al fine di consentire al giudice penale di conoscere anche del risarcimento civile. Quindi, è stata inserita la parte civile nel processo penale perché il giudice penale ha ampi potersi e può conoscere bene, addirittura meglio, del giudice civile le ragioni del processo risarcitorio. Siamo di fronte a una vera e propria azione civile innestata nel processo penale. Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 47 Analizziamo ora le disposizioni più importanti in materia di parte civile. ART. 74 C.P.P. La legittimazione all’azione civile è disciplinata dall’art. 74 c.p.p., secondo il quale l’azione civile può essere esercitata dal soggetto al quale il reato ha recato danno o dai suoi successori universali, nei confronti dell’imputato o del responsabile civile. Naturalmente, la parte civile è una parte eventuale. Per costituirsi parte civile è necessario l’atto di costituzione di parte civile ai sensi dell’ART. 76 C.P.P.: la parte civile sta in giudizio con un avvocato che è suo rappresentante e che agisce in nome e per conto dell’interessato in forza di una procura (si evidenziano, così, molto bene i tratti fortemente civilistici di questa figura). Questa dichiarazione viene depositata nella cancelleria del giudice e deve contenere, pena l’inammissibilità della stessa – ai sensi dell’ART. 78 C.P.P. – le generalità della persona fisica o dell’ente che si costituisce parte civile, le generalità dell’ente, le generalità dell’imputato, i dati del difensore e procura, le ragioni sottese a questa costituzione e la sottoscrizione del difensore. L’ART. 79 C.P.P. ci da, invece, le indicazioni in merito ai termini per la costituzione della parte civile: c’è infatti un termine inziale e un termine finale. Nello specifico, l’art. 79 dice che la costituzione di parte civile può avvenire «per» l’udienza preliminare (termine iniziale), il che significa che non bisogna attendere l’avvio del procedimento per costituirsi parte civile, ma è sufficiente che sia stata fissata la data dell’udienza preliminare. La prima conclusione che ricaviamo da questa scelta è che non ci si può costituire parte civile prima che sia stata fissata l’udienza preliminare: quindi, tale costituzione non è ammessa durante le indagini preliminari, bensì soltanto dopo l’esercizio dell’azione penale. La ratio è quella di evitare che la parte civile possa in qualche modo “intralciare” il lavoro del P.M. nelle indagini preliminari: caratteristica tipica del processo penale italiano consiste proprio nel fatto che le indagini sono, quindi, terreno elettivo per la vittima (che ha ampio spazio in questa sede), invece l’esercizio dell’azione penale è terreno elettivo per la parte civile; perciò, solo una volta che sia stata esercitata l’azione penale, la vittima del reato può costituirsi parte civile. La costituzione di parte civile è molto importante dal punto di vista della prova, perché può essere sentita come testimone e può essa stessa produrre prove. Questo dell’udienza preliminare, quindi, è il termine iniziale; ma c’è anche un termine finale, che consiste nella dichiarazione di apertura del dibattimento, prima della quale bisogna verificare che ci sia stata la regolare costituzione delle parti civili. La ratio di questa scelta è che una volta che inizia il dibattimento è necessario sapere quali e quante sono le parti civili. C’è un COLLEGAMENTO dobbiamo fare tra il termine finale di costituzione della parte civile e l’art. 468 c.p.p. che prevede la facoltà, per ciascuna parte, di presentare una propria lista testimoniale. Tutte le parti possono avvalersi di questa facoltà. Il nostro processo vuole evitare il rischio delle prove introdotte a sorpresa nel dibattimento e, quindi, si richiede alle parti la presentazione della lista delle prove (testimoni, consulenti, ecc.). Questa lista, una volta depositata, viene a conoscenza delle altre parti. Tendenzialmente, quindi, il codice vuole che una volta che inizia il dibattimento, tutto il materiale probatorio sia schierato. Vi è, però, un problema con riferimento al coordinamento cronologico tra il termine ultimo di costituzione della parte civile e il termine ultimo per la presentazione delle liste testimoniali. Infatti, le liste vanno presentate almeno 7 giorni prima della data fissata per il dibattimento, pena l’inammissibilità. Il temine ultimo per la costituzione di parte civile, invece, è il dibattimento. Ecco che si può creare una discrasia di tipo temporale. Il terzo comma dell’art. 79 ci fornisce la risposta. Esempio: se Tizio si costituisce parte civile dopo che sono scaduti i termini per la presentazione delle liste, perde la possibilità di presentare le liste stesse. Bisogna, a questo punto, affrontare il profilo dell’esclusione della parte civile (artt. 80 e 82 c.p.p.): • richiesta di esclusione della parte civile (ART. 80 C.P.P.): ai sensi dell’art. 80 c.p.p., chi è contrario alla presenza della parte civile nel processo penale può attivarsi per escluderla dal processo, presentando richiesta di esclusione. Interessato ad escludere la parte civile potrebbe essere anche il P.M. e questo perché la parte civile comunque è una sorta di alter ego del P.M. sul piano civilistico e potrebbe disturbare l’attività del magistrato. L’esclusione può avvenire, infatti, su iniziativa del P.M., dell’imputato e del responsabile civile. Ai sensi dell’ART. 81 C.P.P. (esclusione d’ufficio), peraltro, l’esclusione della parte civile può anche essere disposta d’ufficio da parte del giudice, il quale, se si accorge che la parte civile non ha i requisiti per stare nel processo come tale, la esclude: • revoca della costituzione di parte civile (ART. 82 C.P.P.): l’altro meccanismo di uscita della parte civile dal processo si può verificare attraverso l’istituto della revoca. La stessa parte civile può, con una Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 50 Sulla spinta dell’Unione europea sono state introdotte disposizioni per rafforzare il ruolo della vittima nel reato. L’art. 90-bis c.p.p. individua una serie di informazioni che l’autorità deve fornire alla vittima a partire dal primo contatto che sussiste tra vittima e autorità procedente. La corte di Strasburgo è intervenuta per invitare gli stati membri ad intervenire in tal senso. La vittima va informata, ad esempio: - circa le modalità di presentazione di denunce o querele; - in merito alla notifica per estratto della sentenza; - deve avere informazioni sul contenuto del registro di notizie del reato (es.: una persona viene aggredita ma non sa da chi: deve essere informata circa il fatto che, a un certo punto, Tizio viene iscritto nel registro degli indagati); - deve essere avvisata in caso di richiesta di archiviazione da parte del P.M., perché, in questo caso, la vittima può opporsi alla richiesta di archiviazione; - ancora, si parla di misure di protezione che possono essere disposte a suo favore (es.: abbiamo la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare e quella del divieto di frequentare i luoghi frequentati dalla vittima); - notiamo che alla lettera i) si dice che deve essere informata dell’autorità a cui rivolgersi per ottenere informazioni sul procedimento: su questa lettera ci sono alcune perplessità, perché non si capisce bene a cosa serva questa disposizione, posto che sembra un’inutile ripetizione. Peraltro, non si chiarisce di quale autorità si sta parlando (probabilmente si tratta della polizia giudiziaria poiché questa è la prima autorità con cui la vittima viene in contatto, ma non è specificato, quindi potrebbe trattarsi anche di autorità stragiudiziali, quali centri antiviolenza e case-famiglia). Inoltre, cosa significa informazioni sul procedimento? Dobbiamo tenere conto che il pubblico ministero alcune informazioni non può darle, perché potrebbero intralciare le indagini, quindi non si capisce bene nemmeno quale sia il senso di questa espressione; - ancora, abbiamo la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni derivanti da reati: in pratica, si tratta del dovere di informare la vittima circa la possibilità di costituirsi parte civile. ART. 90-TER C.P.P. Questo articolo si occupa delle comunicazioni dell’evasione e della scarcerazione e, prima dell’introduzione di questa norma, l’autorità non era obbligata a comunicare alla vittima lo status dell’indagato/imputato. Oggi, invece, con riferimento a particolari tipologie di reato, l’autorità deve tempestivamente comunicare alla vittima che ne faccia richiesta i provvedimenti di scarcerazione o di cessazione delle misure cautelari, salvo che ne risulti un possibile danno per l’autore del reato (es.: delle ritorsioni da parte della vittima o vendetta privata). Si è, quindi, intervenuti in questo senso per permettere alla vittima di tutelarsi di fronte a questi eventi. Quindi quando il magistrato teme che possa derivare un danno all’autore del reato, non fornisce alla vittima questo tipo di informazioni: questa è l’unica eccezione. La vittimizzazione primaria è l’offesa da cui nasce il reato, quindi la prima lesione al bene giuridico tutelato; in sostanza, è il pregiudizio che il reato crea alla vittima. La vittimizzazione secondaria è quella che colpisce la vittima per effetto del processo, cioè è il pregiudizio che il processo genera alla vittima. Questo anche riducendo le audizioni al minimo: sentendo tante volte le vittime si rischia di rientrare nell’ipotesi di vittimizzazione secondaria. La restrizione delle audizioni apre però un altro problema, in quanto lascia poco protetto l’accertamento dei fatti e quindi il diritto del difensore dell’accusato di risentirla per chiarire eventuali punti oscuri che la prima audizione ha lasciato irrisolti. ART. 90-QUATER C.P.P. L’ultima disposizione introdotta sulla scia del legislatore europeo è l’art. 90-quater c.p.p. che disciplina la condizione della vittima particolarmente vulnerabile. La ratio è quella di proteggere la vittima, ancora una volta, dalla c.d. vittimizzazione secondaria. Il codice indica una serie di criteri che il giudice deve utilizzare per qualificare e conferire alla vittima lo status di vittima particolarmente vulnerabile e, di conseguenza, per conferirgli una protezione più forte rispetto a quella attribuita alla vittima normale. La condizione di particolare vulnerabilità viene individuata sulla base di una serie di criteri: - età; - stato di infermità o di deficienza psichica della vittima; - tipologia delittuosa: in questa scelta c’è moltissima discrezionalità, perché ci sono magistrati che hanno maggiore sensibilità rispetto a certi tipi di reati più che rispetto ad altri; Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 51 - modalità con cui è stato commesso il fatto (es.: se ci sono circostanze aggravanti, per esempio quella di aver agito con particolare crudeltà); - si ha riguardo al fatto che il reato sia stato commesso con violenza, con odio razziale, al fatto che il reato sia compatibile con terrorismo internazionale, traffico di esseri umani, al fatto che il reato crei discriminazione e al fatto che la vittima dipenda o meno psicologicamente (es.: reato commesso dall’educatore), economicamente o affettivamente all’autore del reato. Quando la vittima assume questo status godrà di una serie di misure di agevolazione e protezione durante lo svolgimento del procedimento. Quindi questo articolo va inserito nell’ottica di evitare la vittimizzazione secondaria, perciò se la vittima è particolarmente vulnerabile, per esempio, ci saranno meno audizioni. Per chiudere il discorso sulla vittima, riprendiamo il discorso iniziale riguardante quella staffetta di cui abbiamo parlato. La vittima, se non assume le vesti della parte civile, vede scemare il suo ruolo nel processo. Quindi, vittima poco protetta nelle indagini e molto protetta in processo, dove, per esserlo, dovrebbe costituirsi parte civile. Perché c’è questa differenza tra vittima, in sé considerata (quindi a prescindere dal fatto che si costituisca parte civile), e parte civile? Ci sono tre ragioni: a- una ragione di tipo culturale, cioè quella di rendere il processo penale impermeabile rispetto alle pulsioni della giustizia privata: se si permettesse alla vittima di avere un ruolo nel processo penale, questo potrebbe determinare l’infiltrazione di atteggiamenti vendicativi all’interno del processo penale.; b- una ragione di tipo tecnico, cioè quella di evitare che soggetti diversi dal pubblico ministero e dall’imputato siano presenti nel processo penale: se ci fosse la vittima, infatti, ci sarebbe anche il difensore della stessa il quale andrebbe ad interferire tra il polo del P.M. e il polo del difensore. Noi stiamo ancora seguendo questo schema. Gli anglosassoni non vogliono altri attori nel processo penale se non il P.M. e l’imputato e questo perché ritengono che altrimenti verrebbe meno l’essenza stessa del processo penale come sede di lotta tra un polo accusatorio e uno difensivo; c- una ragione di tipo empirico, che si basa sul c.d. criterio di frequenza. Siccome di frequente accade che vittima e danneggiato coincidono conviene mantenere questa staffetta. Quindi, visto che coincidono vi è solo un mutamento di veste. Siccome la vittima in quanto tale non ha poteri nel processo penale salvo si costituisca parte civile, ci si deve costituire sempre parte civile nel processo. Ecco perché la vittima in quanto tale non ha poteri nel processo penale, a meno che si costituisca parte civile; questo, peraltro, spiega perché la vittima si costituisca sempre parte civile. ART. 91 C.P.P. L’art. 91 c.p.p. si occupa del ruolo assegnato nel processo penale agli enti rappresentativi di interessi lesi dal reato, cioè coloro che gli amministrativisti definiscono latori di c.d. interessi diffusi. Si manifesta qui una sensibilità da parte del legislatore processual penalistico per una sorta di garantismo sociale o collettivo: ci sono dei diritti che, se possiedono determinati requisiti, possono intervenire nel processo penale (es. ONLUSS, associazioni ambientaliste, ecc.). Il legislatore ha preso atto che certi enti hanno difficoltà a integrare i requisiti previsti dall’art. 185 c.p.p., il quale richiede che il danno sia diretto, ed è difficile dimostrare questo nesso diretto tra danno e reato nel caso delle associazioni, cioè è difficile individuare ogni soggetto che viene danneggiato dal reato; di qui la difficoltà per questi enti di costituirsi parte civile. Ci sono dei reati in presenza dei quali possono costituirsi parte civile: si pensi al caso in cui un giornalista diffami una ONLUSS, la stessa può costituirsi parte civile per diffamazione (c’è un rapporto diretto tra danno e reato). In tali casi il legislatore riconosce a questi enti la possibilità di costituirsi parte civile e questo attraverso un atto chiamato atto di intervento. Questa legittimazione è subordinata alla presenza di una serie di requisiti: § questi enti devono essere rappresentativi degli interessi lesi dal reato; § questa rappresentatività deve essere conferita all’ente dalla legge: se non ci fosse il riferimento alla legge, l’ente potrebbe auto qualificarsi come rappresentativo degli interessi lesi dal reato; § la rappresentatività deve essere anteriore alla commissione del reato; § il consenso della vittima: l’ente per intervenire nel processo deve avere il consenso della vittima del reato. Questa scelta è stata fatta per tutelare la vittima: ritiene che le vittime potrebbero non volere queste ONLUSS. Questi enti stanno in giudizio con un difensore che li rappresenta. Questi enti si vedono riconosciuti dei poteri che la persona offesa non ha: nella fase dibattimentale questi enti usufruiscono di poteri che no vengono riconosciuti alla persona offesa e sono previsti dall’art. 505 e 511 c.p.p. Questi due articoli riconoscono agli enti intervenuti: o il diritto di chiedere al giudice di rivolgere domande ai testimoni; Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 52 o diritto di chiedere al giudice l’ammissione di nuovi mezzi di prova utili all’accertamento dei fatti; o diritto di chiedere la lettura dei verbali. Questi importanti poteri, soprattutto dal punto di vista probatorio, non vengono riconosciuti alla vittima. Il paradosso sta nel fatto che questi enti hanno bisogno, per intervenire, del consenso della vittima, ma, una volta ottenuto, hanno più poteri della vittima. Perché? Perché gli enti difficilmente si possono costituire parte civile, mentre la vittima può sempre farlo, quindi a fronte della difficoltà degli enti di costituirsi parte civile vengono riconosciuti poteri maggiori. Di conseguenza, se la vittima vuole esercitare quei diritti, è sufficiente si costituisca parte civile. 22 ottobre 2019 IL DIFENSORE Analizziamo ora tre istituti che tutelano in maniera significativa la funzione difensiva. ① ART. 103 C.P.P. Tra questi strumenti, uno dei più importanti è costituito dall’art. 103 c.p.p. che disciplina le garanzie di libertà del difensore. Questa espressione ci consente di comprendere appieno quella che è la funzione di questa norma cogliendone l’importanza. Questa norma mira in particolare a salvaguardare l’attività difensiva dalle possibili ingerenze dell’autorità; questa volta l’obiettivo è tutelare il difensore da possibili pregiudizi che possono derivare all’attività difensiva dal ruolo svolto dall’autorità giudiziaria. Questo perché l’autorità giudiziaria può porre interesse delle attività suscettibili di intralciare, pregiudicare, indebolire, limitare l’attività difensiva. A proposito di questo istituto, infatti, si parla di immunità difensiva. Questa norma può essere agganciata con l’art. 24 Cost. in tema di inviolabilità del diritto di difesa. Qui si parla di garanzie di libertà del difensore e non di garanzie di libertà dell’avvocato: c’è una differenza sottile, ma importante. Non viene qui tutelato l’avvocato come professionista iscritto all’albo, bensì viene tutelato il difensore: qui, infatti, stiamo parlando di immunità del difensore e c.d. segreto difensivo (da distinguere dal segreto professionale). Bisogna fare una distinzione di base: tale norma si preoccupa di regolare determinati luoghi protetti e determinati soggetti protetti. Il luogo protetto è l’ufficio del difensore. Il primo comma dell’art. 103 c.p.p. prevede una regola di permissione. Le ispezioni o le perquisizioni sono ammesse solo: a. quando i difensori e le persone che stabilmente lavorano nell’ufficio sono imputati o indagati con esclusivo riferimento al reato che viene attribuito a questi soggetti. Quindi, c’è un criterio spaziale (ufficio del difensore) e c’è un criterio finalistico (le ispezioni e le perquisizioni sono atte ad accertare il reato che viene ascritto a questi soggetti). Possiamo includere in questa norma anche i praticanti e coloro che svolgono funzioni di segreteria, cioè tutti quei soggetti che gravitano stabilmente in quell’ufficio. Quando parliamo di perquisizioni e di ispezioni ci riferiamo ad un’attività piuttosto invasiva: infatti stiamo parlando della penetrazione coattiva, dell’autorità, nella sede in cui il difensore svolge la sua attività. Esempio: reato di favoreggiamento; si sospetta che il difensore ponga in essere degli atti che vadano ad integrare questo tipo di reato; questo reato di per sé sottende un intralcio alla giustizia (ratio del reato); oppure rispetto a quelle persone che lavorano in quell’ufficio. b. «per rilevare tracce o altri effetti materiali del reato o per ricercare cose o persone specificamente predeterminate». Questo secondo caso, rispetto al precedente (a), si riferisce a qualsiasi reato. Quello che cambia è il criterio finalistico: infatti, nel primo caso ci si riferisce esclusivamente al reato attribuito a quei soggetti. Si potrebbe quindi trattare, in questa seconda ipotesi, anche di un reato non attribuito a quei soggetti. La lettera b è ancora più invasiva rispetto all’ipotesi sub a: la ricerca di persone specificatamente determinate è possibile, ma si tratta di un caso di scuola piuttosto che di un fatto che accade nella prassi. La ricerca di “cose” può riguardare senz’altro un documento. La bilancia propende di più, in questo caso, verso gli interessi dell’accusa. Sono, poi previsti dei divieti: - al secondo comma è previsto che non si può procedere presso i difensori e gli investigatori privati al sequestro di documenti o carte relativi all’oggetto della difesa, a meno che questi costituiscano corpo del reato. Qui possiamo notare, rispetto all’ipotesi precedente, che non si parla più di ufficio: «presso i difensori» vuol dire che quel divieto copre un luogo che è, dal punto di vista civilistico, nella materiale disponibilità del difensore. Quindi, si allarga l’oggetto: non è più ristretto al solo ufficio, ma a qualsiasi luogo che è nella materiale disponibilità del difensore. Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 55 Ci sono degli agganci costituzionali? Si, e non solo l’art. 24 Cost., ma anche l’art. 111 Costituzione, nella parte in cui sostiene che «...ogni accusato deve disporre dei tempi e delle condizioni necessari per preparare la difesa...». L’art. 104 c.p.p. era, infatti, a forte rischio di incostituzionalità. L’art. 6 della CEDU, secondo le traduzioni più diffuse, parla di facilitazioni. Mentre noi parliamo di condizioni, la CEDU parla di facilitazioni. Ma facilitare la difesa non vuol dire forse permettere subito un colloquio tra il difensore e il soggetto in vinculis? Queste due espressioni hanno lo stesso significato. Avremmo avuto, quindi, non solo il rischio di un ricorso individuale diretto alla Corte di Strasburgo, ma anche il rischio, ai sensi dell’art. 6 della CEDU, di una questione di incostituzionalità. L’art. 104 c.p.p. richiama un altro articolo del codice di procedura penale, che individua una serie di reati particolarmente gravi che prevedono indagini collegate. Il riferimento all’art. 51 c.p.p., commi 3-bis e 3-quater, si ha quando il codice vuole segnare una distinzione di tutele tra gli imputati. Esiste non un doppio binario tra le vittime, ma anche tra gli indagati e gli imputati (dagli anni ’90 à prime stragi di mafia). Ci sono degli indagati e degli imputati meno protetti di altri, perché sono indagati/imputati per reati di particolare gravità (reati associativi di ordine mafioso, terrorismo, eversione, reati contro l’ordine costituzionale). È da tenere presente anche il doppio binario che è stato considerato nella sentenza relativa all’ergastolo ostativo: questo tipo di ergastolo riguarda il famoso carcere duro del 41-bis della legge sull’ordinamento penitenziario. Per cui c’è l’ergastolo normale e quello ostativo, che impedisce di avere contatti con l’esterno. Si capisce ormai che la Corte europea ha una forma di intolleranza per l’ergastolo. In questa sentenza è previsto un doppio binario relativamente al trattamento penitenziario. Mentre relativamente al suddetto argomento è previsto un doppio binario in materia di applicazione di una misura cautelare. Il nostro codice prevede delle garanzie differenziate a seconda del tipo di imputato. Il punto di approdo di questo discorso potrebbe essere il seguente: la Corte europea dichiarerà, in contrasto con il giusto processo ex art. 6 della CEDU, il doppio binario in sé, ossia un processo unico per tutti (privo delle garanzie differenziate). Cadrebbe tutto il doppio binario su cui è costruito il nostro codice, che prevede garanzie differenziate a seconda del tipo di imputati (questa è la caratteristica del nostro codice). Tra le garanzie differenziate c’è anche il diritto alla prova. Cioè l’imputato normale ha un certo diritto alla prova, mentre l’imputato per determinati reati, che sono questi, ha un diritto alla prova più attenuato. Il comma terzo va letto nel seguente modo à nel corso delle indagini preliminari solo per i delitti ex art. 51 comma 3-bis e 3- quater è possibile il deferimento del colloquio per un periodo superiore ai 5 giorni. Naturalmente il comma 4-bis dell’art. 104 c.p.p. prevede che: «l'imputato in stato di custodia cautelare, l'arrestato e il fermato, che non conoscono la lingua italiana, hanno diritto all'assistenza gratuita di un interprete per conferire con il difensore a norma dei commi precedenti. Per la nomina dell'interprete si applicano le disposizioni del titolo IV del libro II». Il diritto all’assistenza linguistica rientra nella difesa tecnica e si tratta di un punto sul quale il diritto europeo ha insistito molto. Si è posto sempre il problema di come interpretare “specifiche ed eccezionali ragioni di cautela”, sia prima che successivamente alla riforma Orlando. Vengono immediatamente in mente le esigenze cautelari ex 274 c.p.p., ossia il pericolo di inquinamento della prova, il pericolo di fuga e il pericolo di reiterazione del delitto. Il PM potrebbe, quindi, giustificare le ragioni di cautela e chiedere, sulla base di ciò, il differimento, facendo leva sulle istanze cautelari. Il problema è emerso con riferimento alla genuinità della prova, ossia al fatto che il difensore potesse consigliare all’assistito di tacere su certe questioni o che tra di essi venisse concordata una determinata strategia di ostacolo alle indagini. In questo caso la custodia cautelare è già stata posta. Non si possono strumentalizzare le istanze cautelari ex art. 274, in particolare la prima, per differire il colloquio, perché quelle istanze cautelari servono per adottare o per mantener la cautela, non per inficiare e vulnerare la qualità della difesa tecnica. Mentre le esigenze cautelari trovano il loro aggancio costituzionale soprattutto nell’art. 13 Cost., l’articolo 104 c.p.p. trova il suo aggancio costituzionale nell’articolo 24 della Cost. Il PM non potrebbe, quindi, chiedere il differimento adducendo come argomento l’esigenza di evitare il pericolo della non genuinità della prova (opinione del professore!) ③ ART. 105 c.p.p. L’art. 105 c.p.p. si occupa abbandono e rifiuto della difesa. Attenzione: § quando si parla di abbandono della difesa ci si riferisce all’abbandono di una difesa già ottenuta ed effettiva; § quando ci riferiamo, invece, al rifiuto ci riferiamo al rifiuto della difesa d’ufficio. Anche in questo caso siamo nell’ambito della qualità della difesa tecnica, intesa come garanzia oggettiva, cioè come garanzia di regolarità dell’amministrazione. Essa consente al processo di avere una legittimazione sia interna che esterna. Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 56 Se la premessa di questo ragionamento è che la difesa è, oltre che una garanzia individuale, anche una garanzia della giurisdizione, la conseguenza è che un abbandono della difesa andrebbe sanzionato in quanto toglie quella patina di legittimità allo strumento giurisdizione penale. Questa sanzione, infatti, esiste: è una sanzione di tipo disciplinare. L’art. 105 c.p.p. affida in via esclusiva al consiglio dell’ordine forense il compito di accertare e irrogare le sanzioni disciplinari in caso di abbandono o rifiuto della difesa. Non dimentichiamo che è competente questo organo perché esso ha una competenza esclusiva: l’ordine ha questa prerogativa. Il procedimento disciplinare che nasce prosegue in via autonoma rispetto al procedimento penale in cui è avvenuto l’abbandono o il rifiuto (secondo comma). Per esempio, le sanzioni possono consistere nella sospensione dall’albo, nell’interdizione dall’albo oppure nell’applicazione di una sanzione di tipo pecuniario. Il consiglio forense di Roma funge da organo di appello. Posta l’autonomia di queste due procedimenti, bisogna sondare circa quali potrebbero essere le ragioni a sostegno dell’abbandono o del rifiuto della difesa da parte dell’avvocato. Il problema è risolto dal terzo comma: «nei casi di abbandono o di rifiuto motivati da violazione dei diritti della difesa, quando il consiglio dell'ordine li ritiene comunque giustificati, la sanzione non è applicata, anche se la violazione dei diritti della difesa è esclusa dal giudice». È frequente che l’avvocato che abbandona la difesa o rifiuta la difesa d’ufficio motivi l’abbandono della difesa in virtù della violazione dei diritti difensivi. Quindi, è frequente che questo avvocato che abbandona la difesa si giustifichi dicendo che sono stati violati i suoi diritti di difensore e quindi è stata violata la sua qualità di difensore. Siccome il difensore abbandona la difesa per violazione dei diritti difensivi da parte del P.M. o del giudice, è possibile che emerga un possibile conflitto tra ciò che narra il difensore e ciò che narra l’autorità. Il problema qui è il seguente: che ne è della sanzione disciplinare? Il procedimento disciplinare, abbiamo detto, è autonomo rispetto al processo penale; quando il consiglio dell’ordine ritiene i motivi di rifiuto giustificati non applica la sanzione anche se l’autorità esclude qualsiasi violazione dei diritti di difesa. Dato che il difensore abbandona la difesa lamentando la violazione dei propri diritti difensivi da parte del PM o del giudice, emerge un possibile conflitto tra ciò che afferma il difensore e quello che potrebbe dire l’autorità, la quale potrebbe appunto ritenere che gli stessi non siano stati violati. Si crea un conflitto tra polo difensivo e autorità. In virtù del fatto che il procedimento disciplinare è autonomo rispetto al procedimento penale, il terzo comma conclude che, in virtù dell’autonomia valutativa e di accertamento del consiglio dell’ordine, quest’ultimo, se ritiene che l’abbandono e i motivi addotti per l’abbandono siano giustificati e ci sia quindi stata una lesione dei diritti difensivi, non si applica la sanzione disciplinare, anche se l’autorità esclude che ci sia stata (tale violazione). Il consiglio dell’ordine viene costantemente informato in ordine al comportamento dei difensori. I penalisti hanno un codice di comportamento particolare rispetto agli altri avvocati, che prevede delle regole diverse e più stringenti. Emerge il seguente problema. Esistono gli scioperi degli avvocati, soprattutto penalisti, in quanto, in genere, i provvedimenti più importanti riguardano tale materia (si parla di astensione collettiva). L’astensione collettiva dalle udienze potrebbe essere considerata come abbandono? Si tratta un po’ del discorso affrontato nell’ambito dell’inimicizia grave. Quando gli avvocati si astengono collettivamente (si collega più che allo sciopero, alla libertà di associazione) la questione è particolarmente delicata. L’astensione collettiva dalle udienze viene posta per protestare contro provvedimenti legislativi che violerebbero le garanzie della difesa. Il problema è qui. È intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza 171/96, con la quale ha riconosciuto la legittimità dell’astensione collettiva degli avvocati agganciandola alla libertà di associazione, la quale è appunto prevista dalla Costituzione. Siccome la Costituzione prevede la libertà di associazione, l’astensione collettiva è una manifestazione di questa libertà. Ci sono, però, dei paletti che devono essere rispettati: a. ci deve essere un congruo preavviso; b. deve essere limitata nel tempo. Qui succede che la Corte Costituzionale non ha ben chiarito cosa l’avvocato debba fare. A completamento di questo interviene il codice di autoregolamento degli avvocati penalisti (2007), il quale indica alcune attività indispensabili che devono sempre essere garantiti anche in presenza di una legittima astensione collettiva degli avvocati penalisti. Il difensore, anche in presenza di un’astensione collettiva della sua categoria, deve garantire la sua presenza: a. all’udienza di convalida dell’arresto o del fermo; b. a tutte le udienze in materia cautelare (es. udienza di riesame); c. all’interrogatorio di garanzia (art. 294 c.p.p.): si tratta dell’interrogatorio che il giudice svolge nei confronti dell’imputato/indagato sottoposto a misura cautelare e che va effettuato entro 5 giorni dall’esecuzione della custodia cautelare; d. all’incidente probatorio; e. ai giudizi direttissimi (es. in caso di flagranza di reato); Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 57 f. a tutti i procedimenti che vedono in scadenza i termini di prescrizione nel corso del procedimento; g. a tutti i procedimenti in cui l’imputato o l’indagato si trovi in stato di custodia cautelare. Il difensore di fiducia – art. 96 c.p.p. Ai sensi dell’art. 96 c.p.p., l’imputato ha diritto di scegliere due difensori. La nomina del difensore può essere fatta anche in via preventiva, vale a dire per l’eventualità che si instauri un procedimento penale al fine di consentire al difensore stesso l’espletamento delle indagini difensive. In questo caso, il mandato deve essere necessariamente scritto e contenere, unitamente alla nomina del difensore, l’indicazione dei fatti ai quali si riferisce, stante la necessità di precisare con rigore l’oggetto dell’indagine. La nomina consiste nell’instaurazione di un rapporto contrattuale tra difensore e assistito che, in mancanza di clausole risolutive espresse, produce i suoi effetti per tutto l’arco del procedimento di cognizione. L’investitura effettuata per il giudizio di cognizione è prorogata in executivis al solo fine della presentazione dell’istanza finalizzata alla concessione di una misura extracarceraria in luogo della pena detentiva. L’atto di nomina può assumere forma di dichiarazione orale resa all’autorità procedente, ovvero di dichiarazione scritta consegnata o trasmessa per raccomandata alla medesima autorità da parte dello stesso difensore, che è tenuto ad assumere le dovute informazioni su quale sia l’autorità procedente. La legge consente che il difensore di fiducia – ma vale lo stesso anche per il difensore d’ufficio – possa indicare un sostituto per l’espletamento dell’attività difensiva relativa a un rapporto assistito. Il difensore sostituto è il porofessionista che, su incarico del titolare dell’ufficio, ne esercita i medesimi diritti e ne assume gli stessi obblighi. La nomina del sostituto può essere ad acta o generica: in quest’ultimo caso il sostituto esercita i suoi poteri fino a quando il difensore non riassuma la conduzione della difesa. Nemmeno può escludersi la designazione di un sostituto in via preventiva, vale a dire prima dell’insorgenza della situazione che indurrà il titolare dell’ufficio difensivo a farsi sostituire. Il difensore nominato d’ufficio – art. 97 c.p.p. Quando l’imputato o la persona sottoposta alle indagini rimangono privi di difensore, si deve procedere alla nomina di un difensore d’ufficio; infatti, l’imputato non può difendersi da solo senza la difesa di un avvocato, nemmeno se risulti abilitato all’esercizio della professione forense. Il difensore d’ufficio svolge un ruolo sussidiario rispetto a quello del difensore di fiducia, tant’è che cessa dalle funzioni non appena sia stata effettuata la nomina di quest’ultimo e ciò esprime la preferenza accordata dall’ordinamento per il rapporto fiduciario. La sussidiarietà del difensore d’ufficio risulta implicita all’obbligo di avvertire l’imputato assistito del difensore d’ufficio che può nominare in qualsiasi momento un difensore di fiducia. L’individuazione e la successiva designazione del difensore d’ufficio costituiscono l’atto formale da cui prende avvio il rapporto difensivo tra assistito e difensore, rappresentando per la difesa d’ufficio l'analogo della nomina fiduciaria. Presupposto per la designazione del difensore d’ufficio è la mancanza di quello di fiducia determinata dall’assenza di una nomina in tal senso oppure dall’interruzione del rapporto fiduciario precedentemente instaurato. Il difensore d’ufficio ha l’obbligo di prestare il patrocinio e l’eventuale rifiuto di assumere l’incarico ricevuto configura un illecito disciplinare. Può essere esentato da tale obbligo in presenza di un giustificato motivo, da intendersi quale impossibilità concreta di adempiere l’incarico. In tal caso, il difensore d’ufficio è tenuto a comunicare immediatamente all’autorità giudiziaria le ragioni che gli impediscono di svolgere l’incarico. L’attività difensiva espletata ex officio dal professionista è in ogni caso retribuita. Il quarto comma dell’art. 97 c.p.p. disciplina un meccanismo di designazione del sostituto processuale di carattere temporaneo e transitorio, che rappresenta l’omologo, per la difesa d’ufficio, della facoltà di farsi sostituire contemplata per il difensore di fiducia dall’art. 102 c.p.p. Il difensore d’ufficio ex art. 97 comma 4 è un sostituto del difensore, titolare ai sensi della nomina effettuata ai sensi del primo comma, ovvero sulla base di nomina fiduciaria. È nominato dall’autorità giudiziaria per svolgere una sostituzione ad acta, nei casi di temporanea assenza del difensore titolare della funzione. Il patrocinio dei non abbienti – art. 98 c.p.p. L’art. 24 Cost. assicura ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. In linea con tale previsione, l’art. 98 c.p.p. attribuisce la legittimazione a chiedere di essere ammessi al patrocinio a spese dello Stato all’imputato, alla persona offesa dal reato e al danneggiato che intenda costituirsi parte civile. Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 60 che il procedimento diventa processo e l’indagato diventa imputato. La distinzione terminologica, dunque, assume grande rilievo in quanto il richiamo testuale al procedimento o al processo delimita in maniera diversa l’area operativa dei vari istituti. La lingua degli atti La lingua ufficiale del procedimento penale è quella italiana: questa regola risponde a un’esigenza di uniformità, efficienza e pubblicità del rito penale, che impone che i protagonisti della vicenda processuale possano instaurare un’efficace dialettica tra loro e che le dinamiche dell’accertamento siano comprensibili alla collettività. Tuttavia, la legge si preoccupa di dare adeguata attuazione all’obbligo posto a carico del legislatore costituzionale di tutelare con apposite norme le minoranze linguistiche che trova riscontro anche in altre carte fondamentali dei diritti. Di qui la disciplina del secondo comma dell’art. 109 c.p.p. che ammette l’impiego nel processo di lingue diverse dall’italiano appartenente a una minoranza linguistica riconosciuta. La legge, però, specifica rigorosamente le condizioni cui è subordinato l’uso di una lingua minoritaria nel processo: è necessario che ci si trovi di fronte a un’autorità giudiziaria di primo grado o di appello avente competenza sul territorio in cui è insediata una minoranza linguistica riconosciuta. Il cittadino italiano che intende avvalersi della lingua minoritaria deve appartenere a tale minoranza e fare esplicita richiesta di utilizzare la propria madrelingua; in tal coso, verrà interrogato o esaminato nella sua lingua. In relativo verbale sarà redatto in lingua doppia. Una speciale tutela, infine, è predisposta per chi sia affetto da specifici deficit uditivi o della parola. Il diritto all’interpretazione e alla traduzione L’impiego della lingua italiana come strumento di comunicazione privilegiato comporta che la leggi si faccia carico di tutelare chi non la comprenda o non la parli, assicurando la necessaria intermediazione linguistica. Per quanto riguarda l’imputato, la norma cardine del sistema è l’art. 143 c.p.p. che si riferisce all’imputato, ma va esteso a chi sia sottoposto alle indagini. L’imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto a farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di: comprendere l’accusa mossagli, seguire il compimento degli atti e lo svolgimento delle udienze a cui partecipa. Alle medesime condizioni il secondo comma aggiunge che l’autorità procedente deve disporre la traduzione scritta di una serie di atti: l’informazione di garanzia, l’informazione sul diritto di difesa, i provvedimenti che dispongono misure cautelari personali, l’avviso di conclusione delle indagini, i decreti che dispongono l’udienza preliminare e la citazione in giudizio, le sentenze e i decreti penali di condanna. In ogni caso, il giudice (d’ufficio o su richiesta di parte) può disporre con provvedimento motivato la traduzione gratuita anche di altri atti ritenuti essenziali pre consentire all’imputato di conoscere le accuse a suo carico (diversi da quelli ex art. 143 c.p.p.). Alla tutela di soggetti diversi dall’imputato provvede l’art. 143-bis c.p.p.: il primo comma prevede genericamente la nomina di un interprete da parte dell’autorità procedente quando occorra tradurre uno scritto in lingua straniera ovvero quando una persona che vuole o deve fare una dichiarazione non conosca l’italiano. I commi successivi, invece, prevedono in maniera dettagliata la tutela linguistica assicurata in favore della vittima. Forma degli atti Quando parliamo di atti del procedimento ci riferiamo ad atti volontari: quindi, il procedimento penale è costituto da una serie di atti volontari. Perché vi sia un atto del procedimento penale occorrono alcuni requisiti: 1. requisito soggettivo: l’atto deve essere compiuto da un soggetto del procedimento penale; 2. requisito finalistico: l’atto può essere definito atto del procedimento penale se è in grado di produrre effetti all’interno del procedimento penale; 3. requisito spaziale: l’atto deve essere compiuto all’interno e durante il procedimento penale. Questa descrizione potrebbe sussistere per qualsiasi forma di giurisdizione. Però, il problema del procedimento è il seguente: dato che il processo penale è costruito su divieti e permissioni, talvolta, nelle norme, troviamo il riferimento al procedimento penale. Un divieto molto importante, che opera nel corso del procedimento, l’abbiamo già incontrato ed è il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni rese ex art. 62 c.p.p. Anche l’art. 63 c.p.p., affermando «davanti all’autorità giudiziaria» fa riferimento ad un preciso contesto spaziale. Consideriamo il seguente esempio: quanto si parla di testimonianza indiretta, ci sono dei divieti che riguardano il procedimento. Se l’agente di polizia giudiziaria si trova in un bar e sta bevendo un caffè e ascolta una conversazione, quella conversazione non è captata nel corso di un procedimento penale, non c’è un atto del Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 61 procedimento penale e allora potrebbe testimoniare. È importante, dunque, capire quando ci si trova nell’ambito operativo del processo penale; questo anche alla luce di determinate garanzie. Consideriamo gli ATTI DEL GIUDICE. Ci sono tre grandi categorie: a) le sentenze: l’esercizio dell’azione penale crea nel giudice il dovere di decidere e il giudice adempie a questo dovere decisorio attraverso la sentenza. La caratteristica della sentenza è quella di chiudere una fase (se siamo in orizzontale) o un grado (se siamo in verticale) del processo. Se viene esercitata l’azione penale, l’epilogo non può che essere una sentenza. Le sentenze si dividono poi in due grandi categorie: § sentenze di merito: scioglie il nodo colpevolezza-innocenza e risolve il problema del se punire; § sentenze di rito: scioglie il nodo tra il procedere e il non procedere e, infatti, risolve il problema del dovere di procedere; b) le ordinanze: si tratta di un provvedimento che ha natura interinale e serve per risolvere questioni procedimentali (es. ordinanza di archiviazione). Le ordinanze sono sempre motivate a pena di nullità; c) i decreti: il decreto svolge una funzione autorizzativa. Mentre sentenze e ordinanze sono di competenza esclusiva del giudice, il decreto può essere adottato sia dal giudice che da P.M., anche se di regola cade nella competenza del giudice. Il decreto è motivato solo quando è la legge a prevedere tale onere di motivazione (es. decreto che dispone un’intercettazione telefonica). C’è solo un caso in cui il decreto non ha una valenza autorizzativa, ma presenta una spiccata valenza decisoria: il decreto penale di condanna, il quale implica una condanna; diventa esecutiva quando passa in giudicato. Il procedimento in camera di consiglio – art. 127 c.p.p. La disciplina del procedimento in camera di consiglio non allude al luogo di svolgimento del rito, ma a una specifica modalità di esercizio dell’attività giurisdizionale, funzionale all’adozione di svariati provvedimenti, di cui alcuni adottati incidentalmente e quindi innestati come parentesi nel procedimento principale e altri idonei a definirlo in via definitiva. L’articolazione del procedimento in camera di consiglio è prevista dall’art. 127 c.p.p., il quale costruisce un modello-base al quale altri istituti possono fare riferimento. In questo modo si realizzano: una ragionevole economia normativa e un’efficace semplificazione interpretativa, giacché al legislatore non è necessario ripetere più volte la descrizione del procedimento in camera di consiglio, essendo sufficiente fare rinvio a uno schema comune, e all’interprete basta riferirsi a quest’ultimo per individuare le coordinate del rito. Inoltre, questo assicura una certa omogeneità tra i vari schemi operativi, evitando il prodursi di inavvertite e irragionevoli disparità di trattamento in ragione del proliferare di modelli troppo differenziati. Lo schema di cui all’art. 127 c.p.p. è suscettibile di differenti modulazioni, in ragione della complessità e del rilievo dell’oggetto che di volta in volta viene discusso e deciso nelle diverse sedi camerali. Le norme che richiamano la previsione generale sul procedimento camerale, infatti, prevedono spesso clausole speciali in deroga, che ne limano le disposizioni adattandole alle specificità del procedimento incidentale in cui esso opera. La struttura del rito camerale comporta, innanzitutto, la fissazione dell’udienza ad opera del giudice procedente (o del presidente del collegio) e l’avviso di essa alle parti, alle altre persone interessate e ai difensori, almeno 10 giorni prima di essa. Il contraddittorio è costruito di regola in forma cartolare, tramite la possibilità di depositare memorie in cancelleria fino a 5 giorni prima dell’udienza. Peraltro, ad esso si aggiunge il diritto di sviluppare una dialettica orale attraverso la presenza delle parti e degli altri destinatari dell’avviso all’udienza: costoro se compaiono, devono essere sentiti. In altri termini, se di regola non è obbligatoria la presenza in udienza delle parti e dei soggetti interessati, una volta che questi siano stati messi in condizione di intervenire e siano comparsi, devono necessariamente essere interpellati. Le regole in materia di intervento delle parti e costruzione del contraddittorio sono presidiate dalla nullità per i casi di inosservanza. L’udienza camerale si svolge senza la presenza del pubblico e viene documentata con verbale redatto di regola in forma riassuntiva. L’eventuale inammissibilità dell’atto introduttivo viene deliberata dal giudice senza formalità di procedura, salvo che sia previsto altrimenti, mediante ordinanza ricorribile per Cassazione. Il provvedimento conclusivo, infine, assume le forme dell’ordinanza, da comunicare o notificare senza ritardo ai soggetti di cui al primo comma, che sono altresì legittimati a proporre contro di essa ricorso in Cassazione. Quest’ultimo, salvo diversamente previsto, non ha effetto sospensivo. Il tempo degli atti Il procedimento penale è per sua natura un fenomeno che si snoda lungo un arco di tempo, sicché è evidente come sia necessario governare le cadenze. Le finalità per cui ciò è indispensabile sono molteplici: regolare la successione Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 62 tra atti che costituiscono gli uni la premessa per gli altri; assegnare alle parti spazi cronologici adeguati per l’esercizio effettivo dei loro diritti; determinare la soglia finale per l’esercizio di determinati poteri processuali; assicurare certezza del diritto e stabilità delle decisioni. Anche nella prospettiva del diritto di difesa il fattore tempo è cruciale, visto che la legge deve assicurare alla persona accusata di un reato di disporre del tempo necessario per preparare la sua difesa. È funzionale alla gestione razionale dei tempi del processo l’istituto dei termini processuali. I termini processuali sono passibili di inquadramento dogmatico in base a varie classificazioni, tra le quali meritano di esserne rammentate almeno due: 1. una fondata sulla struttura dei termini, i quali possono essere: - acceleratori: indicano il periodo di tempo utile al compimento di un determinato atto, tracciando la soglia finale entro la quale esso va posto in essere. In tal modo, essi danno impulso alla sequenza processuale, spingendo i soggetti interessati ad attivarsi tempestivamente. È il caso, ad esempio, dei termini per le impugnazioni. All’interno di questi termini si distingue tra: - termini perentori: quando l’atto compiuto oltre la soglia cronologica prescritta non è valido; la scadenza del termine stabilito dalla legge comporta la perdita del potere processuale che ad esempio si riferisce. Il codice stabilisce questi termini il principio di tassatività; - termini ordinatori: si tratta di quelli la cui scadenza non comporta alcuna decadenza, sicché l’atto posto in essere dopo lo spirare del termine prescritto resta comunque valido, fatta salva l’eventuale responsabilità disciplinare del suo autore. - dilatori: disegnano il lasso di tempo in cui un atto può essere compiuto, stabilendo il momento a partire dal quale ne è consentita la realizzazione. Lo scopo, in tal caso, è quello di imprimere al procedimento una pausa necessaria. Si pensi, ad esempio, al termine di comparizione. Il calcolo dei termini si effettua in unità di tempo (ore, giorni, mesi o anni) e il conteggio segue il tradizionale sistema per cui il termine non computa l’ora, il giorno in cui ne inizia la decorrenza, mentre si considera l’ultimo. 2. l’altra fondata sulle conseguenze delle eventuali inosservanze. La restituzione nel termine La restituzione del termine è un rimedio processuale disciplinato dagli artt. 175 e 176 c.p.p. volto ad offrire alle parti la garanzia di fruire nuovamente di un termine già spurato, quando si siano trovate nell’assoluta impossibilità di rispettarlo. L’art. 175 c.p.p. prevede che le parti e i difensori siano restituiti nel termine previsto a pena di decadenza se le parti non provano di non averlo potuto osservare per caso fortuito o per forza maggiore. Al fine di contemperare la logica di garanzia che ispira l’istituto con l’esigenza di economia e stabilità delle decisioni, sono comunque previsti dei limiti alla proposizione dell’istanza. Il fatto impeditivo, innanzitutto, deve essere insormontabile e non tradursi in una mera difficoltà, e l’onere di darne prova grava sulla parte istante, che subisce quindi una decisione negativa nel caso in cui permanga il dubbio sul suo verificarsi. Inoltre, è previsto un termine per la richiesta, parti a 10 giorni da quello nel quale è cessato il fatto costituente caso fortuito o forza maggiore. Infine, c’è un limite massimo di fruizione della possibilità in parola, sicché la restituzione non può concedersi per più di una volta, per ciascuna parte, in ciascun grado del procedimento. Il codice contempla, altresì, un’ipotesi speciale di restituzione in termini, relativa al caso dell’imputato condannato con decreto penale, che non abbia avuto tempestivamente effettiva conoscenza del provvedimento; questi, a sua richiesta, è restituito nel termine per proporre opposizione, a meno che vi abbia volontariamente rinunciato. Per questa ipotesi, il termine (perentorio) utile a presentare la richiesta è di 30 giorni da quello in cui l’imputato ha avuto consapevolezza della sua emissione e abbia perciò perduto l’opportunità di dolersene nei tempi previsti dalla legge. Si pensi al caso di un decreto penale notificato a persona diversa dall’imputato, che poi non ne sia informato. In generale, il procedimento in materia di restituzione pone la competenza in capo al giudice che procede al tempo dell’istanza e comunque, prima dell’azione penale, al G.I.P. Ove siano stati pronunciati sentenza o decreto penale di condanna, la decisione spetta al giudice che sarebbe competente sull’impugnazione o sull’opposizione. La decisione è adottata con ordinanza, inoppugnabile in caso di accoglimento, salvo il caso di concessione del termine per impugnare o proporre opposizione, in cui l’ordinanza può essere impugnata con la sentenza che decide il merito. In caso di rigetto della richiesta è ammesso il ricorso per Cassazione contro l’ordinanza reiettiva. Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 65 È dichiarato irreperibile l’imputato al quale non è possibile notificate un atto nei modi previsti dall’art. 157 c.p.p. Il decreto di irreperibilità consente di effettuare validamente la notificazione mediante consegna di copia al difensore dell’imputato, eventualmente anche nominato con lo stesso decreto qualora l’irreperibile ne fosse privo in precedenza. L’irreperibile, infatti, è rappresentato dal difensore. L’istituto vale a semplificare l’effettuazione dei necessari adempimenti per mettere a conoscenza degli atti del rito l’imputato, quando questo non si possa rintracciare, privilegiando la conoscenza legale a scapito di quella processuale. Esso si fonda sulla presunzione che il difensore sia in grado di tenersi in contatto con l’irreperibile, sicché la consegna di copia al primo può considerarsi sufficiente a lasciar ipotizzare la conoscenza o conoscibilità dell’atto in capo anche al secondo. Verificato che la notificazione nei modi di cui all’art. 157 c.p.p. non può essere eseguita, l’autorità giudiziaria procedente dispone nuove ricerche dell’imputato e, solo ove queste diano esito negativo, l’autorità giudiziaria emette il decreto di irreperibilità. Questo si fonda su una situazione mutevole, il cui accertamento è per sua natura precario, sicché ha vita breve, limitata alla fase nella quale è emesso. Disposizioni fondamentali Consideriamo, innanzitutto, la tipologia degli atti e alcune disposizioni fondamentali quali. - l’art. 114 c.p.p. e seguenti; - l’art. 129 c.p.p.: norma presente nella disciplina degli atti, ma che ha una valenza in tutto il processo; - l’art. 141-bis c.p.p.: particolare forma documentazione privilegiata (ha una sua valenza garantista). La divulgabilità degli atti: rapporto tra procedimento penale e mass media L’ART. 114 C.P.P. va studiato seguendo il seguente metodo. Teniamo presente che vengono in rilievo tre grandi problemi: a) la libertà di informazione (di informarsi e di informare); b) il segreto investigativo (esigenza del PM di stendere un velo sull’attività investigativa per preservarne l’efficacia); c) la tutela dell’immagine (rispetto a chi risulta coinvolto nel processo penale). Si tratta dei problemi sottostanti che la norma cerca di risolvere. Vediamo quali sono le due chiavi di lettura della disposizione: • profilo concettuale: come si configura il divieto di pubblicazione, ossia come viene individuato questo divieto? • profilo cronologico: quanto dura il divieto di pubblicazione? Utilizzando questi due criteri andiamo a studiare la disposizione. Innanzitutto, nella norma si parla di un divieto di pubblicazione assoluto. Il primo comma dice che «è vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con la stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto». Utilizzando le due chiavi di letture viste prima, analizziamo la norma guardano a un’altra disposizione che va saldata sistematicamente con l’art. 114 c.p.p.: l’art. 329 c.p.p. che si occupa del segreto investigativo e che è complementare all’art. 114 e va ad integrare questa norma. Il primo comma ex art. 114 c.p.p., infatti, non contiene alcuna risposta rispetto alle due chiavi di lettura: l’art. 114 non ci dice quali sono gli atti coperti dal segreto e nemmeno quando dura quest’ultimo. L’art. 329 c.p.p. ci dà la risposta rispetto a queste due chiavi di lettura, importanti per comprendere l’art. 114. Esso afferma che «gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, le richieste del pubblico ministero di autorizzazione al compimento di atti di indagine e gli atti del giudice che provvedono su tali richieste sono coperti dal segreto fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari». Che cos’è oggetto di divieto di pubblicazione assoluta? Gli atti coperti dal segreto. Ma la norma (art. 114 Cost.) non ci dice né quali sono questi atti e nemmeno quanto dura questo divieto. Questi atti sono: - gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria; - le richieste del P.M. al G.I.P. di compimento di atti di indagine. Esempio: PM assume delle sommarie informazioni ex art.362; la polizia giudiziaria assume sommarie informazioni: si tratta di atti d’indagine, coperti dal segreto, non pubblicabili; Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 66 - nonché gli atti del giudice che decidono su tali richieste. Esempio: nella parte dinamica vedremo che il PM può compiere prelievi coattivi biologici su persone viventi: se c’è un’istanza di urgenza, lo può fare direttamente lui, altrimenti dovrà attendere l’autorizzazione del giudice. Se sono coperti dal segreto, rientrano nel divieto di pubblicazione assoluta, in quanto quest’ultima prevede il divieto di pubblicazione degli atti coperti dal segreto. Si parla di «atti di indagine coperti dal segreto»: il legislatore vuole sottolineare che solo gli atti che hanno una valenza tecnicamente investigativa sono coperti dal segreto. Questo perché ci sono atti che, pur compiuti dal P.M. o dalla polizia giudiziaria, non sono definibili tecnicamente come atti investigativi. Ad esempio, sono atti investigativi, le sommarie informazioni, mentre le informazioni di garanzia non lo sono (art. 369: atto che il PM deve necessariamente spedire all’indagato, quando ha intenzione di compiere un atto, per il quale è prevista la partecipazione difensiva). Quest’ultimo, pur essendo un atto compiuto nelle indagini, non è tecnicamente un atto d’indagine: si colloca, quindi, al di fuori del cono d’ombra dell’articolo 329 c.p.p. (non è coperto dal segreto ed è dunque pubblicabile). L’ordinanza cautelare è pubblicabile? Sì, perché non è un atto d’indagine. Il legislatore ha voluto proprio dare una valenza specifica all’atto d’indagine, per bilanciare il segreto con la libertà di pubblicazione. L’art. 329 pone un limite “non oltre la chiusura delle indagini preliminari”. Gli atti sono coperti dal segreto e quindi non solo pubblicabili non oltre la chiusura delle indagini preliminari; una volta chiuse, l’atto è pubblicabile. Risponde alla seconda chiave di lettura. Che cosa significa “fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza”? L’obiettivo del 329 salvato al primo comma dell’art. 114 è tutelare la segretezza delle indagini. 23 ottobre 2019 A un certo punto, nel secondo comma, c’è una prescrizione differente rispetto a quanto abbiamo visto, perché abbiamo un divieto di pubblicazione parziale (o relativo). Questo comma stabilisce che «è vietata la pubblicazione, anche parziale degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare». La prima cosa che dobbiamo prendere in considerazione è che, mentre nel primo divieto di pubblicazione si parla di atti protetti dal segreto, in questo caso si parla invece di atti non più coperti dal segreto o che non lo sono mai stati. Il termine, in questo caso, è quello del termine delle indagini preliminari o quello del termine dell’udienza preliminare. La ratio è la stessa del caso precedente: è protetta la segretezza delle indagini e il riferimento che abbiamo fatto all’art. 329 c.p.p. ci da la risposta a questa domanda. Anche in questo caso, infatti, stiamo proteggendo le indagini. Il divieto è parziale perché il secondo comma va letto insieme all’ultimo comma della stessa disposizione (settimo comma), il quale stabilisce che «è sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto». Questo ultimo comma, quindi, riguarda ciò che si trova al secondo comma, cioè gli atti non coperti dal segreto. Quindi, da una lettura combinata di questi due commi si comprende che per gli atti non coperti dal segreto è vietata la pubblicazione, ma è sempre consentito pubblicarne il contenuto (ad esempio, raccontando quello che è accaduto). La sola spiegazione plausibile di questa scelta di poterne pubblicare il contenuto è la seguente: probabilmente il legislatore ha pensato di vietare la pubblicazione dell’atto perché una tale pubblicazione potrebbe avere un’incidenza maggiore nella coscienza collettiva rispetto alla pubblicazione del suo contenuto. Finora (primo e secondo comma) l’obiettivo è quello di tutelare le indagini preliminari e l’esigenza che l’attività del P.M. si svolga in segreto. Proseguendo nella lettura della norma, la ratio poi cambia: a un certo punto, infatti, c’è un cambio totale. Già nel terzo comma si inizia con la seguente espressione «se si procede al dibattimento»: questa va interpretata così: “quando c’è la certezza che si andrà al dibattimento”. Esempio: il G.U.P. di Treviso ha adottato il decreto di citazione a giudizio e ha fissato il dibattimento il giorno X di maggio. Si sa, quindi, che si andrà al dibattimento. Se si sa con certezza che si andrà al dibattimento, chi verrà in gioco come soggetto meritevole di tutela a questo punto? Il giudice, perché se noi abbiamo il G.U.P. di Treviso che ha emesso il decreto oggi per la data di maggio, dobbiamo proiettarci mentalmente verso maggio, cioè verso il soggetto che diventerà protagonista a maggio, che è il giudice del dibattimento. Partendo da questa premessa, la conclusione è che qui, rispetto alle due ipotesi viste in precedenza, la finalità della norma cambia: il divieto di pubblicazione non serve più a tutelare il segreto investigativo, bensì quello di tutelare il giudice del dibattimento. Nello specifico, si deve tutelare l’imparzialità del giudice del dibattimento, cioè evitare che la pubblicazione dell’atto da parte del giornalista possa pregiudicare l’imparzialità del giudice. L’obiettivo di questa disposizione è quello di evitare che il giudice possa essere pregiudicato nella sua imparzialità dalla conoscenza di atti – attraverso la pubblicazione ad opera dei mass media – che lui, all’interno del processo, non dovrebbe conoscere. Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 67 Per comprendere bene questa norma è necessario fare una parentesi sul tema dei fascicoli (che studieremo in seguito). La procedura penale è costituita da due fascicoli di base: 1- fascicoli di parte: del P.M. e del difensore; 2- fascicolo del giudice. Di regola, le parti conoscono il proprio fascicolo e anche quello del giudice; al contrario, il giudice conosce solo il suo fascicolo e non conosce i fascicoli di parte. La formazione di questi fascicoli avviene al termine dell’udienza preliminare: in tale momento avviene, infatti, la formazione del c.d. fascicolo per il dibattimento da parte del G.U.P. Siccome si chiama fascicolo per il dibattimento è destinato al giudice del dibattimento e serve a dargli una base cognitiva tale da consentire a questo stesso giudice di avere una visione sufficientemente chiara e nitida della materia del contendere. Questo fascicolo contiene solo alcuni atti tassativamente indicati dalla legge, in quanto si ritiene che il giudice debba venire a conoscenza solo alcune circostanze, proprio per non pregiudicarne l’imparzialità. La distinzione dei fascicoli evoca un po’ a struttura anglosassone, al cui interno il principio è il seguente: meno il conosce il giudice e meglio è, perché in tal modo si garantisce al massimo l’imparzialità del giudice. Noi abbiamo copiato un po’ questo meccanismo attraverso la previsione dei fascicoli. Se il terzo comma esordisce dicendo «se si procede al dibattimento», questo significa che si viene a formare il fascicolo per il dibattimento. Il terzo comma sancisce poi che «se si procede al dibattimento non è consentita la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo del P.M. Questo divieto cade dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello». Se si osserva questo articolo, notiamo che tra le parentesi quadre c’è un riferimento a un fascicolo per il dibattimento; è una svista del legislatore, perché andava contro la ratio della norma: infatti, la Corte Costituzionale l’ha eliminato, dicendo che c’era stato un errore nella compilazione dell’articolo. Infatti, che senso avrebbe vietare la pubblicazione degli atti, se quegli atti il giudice già li conosce? Qui, infatti, l’obiettivo è quello di evitare che il giudice possa conoscere atti che, all’interno del processo, non dovrebbe conoscere. Ciò che è vietato è la pubblicazione degli atti del fascicolo del P.M., fascicolo che il giudice non potrebbe legittimamente conoscere all’interno del processo e, quindi, tantomeno non dovrebbe arrivare a conoscerlo attraverso il veicolo dei mass media. Se ciò se verificasse, si verificherebbe il fenomeno del doppio fascicolo e il giornalista, dall’esterno, avrebbe l’irragionevole potere di mutare la struttura del processo penale andando a pregiudicare, per l’appunto, l’imparzialità del giudice. Se notiamo bene, stiamo sempre rispettando le due chiavi di lettura che abbiamo visto in precedenza: c’è sempre il tipo di divieto e la durata dello stesso. Il divieto cade dopo la sentenza di appello. L’appello è un doppio giudizio di merito e, quindi, le regole che valgono in primo grado devono essere dilatate fino al secondo grado. Non ci interessa, invece, la Corte di Cassazione perché la Corte di Cassazione non decide il merito e, quindi, i giudici di Cassazione non potrebbero essere contaminati nella imparzialità dalle dichiarazioni del giornalista, perché la Cassazione decide solo sulla specifica violazione di legge e non deve rifare il processo. I giudici di Cassazione hanno sul tavolo la sentenza, la motivazione della sentenza e il ricorso del P.M. o dell’avvocato. Al termine del terzo comma c’è, però, un’eccezione: si dice che «è sempre consentita la pubblicazione degli atti utilizzati per le contestazioni». Le contestazioni sono previste dagli artt. 500 e 503 c.p.p. e servono a screditare o il teste o l’imputato. Le più importanti sono quelle dell’art. 500 c.p.p. (contestazioni nell’esame testimoniale). Contestare vuol dire far emergere la differenza tra ciò che un soggetto ha dichiarato fuori e prima del dibattimento rispetto a ciò che lo stesso soggetto sta dichiarando nel dibattimento davanti al giudice. Esempio: Tizio nelle indagini dice A; nel dibattimento, poi, racconta B. La precedente dichiarazione A sta nei fascicoli di parte: quindi, se quel testimone è un teste a carico la dichiarazione starà nel fascicolo del P.M., mentre se quel testimone è un teste a discarico la dichiarazione starà nel fascicolo del difensore. Questo verbale, che contiene la pregressa dichiarazione del teste sta nei fascicoli di parte e, in quanto collocati nei fascicoli di parte, dovrebbe esserne vietata la pubblicazione. In realtà non è cosi, perché esiste questa eccezione. La ratio di questa eccezione è la seguente: nel momento in cui si procede alla contestazione il giudice viene a conoscenza di quell’atto; che senso avrebbe allora vietarne la pubblicazione se il giudice, nel momento in cui la parte procedere alla contestazione, già lo conosce? Proseguendo con l’analisi dell’art. 114 c.p.p. ci sono, poi, altri divieti: § divieto di pubblicazione di atti del dibattimento celebrati a porte chiuse (quarto comma). Se il dibattimento si celebra a porte chiuse vuol dire che: Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 70 potrebbe farlo perché alla fine delle indagini preliminari, quando il G.I.P. decide se archiviare o meno, se constata che il reato è estinto archivia utilizzando l’art. 411 c.p.p.: in tal caso, risolve il problema che non potrebbe risolvere con l’art. 129 con l’art. 411. Torniamo all’art. 129 c.p.p. e, nello specifico, al suo secondo comma il quale si occupa di una situazione diversa. Esso lancia un messaggio al giudice: se coesistono più formule di proscioglimento, già si individua quale formula è preferibile. Il secondo comma stabilisce, infatti, che «quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta». Il legislatore, quindi, dice che se c’è una compresenza ricavabile in maniera evidente dagli atti di una situazione riconducibile a il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato o il fatto non è previsto dalla legge come reato, il giudice deve privilegiare, come epilogo del processo in ogni suo stato e grado, una sentenza di assoluzione (se siamo nel dibattimento) o di non luogo a procedere (se siamo in udienza preliminare) con la formula prescritta (formula di merito). Se su un piatto della bilancia troviamo una causa di estinzione del reato (amnistia, prescrizione, morte dell’imputato) e sull’altro la possibilità di prosciogliere nel merito, la bilancia pende verso questa seconda possibilità. Questo, però, a condizione che dagli atti risulti evidente: questo significa che per adottare quella sentenza di merito, è sufficiente leggere gli atti e non è, invece, necessario introdurre nuovi mezzi di prova. In conclusione, vanno privilegiate la soluzione di proscioglimento nel merito, a patto che questa possibilità sia ricavabile dagli atti. Il legislatore ha fatto una scelta di questo tipo per esigenze di celerità: infatti, la ratio della norma è quella di garantire un epilogo veloce perché, se dovessero essere introdotti nuovi mezzi di prova, questa velocità non sarebbe garantita. Altra norma da esaminare è l’ART. 141-bis C.P.P., la quale, trovando applicazione con riferimento agli interrogatori, assume una valenza notevole. Poiché si tratta di una norma burocratica di organizzazione e poiché essa si applicando agli interrogatori diventa molto importante. Questa disposizione è stata introdotta in un secondo momento rispetto alla pubblicazione del codice e questo per risolvere un particolare problema. Teniamo presente che questa norma è stata introdotta dalla L. 332/95, nel periodo successivo al fenomeno noto come “mani pulite”. Nei processi di tangentopoli degli anni ’90 avveniva, infatti, che gli inquirenti utilizzassero delle forme di pressione nei confronti dei soggetti sottoposti a interrogatori. Il legislatore, nel 1995, è intervenuto per porre un freno a questi abusi degli inquirenti negli interrogatori e ha introdotto, per l’appunto, l’art. 141-bis c.p.p.: ha introdotto quindi una modalità privilegiata per gli interrogatori persone che si trovano in stato di detenzione, in modo che di questi interrogatori rimanga una traccia controllabile a posteriore e che, quindi, induca gli inquirenti a comportarsi correttamente. Questo articolo dice che «ogni interrogatorio di persona che si trovi, a qualsiasi titolo, in stato di detenzione, e che non si svolga in udienza, deve essere documentato integralmente a pena di inutilizzabilità, con mezzi di riproduzione fonografica o audiovisiva […]». Se non sono disponibili questi mezzi di riproduzione fonografica e audiovisiva, bisogna disporre una perizia (si deve chiamare un perito fonico). L’obbligo di utilizzare questa documentazione è sanzionato, in caso di violazione, con l’inutilizzabilità. Questo vuol dire che una documentazione incide a tal punto sul procedimento penale da sfociare in un divieto d’uso qualora ci sia un’inosservanza di queste modalità. Cosa accade, però, se le pressioni vengono esercitare prima di far partire la registrazione? La riproduzione, infatti, potrebbe non essere integrale, in quanto è l’autorità stessa che decide quando far partire la riproduzione. È per questo che si richiede sempre la presenza del difensore quale garante di questa fedele riproduzione. Focalizziamoci sull’espressione «ogni interrogatorio di persona che si trovi, a qualsiasi titolo, in stato di detenzione e che non si svolga in udienza»: questa disposizione riguarda, appunto, solo gli interrogatori che non si svolgono in udienza. Quindi, il legislatore separa già gli interrogatori tra quelli che si svolgono in udienza e quelli che non si svolgono in udienza. Nel codice di procedura penale ci sono, infatti, diverse tipologie di interrogatori, alcuni dei quali si svolgono in udienza e altri fuori udienza. L’interrogatorio specifico, per il quale è stato selettivamente previsto questo articolo, è l’interrogatorio di garanzia (art. 294 c.p.p.), cioè l’interrogatorio di un soggetto sottoposto a misura cautelare. Un’altra espressione è la seguente: «a pena di inutilizzabilità». Questa inutilizzabilità viene costruita in senso assoluto: infatti, quando il codice parla di inutilizzabilità vuole indicare che quella sanzione riguarda non solo la persona che è interrogata, ma anche i terzi. Se non vengono osservate queste regole, i risultati dell’interrogatorio Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 71 che si è svolto non osservando le modalità di documentazione privilegiata saranno inutilizzabili non solo nei confronti di colui che è stato interrogato, ma anche nei confronti di altre persone. Ecco che l’autorità deve stare attenta ad utilizzare questi strumenti, perché se non li utilizza va incontro a un divieto d’uso. Ci si domanda, però, quale sia la vera area operativa di questa inutilizzabilità. Esempio: supponiamo che a Treviso Tizio sia stato interrogato (non in udienza) e questa documentazione privilegiata non sia stata adottata. Quindi, l’autorità ha agito non ricorrendo a questi strumenti, laddove risulta invece obbligatorio utilizzarli. La sanzione è quella dell’inutilizzabilità. Supponiamo, a questo punto, che il risultato dell’interrogatorio sia estremamente favorevole a colui il quale è stato interrogato. Si potrebbe sostenere a riguardo che il divieto d’uso potrebbe intendersi operante solo contro la persona interrogata. A questo si potrebbe, però, replicare che, siccome il legislatore ha introdotto questi mezzi, la finalità che il esso vuole perseguire non sia tanto una finalità di tutela dell’interrogando, bensì di genuinità degli esiti dell’interrogatorio. Bisogna quindi utilizzare questi strumenti, altrimenti quell’interrogatorio, anche se favorevole, non sarebbe genuino. 28 ottobre 2019 L’INVALIDITÀ DELL’ATTO Quando paliamo dell’invalidità dell’atto ci riferiamo ai suoi profili patologici, cioè a quell’ipotesi in cui gli atti processuali non vengono compiuti osservando le regole individuate della legge. Nel processo penale gli atti sono a forma vincolata: questa scelta marca la differenza tra la nostra materia e il processo civile, dove, invece, vale la regola del conseguimento dello scopo. Nel processo civile, infatti, un atto può essere valido anche se non completamente prefetto, ma persegue un determinato scopo. Il sistema processuale penale, invece, è più rigido. L’espressione “atti a forma vincolata” vuol dire che è il legislatore a predeterminare le modalità con le quali deve essere compiuto un atto. L’atto, quindi, sarà perfetto solo se sarà in linea con quanto previsto dal legislatore; al contrario, sarà imperfetto se non soddisfa i requisiti previsti dalla legge. [rinvio alle nullità] Le figure di invalidità riconosciute dal codice di procedura penale sono le seguenti: o inesistenza: un atto è inesistente quando non integra nessuna fattispecie astratta prevista dalla legge. Quindi, si può dire che un atto inesistente è un non-atto. Siccome questo atto posto in essere concretamente in un processo reale, non è neppure riconducibile a una fattispecie astratta, non esiste. Mancando una fattispecie astratta non possiamo neanche fare un discorso in termini di perfezione- imperfezione. L’atto inesistente può essere equiparato alla nullità civilistica, cioè a un atto che non è mai venuto ad esistenza. I casi di inesistenza sono molto rari nella prassi del processo penale: potremmo pensare a un atto compiuto da un soggetto che, successivamente al suo compimento, si scopre non essere un giudice. Un atto inesistente non è soggetto a nessuna forma di sanatoria, quindi, non patisce neanche quella forma di sanatoria che è il giudicato. L’inesistenza è talmente forte come vizio che travalica addirittura il giudicato. Quindi, anche di fronte a un giudicato si può sempre far valere l’inesistenza dell’atto; o inammissibilità: tecnicamente, l’inammissibilità è una sanzione che colpisce gli atti di parte e, segnatamente, le domande. Esempio: art. 468 c.p.p.: la parte che intende esaminare il testimone deve presentare la lista dei testimoni almeno 7 giorni prima della data fissata per il dibattimento, a pena di inammissibilità. La lista testimoniale è un tipico atto di parte: se non si rispettano i limiti temporali, questo viene sanzionato dall’inammissibilità. Altri esempi possono riguardare le impugnazioni, oppure le richieste di prova; o decadenza: spesso questa figura di invalidità viene affiancata alla inammissibilità. Decadenza è l’espressione di quella più ampia che è la decadenza dal potere di esercitare un dovere. Alcuni considerano la decadenza accanto all’inammissibilità perché le considerano due facce della stessa medaglia: decadenza come perdita del potere di compiere un atto, inammissibilità come conseguenza della perdita del potere di compiere un atto. Esempio: se io non presento la mia lista entro i termini decado e come sanzione avrò l’inammissibilità; o abnormità: l’atto abnorme è un atto che esiste dal punto di vista legale (il giudice lo può compiere) ma è compiuto al di fuori dei casi previsti, oppure si tratta di atti che i giudici e i P.M. compiono al di fuori del consentito. Si tratta di operazioni stravaganti del processo e, per porre un rimedio, si definiscono abnormi. Spesso l’abnormità nasce dall’esercizio di un potere, in astratto legittimo, ma che si esplica in concreto al di fuori dei casi previsti o con modalità del tuto in consuete. Si suole distinguere: a. abnormità morfologica: riguarda atti non riconducibili a modelli contemplati dal sistema processuale. L’atto compiuto è perciò estraneo al sistema; Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 72 b. abnormità funzionale: riguarda atti suscettibili di produrre irreversibili stasi procedimentali. L’abnormità è un istituto di origine giurisprudenziale, ma il fatto che abbia una certa frequenza nella prassi, ha indotto il legislatore a tutelarlo. L’abnormità integra infatti un motivo di ricorso per Cassazione e questo lo si ricava dall’art. 111 Cost. dove si parla di ricorso in Cassazione per violazione di legge. La giurisprudenza, per ridurre gli arbitrii che riguardano i rapporti tra giudice e P.M., ricava, dall’art. 111 Cost., l’istituto della abnormità; o inutilizzabilità: è la sanzione tipica propria delle prove, in quanto si tratta di una forma di invalidità forgiata ad hoc per le prove. È, infatti, la sanzione che consegue alla violazione di un divieto probatorio (art. 191 c.p.p.); o nullità: vedi sotto. La nullità degli atti La nullità degli atti è l’ipotesi di invalidità più frequente con riferimento agli atti processuali penali. Nel processo penale gli atti sono a forma vincolata: quindi, se l’atto è compiuto in modo conforme alla fattispecie astratta è perfetto, mentre se l’atto non è compiuto in modo conforme alla fattispecie astratta, l’atto è imperfetto Qual è in genere la regola logica che dovremmo seguire? La seguente: perfezione = efficacia; imperfezione = inefficacia. Purtroppo, nel processo penale, le cose non stanno così, perché il legislatore processual penalista complica le cose introducendo nel sistema un principio fondamentale, che rappresenta la chiave di lettura dell’intero sistema delle nullità: il principio di conservazione degli atti imperfetti. Questa attribuisce, in via provvisoria, alcuni effetti all’atto imperfetto. Perché lo fa? Lo fa perché vuole autotutelarsi e garantire una certa efficienza del processo, una durata ragionevole del processo. Il legislatore, quindi, non vuole rinunciare all’atto posto in essere nel processo X anche se quell’atto è imperfetto. Si tende a conferire efficace a qualcosa che, in quanto imperfetta, non dovrebbe produrre effetti. Con questo principio il legislatore conferisce all’atto perfetto una efficacia instabile, provvisoria: efficacia instabile significa che vi sarà un evento che la colpirà. Questo evento che la colpisce può essere di due tipi: a- una sanatoria dell’atto imperfetto: se c’è la sanatoria vuol dire che la patologia si sana e quindi, in virtù di questo, l’atto nato imperfetto ma provvisoriamente efficace, diventerà definitivamente efficace. Gli artt. 183 e 184 c.p.p. sono gli articoli che si occupano di questo caso; b- una declaratoria di invalidità da parte del giudice: l’art. 185 c.p.p. individua le regole sottese a questo caso. Per quanto riguarda le caratteristiche fondamentali delle nullità, dobbiamo partire da un principio che regge l’intero sistema delle nullità: il c.d. principio di tassatività delle nullità, secondo il quale i casi di nullità sono tassativamente previsti dal legislatore (ART. 177 C.P.P.). La conseguenza di questo principio è che non è possibile creare fattispecie di nullità per analogia, cioè non c’è spazio per attività creative della giurisprudenza. Il giudice non può, quindi, né creare, né respingere ipotesi di nullità, ma può solo utilizzare quelle previste dal codice. Il legislatore ha introdotto questo principio di nullità perché le forme del processo sono una garanzia per la parte più debole (imputato), ma anche una garanzia per la giurisdizione, per la cultura giuridica esterna ovvero la percezione che il cittadino ha della giustizia penale. Più un processo guarda ai sistemi accusatori (più garantisti), più sarà importante il valore delle forme. La tassatività, quindi, comporta un divieto di analogia. Dall’altro lato, l’offesa è inclusa nell’imperfezione. Il giudice penale non è tenuto a verificare se quell’atto imperfetto ha suscitato un effettivo pregiudizio alla parte; è un tipo indagine che, in virtù del principio di tassatività, è interdetta al giudice penale. Si sta manifestando una tendenza, sulla scia delle sentenze della corte di Strasburgo, di dare peso al pregiudizio effettivo. Quando studiamo le nullità dobbiamo basarci su due chiavi di lettura: a) individuazione delle nullità: si deve verificare e accertare se sussistono delle nullità; b) individuare il regime di trattamento: in questo caso ci si occupa dell’individuazione delle modalità di rilevazione o eccezione della nullità, cioè il modo in cui far valere la nullità. Il legislatore ha previsto delle nullità generali, alle quali di contrappongono le nullità speciali. Nello specifico: • le nullità generali vengono individuate attraverso delle macro-categorie (giudice, P.M., parti private): quindi, il legislatore individua degli atti che cadono all’interno di queste categorie e a questi ricollega delle ipotesi di nullità; Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 75 Le sanatorie Per effetto della sanatoria, l’atto nato imperfetto diventa definitivamente perfetto. Tecnicamente la sanatoria è un atto o un comportamento che, saldandosi all’atto imperfetto, produce gli effetti che quell’atto, nato imperfetto, avrebbe prodotto se fosse nato perfetto (cioè nato in maniera corretta). Praticamente, si fa finta che quell’atto produca effetti come se fosse nato perfetto. Abbiamo due grandi categorie di sanatoria: o le sanatorie generali (ART. 183 C.P.P.) che riguardano tutti gli atti. Le nullità sono sanate: a. quando la parte espressamente rinuncia ad eccepire o accetta gli effetti dell’atto. Quindi, in questo caso c’è un atto è stato compiuto non osservando le forme, ma la parte decide di rinunciare ad eccepirlo oppure accetta gli effetti di quell’atto; b. quando la parte si avvale della facoltà al cui esercizio l’atto omesso o nullo è preordinato. Esempio: l’informazione di garanzia deve contenere l’invito a nominare un difensore; se manca questa indicazione si potrebbe far valere la nullità. Però, avvalendosi della lettera b) dell’art. 183 c.p.p. ci si può avvalere comunque della facoltà di nominare un difensore; o le sanatorie speciali (ART. 184 C.P.P.) previsti per gli atti informativi (avvisi, citazioni, notificazioni, ecc.). Importante è poi l’ART. 185 C.P.P., il quale riguarda gli effetti della dichiarazione di nullità. È l’opposto degli artt. 183 e 184 c.p.p.: vuol dire che l’atto non si sana e, quindi, il giudice deve dichiarare il vizio. Si tratta di una norma di compromesso, nel senso che cerca di contemperare una serie di esigenze antitetiche, ma tutte meritevoli di essere tutelate. Anzitutto, questa norma esordisce con quello che è un problema rilevante nel processo penale, cioè quello della c.d. invalidità derivata. Derivata vuol dire che un atto viziato potrebbe contaminare un altro atto o, in altre parole, che il vizio di un atto potrebbe individuare la sua genesi nel vizio di un atto che lo precede. Abbiamo, quindi, una catena di atti e potrebbe accadere che l’atto successivo sia viziato perché quello precedente lo ha contaminato. Il legislatore, di fronte a questa problematica, poteva optare per due strade: § poteva decidere di far sé che l’atto viziato rendesse nulli tutti gli atti successivi, con il rischio del naufragio dell’intero processo, perché un atto compiuto all’inizio del dibattimento avrebbe contaminato tutto il resto; § poteva adottare una soluzione opposta e più leggera, non prevedendo affatto la nullità derivata e quindi prevedere che l’atto successivo non contaminasse affatto gli atti successivi. Il legislatore ha deciso di adottare, invece, una soluzione di compromesso, che troviamo all’esordio dell’art. 185 c.p.p. (primo comma): «La nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo». Il fenomeno dell’invalidità derivata si realizza solo quando tocca una sequenza di atti consecutivi, in cui quelli successivi dipendono da quello dichiarato nullo. Quel rapporto di dipendenza non va visto come rapporto di dipendenza cronologica, bensì funzionale, nel senso che l’atto viziato contamina quello successivo perché l’atto successivo non avrebbe ragione di esistere senza l’atto viziato precedente. Pensiamo, ad esempio, al decreto di citazione a giudizio e notificazione. Che cosa deve fare il giudice quando individua una nullità? Il giudice, quando dichiara la nullità di un atto, deve disporre la rinnovazione dell’atto (secondo comma). Può accadere, inoltre, che la nullità venga scoperta in uno stato o in un grado successivo e diverso da quello in cui si è manifestata. In questo caso, il giudice deve disporre la regressione del procedimento allo stato o al grado in cui è stato compiuto l’atto nullo. La declaratoria di nullità, quindi, comporta un inevitabile rallentamento dei tempi del processo. Questa regola della regressione non riguarda, però, le prove (terzo e quarto comma). Concludiamo il discorso con tre considerazioni: • si sta manifestando, nel tempo, una certa insofferenza ne confronti delle nullità assolute, perché adesso le nullità vengono osservate con la lente del principio della ragionevole durata del processo. Ecco perché queste sono, da tempo, bersaglio di molte critiche. Teniamo presente, poi, che incombe sempre l’ombra della giurisprudenza di Strasburgo: i giudici di Strasburgo tendono a manifestare una certa sofferenza con riferimento alle forme; l’importante è che venga salvaguardato il diritto. Sulla scia di questa giurisprudenza, quindi, c’è una certa tendenza a porsi in una posizione di insofferenza nei confronti delle nullità assolute; • altro profilo è quello del pregiudizio effettivo. La tassatività comporta che l’offesa sia inclusa nell’offesa e quindi il giudice non debba accertare il pregiudizio; invece, sulla scorta della giurisprudenza di Strasburgo ritengono che si potrebbe introdurre nel nostro sistema il criterio del pregiudizio effettivo, il quale Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 76 comporterebbe la possibilità per il giudice di non dichiarare una nullità laddove si ritenga che in quel processo, in concreto quella nullità non abbia arrecato un pregiudizio; • altro profilo ancora è quello dell’abuso del processo: era successo un caso pratico in cui c’era dei difensori di imputati che avevano richiesto ripetutamente rinvii delle udienze e avevano sostituito ripetutamente i difensori (sostituzioni a catena). La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, si era occupata di questo caso e aveva rilevato un abuso e ha introdotta nel nostro sistema il concetto di c.d. abuso del processo. I difensori non sono d’accordo con questa posizione, perché se sussiste un diritto non se ne può abusare. 3 LE PROVE Quando affrontiamo il tema della prova abbiamo delle disposizioni generali: gli ARTT. 187 SS. C.P.P. Un primo punto da chiarire è un problema di ordine concettuale: che cosa si intende per prova nell’ordinamento processuale penale? Se lo scopo del processo penale è il giudizio, le prove sono gli strumenti cognitivi necessari per realizzare e addivenire a quel giudizio. Le prove si snodano, di regola, attraverso un procedimento che viene definito procedimento probatorio, il quale si struttura in tre diverse fasi: 1) la fase di ammissione delle prove: in questa fase si decide se introdurre o meno una prova nel processo, quindi se quella prova può essere avere accesso nel processo. Esempio: io sono il difensore di Tizio e chiedo che venga ammessa la testimonianza di un soggetto X o chiedo che venga ammesso il documento Y; il giudice, con ordinanza, risponde alla mia richiesta: può essere ammissiva (se ammette la prova) o reiettiva (se respinge la prova). Se questa fase da esito positivo si procede alla fase successiva; 2) se la fase di ammissione ha esito positivo, allora si dischiude la fase di assunzione della prova: questa si occupa del come il mezzo di prova viene forgiato all’interno del processo penale. Essa, quindi, riguarda le modalità attraverso le quali la prova viene costruita all’interno del processo. Esempio: dopo che il giudice ha emesso l’ordinanza ammissiva, si rivolgono domande al testimone e così si costruisce la testimonianza; 3) la terza è la fase di valutazione della prova: la valutazione consiste nell’operazione mentale attraverso la quale il giudice conferisce un valore, un peso specifico alla prova. Attenzione che la valutazione della prova considera già compiuti i primi due passaggi precedenti. Esempio: la testimonianza è stata costruita, sono state fatte le domande e il giudice si ritira in camera di consiglio per valutare la testimonianza. Il giudice potrà considerarla attendibile o meno. Prima di proseguire è necessario fare alcune distinzioni: Prima distinzione: Mezzi di prova: si parla di mezzi di prova per alludere agli strumenti che direttamente producono conoscenze utilizzabili nel giudizio. Quindi, i mezzi di prova sono strumenti cognitivi direttamente utilizzati al giudice per fondare il giudizio e sono la testimonianza, la perizia, la consulenza tecnica, l’esame delle parti, ecc. Mezzi di ricerca della prova: questi sono strumenti di ricerca, che non forniscono direttamente risultati immediatamente utilizzabili, bensì sono operazioni che eventualmente consentiranno di acquisire dati utilizzabili. Tra questi troviamo, ad esempio, la perquisizione, l’intercettazione, il sequestro. Se la procura di Treviso sta intercettando una linea telefonica, solo eventualmente potrebbero emergere elementi di prova. I mezzi di ricerca della prova sono, di regola, atti a sorpresa, cioè atti che si fondano sul fattore sorpresa (altrimenti non sarebbero efficaci) e sono atti tendenzialmente irripetibili (di regola, per essere efficaci, possono essere compiuti una volta sola). Seconda distinzione: Mezzo di prova: Risultato di prova: Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 77 in questo caso ci si riferisce a uno strumento che fornisce direttamente conoscenze. questo è il prodotto di quello strumento. Esempio: Tizio richiede la testimonianza di Caio; mentre stanno facendo le domande a Caio si stanno producendo conoscenze; ciò che il testimone avrà raccontato viene definito risultato di prova. Prendiamo gli artt. 530 e 533 c.p.p. Terza distinzione: Prove costituende: sono quelle che nascono e vengono forgiate dentro il processo (es. la testimonianza, la perizia). Il risultato di queste prove nasce dalle domande che vengono effettuate. Prove costituite: sono i documenti, i quali esistono a prescindere dal processo Quarta distinzione: Prova rappresentativa: si intende una prova che rappresenta un dato storico, un fatto storico. La testimonianza è una prova rappresentativa. Prova indiziaria o critica: mentre la prova rappresentativa rappresenta un fatto, quella critica non rappresenta un fatto ma lo indica. Si pensi, ad esempio, alla prova del DNA o alla prova d’alibi. In questo caso, si parte da un fatto noto, si applica la massima di esperienza (che può essere scientifica o no), e si giunge alla conoscenza del fatto ignoto. Come è impostato il procedimento penale in materia probatoria? C’è una regola fondamentale, che è quella del nesso tra la prova e il dibattimento: questo vuol dire che nel processo penale italiano, la sede naturale di formazione della prova è il dibattimento. Quindi, di regola, è prova solo ciò che emerge dal contesto dibattimentale. Questa regola presenta però delle eccezioni: 1. incidente probatorio (artt. 392 ss c.p.p.): l’incidente probatorio è una parentesi giurisdizionale (perché vede coinvolto il giudice) che si apre e si chiude nelle indagini preliminari o nell’udienza preliminare. La sede naturale dell’incidente probatorio, comunque, sono le indagini preliminari. Questo mira a realizzare un obiettivo ben preciso: anticipare la formazione della prova, prima e fuori del dibattimento, ma con le stesse regole del dibattimento. Il fatto che questa prova si forgi fuori del dibattimento lo colloca sul terreno delle eccezioni. Quindi, nell’incidente probatorio abbiamo un’anticipazione delle regole dibattimentali, ma fuori dal dibattimento. Con l’incidente probatorio stiamo anticipando qualcosa che non converrebbe anticipare; con le seguenti situazioni, invece, stiamo recuperando al dibattimento qualcosa che è stato compiuto prima. 2. letture dibattimentali: rappresentano quel meccanismo che consentono di recuperare al dibattimento qualcosa che è stato realizzato prima e fuori del dibattimento. In genere, le letture riguardano i c.d. atti irripetibili, cioè quelli originariamente irripetibili o quelli a c.d. irripetibilità sopravvenuta. Prendiamo l’art. 512 c.p.p., che è una delle norme più importanti perché consente di recuperare qualcosa che è stato creato prima: parliamo della lettura di atti per sovvenuta impossibilità di ripetizione. Questo articolo, attraverso la lettura, ci permette di recuperare quella precedente dichiarazione contenuta nel verbale. Quindi, siamo nell’ambito delle eccezioni perché stiamo recuperando qualcosa che si era creata prima del dibattimento. L’art. 112 c.p.p. è il pendant dell’incidente probatorio: se un soggetto non ha richiesto l’incidente probatorio non può avvalersi dell’art. 112 c.p.p. 30 ottobre 2019 Oggetto della prova La norma di apertura è l’ART. 187 C.P.P. che circoscrive l’oggetto. La ratio sottostante a questa disposizione è la seguente: nel processo penale l’oggetto di prova delimita ciò che si può provare nel processo. Non tutto deve essere provato nel processo, ma occorre provare solo i fatti che servono a quel processo. La conseguenza è che ciascuna parte deve sapere con certezza che cosa può e deve essere provato nel processo. Questa è una garanzia e si discosta da una scelta operata da sistemi tendenzialmente inquisitori, dove si può provare tutto ciò che il Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 80 - da un lato, il legislatore nell’art. 190 ci dice che i provvedimenti sulla prova possono essere revocati dal giudice nel contraddittorio (cioè possono essere revocati dal giudice ma nel contraddittorio, quindi il giudice non può revocarli senza sentire le parti); - dall’altro lato, nell’art. 495 quarto comma, dove si parla di revoca, è disposto «sentite le parti», espressione a mezzo della quale si realizza sul piano dinamico quel contraddittorio che impone il terzo comma dell’art. 190. Se non ci fosse il contraddittorio, infatti, il giudice sarebbe padrone della prova e questo è ciò che il legislatore vuole evitare. L’ART. 188 C.P.P. si occupa in generale della libertà morale della persona nell’ambito dell’assunzione della prova. Essa dice che «non possono essere utilizzati, neanche con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti». Cosa accade se l’imputato, però, potesse sottoporsi a queste tecniche perché per lui potrebbero essere vantaggiose? La soluzione non è semplice, perché dipende dalla ratio con la quale è stato costruito questo articolo. Se questa disposizione va intesa come regola di civiltà, a fronte di questi sistemi banditi, dovremmo concordare con la scelta del legislatore (esempio: tecnica dell’ipnosi). Consideriamo adesso l’ART. 189 C.P.P., che tratta delle prove non disciplinate dalla legge (c.d. prove atipiche). Potrebbe accadere che una parte richieda l’ammissione di una prova non prevista dalla legge; in questo caso, il potere decisorio del giudice cambia rispetto all’ordinario potere/dovere decisorio che il giudice ha in ordine all’ammissione della prova. L’art. 189 si occupa di prove che non ricevono, da parte del legislatore, una disciplina compiuta. Si tratta, quindi, di una norma che serve per adeguare il processo alle nuove e più moderne tipologie di prove. Esempio: la registrazione effettuata da un soggetto che partecipa al dialogo. Questa non può essere considerata una intercettazione. Bisogna capire qual è la giusta collocazione di questa forma di registrazione: secondo alcuni si tratterebbe di un documento; secondo altri no perché mentre un documento rappresenta dei fatti, la registrazione rappresenta delle dichiarazioni. Lo stesso potrebbe dirsi per un filmato di videosorveglianza registrato da un privato. La giurisprudenza è tendente a considerare queste prove come prove atipiche ex art. 189 c.p.p. Lo stesso potrebbe dirsi per le ricognizioni informali, le quali sono difficilmente riconducibili all’interno della categoria generale delle ricognizioni. Se, in un processo a Treviso le parti si mettono d’accordo per vedere se il testimone riconosce o meno l’imputato, questa non è una ricognizione in senso tecnico; infatti, secondo una parte della giurisprudenza si tratterebbe di una ricognizione informale e, in quanto tale, disciplinata dall’art. 189 c.p.p. L’art. 189 c.p.p. sancisce che «quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona. Il giudice provvede all’ammissione, sentite le parti sulle modalità di assunzione della prova». Analizziamo questo articolo: • l’espressione «assumerla» è errato: qui il legislatore doveva scrivere «ammetterla» perché siamo nell’ambito del procedimento di ammissione della prova, l’assunzione ne sarà una conseguenza; • vediamo cosa significa «idoneità» (cuore della norma): significa capacità dimostrativa della prova, cioè potenziale o astratta capacità dimostrativa di una prova. Quindi, questa prova deve essere potenzialmente capace di contribuire all’accertamento del fatto. Il legislatore ha avvertito l’esigenza di parare di idoneità perché stiamo parlando di prove atipiche; infatti, le prove tipiche sono astrattamente idonee ad assicurare l’accertamento dei fatti, perché se il legislatore le ha scelte egli ha dato a queste prove un’etichetta di idoneità ad accertare i fatti. Le prove atipiche, infatti, non essendo previste dal legislatore devono passate sotto a un preventivo vaglio di idoneità. Esempio: non bisogna verificare se, in astratto, il testimone è idoneo, perché già lo è di per sé: questo salvo poi verificare se dice il falso, ma di per sé il testimone sarà idoneo all’accertamento dei fatti). Altro esempio: la perizia è astrattamente idonea ad accertare i fatti. • l’ultimo periodo genera un po’ di confusione: qui si parla di ammissione, ma intendendo l’assunzione. Questo perché, in questa fase, quello che viene in rilievo è esclusivamente quello dell’assunzione della prova. Siccome questa prova è atipica, il legislatore non solo non l’ha prevista e, quindi, è necessario regolare anche le modalità di assunzione di quella prova. Esempio: stabilita l’idoneità di una video registrazione, il giudice e le parti potranno decidere se proiettarla in aula, se avvalersi di un tecnico affinché rilevi eventuali manomissioni, ecc. Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 81 L’ART. 190-BIS C.P.P. è stata introdotta dalla legislazione di emergenza del 1992 e successivamente è stata modificata. Si tratta di una norma molto importante perché si occupa del c.d. doppio binario probatorio: questo vuol dire che dobbiamo attenderci una disciplina diversa rispetto a quella ordinaria. Questa, infatti, si sostanzia in una diversificazione del diritto alla prova inteso: § come diritto all’ammissione della prova (primo segmento del procedimento probatorio); § come diritto all’assunzione della prova (secondo segmento del procedimento probatorio). Dobbiamo intendere la rubrica di questa disposizione come segue: requisiti dell’ammissione e dell’assunzione della prova in casi particolari. Quali sono questi casi particolari? La norma si riferisce a: a. procedimenti per reati particolari: questa norma significa rinvio a procedimenti che fanno riferimento a reato di particolare gravità. In tal caso abbiamo un doppio binario in materia probatoria. Quando ci troviamo di fronte a due procedimenti, se viene richiesto l’esame di un testimone o di una persona imputata in un procedimento connesso, (es.: Tizio è imputato per omicidio e Caio per occultamento di cadavere) e questo testimone o imputato in un procedimento connesso ha reso dichiarazioni precedenti, in sede di incidente probatorio o in dibattimento in contraddittorio con l’accusato (cioè con il destinatario di queste dichiarazioni), oppure le dichiarazioni di questi testimoni o imputati in procedimenti connessi sono inserite nel verbale di un altro procedimento. à da questo momento in poi ci sta spiegando come restringe il diritto alla prova. Quindi: prima ci sta dicendo quali sono i casi e, successivamente, ci sta dicendo come restringe e come intervenire per limitare il diritto alla prova. Stiamo parlando di procedimenti connessi con questi reati. Può accadere che un soggetto in un procedimento abbia reso dichiarazioni o in incidente probatorio, o in dibattimento o in contraddittorio con la persona destinataria di quelle dichiarazioni. Si può porre il problema dell’utilizzabilità di queste dichiarazioni in un’altra sede. In quest’altra sede che esigenza potrebbe nascere? Potrebbe nascere l’esigenza di risentire queste dichiarazioni, in virtù del fatto che sussiste un processo penale connesso al precedente. Qui scatta il limite al diritto alla prova, che troviamo nella seconda parte. Si dice, infatti che l’esame è ammesso (cioè è possibile risentirlo) a delle condizioni: - se riguarda fatti o circostanze diverse da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni; - se il giudice e le parti lo ritengono specificatamente necessario. Si tratta, quindi, di un diritto alla prova condizionato. Il legislatore vuole limitare quanto più possibile l’escussione, cioè il riascolto di questo teste o di questa persona imputata. L’obiettivo è quello di limitare le audizioni. Questa disposizione è stata introdotta per evitare che i testimoni o gli imputati di mafia venissero spostati per reiterare il loro contributo. Esempio: se un testimone rende la sua dichiarazione a Palermo, per evitare che lo stesso testimone sia spostato a Napoli, a Roma e a Bologna per rendere nuovamente la sua dichiarazione, è preferibile mantenere valida la dichiarazione resa a Palermo. Lo spostamento sarà possibile soltanto al verificarsi di una delle due condizioni previste dall’art. 190-bis c.p.p.; b. nel tempo, è stata ampliata l’area operativa di questa norma. Il comma 1-bis si occupa di reati diversi da quelli che abbiamo visto finora. Si tratta di reati a sfondo sessuale o pornografico. In questo caso, la norma vista prima viene estesa anche a questi casi e la limitazione del diritto alla prova cambia leggermente. Se ci troviamo di fronte a quei reati si applicano le limitazioni che abbiamo visto prima se si ha a che fare con l’esame di un testimone minore di anni 16 o quando la testimonianza riguarda la vittima particolarmente vulnerabile. Il problema della vittima vulnerabile emerge in questo modo: l’obiettivo è quello di evitare la vittimizzazione secondaria, cioè evitare che questo soggetto venga risentito (con il rischio che possa subire un pregiudizio dalle attività processuali). La ratio cambia leggermente, in quanto l’obiettivo principale è quello di proteggere il soggetto. anche qui si potrebbe obiettare che, proteggendo la vittima, si sta limitando il diritto alla prova di chi avrebbe interesse a riascoltare la vittima. ART. 192 C.P.P. Consideriamo, ora, l’ultima fase del procedimento probatorio: la valutazione della prova. Quando parliamo di valutazione della prova ci stiamo occupando del peso che il giudice deve dare a una prova (c.d. giudizio di valore). Il legislatore ha scelto di dettare delle regole di valutazione della prova. Ricordiamoci che, qui, non siamo nell’ambito di prove legali; a differenza del processo civile, infatti, non esistono prove legali, cioè prove il cui valore è predeterminato dal legislatore. Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 82 L’art. 192 c.p.p. si apre, al primo comma, con il principio del libero convincimento del giudice, nello specifico: «il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati». Affinché questo non si traduca in un arbitrio, è necessario che il giudice renda una motivazione che dia conto dei risultati acquisiti e dei criteri adottati. Al secondo comma si dice che «l’esistenza di un fatto storico non può essere ricavata da indizi, a meno che questi non siano gravi, precisi e concordanti». Quindi, la prova indiziaria è consentita purché gli indizi siano: a. gravi: si allude alla pregnanza e solidità dell’indizio; b. precisi: si allude alla puntualità dell’indizio con riferimento al rapporto di pertinenza tra indizio e oggetto di prova; c. concordanti: con riguardo al caso in cui ci siano più indizi, i quali devono tutti convergere nella stessa direzione. Il codice individua poi, al terzo e quarto comma, una norma importante in materia di dichiarazione rese dagli imputati o dai co imputati o da imputati in procedimenti connessi: va notato che, in questo caso, non si parla di persone estranee alla vicenda (come sarebbe un testimone), ma coinvolte nella vicenda. Per questi soggetti il legislatore prevede regole di valutazione particolare: le dichiarazioni rese da quei soggetti non possono essere valutate isolatamente, ma vanno lette, verificate e valutate insieme ad altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità, cioè elementi di prova suscettibili di confermare l’attendibilità della dichiarazione. Esempio: Tizio, collaboratore di giustizia, rende dichiarazioni che incriminano altri: non possiamo fare affidamento al cento per cento su questa dichiarazione, ma dobbiamo valutarla alla luce di altri elementi che consentono di confermarla. Vediamo quali sono i criteri elaborati dalla giurisprudenza per guidare il giudice in questa analisi, cioè in questa ricerca di altri elementi: o vaglio di attendibilità di tipo soggettivo: il giudice deve anzitutto risolvere il problema dell’attendibilità del dichiarante, cioè della fonte, di colui che sta raccontando qualcosa. Bisognerà, allora, verificare se quel soggetto ha precedenti penali, soprattutto per calunnie. In passato si riteneva che si dovesse valutare anche il disinteresse, cioè che si dovesse valutare se il dichiarante fosse o meno disinteressato rispetto alle dichiarazioni che rendeva; oggi, invece, questo parametro non si usa più; o vaglio di attendibilità oggettivo: in secondo luogo, bisogna verificare l’attendibilità della dichiarazione del dichiarante. Bisognerà quindi verificare se quella dichiarazione è coerente, verosimile, dettagliata e circostanziata. La giurisprudenza non accetta che le dichiarazioni siano rateizzate nel tempo, cioè l’indagato oggi dice A, domani dice A+B; o ricerca dei riscontri esterni: bisogna, infine, ricercare i riscontri esterni. Questi riscontri esterni possono essere di qualsiasi tipo: intercettazioni, informazioni, ma anche dichiarazioni di altri pentiti. Si può arrivare anche alle c.d. dichiarazioni incrociate; o riscontro individualizzante: bisogna focalizzare l’attenzione non solo e non tanto, come avveniva in passato, sulla figura del dichiarante, ma sul fatto storico attribuito al destinatario di quelle dichiarazioni. In passato, si trascurava la figura dell’accusato e ci si concentrava sull’accusante. Se tizio accusa caio dicendo che anche lui ha partecipato all’attività estorsiva, il riscontro individualizzante vuol dire concentrare l’attenzione sulla descrizione del fatto storico attribuito al destinatario della dichiarazione. 04 novembre 2019 La sanzione tipica in materia di prove è prevista agli artt. 191 e 526 c.p.p. ed è l’inutilizzabilità. Dobbiamo chiarire il concetto di inutilizzabilità. Il codice la disciplina in maniera analitica, ma non ci dice in che cosa consiste. Per comprendere la sanzione nella giusta luce, bisogna evidenziare che cosa succedeva nel vecchio codice. Si verificava il seguente problema: l’unica sanzione prevista per gli atti, anche quelli probatori, era una nullità relativa o intermedia. Si trattava, quindi, di una nullità sanabile. La nullità non era in grado di tutelare l’attività probatoria, perché l’atto viziato, se nessuno faceva valere le nullità, veniva sanato e diventava utilizzabile dal giudice a fini decisori. Ecco la gravità della situazione. Per porvi rimedio il legislatore ha creato una sanzione ad hoc per le prove à l’inutilizzabilità. Questa sanzione ha un regime di trattamento forte, analogo a quello previsto per le nullità assolute. L’inutilizzabilità è, quindi, un vizio rilevabile anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento. Questo per evitare il rischio di sanatorie prima del giudicato. Si tratta di un vizio rilevabile anche in Cassazione. L’inutilizzabilità è una sanzione che colpisce gli atti compiuti in violazione di divieti probatori. Questa nozione la si può estrapolare dal primo comma dell’art. 191 c.p.p. Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 85 Consideriamo l’art. 606 c.p.p. in materia di ricorso per Cassazione. Esso ne individua i casi. In Cassazione si possono, infatti, far valere solo i vizi previsti dal legislatore dalla lettera c si ricava un ulteriore argomento a sostegno dell’utilizzabilità della prova illecita: si riferisce a norme processuali [collega l’inutilizzabilità all’inosservanza delle prove processuali]. Opinione di un illustre processual-penalista a favore dell’utilizzabilità: possiamo sacrificare una prova alle regole processuali? Se quella prova illecita è fondamentale per prosciogliere l’imputato o per condannarlo, uno stato di diritto non consente di sacrificare l’epilogo processuale. L’inutilizzabilità è una sanzione che si può definire “a lunga gittata”, ossia essa è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento. L’inutilizzabilità integra anche un autonomo motivo per il ricorso in Cassazione. Inoltre, i giudici in Cassazione potranno sempre ex ufficio rilevare l’inutilizzabilità. Supponiamo che l’inutilizzabilità non sia stata indicata nei motivi del ricorso, ma dato che è rilevabile d’ufficio, i giudici ne potranno rilevare l’inutilizzabilità. 05 novembre 2019 LA TESTIMONIANZA Si tratta di una prova rappresentativa, perché il teste, attraverso la parola, rappresenta un fatto. Inoltre, è una prova orale. In quanto prova rappresentativa ed orale, si salda inevitabilmente con il metodo probatorio più importante, ossia con il contradditorio nella formazione della prova. La prova rappresentativa vuole il contradditorio per potersi manifestare nella sua pienezza e il contradditorio è efficace, in quanto diretto contro prove rappresentative (pensiamo, ad esempio, alle prove incrociate): si sorreggono a vicenda. La prova rappresentativa, però, è estremamente fallace, in quanto si fonda su una massima di esperienza che caratterizza la nostra vita quotidiano à “credo a quella persona, perché sta raccontando qualcosa”. Il giudice crede al testimone perché sta raccontando qualcosa, salvo il vaglio del contradditorio. Il punto di partenza è comunque questo. Ci sono tutta una serie di criteri che rendono pericolosa la testimonianza: o innanzitutto, l’ottica particolare di chi assiste all’avvenimento; o la memoria, poi, presenta un’inevitabile griglia selettiva (= elimina alcuni episodi); o c’è poi la cosiddetta curva dell’oblio (= la memoria col tempo decade); o inoltre, la risposta dipende dalla domanda (dal modo in cui viene formulata); o altro problema consiste nella traduzione del pensiero in linguaggio. Queste caratteristiche le ritroveremo nell’ambito della disciplina della testimonianza. La testimonianza mantiene, nel codice, una sua centralità: esso, infatti, esordisce nell’analisi dei mezzi di prova proprio con la testimonianza. Una prima disposizione si riferisce all’oggetto e ai limiti della testimonianza (ART. 194 C.P.P.). Il legislatore si preoccupa di fissare subito dei confini con riferimento all’oggetto della testimonianza. Se parliamo di oggetto della testimonianza il pensiero corre subito a quella disposizione che abbiamo visto in merito all’oggetto della prova (art. 187 c.p.p.): quindi, all’interno dell’oggetto della prova, troviamo l’oggetto della prova testimoniale, il quale subisce tutta una serie di limitazioni in ragione della struttura del metodo di prova. In altre parole, la particolare struttura e natura del mezzo di prova incide anche sul suo oggetto e richiede, dunque, una sua restrizione. Questo articolo va letto come una disposizione che individua dei limiti per quanto concerne l’oggetto della domanda e, quindi, si rivolge a quei soggetti legittimati a effettuare le domande; tra questi soggetti troviamo le parti, il P.M., il rappresentante della parte civile e, talvolta, il giudice. Anzitutto, al primo comma, c’è un riferimento ai fatti che costituiscono oggetto di prova: le domande ai testimoni devono vertere sui fatti oggetto di prova. Innanzitutto, esiste il divieto di deporre sulla moralità dell’imputato, a meno che questi elementi che riguardano la moralità dell’imputato non siano necessari per qualificare la personalità dell’imputato in relazione al reato. Non si possono fare questo tipo di domande (si pensi, ad esempio, al caso in cui Tizio dica che Caio si recava spesso a giocare d’azzardo) e nemmeno domande che riguardano la sfera privata dell’imputato. In sostanza, le domande devono semplicemente accertare un fatto storico e non dare questo tipo di giudizi. Al secondo comma, c’è un’estensione dell’oggetto: «l’esame può estendersi anche ai rapporti di parentela e di interesse che intercorrono tra il testimone e le parti o altri testimoni nonché alle circostanze il cui accertamento è necessario per valutarne la credibilità. La deposizione sui fatti che servono a definire la personalità della persona offesa dal reato è ammessa solo quando il fatto dell’imputato deve essere valutato in relazione al comportamento di quella persona». Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 86 Esempio: nel processo penale spesso si chiede: “in che rapporti era lei (testimone) con il presente imputato? Frequentava l’imputato? Frequentava i luoghi frequentati dal presente imputato?”. Queste domande servono per valutare la credibilità del testimone. Il terzo comma si riferisce al caso in cui il testimone sia esaminato rispetto a fatti determinati. Qui va fatto un COLLEGAMENTO con l’art. 499 c.p.p. che si occupa dell’istruzione dibattimentale: questo articolo sembra evocare questa disposizione utilizzando l’espressione «fatti specifici». L’art. 194, dal punto di vista statico, dice che le domande devono vertere su fatti determinati; il pendant processuale (art. 499 c.p.p.) esordisce dicendo che l’esame del testimone deve svolgersi su fatti specifici, agganciandoli ai fatti determinanti di cui all’art. 194. Questa regola è stata introdotta perché l’obiettivo del legislatore, con questo evocando la tradizione di common law, è quello di evitare che il testimone possa fare una lunga narrazione, cioè possa raccontare una storia senza soluzione di continuità. Il terzo comma, nello specifico, stabilisce che «il testimone è esaminato su fatti determinati. Non può deporre sulle voci correnti nel pubblico né esprimere apprezzamenti personali salvo che sia impossibile scinderli dalla disposizione sui fatti». Quindi, ad esempio, il testimone non può dire che “nel paese X si dice che…”: questo perché il pubblico è considerato come un grande anonimo e il legislatore prova un forte ostracismo nei confronti dei racconti provenienti dagli anonimi (in quanto fonti non identificabili). Infatti, esiste un principio secondo cui tutte le informazioni provenienti da fonti non verificabili sono bandite dal processo e la voce del pubblico, in questo caso, è una fonte non verificabile. Al testimone è vietato esprimere giudizi di valore, a meno che non siano strettamente legati al fatto storico. Si pensi, ad esempio, al caso in cui il testimone affermi che “quella persona non mi è mai piaciuta” oppure “quella persona è particolare”. C’è, però, un caso in cui i giudizi di valore sono ammessi: è il caso della c.d. testimonianza tecnica. Si tratta di una normale testimonianza, ma effettuata da un tecnico in veste di testimone (es. testimonianza di un medico). Attenzione che non stiamo parlando del consulente tecnico chiamato dalla parte per svolgere una funzione di consulenza, ma stiamo parlando di un normale testimone che, in qualità di semplice testimone, è comunque a conoscenza di elementi tecnici. Si pensi, ad esempio, al caso di un incidente stradale, nelle vicinanze del quale si trovava un medico, il quale è stato chiamato per soccorrere il ferito. Il medico, in questo caso, potrebbe essere chiamato come testimone, intervenendo nel processo come testimone e potrà esprimere dei giudizi di valore legati alle sue nozioni professionali. Consideriamo, poi, l’ART. 196 C.P.P. che parla della capacità di testimoniare. Esso, al primo comma, sancisce che «ogni persona ha la capacità di testimoniare». Quindi, la regola è che tutti possono testimoniare ed esiste solo la possibilità per il giudice, anche d’ufficio, di disporre degli accertamenti al fine di verificare l’idoneità fisica e mentale del dichiarante a rendere testimonianza. Nel processo penale, quando c’è il problema della testimonianza di un bambino, bisogna decidere se egli è in grado di testimoniare. Il secondo comma, infatti, stabilisce che «qualora, al fine di valutare le dichiarazioni del testimone, sia necessario verificarne l’idoneità fisica o mentale a rendere testimonianza, il giudice anche di ufficio può ordinare gli accertamenti opportuni con i mezzi consentiti dalla legge». Quindi, il giudice si consulterà con un team, ad esempio, di psicologi e procederà alle verifiche necessarie. Il terzo comma, infine, sancisce che «i risultati degli accertamenti che, a norma del secondo comma, siano stati disposti dall’esame testimoniale non precludono l’assunzione della testimonianza». Veniamo, ora, all’ART. 195 C.P.P. riguardante la testimonianza indiretta. Per cogliere il significato di testimonianza indiretta dobbiamo fare un raffronto con la testimonianza diretta. Nello specifico: o a testimonianza diretta è la narrazione effettuata da un soggetto che ha percepito il fatto storico. Esempio: Tizio racconta di aver visto l’imputato nella pizza dell’università di Treviso: egli sta rappresentato un fatto storico che egli ha direttamente percepito; o la testimonianza indiretta, invece, si ha quando un soggetto racconta un fatto che egli non ha direttamente percepito, ma che gli è stato raccontato da un’altra persona. In altre parole, il testimone indiretto riporta all’interno del processo una dichiarazione percepita da altri e che altri gli hanno raccontato. Quindi, nella testimonianza indiretta abbiamo: a. il c.d. teste indiretto, che racconta un fatto percepito e raccontatogli da altri; b. il c.d. teste di riferimento, al quale il teste indiretto fa riferimento. Perché è importante e complicata questa testimonianza? Si pensi che nelle regole federali della California, dove in genere si privilegia la giurisprudenza, è addirittura codificata questa regola. Qual è il problema che pone questa testimonianza? Bisogna integrare il contraddittorio, cioè creare il contraddittorio per la formazione della prova Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 87 (art. 111 Cost.). In altre parole, è necessario integrare il contraddittorio portando al suo interno anche il teste di riferimento, per porre delle domande anche a lui. Per studiare bene la procedura bisogna partire da un criterio di metodo che è il seguente: ci sono due procedimenti distinti per portare il teste di riferimento in contraddittorio, ciascuno dei quali porta a delle conseguenze differenti. Questi sono: a) il primo comma dell’art. 195 stabilisce che «quando il testimone si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice, a richiesta di parte, dispone che queste siano chiamate a deporre». Quindi, il giudice deve disporre che il teste (o i testi) di riferimento siano citati in giudizio per deporre. Dobbiamo fare un collegamento tra richiesta di parte e dispone: se c’è richiesta di parte, allora la citazione in giudizio del teste di riferimento per il giudice rappresenta un obbligo, cioè un atto dovuto. Quindi: 1) richiesta di parte; 2) obbligo per il giudice di citare il teste di riferimento. b) il secondo comma dell’art. 195 stabilisce che «il giudice può disporre l’esame del teste di riferimento». Qui, come possiamo notare, non c’è l’obbligatorietà per il giudice. Infatti, il giudice, in questo caso, può decidere discrezionalmente se introdurre o meno il teste di riferimento. Possiamo fare il seguente COLLEGAMENTO: questo è uno di quei casi a cui accenna l’art. 190 c.p.p., nella parte in cui dice «la legge individua i casi in cui il giudice può agire d’ufficio»; quindi, è la legge che stabilisce quando il giudice può agire d’ufficio e questo sempre per garantire l’imparzialità del giudice, che sarebbe altrimenti a rischio. Quindi: 1) richiesta d’ufficio; 2) facoltà per il giudice di citare il teste di riferimento. Vediamo, adesso, le conseguenze di questo doppio binario, le quali sono disciplinate al terzo comma dell’art. 195. Nell’ipotesi in cui non vengono osservate le prescrizioni relative al primo binario procedimentale, scatta l’inutilizzabilità con riferimento alle dichiarazioni rese dal teste indiretto e relative ai fatti appresi da altri. Possiamo subito notare che non è inutilizzabile l’intera narrazione del teste indiretto, ma soltanto quella parte di narrazione che si riferisce a ciò che ha percepito il teste di riferimento. Questa sanzione, però, patisce delle eccezioni, che ricorrono quando l’esame del teste di riferimento sia impossibile e non possa essere effettuato per tre motivi: - morte del teste di riferimento; - infermità del teste di riferimento; - irreperibilità del teste di riferimento. La sanzione dell’inutilizzabilità, quindi, ha una portata operativa ben precisa: si riferisce solo al primo binario, cioè si riferisce solo all’ipotesi in cui, nonostante la richiesta di parte, il giudice non abbia citato il teste di riferimento. Questo meccanismo è stato oggetto di qualche critica: secondo taluni è possibile una violazione del contraddittorio. Infatti, se concludiamo per l’uso delle dichiarazioni del teste indiretto stiamo violando il contraddittorio. Se ci pensiamo, stiamo derogando anche a quel principio secondo cui non sono ammesse nel processo penale dichiarazioni provenienti da fonti non verificabili: infatti, se il teste non viene chiamato la fonte non è verificabile. L’irreperibilità, per esempio, potrebbe prestarsi a strategie elusive: potrebbe, infatti, essere consigliato al teste di riferimento di non rendersi reperibile. In realtà, si dovrebbe trattare di una irreperibilità oggettiva, tuttavia questa situazione potrebbe comunque venirsi a verificare. Non è mai stata sollevata alcuna questione di legittimità costituzionale e questo perché si tende a conservare la testimonianza indiretta. Il giudice, in sede valutativa, come deve comportarsi? Ha una certa libertà? Stiamo, ora, analizzando la testimonianza indiretta nei primi due segmenti del procedimento probatorio. Pensiamo all’ipotesi ordinaria: teste indiretto e citazione del teste di riferimento. Abbiamo, quindi, due testimoni che hanno reso due dichiarazioni. In capo al giudice sussiste il principio del libero convincimento, salvo l’obbligo di motivare la decisione. Quindi, è il giudice che decide quale peso assegnare a ciascuna dichiarazione che viene concretamente in rilievo. Quindi, nonostante la citazione del teste di riferimento, il giudice potrebbe dare la priorità al teste indiretto, perdendo così rilievo i primi due segmenti del procedimento processuale. È sempre fatta salva la possibilità di impugnare la sentenza. Vediamo così che i tre segmenti del procedimento probatorio sono sì legati, ma non al punto di vincolare il giudice nell’assunzione della sua decisione. Al quarto comma c’è un’altra regola che riguarda la testimonianza indiretta degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria. Inizialmente, nel 1989, c’era un divieto assoluto per questi soggetti di fungere da testimoni indiretti, ma, nel 1992 la Corte Costituzionale ha fatto cadere questo divieto. Successivamente, con la legge sul Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 90 giudice registra l’impossibilità di procedere oltre. In controluce, si individua anche l’impossibilità di accertare il fatto storico. Se non ci fosse questa norma (terzo comma), quale sarebbe l’epilogo, ordinario e giusto secondo le regole del processo penale, di questo processo? La soluzione sarebbe quella del proscioglimento nel merito perché il fatto non sussiste (in quanto non accertabile per la presenza del segreto di stato). Questa è una regola che va contro gli interessi dell’imputato, in quanto impedisce al giudice di decidere, come invece dovrebbe essere. Infatti, l’imputato non riesce ad essere prosciolto nel merito e quindi, essendo destinatario soltanto di una sentenza di rito di non doversi procedere, non è più protetto dal ne bis in idem. Obblighi del testimone L’ART. 198 C.P.P. fotografa solo alcuni obblighi del testimone. Esso dice che il testimone ha: a. l’obbligo di presentarsi davanti al giudice e di attenersi alle prescrizioni del giudice stesso; b. l’obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli vengono rivolte: tecnicamente, il testimone non ha l’obbligo di dire tutta la verità, bensì l’obbligo di dire la verità con riferimento a quella porzione circoscritta alla domanda. Il secondo comma di questa disposizione sancisce che «il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale»: è come se il legislatore dicesse che il giudice non può obbligare il testimone a deporre su fatti che potrebbero incriminarlo. Qui sta il COLLEGAMENTO con l’art. 63 c.p.p., il quale si riferisce al rapporto tra un soggetto e l’autorità giudiziaria: se il testimone sa che da una dichiarazione potrebbero scaturire conseguenze penali ulteriori, allora può avvalersi del diritto al silenzio (secondo comma dell’art. 198); l’art. 63, invece, opera quando egli non si accorge e necessita dell’intervento di qualcun altro per informarlo: in questo caso questo qualcun altro è l’autorità, la quale deve interrompere l’esame, informarlo che sono emerse delle dichiarazioni indizianti nei suoi confronti ed invitarlo a nominare un difensore. Qui, il legislatore si occupa di una situazione diversa: il testimone sa già che una porzione della dichiarazione potrebbe incriminarlo; quindi, mentre nell’art. 63 il legislatore si occupa di una situazione in cui il testimone non percepisce l’effetto incriminante delle sue dichiarazioni, in questo caso il testimone ha una percezione delle dichiarazioni autoincriminanti. Se diciamo che il testimone può avvalersi del diritto al silenzio quando sa, in anticipo, che quella dichiarazione potrebbe incriminarlo, quale potrebbe essere la conseguenza? Si finirebbe per dare sempre una via d’uscita al testimone. Infatti, se applicata in maniera rigida, il testimone, in qualsiasi processo penale, potrebbe sempre avvalersi della possibilità di non parlare. La giurisprudenza ha elaborato quindi il seguente pensiero: non ci si può accontentare di un semplice “no” da parte del testimone, altrimenti questo avrebbe un comodo pretesto per sottrarsi sempre al dovere testimoniale. Il giudice, quindi, dovrebbe sempre chiedere al testimone di fornire qualche elemento che faccia capire ciò che potrebbe incriminarlo. In tal modo, però, il giudice lo sta paradossalmente obbligando a “incriminarsi un poco”. Il paradosso, in sintesi, sta nel fatto che per utilizzare l’art. 198, l’imputato deve “incriminarsi un poco”; cioè, per poter fruire di una garanzia contro l’autoincriminazione, è costretto a dire qualcosa che lo coinvolge. ART. 207 C.P.P.: Testimoni sospettati di falsità o reticenza. Testimoni renitenti. Qui, il legislatore si sta occupando del trattamento processuale del testimone falso, reticente o renitente e, cioè, di come si deve comportare il giudice di fronte a queste situazioni. La ratio è quella di: a. responsabilizzare il testimone, il quale, nel momento in cui si presenta, deve essere a conoscenza di quali saranno le conseguenze processuali che potranno scaturire dalla dichiarazione; b. separare la vicenda processuale da quella sostanziale-penale, cioè separare la realtà processuale dall’area penalistica, cioè dalle implicazioni che riguardano il reato. Analizziamo l’ipotesi in cui, durante, l’esame, il testimone renda dichiarazioni che vanno in conflitto con prove già acquisite o dichiarazioni intrinsecamente contraddittorie (prima dice A, poi dice B). Il giudice (o il presidente) deve: 1. rinnovargli l’avvertimento circa l’obbligo di dire la verità: questo avvertimento viene formulato anche quando il testimone rifiuta di deporre al di fuori dei casi previsti dalla legge (es. quando non è coperto da tutti i segreti). In questo caso il giudice gli rinnova quegli avvisi e se, nonostante gli avvisi, il testimone persiste, allora il giudice trasmette immediatamente gli atti al P.M. affinché agisca secondo le norme di legge. L’espressione “immediata trasmissione” distingue questa ipotesi dalla successiva. Si trasmettono gli atti al P.M., perché quest’ultimo se ravvisa gli indizi de reato, iscriverà il testimone nel registro apposito, per reticenza; Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 91 2. se il giudice ravvisa indizi di falsa testimonianza, deve informare il P.M. trasmettendogli gli atti con la decisione che chiude la fase processuale in cui il teste a deposto. Quindi, non immediatamente. Perché qui deve attendere la fase di chiusura? Per avere il quadro completo della situazione da trasmettere al P.M. 06 novembre 2019 IL TESTIMONE ASSISTITO Che cosa succede se un soggetto, dopo aver accusato altri, rifiuta di presentarsi o si trincea nel diritto al silenzio? Questo implica un pregiudizio nei confronti del difensore. Per porre un argine a questo fenomeno la Costituzione già interviene all’art. 111 terzo comma e quarto comma (seconda periodo); nello specifico: - il terzo comma delinea una prospettiva fisiologica; - il quarto comma delinea una prospettiva patologica. L’obiettivo del legislatore è quelli di evitare che un soggetto possa liberamente e/o strategicamente accusare altri e possa poi sottrarsi al confronto con il difensore di colui che ha accusato. Il legislatore aveva di fronte due strade: a. creare la figura, di matrice anglosassone, del testimone volontario, cioè dell’imputato che sceglie liberamente di diventare testimone. Questo vuol dire scegliere liberamente di assumere gli obblighi di testimone; b. obbligare un soggetto a diventare, in presenza di particolari condizioni, testimone. Il nostro legislatore ha seguito questa seconda strada e ha optato per la creazione della figura del testimone assistito. Prima di esaminare questa figura, facciamo una piccola premessa riguardante i dichiaranti presenti nel codice. Dobbiamo fare alcune distinzioni: o innanzitutto, c’è la figura del testimone ordinario, cioè un soggetto mai coinvolto nel fatto di reato che ha una serie di obblighi: obbligo di presentarsi, obbligo di dire la verità (tranne quella piccola parte di silenzio che riguarda la possibilità che possano emergere situazioni incriminanti nei suoi confronti). Questo testimone si colloca nella sfera della massima responsabilità nei confronti dell’autorità (giudice) o del processo; questo perché deve sottostare a tutti gli obblighi che abbiamo visto; o al polo opposto troviamo l’imputato, il quale si colloca nella sfera della massima libertà: l’imputato, infatti, ha il diritto di mentire, ha il diritto al silenzio, ha il diritto di non presentarsi; è sicuramente possibile, oggi, celebrare un processo in assenza dell’imputato, ma questo solo in casi particolari. Qualora l’imputato venisse privato del diritto di partecipare al processo, senza colpa, addirittura ha una prerogativa che si traduce in un mezzo di impugnazione straordinaria: la rescissione del giudicato. Quindi, se dopo il giudicato si scopre che l’autorità non ha fatto il possibile per consentire all’imputato di celebrare il processo e lo ha celebrato senza la sua incolpevole assenza, l’imputato ha la possibilità di scardinarlo; o in mezzo a questi due poli, ci sono altre figure, le quali sono connotate da un certo ibridismo perché prendono alcune caratteristiche dal testimone ordinario e alcune dall’imputato. Queste figure sono due e interferiscono reciprocamente; vediamole: - l’imputato in procedimenti connessi o per reati collegati (ART. 210 C.P.P.); - il testimone assistito (ART. 197-BIS C.P.P.). Tendenzialmente è frequente che, in presenza di determinate condizioni, l’imputato in procedimenti connessi o per reati collegati si trasformi in testimone assistito. Anche la tipologia delittuosa incide sulla distinzione tra queste due figure. Come si diventa testimoni assistiti? Quali sono i requisiti che consentono di attivare il mutamento di qualifica e far si che un soggetto che partecipa al processo penale in una determinata veste possa, poi, trasformarsi in testimone assistito? Per rispondere a questa domanda bisogna tenere presente che ci sono due casi fondamentali che determinano questa metamorfosi (primo e secondo comma dell’art. 197-bis). Nello specifico: 1) caso dell’imputato giudicato (primo comma), cioè un imputato che è stato giudicato con una sentenza irrevocabile. Questo comma sancisce che «l’imputato in un procedimento connesso […] o di un reato collegato può essere sempre sentito come testimone quando nei suoi confronti è stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena (su richiesta delle parti) ai sensi dell’art. 444». Esempio: Tizio, imputato a Vicenza, subisce una condanna in via definitiva a Vicenza; egli può diventare testimone assistito a Treviso per effetto di quella precedente condanna passata in giudicato. Con riferimento a questa disposizione si possono fare alcune annotazioni: Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 92 - l’utilizzo dell’avverbio sempre significa che la trasformazione non dipende dalla volontà dell’imputato in procedimento connesso; - l’uso di poi indica la facoltà dell’interessato di citare l’imputato; - si fa riferimento alla presenza di un giudicato: il fatto che questa trasformazione consegua direttamente alla presenza di un giudicato significa che la questione è stata già risolta; quindi, quella vicenda è cristallizzata e il processo si è concluso (a Vicenza) e l’imputato può essere sentito altrove (a Treviso). Il giudicato va a rompere il legame tra il procedimento originario (a Vicenza) e il procedimento successivo (a Treviso); - l’uso del termine connesso indica che la trasformazione può colpire tutti gli imputati in procedimenti connessi a prescindere dalla connessione, che è un criterio aggiuntivo di competenza. Al fine della prima ipotesi rilevano tutte le ipotesi di connessione. Pensiamo alla responsabilità medica di equipe: la responsabilità, in questo caso, è di vari soggetti che, con condotte indipendenti, possono aver cagionato l’evento. Questi procedimenti pendono davanti a giudici diversi e il legislatore vorrebbe che venissero riuniti di fronte allo stesso giudice. Si usa il condizionale perché questo dipende da vari fattori (tempo, tipologia di rito, ecc.). quindi, quando ci stiamo occupando di questa prima ipotesi, l’espressione connesso riguarda tutte le ipotesi di connessione di cui all’art. 12; 2) il secondo comma stabilisce che «l’imputato in un procedimento connesso […] o di un reato collegato può essere sentito come testimone, inoltre, nel caso previsto dall’art. 64, comma 3, lettera c)», quindi a condizione che si siano verificati i presupposti stabiliti dalle regole generali in materia di interrogatorio. Possiamo notare che nella prima ipotesi si parla di giudicato, mentre in questo secondo caso no. Questa trasformazione, infatti, prescinde dalla presenza di un giudicato e, se prescinde dalla presenza di un giudicato, vuol dire che i vari procedimenti sono tutti pendenti. Quindi, bisogna fare i conti con due procedimenti che sono ancora in essere. Esempio: il procedimento di Vicenza è pendente davanti al giudice di Vicenza e il procedimento di Treviso è pendente davanti al giudice di Treviso. Il legislatore, per consentire la metamorfosi a fronte di procedimenti pendenti, non poteva creare un obbligo perché avrebbe creato un’interazione tra procedimenti e si sarebbe generato un caos. Per cui il legislatore, prima di tutto, ha preso in considerazione l’ipotesi di connessione più grave, cioè quella che produce interazione tra i procedimenti: art. 12 lettera c), cioè quando un reato è stato compiuto in rapporto con un altro reato (c.d. connessione modale). Il problema è responsabilizzare Tizio, cioè responsabilizzarlo a Treviso; ma come si fa? La risposta è tutta nel richiamo all’art. 64, il quale prevede che, a una persona che viene interrogata, deve essere dato un avviso: se renderà delle dichiarazioni etero- incriminanti, in ordine a quelle dichiarazioni, assumerà la qualifica di testimone assistito. Se quell’avviso non viene dato, quelle dichiarazioni non potranno essere utilizzate e non potrà assumere la qualifica di testimone assistito. Quindi, in questa ipotesi di trasformazione, non c’è giudicato, il quale viene sostituito dal meccanismo dell’avviso previsto dall’articolo 64. Si lascia al soggetto la libertà di scegliere: noi ti diamo questo avviso, ma stai attento perché se sceglierai di accusare altri, su quella porzione di realtà che accusa altri potrai essere richiamato a rivestire la qualifica di testimone assistito con tutte le conseguenze che ne derivano. Quindi, nella prima ipotesi l’imputato subisce la trasformazione, mentre in questo secondo caso è lui che lo sceglie, seppur dopo l’avviso. Abbiamo visto i due casi in cui avviene la trasformazione. Facciamo ora un’altra riflessione importante: è necessario enfatizzare la c.d. connessione modale. Il legislatore richiama questa ipotesi perché vuole dar peso all’ipotesi, più frequente nella prassi, in cui ci sia un legame stretto tra i procedimenti. Ad esempio, se c’è omicidio e occultamento di cadavere si dovrà ravvisare che uno è collegato all’altro: si ha a che fare con lo stesso oggetto della condotta; quindi, questa tipologia di delitti, in quanto collegati, comportano una necessaria interferenza di un procedimento con un altro. Una volta chiarito come si diventa testimone assistito, bisogna chiarire che cosa succede dal punto di vista processuale in questo caso. Che disciplina prevede il legislatore? Siccome si tratta di testimoni assistiti, l’assistito sta ad indicare la presenza di un difensore. Se di norma un testimone non è affiancato da un difensore, in quanto non legato ai fatti, in questo caso egli è sostenuto da un difensore. Infatti, il terzo comma dell’art. 197-bis prevede l’assistenza da parte da un difensore di fiducia o, in mancanza, di un difensore d’ufficio. La funzione del difensore del testimone d’ufficio è del tutto peculiare, perché Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 95 210 e su come, in maniera esplicita, richiami alcune importanti disposizioni di parte statica e di parte dinamica create ad hoc per i testimoni: artt. 194, 195, 498, 499, 500. Per chiudere, c’è il sesto comma, che si riferisce a persone imputate in procedimenti connessi quando ricorre l’ipotesi di connessione più delicata e, cioè, quella prevista dalla lettera c) dell’art. 12 (la c.d. connessione modale). Se ci troviamo nel dibattimento e il dichiarante è una persona nei confronti della quale ricorre una connessione modale, il legislatore prevede una disciplina particolare. Partiamo dalla seguente premessa: a. c’è la presenza di questi soggetti; b. c’è una connessione; c. ci troviamo nel dibattimento. Questi soggetti, quando si presentano nel dibattimento, si stanno presentando nella veste di persone imputate in procedimenti connessi. Quindi, non si è mai verificato prima del dibattimento condizioni tali da determinare la trasformazione. Il fatto che non si siano mai verificate queste condizioni, li descrive come persone imputate in procedimenti connessi. Questi soggetti, però, sono a rischio trasformazione, cioè sono soggetti nei confronti dei quali non si è ancora verificata la trasformazione, ma che potrebbero ancora subirla. Il giudice dibattimentale deve formulare l’avviso di cui all’art. 64: avvisa questi soggetti che se renderanno dichiarazioni etero-incriminanti, con riferimento a quella porzione di realtà etero-incriminante, assumeranno l’ufficio di testimoni assistiti (si applicherà quindi la disciplina dell’art 197-bis). Il sesto comma dell’art. 210 dobbiamo leggerlo come se fosse una disposizione residuale rispetto al 197-bis riguardante la testimonianza assistita. L’avviso è garantista perché c’è il difensore e perché prevede il diritto al silenzio, con però la possibilità che, in presenza di dichiarazioni etero-incriminante, con riferimento a quella porzione di realtà etero- incriminante, il soggetto assume l’ufficio di testimone assistito. IL CONFRONTO Il confronto consiste in una nuova audizione – condotta con metodo diverso dalle precedenti – di soggetti che sono già stati interrogati o esaminati e hanno fornito versioni divergenti su punti importanti. Il confronto mira a risolvere il contrato spigandolo, cioè aiutando a capire quale delle due ricostruzioni sia più attendibile, o eliminandolo alla radice e questo succede quando uno dei protagonisti cambia versione e riconosce che quella precedente era inesatta o falsa. Diversamente da quanto accade nella cross examination, il presidente (impropriamente chiamato giudice) governa l’assunzione svolgendo un ruolo attivo: egli anzitutto ricorda i protagonisti le rispettive dichiarazioni e chiede loro se le confermino o le modifichino. Qualora uno le ritirasse e il contrasto venisse meno, non vi sarebbe più bisogno di proseguire. Altrimenti si prosegue con il confronto vero e proprio: il presidente invita i due soggetti a muoversi contestazioni, cioè a dialogare e interagire direttamente l’uno con l’latro e rivolge loro domande. Le parti assistono in una posizione prevalentemente passiva, cioè non fanno domande ma vigilano sulla regolarità del procedimento. LA RICOGNIZIONE La ricognizione consiste in un paragone tra una percezione attuale ed il ricordo di una passata: chi la esegue è chiamato a dire se esse coincidono o differiscono. Qualsiasi sensazione può esserne oggetto, anche un suono, un odore, un sapore, ma nella pratica giudiziaria un posto di primo piano è occupato dalle percezioni visive e il codice si rivolge in primo luogo ad esse, dettando regole sulla ricognizione (visiva) di persone (artt. 213 e 214 c.p.p.), poi estese anche alle ricognizioni di cose (art. 215 c.p.p.). Il problema principale di questo mezzo di prova è che: - da una parte, fa molta impressione, soprattutto sui giudici popolari o nei procedimenti per certi reati; - dall’altra, è affetto da un alto tasso di errore, per tre ragioni: 1- come la testimonianza, si fonda su basi aleatorie e manipolabili quali i meccanismi del ricordo e dell’evocazione; 2- a differenza della testimonianza, non consiste in un racconto ma una dichiarazione secca (“è lui”, “non è lui”), come tale difficile da verificare; 3- il ricognitore si sente “sotto esame” e avverte l’aspettativa di un esito positivo della prova e tende a soddisfarla. Il procedimento inizia da una fase preparatoria, nella quale interagiscono presidente e ricognitore. Il presidente invita chi deve eseguire la ricognizione a descrivere la persona che ha visto e questo nel nome di due esigenze: Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 96 allestire una messinscena realistica e simile all’episodio originario e allungare la dichiarazione del ricognitore in modo da offrire a parti e giudice elementi che consentano di soppesarne l’attendibilità. Il presidente rivolge quindi all’interlocutore una serie di domande: se abbia già effettuato il riconoscimento, se prima o dopo il fatto abbia visto la persona da riconoscere (es. in un quotidiano), se la stessa gli sia stata indicata o descritta. Tutte queste domande chiedono la stessa cosa, cioè se percezioni intermedie si siano frapposte tra l’originaria e l’attuale. Infine, un quesito più generico, cioè se vi siano altre circostanze che possano influire sull’attendibilità della prova. Il ricognitore viene quindi allontanato. A questo punto il presidente procura la presenza di almeno due persone il più possibile somiglianti a quella sottoposta a ricognizione. Invita quindi quest’ultima a scegliere il suo posto rispetto alle altre, curando che si presenti nelle stesse condizioni nelle quali sarebbe stata vista dalla persona chiamata alla ricognizione. Preparata la scena, il ricognitore viene richiamato e il presiedente gli chiede se riconosca taluno dei presenti e, eventualmente, chi. Se vi è fondata ragione di ritenere che la persona chiamata alla ricognizione possa subire intimidazioni o altre influenze da quella sottoposta a ricognizione, il giudice dispone che l’atto sia compiuto senza che quest’ultima possa vedere la prima. L’art. 217 c.p.p. si occupa di ricognizioni plurime che possono presentarsi in due forme: § una persona è chiamata a riconoscerne molte (es. un testimone ha visto molti rapinatori). In questo caso, le comparse dovranno essere ogni vola diverse; § molte persone sono chiamate a riconoscerne una (es. vari testimoni hanno visto un rapinatore). In questo caso si procede con atti separati, impedendo ogni comunicazione tra chi ha compiuto la ricognizione e chi deve ancora eseguirla ed evitando così che l’uno possa influenzare l’altro. Anche per la ricognizione, la documentazione è importante, ma proprio perché la scenografia è un tassello decisivo della ricognizione la documentazione cartacea potrebbe non bastare e per questo si prevede che il giudice possa disporre rilevazioni fotografiche o cinematografiche. La disciplina è completata da alcune sanzioni: le regole sulla fase preparatoria e quella sulla documentazione sono previste a pena di nullità (relativa). Le disposizioni finora esaminate vengono spesso aggirate: accade infatti che nel corso di una deposizione si domandi al testimone se vede in aula il colpevole, oppure gli si sottoponga un album di fotografie chiedendogli se vi si trovi il responsabile. La giurisprudenza ammette queste pratiche facendo leva su due diversi ragionamenti: - uno invoca il principio di atipicità dei mezzi di prova; - l’altro ritiene che si tatti di comuni testimonianze. Entrambi sembrano sbagliati. Non siamo, infatti, di fronte a prove innominate, ma piuttosto a prove tipiche acquisite violando la legge. Nemmeno si può ricorrere alla disciplina della testimonianza, perché farlo significa dimenticare il percorso storico che ha portato la ricognizione ad emanciparsi, sino a diventare mezzo di prova autonomo. LA PERIZIA La perizia è lo strumento che immette nel processo conoscenze estranee al sapere comune. L’art. 220 c.p.p. stabilisce che «la perizia è ammessa quando occorre svolere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche». In deroga al principio secondo cui le prove sono ammesse a richiesta di parte, la perizia può essere disposta anche d’ufficio (art. 224 c.p.p.): questa disposizione conferma la tendenza del legislatore a favorire l’ingresso degli apporti specialistici. Un accertamento di grande importanza è la prova del DNA, che viene usata soprattutto per accertare la paternità di una traccia biologica lasciata sulla scena del delitto o sul corpo della vittima. A tal fine si può confrontare quella traccia con le informazioni custodite nella banca dati nazionale del DNA. Se la banca dati non fornisce alcun risultato, si pone il problema di come prelevare un campione di sostanza organica (peli, capelli, saliva, ecc.) dalla persona sulla quale si indirizzano i sospetti. La disciplina predisposta a tale scopo ha tratto ispirazione dalla normativa sulle intercettazioni. Il prelievo coattivo del campione biologico è consentito solo nei procedimenti relativi a certi reati e soltanto se è assolutamente indispensabile. Questa non sarebbe consentita ove si potesse procacciarsi il materiale organico con metodi meno invasivi (es. raccogliendo il mozzicone di sigaretta che la persona sottoposta alle indagini ha lasciato per terra). Tra le regole sull’esecuzione spicca il quinto comma dell’art. 224-bis c.p.p., il quale stabilisce che «a parità di risultato sono prescelte le tecniche meno invasive» (principio del minor sacrificio necessario). Mauro Morandin Università degli Studi di Padova 97 Le disposizioni dettate per il prelievo valgono anche qualora si debbano compiere accertamenti medici (es. ipotesi in cui si debba praticare una radiografia a un soggetto sospettato di aver ingerito ovuli contenenti stupefacenti). Ai sensi dell’art. 221 c.p.p., il perito è nominato dal giudice, che di regola lo sceglie all’interno degli albi istituiti presso ogni tribunale; egli può anche designare uno non iscritto negli albi, ma in tal caso deve motivare la decisione. Nel caso di questioni complesse vengono nominati più periti. L’incarico viene conferito dal giudice chiedendo al perito se si trovi in una delle situazioni di incapacità, incompatibilità o astensione fissate dalla legge; successivamente lo invita a recitare una formula di impegno. Il perito risponde ai quesiti esponendo oralmente il suo parere; se una delle parti ne sente l’esigenza, l’esposizione è seguita da un esame, che segue le stesse regole della cross examination del testimone. A tutto ciò si può aggiungere una relazione cartacea. I consulenti tecnici – art. 225 c.p.p. Le parti non possono interloquire sulla scelta del perito, affidata esclusivamente al giudice, ma possono nominare i propri esperti: i consulenti tecnici. La nomina dei consulenti tecnici può essere effettuata: a. sia all’interno di un accertamento peritale: in questo caso si riproduce lo schema triangolare tipico del contraddittorio, cioè il perito sta al giudice come i consulenti stanno alle parti. È importante sottolineare come il P.M. possa nominare solo dei consulenti e non periti. b. sia quando non è stata disposta alcuna perizia (c.d. consulenza extraperitale). Per ragioni di ordine e per non sbilanciare il contraddittorio, il numero dei consulenti tecnici non può superare, per ciascuna parte, quello dei periti. I consulenti, se sono presenti, devono essere sentiti dal giudice quando questi elabora i quesiti; in tale circostanza possono contribuire ad ampliare l’oggetto della perizia, proponendo di formulare quesiti ulteriori (art. 226 c.p.p.). Hanno inoltre diritto di partecipare alle operazioni peritali, suggerendo al perito specifiche indagini o formulando osservazioni e riserve, anche se il perito non è obbligato ad assecondare le loro sollecitazioni. Se vengono nominati quando le operazioni sono ormai esaurite, possono consultare la relazione e chiedere al giudice l’autorizzazione ad esaminare l’oggetto della perizia 8art. 230 c.p.p.). I consulenti possono riversare il loro sapere all’interno del processo in due modi: Ø con un esame orale, che seguirà le cadenze della cross examination (art. 501 c.p.p.); Ø con la presentazione di memorie scritte (art. 233 c.p.p.). il parere espresso dai consulenti potrebbe rendere inutile la perizia o, al contrario, mostrare l’esigenza di un approfondimento, stimolando così il giudice a dispone una. I consulenti tecnici sono soggetti con caratteristiche molto particolari, che non si riscontrano in altre figure processuali. Essi sono: - fonti di prova, in questo senso paragonabili al testimone; - ausiliari della parte, tenuti ad essere fedeli e deputati a ragionare intorno ad altre prove e in questo senso vanno accostati al difensore (o al P.M.). A seconda che li si avvicini all’uno o all’altro polo, una serie di questioni verranno rivolte in modo diverso. Ad esempio: prima della sua deposizione il consulente deve essere tenuto fuori dall’aula? Ha l’obbligo di dire la verità? Può porre domande al perito? Chi avvicina il consulente tecnico al testimone risponde affermativamente alle prime due e negativamente all’ultima; chi lo accosta al difensore darà risposte rovesciate. L’ESPERIMENTO GIUDIZIALE Ai sensi dell’art. 218 c.p.p. stabilisce che l’esperimento giudiziale consiste nella riproduzione, per quanto possibile, della situazione in cui il fatto si afferma o si ritiene essere avvenuto e nella ripetizione delle modalità di svolgimento del fatto stesso allo scopo di accertare se quell’evento sia o possa essere avvenuto in un determinato modo. L’art. 219 c.p.p. si occupa dello svolgimento dell’atto: il giudice ne determina le modalità eventualmente designando esperti. Le parti parrebbero relegate ai margini. Per lo più questo non costituisce un problema: esse potranno indicare l’oggetto dell’esperimento nella loro domanda istruttoria; se però la prova fosse introdotta d’ufficio, per assicurare il contraddittorio si potrebbe estendere analogicamente la disciplina sulla formulazione dei quesiti di perizia.
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