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Procedura penale - Tonini, Dispense di Diritto Processuale Penale

Riassunto completo (manca soltanto la parte storica, 2 capitolo) del manuale di diritto processuale penale Tonini.

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 05/05/2023

Lawstudent97ba
Lawstudent97ba 🇮🇹

4.2

(29)

11 documenti

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Scarica Procedura penale - Tonini e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! PARTE I - L’EVOLUZIONE STORICA DEL PROCESSO PENALE – LE FONTI Capitolo 1 SISTEMA INQUISITORIO, ACCUSATORIO E MISTO 1. Diritto penale e diritto processuale penale. Il diritto processuale penale è il complesso delle norme di legge che disciplinano le attività dirette all’attuazione del diritto penale nel caso concreto – esso ha, quindi, una funzione strumentale rispetto al diritto penale sostanziale. La legge processuale penale ha una duplice finalità: - Regola l’attività del giudice e delle parti; - Predispone gli strumenti logici mediante i quali il giudice, con il contributo dialettico delle parti, accerta i fatti di reato e la personalità di coloro che li hanno commessi. 2. La protezione della società e la difesa dell’imputato. L’esigenza di scoprire i reati e di applicare le sanzioni è dettata dalla necessità di proteggere la società contro il pericolo della delinquenza; pertanto, è necessario predisporre gli strumenti che permettano di accertare se il fatto di reato è stato commesso dall’imputato – questo risponde all’esigenza di difendere l’imputato innocente dal pericolo di una condanna ingiusta. Ma anche nell’ipotesi il cui l’accusato fosse colpevole, il processo dovrebbe difenderlo dal pericolo costituito dall’applicazione di sanzioni più gravi di quelle prescritte per il reato da lui commesso. Il processo penale, nell’applicare la legge sostanziale, deve perseguire contemporaneamente la funzione di tutelare la società contro la delinquenza e di difendere l’accusato dal pericolo di una condanna ingiusta; e le due esigenze hanno pari importanza. Tuttavia, è indubbio che la protezione della società è realizzata con mezzi che impediscono o ostacolano la difesa dell’imputato; viceversa, l’ampliamento dei diritti di difesa aggrava il pericolo che siano assolti i colpevoli. Si tratta, quindi, in definitiva di scegliere se accettare il rischio di condannare un innocente o accettare il rischio di assolvere un colpevole. Appare, dunque, imprescindibile rispondere al quesito su quale sistema processuale sia il più idoneo ad accertare i fatti di reato. 3. Sistema inquisitorio e sistema accusatorio. Sistema inquisitorio -> sistema che attribuiva al giudice il potere di attivarsi d’ufficio per perseguire i reati ed acquisirne le prove; la denominazione derivava dall’organo che prendeva l’iniziativa in questo tipo di processo, ovvero il giudice inquisitore. In linea generale esso si fonda sul segreto e sulla scrittura. Sistema accusatorio -> processo nel quale il giudice non esercitava alcun potere d’ufficio, poiché erano le parti ad avere l’iniziativa: l’avvio del processo, il suo svolgimento e la ricerca delle prove erano lasciati all’accusatore, mentre al giudice era attribuito soltanto il potere di prendere decisioni su richiesta di parte. Esso si fonda sul contraddittorio e sull’oralità. Occorre sottolineare che la contrapposizione ha un valore meramente astratto: la maggior parte dei sistemi è oggi di tipo misto. 4. Sistema inquisitorio e principio di autorità. Il sistema inquisitorio si basa sul principio di autorità – la verità è tanto meglio accertata quanto più potere è dato al soggetto inquirente: in lui devono cumularsi tutte le funzioni processuali, a lui devono essere attribuiti pieni poteri in ordine sia all’iniziativa del processo, sia alla formazione della prova. Conseguentemente, si tende a non riconoscere alcun potere alle parti: essi sono meri oggetti del processo. In questo sistema non occorre che il giudice sia indipendente: al contrario, si ritiene che quanto più stretto è il suo legame col potere politico tanto meglio egli potrà svolgere la sua opera e tanto più aderente al vero sarà la sua decisione. Vediamo quali sono le caratteristiche principali del sistema inquisitorio: - Iniziativa d’ufficio: L’iniziativa del processo deve spettare al giudice: non è necessario che il suo intervento venga richiesto da un soggetto che accusa l’imputato ma è sufficiente anche una denuncia anonima a mettere in funzione il giudice inquisitore. - Iniziativa probatoria d’ufficio: La ricerca delle prove deve spettare al giudice stesso perché egli ha più poteri e, quindi, meglio può conoscere il vero e il giusto. Il giudice è in grado di ricercare le prove con pieni poteri coercitivi (es. arrestando gli imputati e testimoni e compiendo perquisizioni). - Segreto: Non vi è contrapposizione dialettica tra le parti: l’inquisitore assume le deposizioni in segreto e non ha necessità di confrontare la sua ricostruzione della verità con le posizioni di accusa e difesa. - Scrittura: Delle deposizioni raccolta è redatto un verbale, nel quale è riportata l’interpretazione che l’inquisitore dà alle frasi pronunciate. Il materiale sul quale è basata la decisione consiste nell’insieme degli atti scritti, cioè dei verbali redatti. - Nessun limite all’ammissibilità delle prove: Quello che conta è il risultato da raggiungere – l’asserita verità – e non il modo con cui la si persegue: ogni modalità di ricerca delle prove è ammessa, compresa la tortura di imputato e testimoni, qualora l’inquisitore ritenga che questi stiano dicendo il falso. - La presunzione di reità: In questo sistema deve essere l’imputato a dimostrare la sua innocenza mediante prove: se dovesse fallire, deve essere condannato. - Carcerazione preventiva: Poiché l’imputato è presunto colpevole, in mancanza di prove di innocenza, può essere sottoposto a custodia preventiva in carcere: essa costituisce un’anticipazione della sanzione che poi verrà irrogata a seguito della decisione. - Molteplicità delle impugnazioni: Una volta che è stata pronunciata la sentenza, il regime permette che le parti possano presentare impugnazione, sulla quale deve decidere un giudice superiore, dotato dei medesimi poteri inquisitori che sono concessi al primo giudice. La sentenza pronunciata dal giudice di appello può, a sua volta, essere impugnata presso il consiglio del re o altro analogo organo di vertice, che è facilmente influenzabile dal potere politico. In ultima istanza si ritiene che il re possa concedere la grazia. 5. Sistema accusatorio e principio dialettico. Il sistema accusatorio si fonda sul principio dialettico – la verità si può meglio accertare quanto più le funzioni processuali sono ripartite tra soggetti che hanno interessi antagonisti: al giudice, indipendenza ed imparziale, spetta decidere sulla base delle prove prodotte dall’accusa e dalla difesa. Il sistema delineato può essere definito “separazione delle funzioni processuali” e consente di evitare che l’uso di un potere degeneri in abuso. Le caratteristiche essenziali del sistema accusatorio sono: - Iniziativa di parte: L’iniziativa del processo penale deve spettare soltanto alle parti: infatti, è dalla presenza di un “accusatore” che prende il nome tale sistema ed esso è rappresentato da un organo pubblico designato in base ad elezioni o in un apposito procedimento giurisdizionale. - Iniziativa probatoria di parte: I poteri di ricerca, ammissione e valutazione della prova non possono essere attribuiti ad un unico soggetto, ma devono essere divisi e ripartiti: colui che accusa ha l’onere di ricercare le prove e di convincere il giudice della reità dell’imputato; la difesa deve avere il potere di ricercare le prove in base alle quali possa convincere il giudice che l’imputato non è colpevole; il giudice deve soltanto decidere se ammettere o meno il mezzo di prova che viene richiesto (esame incrociato). - Contraddittorio: Il principio del contraddittorio assicura che, prima della decisione, il giudice permetta alla parte interessata di sostenere le proprie ragioni. Esso adempie a due funzioni essenziali: PARTE II - PROFILI GENERALI DEL PROCEDIMENTO PENALE Capitolo 1 I SOGGETTI DEL PROCEDIMENTO PENALE 1) Procedimento e processo Il processo penale ha lo scopo di accertare: a) se una determinata persona ha commesso un reato; b) qual è la personalità dell’autore del reato; c) quali sono le sanzioni che devono essergli applicate. Il processo penale ha una funzione “strumentale” rispetto al diritto penale sostanziale, nel senso che è veicolo necessario per applicare la legge penale. I termini “procedimento” e “processo” assumono nel codice due significati diversi. Con l’espressione “procedimento penale” si identifica una serie cronologicamente ordinata di atti diretti alla pronuncia di una decisione penale, ciascuno dei quali, in quanto validamente compiuto, fa sorgere il dovere di porre in essere il successivo e, al contempo, è esso stesso realizzato in adempimento di un dovere posto dal suo antecedente. Da tale definizione si ricava che nel concetto di procedimento penale sono ricompresi almeno 3 elementi fondamentali: a) L’espressione “una serie cronologicamente ordinata” di atti è intesa nel senso che gli atti stessi devono essere compiuti rispettando una determinata sequenza temporale; b) Tutti gli atti del procedimento hanno la finalità di accertare l’esistenza di un fatto penalmente illecito e la sua attribuibilità ad una persona; c) Il compimento di un atto del procedimento fa sorgere in capo ad un altro soggetto il “dovere” di compiere un atto successivo, fino alla decisione definitiva. Il procedimento penale ordinario è diviso in 3 fasi: le indagini preliminari, l’udienza preliminare e il giudizio. L’espressione “processo penale” indica una porzione del procedimento penale, e precisamente le fasi dell’udienza preliminare e del giudizio. Il momento iniziale corrisponde all’esercizio dell’azione penale ed il momento finale si ha quando la sentenza diventa irrevocabile. Pertanto, con l’espressione “processo penale” si fa riferimento a quella serie cronologicamente ordinata e necessitata di atti che ha come atto iniziale l’azione penale. Quindi, quando il codice usa l’espressione “in ogni stato e grado del processo” viene esclusa la fase delle indagini preliminari: in particolare, con il termine “grado” si vuole indicare lo stadio costituente una delle possibili articolazioni del processo (es. giudizio di primo grado, di appello, di Cassazione). Con il termine “stato” si vuole indicare una fase o momento nell’ambito di un grado del processo (es. udienza preliminare è una fase del giudizio di primo grado). L’azione penale è la richiesta, diretta al giudice, di decidere sull’imputazione. Il codice precisa con quali atti si esercita l’azione penale. Ai sensi dell’art. 405, co. 1, c.p.p., nel procedimento ordinario il PM esercita l’azione penale quando chiede il rinvio a giudizio dell’imputato; la richiesta è rivolta al giudice e contiene la formulazione dell’imputazione. Nei procedimenti speciali che eliminano l’udienza preliminare, l’azione penale è esercitata quando il PM formula l’imputazione nell’atto che instaura il singolo procedimento (es. nel giudizio direttissimo il PM contesta l’imputazione all’imputato che sia stato condotto direttamente in udienza, art. 451, co. 4 c.p.p. L’imputazione consiste nell’addebito della responsabilità di un fatto storico di reato; nel procedimento ordinario l’imputazione è formulata dal PM al termine delle indagini preliminari. Gli elementi dell’imputazione sono: • Le generalità della persona alla quale è addebitato il reato; • L’enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto storico di reato addebitato all’imputato; • L’indicazione degli articoli di legge che si ritiene siano stati violati. Non ha la natura di imputazione l’addebito provvisorio che è formulato dal PM nel corso delle indagini (art. 65. co. 1); la contestazione operata dal PM ha unicamente la funzione di mettere in grado l’indagato di esercitare il diritto di difesa. L’esercizio dell’azione penale determina due effetti: a) pone al giudice l’obbligo di decidere su di un determinato fatto storico; b) fissa l’oggetto del processo, cioè impone al giudice il divieto di decidere su di un fatto storico differente da quello precisato nell’imputazione (salve le eccezioni descritte negli artt. 516-521 c.p.p.). Il libro primo del codice ricomprende tra i soggetti del procedimento penale il giudice, il PM, la PG, l’imputato, la parte civile, il responsabile civile, il civilmente obbligato per la pena pecuniaria, la persona offesa ed il difensore. Si ritiene che possano essere definiti “soggetti” coloro che sono titolari di poteri di iniziativa nel procedimento. Tale potere comporta che il compimento di un atto del procedimento da parte di un soggetto faccia sorgere in un altro soggetto il potere (diritto-dovere) di compiere un atto successivo. Per tale motivo, non rientrano nella categoria dei “soggetti”, non avendo poteri di iniziativa in relazione al procedimento, i testimoni ed i periti; questi rientrano nella categoria delle “persone” che partecipano al procedimento. Le parti sono il soggetto attivo e passivo dell’azione penale, ovvero colui che ha chiesto al giudice una decisione in relazione all’imputazione (pubblico ministero) e colui contro la quale tale decisione è chiesta (imputato). Il PM e l’imputato sono le cd. parti necessarie del procedimento penale, senza le quali questo non può svolgersi; oltre alle parti necessarie vi sono altre “eventuali”, come ad esempio la parte civile: anch’essa chiede al giudice una decisione in relazione all’imputazione, ma è eventuale perché la sua esistenza deriva da una scelta facoltativa del danneggiato. GIUDICE 1. Giudici ordinari e speciali. Il termine “giurisdizione” può avere un duplice significato: • può riferirsi alla funzione dello Stato che consiste nell’applicare la legge al caso concreto con forza cogente da parte di un giudice terzo; • può riferirsi all’organo che svolge tale funzione; in tal senso giurisdizione è quel potere dello Stato che è impersonato da organi che hanno la caratteristica della indipendenza e della imparzialità. La giurisdizione non è impersonata da un organo unitario, bensì è un potere “diffuso” e cioè frazionato in più organi, ciascuno dei quali ha una competenza limitata. In primo luogo, si distingue tra giudici ordinari e speciali. Sono giudici ordinari quelli che hanno una competenza generale a giudicare tutte le persone e che, inoltre, sono composti da magistrati ordinari. Questi ultimi fanno parte dell’ordinamento giudiziario e la Costituzione gli garantisce l’indipendenza, autonomia (art. 104) e inamovibilità (art. 107). Sono giudici speciali quelli che sono competenti a giudicare soltanto alcune persone e che inoltre sono composti da magistrati speciali, cioè non appartenenti all’ordinamento giudiziario. Le garanzie di indipendenza dei giudici speciali non sono previste direttamente dalla Costituzione, che rinvia la regolamentazione della materia alla legge ordinaria (art. 108, 2° co.). Oltre a riferirsi alla funzione e all’organo che la svolge, il termine “giurisdizione” assumere un terzo significato, indicando l’insieme delle regole che permettono di distinguere i procedimenti di competenza della magistratura ordinaria dai procedimenti di competenza della magistratura speciale; in tal senso, ad esempio, l’art. 28, lett. a, tratta del conflitto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice speciale. 2. Giurisdizione e “giusto processo”. La Costituzione stabilisce che il giudice è soggetto soltanto alla legge e non ad altra fonte (art. 101, co. 2). L’indipendenza del giudice (sia come potere giudiziario, sia come persona fisica) è garantita dalla Costituzione attraverso un apposito organo, e cioè il Consiglio Superiore della Magistratura (art. 104). L’imparzialità del giudice è stabilita dal 2° co. dell’art. 111 Cost., in base al quale “ogni processo si svolge … davanti a un giudice terzo e imparziale”. In determinate situazioni nelle quali il giudice è (o può apparire) “parziale”, egli ha il dovere di astenersi e se non lo fa, le parti possono ricusarlo (artt. 36 e 37 c.p.p.). Quando una grave situazione locale può pregiudicarne l’imparzialità, il processo è rimesso ad altro ufficio predeterminato dalla legge (art. 45). Giusto processo. Nel testo della Costituzione le norme sulla “giurisdizione” contengono al loro interno quelle sul “giusto processo”: ciò lascia intendere che non può esservi giurisdizione senza giusto processo. Non è sufficiente, infatti, che la Costituzione garantisca un giudice indipendente da altri poteri dello Stato; occorre anche che sia garantito lo svolgimento della sua funzione. Sicché senza un processo giusto, non vi può essere giurisdizione così come intende la Costituzione. 3. La competenza La competenza può essere definita come quella parte della funzione giurisdizionale che è svolta dal singolo organo. La competenza è distribuita i base ai criteri della materia (il titolo di reato), del territorio (il luogo è stato commesso il reato), della funzione (che deve essere svolta in una determinata fase o grado del procedimento) e della connessione (con altri procedimenti). COMPETENZA PER MATERIA La competenza per materia è, a sua volta, ripartita in base a due criteri: 3) qualitativo, con riferimento al tipo di reato 4) quantitativo, con rifermento alla pena edittale, ovvero la pena massima stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato mentre non vengono considerate la continuazione, la recidiva e le circostanze – ad eccezione delle aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinari e delle aggravanti ad effetto speciale. La competenza per materia si ripartisce tra la Corte d’Assiste, il Tribunale per i minorenni, il Giudice di pace ed il Tribunale. Il Tribunale per i minorenni è competente per i reati commessi dai minori degli anni 18. Per stabilire la competenza del tribunale per i minorenni si deve prendere in considerazione l’età che aveva l’imputato all’epoca dei fatti contestati. Questa competenza è “esclusiva”, nel senso che resta attribuita al tribunale per i minorenni anche se il minore ha commesso un reato che sarebbe di competenza della Corte d’Assise, del Tribunale o del giudice di pace. Inoltre, se il minore ha commesso un reato insieme ad adulti, per lui la competenza resta radicata nel tribunale per i minorenni. Alla Corte d’Assise è attribuita, in estrema sintesi, la competenza a giudicare i più gravi fatti di sangue ed i più gravi delitti politici. Il Giudice di Pace è competente a conoscere una serie di fattispecie attribuite qualitativamente (art. 4 d.lgs. n. 274 del 2000), che per lo più costituiscono espressione di situazioni di microconflittualità individuale. Tra i reati procedibili a querela di parte attribuiti al giudice di pace vi sono: le percosse; le lesioni volontarie che hanno cagionato una malattia di durata fino a 20 giorni, salvo alcune eccezioni come nel caso in cui il reato è commesso ai danni del convivente o prossimo congiunto; la diffamazione; la minaccia semplice; i furti lievi (art. 626 c.p.); il danneggiamento. Tra i reati procedibili d’ufficio vi rientrano: la somministrazione di bevande alcoliche a minori o infermi di mente; la determinazione in altri dello stato di ubriachezza; gli atti contrari alla pubblica decenza; l’inosservanza dell’obbligo di istruzione elementare dei minorenni; nonché il nuovo reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato e diverse contravvenzioni. Il Tribunale è competente a giudicare i reati che non appartengono alla competenza della Corte d’Assise o del Giudice di Pace (competenza “residuale”); oltre alla competenza residuale, il tribunale ha una competenza qualitativa a giudicare reati, come quelli finanziari, che presuppongono una conoscenza di materie tecniche o comunque complesse in capo al magistrato. Inoltre, varie leggi speciali attribuiscono al tribunale la competenza a giudicare i reati commessi a mezzo cinema, stampa, radio e televisione. La competenza del tribunale differisce a seconda che questi sia in composizione collegiale o monocratica: 1) il Tribunale in composizione collegiale conosce i reati puniti con una pena detentiva superiore nel massimo a 10 anni, ma inferiore a 24 anni, purché non siano di competenza della Corte d’Assise (criterio quantitativo); inoltre, conosce una serie di fattispecie indicate nell’art. 33-bis, co. 1 c.p.p. (criterio qualitativo), e cioè quasi tutti i reati riconducibili all’associazione per delinquere, lo scambio elettorale politico-mafioso, i delitti concernenti le armi, i reati in materia di aborto e l’usura. Infine, rientrano nella sua competenza, di regola, anche i reati commessi dai pubblici ufficiali contro la PA e quelli previsti dal codice civile in materia di società e consorzi, nonché i reati di violenza sessuale e prostituzione minorile. e) Quando per un imputato l’istruzione dibattimentale è già stata conclusa, mentre per altri deve continuare con tempi lunghi; Fuori dai casi predetti, la separazione può essere disposta (cd. separazione facoltativa), con l’accordo delle parti, quando il giudice la ritenga utile ai fini della speditezza del processo (art. 18, co. 2). La separazione dei processi non comporta in nessuna ipotesi lo spostamento di competenza. Il provvedimento del giudice. L’art. 19 stabilisce che ogni provvedimento in materia di riunione e di separazione sia adottato con la forma dell’ordinanza (il che presuppone un’apposita motivazione che spieghi le ragioni della decisione) e, anzitutto, che siano previamente sentite le parti. Occorre comunque precisare che per l’inosservanza degli artt. 17, 18 e 19 il codice non prevede alcuna sanzione di nullità, né alcun mezzo di impugnazione cosicché, per il principio di tassatività delle nullità e delle impugnazioni, le ordinanze in materia sono assolutamente inoppugnabili (salvo per l’assenza di motivazione), anche in ipotesi di mancata audizione delle parti. 4. Il principio del giudice naturale. Le norme sulla competenza servono ad individuare il soggetto investito del potere giurisdizionale sul fatto di reato e, pertanto, attuano il principio del “giudice naturale” – ex art. 25, co. 1 Cost. “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”. Dalla norma si ricava che: a) In materia di competenza vige il principio della riserva assoluta di legge, e perciò la competenza del giudice può essere determinata soltanto dalla legge, e non da fonti secondarie; b) Le norme non devono conferire un potere di scelta discrezionale; c) Dalla necessaria “precostituzione” del giudice si ricava il divieto di applicazione retroattiva di norme concernenti la competenza. In definitiva, il principio del giudice naturale impedisce che un organo legislativo, amministrativo o giurisdizionale possa sottrarre discrezionalmente un procedimento ad un determinato giudice. Tradizionalmente, il termine “naturale” fa riferimento al criterio generale che radica la competenza del giudice nel luogo in cui è stato commesso il reato (locus commissi delicti): tale criterio risponde a diverse esigenze, una su tutte quella per la quale il diritto e la giustizia devono riaffermarsi proprio nel luogo in cui sono stati violati. 5. I conflitti di giurisdizione e di competenza. La capacità di ciascun giudice a conoscere un determinato processo sussiste se il fatto di reato rientra: o nella cognizione dell’ordine giudiziario cui egli appartiene (es. reato comune per il giudice ordinario, reato militare per il giudice militare) e cioè nella sua giurisdizione; o nella propria specifica competenza (materia, territorio, connessione). L’assenza di una delle due condizioni dà luogo, rispettivamente, al difetto di giurisdizione e al difetto di competenza, traducendosi in vizio di legittimità degli atti del procedimento. In particolare, l’art. 20 prevede che il difetto di giurisdizione è rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento. Esso mina alla radice la capacità di cognizione del giudice, e per questo motivo si ha la nullità assoluta ex art. 178, lett. a) di tutti gli atti, salvo la generale potenzialità di sanatoria del giudicato. Il difetto di competenza, invece, è rilevabile entro termini perentori, e il tipo di nullità dipende dal tipo di competenza (materia, territorio, connessione) violata (art. 21). Dato il carattere diffuso della funzione giurisdizionale e posto che ogni organo giudicante è giudice anche della propria competenza, vi è anche la possibilità che sorgano conflitti tra detti organi. Tali conflitti possono insorgere unicamente tra organi titolari di funzioni giurisdizionali, e cioè tra giudici in senso stretto, e non interessano la figura del PM, che non è dotato di potestà di juris dictio. In particolare, i conflitti di giurisdizione intervengono tra un giudice ordinario ed un giudice speciale (o tra più giudici speciali); i conflitti di competenza intervengono tra giudici ordinari. Il conflitto può essere positivo o negativo: 1) È positivo quando due o più giudici contemporaneamente prendono cognizione del medesimo fatto attribuito alla medesima persona; 2) È negativo quando due o più giudici contemporaneamente rifiutano di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla medesima persona, ritenendo la propria incompetenza. Il conflitto può insorgere in ogni stato e grado del processo; può essere rilevato d’ufficio da uno dei giudici o può essere denunciato dal pubblico ministero presso uno dei giudici in conflitto o dalle parti private. Le modalità di risoluzione dei conflitti sono due: 1) La risoluzione consensuale, che si verifica quando uno dei giudici in conflitto recede dal contrasto, riconoscendo la propria o altrui esclusiva competenza o giurisdizione (prima che la Cassazione si sia pronunciata in merito); 2) La decisione della Corte di Cassazione, che adita da uno dei giudici in conflitto, indica con sentenza il giudice cui spetta la giurisdizione o competenza. La Corte di Cassazione decide in camera di consiglio e indica qual è il giudice competente a procedere. La decisione della Corte è vincolante, salvo che risultino nuovi fatti che determinino la competenza di un giudice superiore (cd. incompetenza “per difetto”). 6. La dichiarazione di incompetenza. INCOMPETENZA PER MATERIA Nell’ambito dell’incompetenza per materia, possono verificarsi due ordini di violazioni: 1) Incompetenza “per difetto”: Se il giudice “inferiore” procede per un reato di competenza del giudice “superiore”, l’incompetenza è rilevabile in ogni stato e grado del processo, e quindi fino a quando non si è pervenuti ad una sentenza irrevocabile. In tal caso, il giudice “inferiore” trasmette gli atti al pubblico ministero presso il giudice competente Se l’eccezione è respinta, può essere ripresentata come motivo di appello e laddove venga accolta, la Corte d’Appello annulla la sentenza del giudice “inferiore” e ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero. 2) Incompetenza “per eccesso”: Se il giudice “superiore” procede per un reato di competenza del giudice inferiore, l’incompetenza è rilevabile, anche d’ufficio, non oltre le questioni preliminari prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. Anche in questo caso, il giudice trasmette gli atti al pubblico ministero presso il giudice competente. Se l’eccezione è respinta, può essere ripresentata come motivo di appello e laddove venga accolta, la Corte d’Appello decide nel merito. INCOMPETENZA PER TERRITORIO L’incompetenza per territorio va eccepita dalle parti, o rilevata d’ufficio dal giudice, fino alla chiusura della discussione finale nell’udienza preliminare. Quando l’udienza preliminare non ha luogo, l’incompetenza per territorio deve essere eccepita o rilevata nel corso delle questioni preliminari in dibattimento. INCOMPETENZA PER CONNESSIONE Nel caso di procedimenti connessi la competenza è determinata secondo le regole stabilite dagli artt. 15 e 16. L’inosservanza di tali regole determina l’incompetenza per connessione, che deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, entro la conclusione dell’udienza preliminare o, se questa non abbia luogo, nel corso delle questioni preliminari al dibattimento (e ciò anche nel caso di connessione per materia). La declaratoria di incompetenza. Nel corso delle indagini preliminari il giudice dichiara l’incompetenza con ordinanza e si limita a restituire gli atti al pubblico ministero che in quel momento sta conducendo le indagini; l’ordinanza produce i suoi effetti limitatamente al provvedimento richiesto e non impedisce al PM di svolgere le indagini; vi è, infatti, ancora la possibilità che nuovi elementi di prova dimostrino la fondatezza della sua asserzione circa la competenza del giudice. Dopo la chiusura delle indagini preliminari il giudice dichiara l’incompetenza con sentenza e trasmette gli atti al pubblico ministero presso il giudice competente. Lo stesso avviene nel corso del dibattimento di primo grado. L’inosservanza delle disposizioni sulla competenza, di norma, non produce l’inefficacia delle prove già acquisite; mentre le “dichiarazioni” rese al giudice incompetente per materia, se ancora ripetibili, diventano utilizzabili in giudizio soltanto nell’udienza preliminare e, in dibattimento, col meccanismo delle contestazioni probatorie. 7. La capacità del giudice. L’espressione “capacità del giudice” indica il complesso dei requisiti indispensabili per un legittimo esercizio della funzione giudicante. In base all’art. 33, co. 1, sono “condizioni di capacità del giudice” quelle che appaiono “stabilite dalle leggi di ordinamento giudiziario”. In proposito, la dottrina distingue in: - Capacità “di acquisto” della funzione: concerne il possesso di tutti i requisiti necessari all’assunzione della qualità di giudice (es. cittadinanza, età, titolo di studio, ecc.); - Capacità “di esercizio” della funzione: riguarda l’esistenza delle condizioni richieste per il valido esercizio del potere giurisdizionale, come ad esempio il D.M. di nomina al ruolo di uditore giudiziario. Non tutte le disposizioni finalizzate a regolare l’attribuzione e lo svolgimento della funzione giurisdizionale sono previste a pena di nullità. Si ritiene infatti che sono a pena di nullità le violazioni relative alla sola capacità generica (che si ottiene con la nomina e l’ammissione nel ruolo) e non anche dell’idoneità specifica, che presuppone la regolare costituzione del giudice nell’ambito di un determinato processo. Infatti, l’art. 33, co. 2, stabilisce che non si considerano attinenti alla capacità del giudice le disposizioni riguardanti la destinazione del magistrato giudicante agli uffici giudiziari ed alle sezioni: in tal modo, si è evitato che la violazione delle regole concernenti il funzionamento interno degli uffici giudiziari potesse dare luogo a nullità processuali. Il co. 3 dell’art. 33 esclude che l’attribuzione degli affari penali al tribunale collegiale o monocratico attenga alla capacità del giudice o al numero dei giudici necessario per costituire l’organo giudicante. La violazione delle norme sul riparto della cognizione tra le due articolazioni del tribunale e l’inosservanza delle disposizioni ordinamentali concernenti l’assegnazione dei magistrati a sezioni o collegi non danno luogo a nullità processuali. Da quanto esposto, emerge che il codice di procedura penale attribuisce una limitata rilevanza alla garanzia costituzionale del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 cost.) in quanto circoscrive tale garanzia alla mera individuazione dell’organo giudiziario nel suo complesso. 8. L’imparzialità del giudice. Imparzialità e sistema processuale. L’imparzialità del giudice, per essere “effettiva”, deve essere fondata sui seguenti principi: a) La soggezione del giudice alla legge. Non è sufficiente garantire il cittadino contro l’arbitrio del potere esecutivo e del potere legislativo, ma occorre garantirlo anche contro l’arbitrio del giudice. Soltanto la presenza di leggi, che indichino con precisione quali fatti sono reato e quali poteri processuali debbano essere esercitati, impedisce che il giudice sia influenzato dall’esterno (es. potere politico) o dall’interno (es. ideologismi del singolo magistrato). Allo stesso tempo, sono necessarie leggi precise e certe, che non lascino al giudice quelle scelte discrezionali che devono essere compiute dal potere legislativo. b) La separazione tra funzioni giurisdizionali e quelle che sono tipiche di una parte. giudice e non anche nei confronti del giudice come “organo”: ne consegue che non è ammissibile la ricusazione di un collegio in quanto tale, ma soltanto quella dei singoli giudici che ne fanno parte. Sulla ricusazione di un giudice del tribunale, della corte di assise o della corte di assise di appello, decide la corte d’appello; su quella di un giudice della corte di appello decide una sezione della corte stessa, diversa da quella a cui appartiene il giudice ricusato. Sulla ricusazione di un giudice della corte di cassazione decide una sezione della corte, diversa da quella a cui appartiene il giudice ricusato. Il procedimento è giurisdizionale; una volta accertata la situazione pregiudizievole, viene designato un altro magistrato in base alle norme sull’ordinamento giudiziario (art. 43). Nel frattempo, il giudice ricusato non deve sospendere la sua attività, ma non può pronunciare una sentenza. Nel caso in cui concorrano una dichiarazione di ricusazione e una di astensione, l’accoglimento dell’astensione fa considerare come non proposta la ricusazione. 11. La rimessione del processo. Vi sono casi nei quali è pregiudicata l’imparzialità dell’intero ufficio giudicante territorialmente competente a prescindere da situazioni che riguardino il singolo magistrato che lo compone. In questi casi, il codice prevede lo spostamento della competenza per territorio ad un altro organo giurisdizionale (con la medesima competenza per materia) situato presso quel capoluogo del distretto di corte d’appello che è individuato in base all’art. 11. In tutti i casi nei quali è prevista la rimessione devono essere presenti “gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili”: la situazione deve essere “grave”, e cioè occorre che sia presente una obiettiva situazione di fatto che lasci fondatamente presagire un esito non imparziale e non sereno del giudizio; deve essere “locale”, e cioè non diffusa sull’intero territorio nazionale; deve essere “esterna” rispetto al processo, e cioè non deve consistere in un fenomeno connesso alla dialettica processuale; infine, deve essere “non eliminabile” con gli strumenti a disposizione del potere esecutivo. I casi nei quali è prevista la rimessione sono: - Quando sono pregiudicate la sicurezza e l’incolumità pubblica (es. stato di guerriglia urbana); - Quando è pregiudicata la libera determinazione delle persone che partecipano al processo (es. i testimoni sono intimiditi da associazioni mafiose); - Quando vi sono gravi situazioni locali che “determinano motivi di legittimo sospetto”, ovvero una grave e oggettiva situazione locale idonea a giustificare la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità dell’ufficio giudicante. La richiesta motivata di rimessione può essere presentata in ogni stato e grado del processo di merito, ed i soggetti legittimati sono soltanto l’imputato, il pubblico ministero presso il giudice che procede e il procuratore generale presso la corte d’appello. Competente a decidere sulla rimessione è la Corte di Cassazione, che ha l’onere di verificare l’esistenza di una delle situazioni che impongono la rimessione. Ove accolga la richiesta, ordina il trasferimento del processo ad un altro ufficio giudicante che abbia la medesima competenza per materia e che abbia sede nel capoluogo del distretto di corte d’appello individuato in base all’art. 11. Il giudice designato provvede alla rinnovazione degli atti compiuti anteriormente alla rimessione quando ne è richiesto da una delle parti e non si tratta di atti irripetibili. Se la Corte rigetta o dichiara inammissibile la richiesta delle parti private, queste con la stessa ordinanza possono essere condannate al pagamento a favore della cassa delle ammende di una somma da 1.000 a 5.000 euro. Sia in caso di rigetto sia di accoglimento, la richiesta di rimessione può essere comunque riproposta, purché però sia fondata su elementi nuovi. PUBBLICO MINISTERO 1. Le funzioni. Il pubblico ministero è quel complesso di uffici pubblici che rappresentano nel processo penale l’interesse generale dello Stato alla repressione dei reati. Il pubblico ministero svolge nel processo penale la funzione di parte pubblica, rappresentando l’interesse generale dello Stato-comunità, e cioè l’interesse della collettività che è stata lesa dal reato. Si distingue dalle parti private che, invece, perseguono un loro personale interesse. In particolare, le funzioni svolte dal PM sono: A. “veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato, delle persone giuridiche e degli incapaci”; B. “promuovere la repressione dei reati” e cioè svolge indagini necessarie per valutare se deve chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione; C. “esercita l’azione penale” in ogni caso in cui non debba richiedere l’archiviazione; D. “fa eseguire i giudicati ed ogni altro provvedimento del giudice, nei casi stabiliti dalla legge”. Il magistrato che fa parte dell’ufficio del pubblico ministero ha una piena indipendenza di status; in quanto “magistrato”, egli è inamovibile nel grado e nella sede; è nominato a seguito di pubblico concorso; i provvedimenti disciplinari e le promozioni che lo riguardano sono deliberati dal CSM. La costituzione impone al pubblico ministero l’obbligo di esercitare l’azione penale, e da ciò si fa comunque derivare la soggezione del pubblico ministero alla legge. 2. I rapporti all’interno dell’ufficio. I rapporti di dipendenza gerarchica, che esistono all’interno dell’ufficio del pubblico ministero, assumono una configurazione tutta particolare perché devono contemperare due esigenze contrapposte: ▪ garantire la posizione di indipendenza del singolo magistrato del pubblico ministero, che ha l’obbligo di far osservare la legge; ▪ assicurare la buona organizzazione dell’ufficio della pubblica accusa. La normativa vigente (dopo il 2006), accanto ai criteri automatici, prevede anche l’istituto della “assegnazione”, mediante il quale il Procuratore della Repubblica può assegnare un procedimento ad un determinato sostituto, stabilendo i criteri particolari ai quali il magistrato deve attenersi nell’esercizio della relativa attività. Quando i criteri generali o particolari sono violati, o comunque quando si verifica un contrasto con il titolare dell’ufficio, questi può revocare l’assegnazione con provvedimento motivato. Il potere direttivo del titolare dell’ufficio si attenua quando il magistrato si trova in udienza. Difatti, in udienza il magistrato del pubblico ministero esercita le sue funzioni con “piena” autonomia. Il titolare provvede alla sostituzione soltanto su consenso del magistrato, ovvero se il consenso manchi, nel caso di grave impedimento o di rilevanti esigenze di servizio. Inoltre, vi è l’obbligo di sostituzione se il magistrato ha un interesse “privato” nel procedimento. Se il titolare non provvede alla sostituzione, il procuratore generale presso la corte di appello deve disporre l’avocazione. Nelle medesime ipotesi il procuratore generale deve disporre l’avocazione al di fuori dell’udienza, o anche quando, in conseguenza dell’astensione o dell’incompatibilità del magistrato designato, non è possibile provvedere alla sua tempestiva sostituzione. Le misure cautelari. Il magistrato del PM, quando sta per presentare al giudice la richiesta di una misura cautelare personale o reale, deve ottenere l’assenso scritto dal procuratore della repubblica. Analogo assenso è necessario per disporre il fermo di persona indiziata di un delitto; non è invece necessario quando la richiesta è formulata in occasione della convalida dell’arresto o del fermo o in occasione della convalida del sequestro preventivo operato d’urgenza. I rapporti con gli organi di informazione. Il procuratore della repubblica mantiene personalmente i rapporti con gli organi di informazione. È fatto, invece, divieto ai magistrati della procura della repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio, e le condotte che violano tale obbligo devono essere segnalate dal procuratore della repubblica al consiglio giudiziario, al fine di sollecitare l’azione disciplinare. 3. I rapporti tra uffici. Nei rapporti tra gli uffici del pubblico ministero non vi è un generale potere gerarchico tra quello superiore e quello inferiore. L’ufficio superiore ha singoli e limitati poteri di sorveglianza riguardanti la disciplina e l’organizzazione. Il procuratore generale presso la corte di cassazione svolge una funzione di sorveglianza, nel senso che ha il potere di iniziare l’azione disciplinare contro un qualsiasi magistrato requirente o giudicante; la decisione spetterà poi al CSM. Lo stesso procuratore può essere chiamato a risolvere un contrasto negativo o positivo tra uffici del PM appartenenti a differenti distretti di corte d’appello: - contrasto negativo -> quando due uffici, durante le indagini preliminari in relazione ad un determinato reato, negano la competenza per materia o per territorio del giudice presso il quale ciascuno di essi esercita le funzioni, ritenendo la competenza di un altro giudice; - contrasto positivo -> quando due uffici stanno svolgendo indagini a carico della stessa persona ed in relazione al medesimo fatto e ciascuno di essi ritenga la propria competenza esclusiva. Il procuratore generale presso la corte d’appello svolge, in relazione agli uffici sottordinati, una funzione di sorveglianza che si manifesta nei seguenti aspetti: • Nel potere di dirimere contrasti negativi o positivi tra due uffici del PM del medesimo distretto di corte d’appello; • Nel potere di avocare il singolo affare in casi tassativamente previsti dalla legge. L’avocazione è il potere dell’organo superiore di sostituirsi all’organo inferiore nello svolgimento di una determinata attività. Il Codice attribuisce tale potere al procuratore generale presso la corte d’appello nei confronti del PM presso il tribunale quando sono presenti situazioni espressamente previste dalla legge. Sono previsti casi nei quali l’avocazione è obbligatoria ed altri nei quali è discrezionale, che possono essere tutte ricondotte ad un unico presupposto consistente nell’inerzia, colpevole o meno, del P.M. di primo grado. L’avocazione è obbligatoria: • Se vi è stata inerzia del magistrato del PM che non ha provveduto nei termini ad esercitare l’azione penale o a chiedere l’archiviazione; • Se è impossibile sostituire il magistrato della pubblica accusa perché questi è incompatibile o si è astenuto; • Se il capo dell’ufficio inferiore ha omesso di sostituire il magistrato nei casi in cui era obbligatoria la sostituzione; • Se, in caso di delitti di criminalità organizzata politica o terroristica, è mancato il coordinamento delle indagini collegate e non hanno avuto esito positivo le riunioni indette dal procuratore generale. L’avocazione è discrezionale: • Se il giudice delle indagini preliminari non ha accolto la richiesta di archiviazione formulata dal PM, o la persona offesa si è opposto alla richiesta stessa; • Quando il giudice dell’udienza preliminare ha ritenuto incomplete le indagini e ha indicato al PM ulteriori indagini da compiere. 4. L’astensione del pubblico ministero. A differenza del giudice, il magistrato del pubblico ministero non può essere ricusato in quanto è una parte, sia pure mossa da un interesse pubblico e per la quale vige un obbligo di lealtà. L’astensione. Il pubblico ministero deve astenersi quando vi sono gravi ragioni di convenienza: il codice, all’art. 52, co. 1, utilizza il termine “facoltà”, ma si ritiene costituisca un vero e proprio dovere in ragione del fatto che la mancata astensione costituisce un illecito disciplinare sanzionato dal CSM. Tra le gravi ragioni di convenienza rientrano un interesse privato del magistrato al procedimento che gli è stato assegnato o un rapporto di interesse con una delle parti. Sulla dichiarazione di astensione decide il capo dell’ufficio del PM (art. 52, co. 2), e se accolta, il magistrato astenuto è sostituito con un altro magistrato appartenente al medesimo ufficio. reato di falsa testimonianza; se la “persona informata” di fronte al PM tiene la medesima condotta, commette il reato di false dichiarazioni al pubblico ministero. Può accadere che nel corso della deposizione il testimone (o persona informata) renda, più o meno consapevolmente, “dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico” (cd. dichiarazioni autoindizianti) - in tal caso, l’art. 63, co. 1 stabilisce una serie di obblighi per l’autorità procedente e la sorte processuale delle dichiarazioni rese: l’autorità procedente deve: 1) interrompere l’esame; 2) avvertire la persona che a seguito delle dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti; 3) invitarla a nominare un difensore. Le dichiarazioni rilasciate fino a quel momento “non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese”; viceversa, possono essere utilizzate a suo favore o contro altre persone. L’elusione della qualità di indagato. L’art. 63, co. 2, stabilisce che se una persona ascoltata come testimone o persona informata “doveva essere sentita sin dall’inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini, le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate”. Si tratta della situazione nella quale sussistevano indizi di reità già prima dell’assunzione delle sommarie informazioni. Tale disciplina è finalizzata ad evitare abusi da parte dell’autorità inquirente, che per ottenere dichiarazioni sulla responsabilità propria o di altre persone, interroghi un indagato senza riconoscergli tale qualità e, quindi, senza rispettare il suo diritto di non rispondere. Le dichiarazioni rese sono assolutamente inutilizzabili, sia contro il dichiarante sia contro i terzi imputati o indagati del medesimo reato, o di reati connessi o collegati a quelli contestati. 4. La verifica della identità fisica e anagrafica dell’indagato. L’indagato ha l’obbligo penalmente sanzionato di identificarsi - la qualità di imputato può essere assunta da una persona fisica solo quando è possibile la sua individuazione: non è infatti ammissibile la formulazione di un’imputazione a carico di ignoti, sicché il P.M. non può iniziare un processo nei confronti di persone rimaste ignote. La verifica dell’identità dell’indagato o dell’imputato comporta due diversi accertamenti: 1) Accertamento della identità fisica dell’indagato. Ai fini dell’individuazione è essenziale l’identità fisica della persona, e ciò può essere necessario, ad esempio, quando il medesimo soggetto in vari tempi abbia fornito differenti generalità. A tale accertamento si può pervenire, ad esempio, mediante la ricognizione personale o il prelievo di impronte digitali; inoltre, l’indagato può essere costretto a subire il prelievo di materiale biologico, e cioè dei capelli e della saliva. Una volta accertata l’identità fisica dell’indagato, il processo nei suoi confronti può svolgersi anche se resta incerta la sua identità anagrafica; difatti, l’impossibilità di attribuire all’indagato, fisicamente individuato, le sue esatte generalità anagrafiche non paralizza l’esercizio dell’azione penale. Se invece è errata la identificazione fisica, l’art. 68 dispone che il giudice deve pronunciare, in ogni stato e grado del processo, sentenza di assoluzione. Va precisato che l’art. 68 si riferisce alla sola fase processuale, perché durante le indagini preliminari è il P.M. che dovrà provvedere con i necessari accertamenti, giungendo eventualmente ad una richiesta di archiviazione. 2) Accertamento della identità anagrafica dell’indagato. Si tratta di accertare l’esattezza delle generalità (nome, cognome, data di nascita, ecc.). Il principale strumento per accertare l’identità anagrafica dell’indagato è l’interrogatorio, in quanto sulla propria identità personale ha l’obbligo penalmente sanzionato di rispondere secondo verità. 5. Sospensione o definizione del procedimento per incapacità processuale dell’imputato. Il giudice deve valutare anche d’ufficio se l’imputato (o l’indagato), per infermità mentale, non è in grado di “partecipare coscientemente” al procedimento penale, e cioè se non è capace di esercitare consapevolmente quel diritto di autodifesa che spetta a lui personalmente e che non può essere esercitato da altre persone al suo posto (es. tutore o curatore). La norma si riferisce quindi alla “capacità processuale” dell’imputato, consistente nella capacità di intendere e di volere riferita al procedimento, che si risolve nell’idoneità ad esercitare, all’interno del processo, i diritti e le facoltà collegati all’assunzione della qualità di imputato (o indagato). Quando sia accertato, anche mediante perizia (“se occorre”), che l’imputato per infermità mentale non è in grado di partecipare coscientemente al procedimento penale, il giudice, prima di porsi il problema di sospendere o meno il procedimento, deve compiere una valutazione preliminare. 1) La pronuncia che proscioglie l’imputato. In via preliminare, ai sensi dell’art. 70, co. 1, il giudice deve valutare se nei confronti dell’imputato può pronunciare una sentenza di proscioglimento (in giudizio) o di non luogo a procedere (in udienza preliminare): ciò avviene quando è emerso che l’imputato è innocente, o che manca una condizione di procedibilità, o che l’imputato non era assolutamente capace di intendere e di volere al momento della commissione del fatto di reato. In tutti questi casi, il codice impedisce al giudice di sospendere il procedimento anche se l’imputato non ha la capacità processuale, ma lo obbliga ad adottare una soluzione più favorevole a quest’ultimo. 2) La impossibilità di prosciogliere l’imputato. Qualora non sussistano le condizioni per pronunciare una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, il giudice deve valutare se l’imputato, a causa dell’infermità mentale in atto, sia in grado di partecipare coscientemente al procedimento penale. La Riforma Orlando ha imposto al giudice di accertare ulteriormente se l’incapacità dell’imputato sia reversibile o meno: a. L’incapacità dell’imputato appare reversibile: sospensione del procedimento. Quando il giudice accerta che l’infermità mentale appare reversibile, egli deve disporre con ordinanza che il procedimento sia sospeso e contestualmente nominare un curatore speciale. Ogni 6 mesi il giudice dispone perizia per accertare lo stato psichico dell’imputato. L’ordinanza di sospensione è revocata qualora l’imputato risulti in grado di partecipare coscientemente al procedimento penale oppure se, nei confronti dell’imputato, deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere. b. L’imputato è affetto da incapacità processuale irreversibile e non è pericoloso Il giudice deve revocare l’eventuale ordinanza di sospensione e deve pronunciare la sentenza di non luogo a procedere (in udienza preliminare) o di non doversi procedere (in giudizio), quando accerta: a) che lo stato mentale dell’imputato è tale da impedire la cosciente partecipazione al procedimento; b) che tale stato è irreversibile; c) che l’imputato non è pericoloso. Quando lo stato di incapacità processuale dell’imputato viene meno o si accerta che è stato erroneamente dichiarato, può essere esercitata l’azione penale per il medesimo fatto contro la medesima persona, fatta salva l’intervenuta prescrizione del reato. c. L’imputato è affetto da incapacità irreversibile ed è pericoloso. Quando si accerta che l’imputato, incapace processualmente, è pericolo ed è necessaria una misura di sicurezza diversa dalla confisca, il giudice ogni 6 mesi deve disporre ulteriori accertamenti peritali. Difatti, l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca è prevista dall’art. 72-bis come ostativa alla pronuncia della sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere. DIFENSORE 1. La rappresentanza tecnica. Il difensore esplica una funzione, costituzionalmente garantita, di assistenza e di rappresentanza dell’imputato o di altra parte privata. La rappresentanza tecnica è il potere, conferito al difensore, di compiere atti processuali “per conto” (cioè nell’interesse) del cliente. La rappresentanza tecnica attribuisce al difensore non il potere di disporre del diritto in contesa, bensì più semplicemente il potere di compiere per conto del cliente tutti quegli atti che il codice riferisce a quella parte, a condizione che i medesimi non siano personali, e cioè che non siano dalla legge espressamente riservati alla parte. La rappresentanza tecnica è conferita dal cliente (indagato e imputato o persona offesa) al difensore mediante una procura ad litem, e cioè la nomina contenuta in una dichiarazione, che può essere resa oralmente e personalmente davanti all’autorità procedente, o può essere scritta e consegnata dal difensore o trasmetta con raccomandata. La rappresentanza volontaria, che attribuisce al difensore il potere di disporre di un diritto “in nome” del cliente e di compiere un “atto personale” nel procedimento, può essere conferita soltanto con la procura speciale a compiere un determinato atto. Va precisato che ci sono atti personalissimi (es. interrogatorio o esame incrociato) per i quali, ovviamente, non vi può essere rappresentanza volontaria. La procura speciale deve, a pena di inammissibilità, essere rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve contenere la determinazione dell’oggetto per cui è conferita e dei fatti ai quali si riferisce. Il rapporto tra il cliente e il difensore ha natura fiduciaria, e da ciò ne derivano diverse conseguenze: • Prima dell’accettazione del mandato, il difensore può rifiutare la nomina; a tal fine è sufficiente che lo comunichi immediatamente a colui che l’ha effettuata ed all’autorità che procede. Il rifiuto ha effetto dal momento in cui è comunicato all’autorità; • Dopo che ha accettato il mandato, il difensore può rinunciare allo stesso; anche in questo caso, deve essere comunicato a colui che ha effettuato la nomina e all’autorità procedente. A differenza del rifiuto, la rinuncia al mandato non ha effetto finché la parte non risulti assistita da un nuovo difensore e non sia decorso il termine a difesa, non inferiore a 7 giorni, che sia stato concesso a quest’ultimo. Fino a quel momento, la parte è rappresentata dal difensore rinunciante. Lo stesso avviene in caso di revoca del mandato da parte del cliente. Tra l’imputato e il proprio difensore esiste una rappresentanza tecnica che assume la forma della “assistenza”: questa particolare forma di rappresentanza tecnica non esclude l’autodifesa del soggetto assistito, che può così compiere un atto processuale senza dover necessariamente essere rappresentato dal difensore. In tali casi, il difensore si limita, appunto, ad assistere l’imputato che partecipa personalmente agli atti del procedimento. Il diritto di autodifesa dell’imputato prevale sul diritto alla difesa tecnica, difatti l’imputato può togliere effetto, con espressa dichiarazione contraria, all’atto compiuto dal difensore prima che, in relazione all’atto stesso, sia intervenuto un provvedimento del giudice. 2. Difensore di fiducia e difensore d’ufficio. L’imputato ha diritto di farsi assistere da non più di due “difensori di fiducia”, nominati a sua scelta. L’art. 96, co. 2 prevede le modalità di nomina del difensore di fiducia - atto questo a forma libera che può essere effettuato in 3 modi: ▪ Con dichiarazione, scritta o orale, resa dall’indagato all’autorità procedente; ▪ Con dichiarazione scritta consegnata all’autorità procedente dal difensore; ▪ Con dichiarazione scritta trasmetta all’autorità procedente con raccomandata. Quando l’indagato non abbia nominato un difensore di fiducia, o ne sia rimasto privo, il codice prevede l’istituto della difesa d’ufficio (art. 97). Da tale norma si ricava il principio della necessità della difesa tecnica in favore dell’imputato, il quale non può quindi difendersi da solo in giudizio (anche laddove fosse un avvocato). Il difensore d’ufficio viene designato dall’Autorità Giudiziaria in base ad un elenco, predisposto e aggiornato dal Consiglio Nazionale Forense, ove vengono inseriti i nominativi degli avvocati che ne hanno fatto richiesta e che possono documentare di avere la capacità tecnica che è imposta dalla legge. Quando il giudice, il PM e la PG devono compiere un atto per il quale è prevista l’assistenza del difensore e l’indagato (o imputato) ne sia privo, essi devono chiedere il nominativo del difensore d’ufficio ad un apposito ufficio presso l’ordine forense di ciascun capoluogo di corte d’appello. In tal modo è possibile assicurare l’effettività della difesa designando difensori che esercitino il patrocinio nella sede giudiziaria presso la quale essi sono chiamati come difensori d’ufficio. Il magistrato o l’ufficiale di PG danno avviso dell’atto, che sta per essere compiuto, al difensore nominato, che ha l’obbligo di prestare il patrocinio e può essere sostituito soltanto per giustificato motivo. La difesa d’ufficio ha la funzione di attuare il contraddittorio in un processo basato sul principio dialettico: in particolare, il suo scopo è quello di attuare un minimo di “eguaglianza delle armi” in situazioni nelle quali l’imputato si disinteressa di L’art. 90, co. 3 prevede che qualora una persona sia deceduta in conseguenza del reato, le facoltà e i diritti previsti dalla legge in favore della persona offesa sono esercitati dai “prossimi congiunti”, nonché alla “persona alla medesima legata da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente”. I poteri sollecitatori. Tra i poteri che la parte offesa può esercitare vi sono quelli “sollecitatori” dell’attività dell’autorità inquirente, come presentare memorie o indicare elementi di prova nel corso del procedimento, escluso il giudizio in cassazione. I diritti di informativa. La persona offesa ha diritto a ricevere le informazioni necessarie al fine di esercitare i propri poteri nel procedimento penale. Così, ad esempio, deve essere avvisata della data e del luogo nel quale si svolgerà l’udienza preliminare e deve esserle notificato il decreto che dispone il giudizio. Inoltre, è stabilito che il PM e la PG, al momento dell’acquisizione della notizia di reato, devono informare la persona offesa della facoltà di nominare un difensore di fiducia; inoltre devono avvisarla della possibilità di accesso al patrocinio a spese dello Stato. La partecipazione al procedimento. Nella fase di indagini preliminari, la persona offesa può proporre querela, assistere agli atti cd. garantiti del PM; chiedere al PM di promuovere l’incidente probatorio e prendere visione dei relativi atti. Dopo l’esercizio dell’azione penale, può richiedere al PM di proporre impugnazione agli effetti penali: difatti, la persona offesa dal reato che non si è costituita parte civile non ha diritto di proporre impugnazione avverso sentenze, ma può solamente sollecitare il PM affinché vi provveda. Inoltre, la persona offesa può essere sentita come testimone in dibattimento o come persona informata sui fatti durante le indagini preliminari. I poteri di controllo sulla eventuale inattività del PM. La persona offesa può interloquire sulla proroga del termine di durata delle indagini, interloquire sulla richiesta di archiviazione del PM e chiedere al Procuratore Generale di avocare le indagini. Il minorenne e la persona che si trovi in situazioni di particolare vulnerabilità sono qualificati dal codice come persone offese vulnerabili, per le quali è richiesto che l’esame si svolga con l’assistenza di un esperto in psicologia o psichiatria. In determinati casi, l’esame deve essere sottoposto a registrazione fonografica o audiovisiva e deve essere svolto in strutture diverse dal tribunale, eventualmente con vetro-specchio con impianto citofonico. Le protezioni permettono una migliore valutazione di attendibilità della relativa deposizione. In particolare, quando è minorenne, la persona offesa gode delle predette protezioni soltanto se il procedimento penale ha per oggetto quei reati di violenza alla persona che sono indicati espressamente dal codice. A prescindere dall’età, invece, la persona offesa gode delle protezioni qualora si trovi in concreto in condizioni di particolare vulnerabilità. In tal caso, le protezioni potrebbero essere applicate in astratto per qualsiasi reato; è soltanto necessario che siano presenti le condizioni soggettive e oggettive previste dall’art. 90-quater: 1) Sotto il profilo soggettivo, la condizione di particolare vulnerabilità è desunta, oltre che “dall’età e dallo stato di infermità o di deficienza psichica” della persona offesa, anche “dal tipo di reato, dalle modalità e circostanze del fatto per cui si procede”; 2) Sotto il profilo oggettivo, per la valutazione della particolare tenuità “si tiene conto se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se è riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo, anche internazionale, o di tratta degli esseri umani, se si caratterizza per finalità di discriminazione, e se la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato”. 2. La parte civile. Il reato, oltre a costituire un’offesa ad un bene giuridico, può aver provocato in concreto un danno. In tal caso colui che ha commesso il reato è obbligato a risarcire il danno e, se del caso, a restituire cosa sottratta. Il danno risarcibile può manifestarsi nelle forme del danno patrimoniale e non patrimoniale. • Il danno patrimoniale consiste nella privazione o diminuzione del patrimonio nelle forme del danno emergente (es. spese sostenute per curare le ferite) e del lucro cessante (es. invalidità permanente che impedisce alla persona offesa di lavorare e, quindi, di guadagnare). • Il danno non patrimoniale consiste nelle sofferenze fisiche e psichiche patite a causa del reato. La persona che ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale in conseguenza del reato può essere definita “danneggiata dal reato” e ha diritto al risarcimento del danno. A tal fine, il danneggiato dal reato può agire innanzi al giudice civile in un autonomo procedimento, oppure davanti al giudice penale, ma soltanto dopo che il PM abbia esercitato l’azione penale. In quest’ultimo caso, il danneggiato esercita l’azione civile costituendosi parte civile nel processo penale. Va precisato che, sebbene spesso la medesima persona rivesta sia la qualifica di persona offesa dal reato, sia quella di danneggiata dal reato, vi sono rari casi in cui ciò non accade: ciò è importante soprattutto alla luce del fatto che il danneggiato da reato in quanto tale (quindi prima della costituzione di parte civile), non ha la qualifica di “soggetto” del procedimento penale: se non sono lo stesso individuo, al danneggiato dal reato non spettano i diritti e le facoltà della persona offesa. L’azione civile nel processo penale ha natura secondaria, atteso che l’oggetto principale è rappresentato dall’accertamento della penale responsabilità dell’imputato. Per tale motivo, l’azione civile subisce la regolamentazione del processo penale, con la conseguenza che i poteri ed il comportamento processuale della parte civile sono disciplinati dal codice di procedura penale. In ogni caso, rappresenta sempre un innesto del processo civile nel processo penale, e ciò è confermato anche dal fatto che il giudice, nell’accertare i danni e nel condannare l’imputato al risarcimento, non può andare oltre i limiti della domanda, e cioè della quantità del risarcimento richiesto dalla parte civile. L’azione ha poi natura eventuale, in quanto resta facoltativa e disponibile, nel senso che il danneggiato in ogni momento del processo penale può revocare la costituzione di parte civile. La costituzione di parte civile deve essere fatta mediante una apposita dichiarazione resa per scritto, che dev’essere sottoscritta dal difensore. A pena di inammissibilità deve contenere i seguenti elementi: ▪ Le generalità della persona fisica (o denominazione dell’associazione o ente che si costituisce parte civile e le generalità del suo legale rappresentante); ▪ Le generalità dell’imputato nei cui confronti viene esercitata l’azione civile; ▪ La esposizione delle “ragioni” che giustificano la “domanda”: la domando consiste nella richiesta al giudice di pronunciare la condanna dell’imputato al risarcimento del danno; le ragioni consistono nei motivi per i quali si asserisce che il reato ha provocato un danno patrimoniale o non patrimoniale. I motivi consentono al giudice di valutare se il richiedente è legittimato a costituirsi parte civile. Non è invece necessaria la precisazione del quantum dell’ammontare del risarcimento, che invece è richiesto a pena di inammissibilità al momento della presentazione delle conclusioni scritte al termine del dibattimento. ▪ La sottoscrizione del difensore. La procura speciale può essere apposta in calce o a margine della costituzione ed il difensore autentica la firma del danneggiato, oppure può essere conferita con atto separato che deve essere depositato presso la cancelleria del giudice o presentato unitamente alla costituzione in udienza. La dichiarazione di costituzione della parte civile può essere presentata nell’udienza (preliminare o dibattimentale) all’ausiliario del giudice; ovvero, prima dell’udienza, può essere depositata nella cancelleria del giudice e notificata alle altre parti. La costituzione può essere presentata personalmente dal danneggiato da reato, ma deve comunque nominare un difensore; altrimenti, può essere presentata anche a mezzo di procuratore speciale. Vi sono due termini per costituirsi parte civile: o all’inizio dell’udienza preliminare, nel momento in cui il giudice accerta la regolare costituzione delle parti; o prima dell’inizio del dibattimento, nel momento in cui il giudice accerta la regolare costituzione delle parti (art. 484). Trascorso inutilmente questo secondo termine, previsto a pena di decadenza, la dichiarazione di costituzione di parte civile è inammissibile. Nel processo penale vige il principio di immanenza della parte civile, in forza del quale la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo: per tale motivo, non vi è la necessità per la parte civile di rinnovare la costituzione nelle successive fasi o nei successivi gradi del processo, finché la sentenza non sia diventata irrevocabile. Al contempo, va precisato che deve permanere per tutto il procedimento un interesse della parte civile: l’avvenuto risarcimento del danno produce come conseguenza l’esclusione d’ufficio della parte stessa. In assenza dei requisiti formali o sostanziali per la costituzione di parte civile, il giudice, con ordinanza, ne dispone l’esclusione d’ufficio o su richiesta motivata del PM, dell’imputato o del responsabile civile. L’esclusione dal processo penale non preclude l’esercizio di autonoma azione in sede civile. Le ordinanze che ammettono o escludono la parte civile non sono impugnabili in virtù del principio di tassatività delle impugnazioni, in quanto non vi è alcuna disposizione di legge che prevede l’impugnabilità dei predetti provvedimenti. La presenza della parte civile viene meno anche nelle ipotesi di revoca espressa o tacita: 1) La revoca è espressa se è effettuata con dichiarazione resa in udienza dalla parte civile personalmente o da un suo procuratore speciale o con atto scritto depositato in cancelleria e notificato alle altre parti; 2) La revoca è tacita se la parte civile non presenta le proprie conclusioni scritte in dibattimento al momento della discussione finale o qualora promuova l’azione civile davanti al giudice civile. Come per l’esclusione, anche la revoca ha valore esclusivamente processuale, e pertanto non preclude al danneggiato dal reato l’esercizio dell’azione in sede civile. Inoltre, in caso di morte della parte civile, non si verificano gli effetti della revoca tacita, potendo gli eredi intervenire nel processo senza effettuare una nuova costituzione, ma semplicemente dimostrando la loro qualità ereditaria. b) è, invece, di merito la sentenza che attiene alla fondatezza dell’azione penale esercitata, cioè quella pronuncia che verifica la sussistenza degli elementi necessari e sufficienti a ritenere accoglibile o meno la pretesa punitiva: sentenze di accoglimento o di condanna. Dal punto di vista della forma, la sentenza deve essere sempre motivata, e cioè deve dare conto del processo logico seguito dal giudice per giungere alla decisione. L’obbligo di motivazione è posto direttamente dalla Costituzione (art. 111, co. 6) e ripetuto dal codice che prevede la sanzione della nullità (relativa) per l’eventuale inosservanza. L’ordinanza è il provvedimento che il giudice emana nel corso del procedimento per regolarne lo svolgimento e con il quale risolve singole questioni senza definire il processo. Non si tratta, pertanto, di una decisione nel merito della pretesa punitiva. Al pari della sentenza, l’art. 125 impone al giudice di motivarla a pena di nullità, sebbene soltanto per le sentenze l’obbligo discende dalla Costituzione (art. 111, co. 6). L’ordinanza ha carattere interlocutorio, basandosi sulla situazione sussistente al momento dell’emissione e potendo essere revocata o modificata a seguito del mutare della situazione originaria. Il decreto è il provvedimento formalmente più semplice e consiste in un “ordine” dato dal giudice. A differenza della sentenza e dell’ordinanza, la motivazione è necessaria solo se espressamente prescritta dalla legge. Come l’ordinanza, ha carattere incidentale: l’unica eccezione è il decreto penale di condanna, che può avere carattere definitorio, ma che nella sostanza è da equipararsi ad una sentenza di condanna. Non può essere revocato o modificato. Tale tipo di provvedimento, oltre che dal giudice, può essere emesso anche dal PM nei casi previsti dal codice (es. dispone con decreto il sequestro del corpo del reato ex art. 253). L’immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità. Se è vero che l’imputato non è colpevole fino alla condanna definitiva, è anche vero che se ci sono ragioni che rendono inutile la prosecuzione del processo queste devono essere rilevate, a tutela dell’imputato che, altrimenti, è sottoposto ad un ingiustificato procedimento. Per tale motivo, l’art.129, co. 1 pone la regola secondo cui il giudice ha l’obbligo di dichiarare immediatamente, in ogni stato e grado del processo (quindi non anche durante le indagini preliminari), determinate cause di non punibilità. Le ragioni che fondano la declaratoria di non punibilità sono quelle riassunte nelle varie formule: - “il fatto non sussiste” -> nel caso manchi uno degli elementi oggettivi del reato; - “il fatto non costituisce reato” -> nel caso manchi uno degli elementi soggettivi del reato, o questo sia stato commesso in presenza di una causa di giustificazione; - “L’imputato non l’ha commesso” -> in ipotesi di estraneità dell’imputato al reato; - “Il fatto non è previsto dalla legge come reato” > se il fatto integra un illecito meramente disciplinare o amministrativo, non penalmente rilevante, ovvero il reato è stato, successivamente alla commissione del fatto, depenalizzato o dichiarato illegittimo costituzionalmente; - “il reato è estinto” > qualora si sia verificata una causa di estinzione del reato, es. morte del reo; - “irrilevanza del fatto” -> per particolare tenuità del fatto; - “manca una condizione di procedibilità. L’ordine indica quale formula debba essere applicata con priorità rispetto alle altre, in caso di concorso tra le stesse (gerarchia tra le formule); difatti, il legislatore ha inteso effettuare una valutazione delle stesse nell’interesse dell’imputato, stabilendo che maggiormente favorevoli per lui sono le formule assolutorie nel merito (che sanciscono quindi l’infondatezza della prospettazione accusatoria), piuttosto che quelle di mero carattere procedurale. L’art. 130 prevede la procedura di correzione degli errori materiali contenuti nei provvedimenti, ovvero quegli errori del giudice che non incidono sulla sostanza dalla decisione. Si tratta di un rimedio diretto a ridurre l’ambito dei motivi di impugnazione, con evidente scopo di economia processuale. L’istituto richiede almeno 4 requisiti: a. Sono oggetto di correzione degli errori soltanto gli atti del giudice; b. L’errore non deve essere causa di nullità dell’atto; c. L’errore deve essere materiale, e cioè consistere in una difformità tra il pensiero del giudice e la formulazione esteriore di tale pensiero - può trattarsi anche di una omissione relativa ad un comando che dipende in maniera automatica dalla legge; d. L’eliminazione dell’errore non deve comportare una modifica essenziale dell’atto - sono escluse le correzioni che incidono sul dispositivo. Il procedimento di correzione dell’errore si svolge in camera di consiglio secondo le forme dell’art.127. La competenza spetta al giudice “autore” dell’atto; se l’errore viene rilevato nel corso delle impugnazioni, la correzione spetta al giudice ad quem. L’iniziativa spetta al giudice, che provvede d’ufficio, ma anche su richiesta dal PM o della parte interessata. L’ordinanza recante la correzione deve essere annotata sull’originale dell’atto. Al giudice spettano poteri coercitivi nell’esercizio delle sue funzioni, e cioè al fine del “sicuro e ordinato compimento degli atti ai quali procede” (art. 131). Si tratta di poteri di “polizia processuale” per l’esercizio dei quali la legge non impone l’osservanza di particolari formalità: l’ordine può essere anche soltanto orale ed è riprodotto nel verbale di udienza. Spetta al giudice il potere di chiedere l’intervento della polizia giudiziaria e, se necessario, della forza pubblica. Tra i poteri coercitivi del giudice rientra anche quello di ordinare l’accompagnamento coattivo (artt. 132 e 133). L’istituto consiste in una restrizione della libertà personale poiché l’accompagnamento può essere eseguito con la forza; a tutela della fondamentale garanzia della tutela della libertà personale, la norma attribuisce al giudice il potere di disporre l’accompagnamento coattivo solo nei casi previsti dalla legge. Per il medesimo motivo, l’art. 132, co. 2 afferma che la persona sottoposta ad accompagnamento coattivo non può essere tenuta a disposizione “oltre il compimento dell’atto previsto e quelli consequenziali per i quali perduri la necessità della sua presenza”, e comunque per non più di 24 ore. La finalità dell’accompagnamento coattivo è quella di condurre una persona davanti al giudice per rendere possibile la acquisizione di un contributo probatorio (es. esame testimone). I destinatari del provvedimento di accompagnamento coattivo possono essere sia l’imputato (o indagato), sia le altre persone indicate dall’art. 133: il testimone, il perito, il consulente tecnico, l’interprete, il custode di cose sequestrate e la persona sottoposta all’esame del perito diversa dall’imputato. Per tali persone, la norma aggiunge che, se regolarmente citate, omettono di comparire senza addurre un legittimo impedimento, il giudice oltre a disporre l’accompagnamento coatto, può condannarle al pagamento di una somma e alle spese processuali alle quale la mancata comparizione ha dato causa. ATTI DELLE PARTI Il libro secondo del codice si limita ad enunciare due soli “modelli generali” di atti delle parti: le richieste e le memorie (art. 121). Nel codice però, sono richiamati molti altri tipi di atti, egualmente importanti: es. conclusioni; il consenso; l’accettazione; la rinuncia o la revoca. Anche l’impugnazione è un atto delle parti. La richiesta è un atto di parte con il quale si chiede al giudice un determinato provvedimento; sulle richieste ritualmente formulate dalle parti il giudice deve provvedere senza ritardo e comunque entro 15 giorni, salvo specifiche disposizioni di legge. L’inosservanza di tale obbligo può dar luogo ad una responsabilità disciplinare ai sensi dell’art. 124. Inoltre, se il giudice non adempie entro i 15 giorni, la parte può presentargli formale istanza ai sensi dell’art. 3 della L. n.117/1988 sulla responsabilità dei magistrati; a questo punto il giudice deve decidere entro 30 giorni e se non lo fa, vi possono essere gli estremi del diniego di Giustizia, che è fonte di responsabilità civile. La memoria è un atto di parte con il quale si illustrano al giudice, in fatto ed in diritto, le proprie ragioni ed ha un contenuto meramente argomentativo. IL PROCEDIMENTO IN CAMERA DI CONSIGLIO Con l’espressione “camera di consiglio” il codice indica talvolta il luogo in cui il giudice si ritira per formare il proprio convincimento sulla singola questione da decidere, ovvero la modalità di svolgimento di un’attività giurisdizionale. L’art. 127 disciplina il modello generale di “procedimento in camera di consiglio”, indicando una particolare modalità di svolgimento dell’attività giurisdizionale, alla quale le parti e le altre persone interessate hanno il diritto di partecipare. Il procedimento in camera di consiglio presenta due caratteristiche: 1) L’assenza del pubblico; 2) La non necessaria partecipazione delle parti, delle persone interessate e dei loro difensori. Si tratta di una procedura “semplificata” che il codice impone tutte le volte in cui occorre adottare una decisione in tempi rapidi e vi è la necessità di attivare un contraddittorio eventuale. Ciò perché si tratta di questioni che sono prive di particolari difficoltà, sia anche perché la natura del provvedimento richiede celerità e riservatezza. Il procedimento inizia con il decreto di fissazione dell’udienza. Alle parti, agli altri interessati ed ai loro difensori è dato avviso della fissazione dell’udienza, a pena di nullità, almeno 10 giorni prima dell’udienza stessa. Possono presentare memorie fino a 5 giorni prima dell’udienza. Il contraddittorio è eventuale poiché la partecipazione delle parti, degli interessati e dei loro difensori è facoltativa. Il giudice ha comunque l’obbligo, a pena di nullità, di ascoltare tutti coloro che intervengono all’udienza. L’imputato e il condannato in stato di detenzione hanno diritto di essere sentiti, se ne fanno richiesta e purché siano detenuti nello stesso luogo ove ha sede il giudice; in caso di loro legittimo impedimento, l’udienza deve essere rinviata a pena di nullità. Se l’imputato o il condannato sono detenuti in luogo diverso da quello ove ha sede il giudice, alla loro audizione deve procedere a pena di nullità il magistrato di sorveglianza prima che abbia luogo l’udienza in camera di consiglio. La Corte costituzionale ha precisato, però, che il giudice ha il potere di disporre anche d’ufficio la traduzione (e cioè trasferimento) in udienza del detenuto. Il provvedimento conclusivo della procedura camerale assume, di regola, la forma dell’ordinanza, che è impugnabile mediante ricorso per cassazione. Gli atti del procedimento devono essere documentati perché se ne possa conservare traccia. Il codice prevede che a tale DOCUMENTAZIONE si provveda “mediante verbale” redatto dall’ausiliario che assiste il giudice o il PM, e che deve contenere il luogo, la data e, quando occorre, l’ora in cui è cominciato e chiuso, le generalità delle persone intervenute, la descrizione di quanto l’ausiliario ha fatto o constatato o di quanto è avvenuto in sua presenza, nonché le dichiarazioni ricevute da lui o da altro pubblico ufficiale che egli assiste; inoltre, il verbale deve riprodurre sia la domanda, sia la risposta. Spetta al giudice apprezzare il significato probatorio del contenuto del verbale, e cioè valutare la veridicità delle dichiarazioni rese, nonché la correttezza e veridicità della descrizione di ciò che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuto in sua presenza. La documentazione può essere effettuata con almeno 3 modalità differenti: 1. Verbale in forma integrale. In tale caso viene letteralmente trascritta tutta l’attività processuale che si svolge. In dibattimento, di regola, deve essere redatto il verbale in forma integrale con la stenotipia (sistema di verbalizzazione tramite digitazione) o con altro strumento meccanico, ovvero, in caso di impossibilità di ricorso a tali mezzi, con la scrittura manuale; 2. Verbale in forma riassuntiva con riproduzione fonografica. Quando il verbale viene redatto in “forma riassuntiva”, spetta al giudice vigilare che sia riprodotta la parte essenziale delle dichiarazioni, nella loro originaria genuina espressione, di modo che vi sia conformità tra ciò che accade, o è dichiarato, e ciò che è verbalizzato. Essendo il verbale in forma riassuntiva particolarmente di errori ed omissioni, l’art. 134, co. 3 dispone che in tali casi deve essere effettuata anche la riproduzione fonografica. 3. Verbale in forma riassuntiva senza riproduzione fonografica. Se l’attività da verbalizzare ha caratteri di semplicità o poca rilevanza, ovvero vi è una “contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione o di ausiliari tecnici”, è consentita la redazione del verbale in forma riassuntiva senza la contestuale riproduzione fonografica. Tale modalità rappresenta comunque un’eccezione rispetto alle ordinarie modalità di documentazione delle attività processuali. 4. La riproduzione audiovisiva è prevista in 3 situazioni distinte e si aggiunge alle predette modalità: a) È discrezionale quando l’autorità ritiene insufficienti le modalità di documentazione ordinarie sopra precisate e, viceversa, ritiene assolutamente indispensabile la riproduzione audiovisiva; b) È consentita, anche al di fuori delle situazioni di assoluta indispensabilità, quando si tratta di dichiarazioni rese dalla persona in condizioni di particolare vulnerabilità; c) È obbligatoria, in alternativa alla riproduzione soltanto fonografica, e comunque a pena di inutilizzabilità, quando, al di fuori dell’udienza, si deve svolgere l’interrogatorio di una persona detenuta. In tal modo, si vuole garantire l’assenza di condizionamenti, data la situazione di detenzione in cui si trova la persona interrogata. L’atto perfetto è quello che è conforme al modello legale descritto dalla norma processuale; esso è valido e produce gli effetti giuridici previsti dalla legge. L’atto che non è conforme al modello legale può essere invalido o meramente irregolare. - L’atto è irregolare se la difformità dal modello legale non rientra in una delle 4 cause di invalidità previste dalla legge; quindi, sebbene vi sia stata inosservanza di legge nel compiere l’atto, questa non è prevista a pena di invalidità. L’atto è quindi valido, ed il giudice potrà tenerne conto ai fini della decisione, anche se è libero di apprezzarne il valore probatorio. L’irregolarità può però dar luogo a conseguenze dal punto di vista disciplinare. - L’atto è invalido quando la singola difformità rientra in uno dei 4 casi di invalidità previsti dal codice: inammissibilità, decadenza, nullità e inutilizzabilità. In materia di invalidità degli atti vige il principio di tassatività, in forza del quale l’inosservanza della legge processuale è causa di invalidità soltanto quando una norma espressamente vi ricollega una delle quattro cause di invalidità previste dal codice; viceversa, se l’inosservanza non rientra in una previsione generica o specifica di invalidità, l’atto è meramente irregolare. Nel codice il principio di tassatività è espressamente previsto solamente per la nullità e la decadenza, ma si ritiene che garantisca anche l’inammissibilità e l’inutilizzabilità: ciò si desume dal criterio direttivo n. 7 della legge delega n. 81 del 1987, che ha imposto la: “previsione espressa sia delle cause di invalidità degli atti che delle conseguenti sanzioni penali”. INAMMISSIBILITA’ L’inammissibilità impedisce al giudice di esaminare nel merito una richiesta avanzata da una parte effettiva o potenziale del procedimento, quando la richiesta non ha i requisiti stabiliti dalla legge a pena di inammissibilità. Il requisito può riguardare il tempo entro il quale deve essere compiuto l’atto; oppure può concernere il contenuto dell’atto; o può toccare un aspetto formale; o ancora può riguardare la legittimazione al compimento dell’atto. Il regime giuridico. L’inammissibilità è rilevata dal giudice su eccezione di parte o anche d’ufficio; quando la rileva, il giudice dichiara l’inammissibilità della domanda (con ordinanza o con sentenza) e non decide sul merito della stessa. Il codice non stabilisce in via generale un termine entro il quale la domanda deve essere dichiarata inammissibile; perciò, di regola, il giudice può rilevare anche d’ufficio l’inammissibilità fino a che la sentenza sia divenuta irrevocabile, salvo che non sia espressamente previsto un termine anteriore. DECADENZA La decadenza denota la perdita del potere di porre in essere un atto a causa del mancato compimento dello stesso entro un termine perentorio. L’atto eventualmente compiuto entro il termine perentorio è giuridicamente invalido. In generale, i termini indicano il momento in cui un atto può o deve essere compiuto. Si distingue tra termini perentori e ordinatori in relazione alle conseguenze che la legge collega alla loro inosservanza. 1) Sono denominati termini perentori quelli che prescrivono il compimento di un atto entro e non oltre un determinato periodo di tempo; se tale periodo è superato, il soggetto decade dal potere di compierlo validamente. Data la gravità delle conseguenze connesse allo scadere del termine perentorio, il legislatore ha sancito che “i termini si considerano stabiliti a pena di decadenza soltanto nei casi previsti dalla legge”. Inoltre, il codice prescrive che i termini perentori non possono essere prorogati, salvo che la legge disponga altrimenti. 2) Sono denominati termini ordinatori quelli che fissano il periodo di tempo entro il quale un determinato atto deve essere compiuto; tuttavia, a differenza dei termini perentori, dal superamento della scadenza non deriva alcuna conseguenza di tipo “processuale”: l’atto è validamente compiuto anche se realizzato dopo il decorso del termine. L’inosservanza del termine ordinatorio, qualora sia priva di giustificazione, può dare luogo a conseguenze di tipo disciplinare. Con riguardo all’effetto che imprimono sullo svolgersi del procedimento, i termini processuali sono definiti dilatori o acceleratori: 1) Sono denominati termini dilatori quelli con i quali si prescrive che un atto non può essere compiuto prima del loro decorso. La prassi li definisce “termini liberi” e attraverso essi l’ordinamento dà alle parti la garanzia di disporre del tempo necessario per organizzare la propria difesa. 2) Sono denominati termini acceleratori quando la legge prevede il limite temporale entro il quale un determinato atto deve essere compiuto. La finalità è quella di ottenere che il procedimento si svolga in modo celere al fine di assicurarne la ragionevole durata. Da quanto finora esposto deriva che il singolo termine dilatorio o acceleratorio può essere definito “perentorio” dal legislatore; in mancanza di una precisazione di tal genere, il termine si deve ritenere ordinatorio. Il regime giuridico della decadenza. Il codice, di regola, stabilisce che gli atti compiuti da una parte oltre un termine perentorio sono inammissibili. Da ciò si desume che al decorso di un termine perentorio sono ricollegate due sanzioni processuali: 1) Dal punto di vista soggettivo, relativo alla estinzione del potere di compiere l’atto, si fa riferimento al concetto di decadenza; 2) Dal punto di vista oggettivo, relativo al regime dell’atto compiuto oltre il termine perentorio, il codice prevede la sanzione dell’inammissibilità. RESTITUZIONE NEL TERMINE La restituzione nel termine è un rimedio di carattere eccezionale, destinato a riassegnare alle parti la possibilità di esercitare un potere che si era estinto per l’inutile decorso di un termine processuale previsto a pena di decadenza. Il codice prevede due differenti istituti, uno di carattere generale ed uno di carattere speciale: il rimedio di carattere generale permette la restituzione in un termine processuale previsto a pena di decadenza, quando la parte prova di non averlo potuto osservare per caso fortuito o forza maggiore; il rimedio speciale è previsto nei confronti del decreto penale di condanna, sul presupposto che l’imputato può aver avuto conoscenza soltanto presuntiva, e non effettiva, del procedimento o del provvedimento. a) Il rimedio generale. La restituzione in termini di tipo generale (art. 175, co. 1) concerne tutti i termini a pena di decadenza che non sono stati osservati per caso fortuito o forza maggiore, cioè per situazioni di impossibilità oggettiva non imputabile alla parte. Si tratta di eventi naturali o fatti umani che concretano un impedimento non vincibile (es. violenza fisica o morale esercitata da terzi, blocchi stradali, ecc.). Spetta all’interessato provare di non aver potuto rispettare il termine per caso fortuito o forza maggiore. Sono legittimati a chiedere la restituzione in termini il PM, le parti private e i difensori; si ritiene che sia legittimata anche la persona offesa per tutti quei poteri ad essa conferita dalle disposizioni del codice. La richiesta deve essere presentata al giudice competente entro 10 giorni da quello in cui è cessato il fatto costituente caso fortuito o forza maggiore; tale termine è previsto a pena di decadenza. Sulla richiesta di restituzione decide, di regola, il giudice che procede al tempo della presentazione della stessa, salvo alcune eccezioni: in fase di indagini preliminari provvede il GIP; dopo la pronuncia della sentenza o del decreto di condanna, decide il giudice che sarebbe competente sulla impugnazione o opposizione. Il provvedimento previsto è l’ordinanza. Per quanto attiene al procedimento, la legge non lo specifica: le Sezioni Unite hanno stabilito che il giudice provvede, di regola, de plano (cioè senza contraddittorio e senza particolari formalità). La restituzione (sia generale, sia speciale) non può essere concessa più di una volta per ciascuna parte in ciascun grado del procedimento. L’ordinanza che concede la restituzione nel termine può essere impugnata soltanto insieme alla sentenza che viene emessa nel relativo procedimento. Al contrario, l’ordinanza di rigetto può essere autonomamente impugnata con ricorso per cassazione. b) La restituzione nel termine per proporre opposizione al decreto penale di condanna (il rimedio speciale). Per richiedere la restituzione nel termine per proporre opposizione al decreto penale di condanna occorre la sussistenza di due presupposti, uno oggettivo ed uno soggettivo: o Il decreto penale di condanna deve essere irrevocabile (presupposto oggettivo); o La richiesta di restituzione nel termine può essere presentata solo dall’imputato e dal suo difensore (presupposto soggettivo); La richiesta deve essere presentata al GIP, a pena di decadenza, entro 30 giorni da quello in cui l’imputato ha avuto conoscenza effettiva del provvedimento. È competente il GIP in quanto a lui spetta la decisione sulla ammissibilità o meno della opposizione. Una volta che l’imputato ha presentato la richiesta, il rimedio deve essergli concesso, salvo che egli abbia avuto tempestiva conoscenza del provvedimento e, al tempo stesso, abbia rinunciato volontariamente a proporre opposizione. Qualora dovesse essere accertata anche una sola delle due situazioni, il GIP deve respingere la richiesta. Se nessuna delle due situazioni viene accertata, o rimane il dubbio, il GIP deve accogliere la richiesta con ordinanza. Anche per il rimedio speciale valgono le stesse regole previste per l’impugnazione contro l’ordinanza di accoglimento o di rigetto del rimedio generale. Se viene concesso il rimedio speciale, l’imputato ha la possibilità di presentare opposizione contro il decreto penale di condanna, che pertanto non viene eliminato, ma semplicemente perde il suo carattere di irrevocabilità. NULLITA’ Questa causa di invalidità colpisce un atto del procedimento che è stato compiuto senza l’osservanza di quelle disposizioni che sono imposte dalla legge a pena di “nullità”. Il principio di tassatività è qui espressamente previsto dall’art. 177, secondo cui “l’inosservanza delle disposizioni stabilite per gli atti del procedimento è causa di nullità soltanto nei casi previsti dalla legge”. Diretta conseguenza di tale principio è che non è possibile applicare la nullità per analogia. Sulla base delle modalità di previsione dell’inosservanza, si distingue tra nullità di ordine speciale e nullità di ordine generale: • Le nullità di ordine speciale sono quelle previste per una determinata inosservanza precisata nella species; • Le nullità di ordine generale sono previste per ampie categorie di inosservanze e sono indicate nell’art. 178, secondo cui: “è sempre prescritta a pena di nullità l’osservanza delle disposizioni concernenti: a) le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi stabilito dalle leggi di ordinamento giudiziario; b) l’iniziativa del PM nell’esercizio dell’azione penale e la sua partecipazione al procedimento; c) l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato e delle altre parti private nonché la citazione in giudizio della persona offesa dal reato e del querelante”. Per quanto riguarda il regime giuridico, le nullità si distinguono in 3 tipi: assolute, intermedie e relative: • Sono colpite da nullità assoluta le inosservanze più gravi che sono previste dall’art. 179 e che riguardano i soggetti necessari del procedimento penale. Le nullità assolute sono rilevabili anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento e sono insanabili: infatti, si possono ritenere sanate soltanto dalla irrevocabilità della sentenza; • Sono colpite da nullità intermedia le inosservanze di media gravità che sono disciplinate dall’art. 180 e che riguardano una sfera più ampia di soggetti. Le nullità intermedie sono rilevabili anche d’ufficio, ma entro determinati limiti di tempo; inoltre, sono sanabili; • Le nullità relative sono quelle nullità di ordine speciale che sanzionano inosservanze di minore gravità (art. 181); sono dichiarate su eccezione di parte ed entro brevi limiti di tempo; inoltre, sono sanabili. L’art. 179 indica quali, tra le NULLITA’ di ordine generale elencate dall’art. 178, sono ASSOLUTE. Queste possono essere eccepite o rilevate in ogni stato e grado del procedimento, e sono deducibili senza limiti di legittimazione (ovvero, anche da chi non vi abbia interesse). L’art. 179 individua le situazioni patologiche più gravi, in quanto afferenti a profili di rilievo essenziale nel procedimento. Mentre le violazioni relative alla capacità del giudice cagionano sempre una nullità assoluta, per quanto concerne le parti, invece, tale ipotesi patologica deriva unicamente dall’inosservanza delle regole inerenti all’iniziativa del PM nell’esercizio dell’azione penale, all’omessa citazione dell’imputato, all’assenza del difensore nei casi in cui è obbligatoria la presenza. In particolare, sono previste a pena di nullità assoluta le seguenti violazioni: o Le violazioni concernenti “le condizioni di capacità del giudice”, intese nel senso di capacità generica all’esercizio della funzione giurisdizionale; c) Speciale, quando la norma del codice preveda espressamente tale sanzione per il mancato rispetto delle condizioni previste per l’acquisizione di una prova; d) Generale, quando si riferisce a categorie di inosservanze delineate nel genere. Vi è poi un’ulteriore fondamentale distinzione tra due forme di inutilizzabilità, quella patologica e quella fisiologica: • L’inutilizzabilità patologica consegue ad alcuni tra i vizi più gravi del procedimento probatorio (ammissione, assunzione e valutazione della prova); • L’inutilizzabilità fisiologica tende ad evitare che siano utilizzate per la decisione dibattimentale prove raccolte nel corso delle indagini preliminari; si tratta di una conseguenza del principio della separazione delle fasi processuali ed è posta a tutela del principio del contraddittorio nella formazione della prova. L’inutilizzabilità patologica di tipo generale è disciplinata dall’art. 191, co. 1, in base al quale “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”. La norma mira a riaffermare il principio di legalità della prova: solo le prove acquisite in modo conforme alle previsioni di legge possono essere utilizzate ai fini della corretta formazione del convincimento del giudice. In forza del principio di tassatività, il divieto idoneo a provocare l’inutilizzabilità patologica deve essere quello che è previsto da una norma processuale (prove irregolarmente acquisite). Le prove raccolte in violazione di una norma sostanziale (cd. prove illecite) sono, di norma, utilizzabili; diventano inutilizzabili se è stata violata una specifica norma processuale che disponga in tal senso. L’art. 191, co. 2 pone la regola secondo cui l’inutilizzabilità deve essere rilevata anche d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del procedimento; inoltre, l’inutilizzabilità non può essere sanata, e ciò perché l’atto è stato compiuto esercitando un potere vietato dalla legge processuale. Per il medesimo motivo, non è possibile procedere alla rinnovazione dell’atto. Alcune norme del codice prevedono l’inutilizzabilità di determinate categorie di atti non perché questi siano stati compiuti in violazione di un “divieto probatorio”, ma soltanto perché sono stati acquisiti senza il contraddittorio nella formazione della prova. In tali casi, si tratta di un uso improprio della nozione di “inutilizzabilità” in situazioni che non sono “patologiche”, bensì “fisiologiche”: l’atto è stato compiuto in modo formalmente regolare, ma durante le indagini senza il contraddittorio. Difatti, il codice pone la regola in base alla quale il giudice può utilizzare ai fini della deliberazione dibattimentale soltanto le prove legittimamente acquisite in tale fase. In base a tale disposizione, una eventuale inosservanza dei divieti di lettura degli atti compiuti in segreto prima del dibattimento comporta l’inutilizzabilità degli stessi ai fini della decisione. La violazione di un divieto di lettura fa sì che la relativa prova sia “diversa” da quella legittimamente acquisita dal dibattimento (che avrebbe subito il vaglio del contraddittorio) e, pertanto, sia inutilizzabile ai sensi dell’art. 526. Con questo strumento, si munisce di una sanzione processuale il principio del contraddittorio. ATTO INESISTENTE L’inesistenza è una causa di invalidità che è stata elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, non essendo esse prevista espressamente dal codice. L’esigenza è nata dal fatto che l’applicazione rigorosa del principio di tassatività in materia di invalidità, infatti, avrebbe potuto lasciare vuoti di tutela. In particolare, è possibile che gli atti del procedimento siano colpiti da vizi tanto gravi da non rientrare neppure nel catalogo delle nullità assolute insanabili (che peraltro non sono più deducibili una volta che la sentenza è divenuta irrevocabile): si tratta, in sostanza, di porre un rimedio a quelle clamorose violazioni della legge processuale che non sono state espressamente previste dal legislatore proprio a causa della loro eccezionalità. Fra i casi di inesistenza vi rientrano: • La carenza di potere giurisdizionale in colui che ha pronunciato la sentenza (come avviene nell’ipotesi della sentenza penale emessa da un organo della PA); • La sentenza pronunciata contro un imputato totalmente incapace perché coperto dall’immunità (es. agente diplomatico) o nei confronti di persona inesistente. In tali casi, l’atto non esiste in senso giuridico, ed il giudice può rilevarne l’inesistenza anche a seguito dell’avvenuto giudicato. ATTO ABNORME La giurisprudenza ha “creato” la categoria dell’atto abnorme, che può essere sottoposto a ricorso immediato per cassazione prima dell’irrevocabilità della sentenza, applicando direttamente l’art. 111, co. 7 Cost. Come per l’atto inesistente, anche l’atto abnorme non è disciplinato dal codice, ma è nato dall’esigenza di evitare vuoti di tutela dovuti alla rigorosa applicazione del principio di tassatività, questa volta in materia di impugnazioni. Difatti, quest’ultimo avrebbe precluso la possibilità di impugnare quei provvedimenti affetti da anomalie così gravi, ma per le quali la legge non prevede impugnazione. Rientrano nei casi di abnormità: - Abnormità strutturale: riguarda quel provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale; - Abnormità funzionale: riguarda quel provvedimento emesso al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, e determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo. Il termine ordinario per proporre ricorso per cassazione inizia a decorrere dalla conoscenza effettiva dell’atto, e non dalla sua conoscenza legale, che può mancare. a loro volta, in leggi scientifiche universali e leggi scientifiche probabilistiche: queste ultime si differenziano perché hanno un minor grado di predittività. Il ragionamento indiziario non “rappresenta” direttamente il fatto da provare, ma dimostra come questo probabilmente è avvenuto. L’indizio è idoneo ad accertare l’esistenza di un fatto storico di reato soltanto quando sono presenti altre prove che escludono una diversa ricostruzione dell’accaduto. Il principio è formulato nell’art. 192, co. 2: “l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti”. Si tratta di una regola giuridica di valutazione, dalla quale si ricava, in primo luogo, che un solo indizio non è mai sufficiente. La gravità degli indizi attiene al grado di convincimento: è “grave” l’indizio che è resistente alle obiezioni e che, pertanto, ha una elevata persuasività. Gli indizi sono precisi quando la “circostanza indiziante” è stata ampiamente provata. Gli indizi sono concordanti quando convergono tutti verso la medesima conclusione, nel senso che non devono esserci elementi contrastanti. Occorre sottolineare che gli indizi devono essere gravi, precisi e concordanti soltanto quando tendono a dimostrare l’esistenza di un fatto. 3. Il procedimento probatorio e il diritto alla prova. Il procedimento probatorio è regolato dal codice nei fondamentali momenti della ricerca, dell’ammissione, dell’assunzione e della valutazione della prova. Nel nostro sistema, spetta alle parti il potere di ricercare le fonti e di chiedere al giudice l’ammissione del relativo mezzo di prova. Spetta poi al giudice il potere di decidere l’ammissione e di emettere una valutazione sulle prove. Sia i poteri esercitati dalle parti sia quelli esercitati dal giudice, al fine di evitare abusi, sono regolamentati dalla legge: in tal senso si può dire che esiste un vero e proprio principio di legalità processuale in materia probatoria. Il “diritto alla prova” è un’espressione di sintesi che comprende il potere, spettante a ciascuna delle parti, di: a) ricercare le fonti di prova; b) chiedere l’ammissione del relativo mezzo; c) partecipare alla sua assunzione; d) ottenere una valutazione del risultato al momento delle conclusioni. LA RICERCA DELLA PROVA La ricerca delle fonti di prova spetta esclusivamente alle parti: il diritto di indagare è loro concesso in tutto il corso del procedimento e costituisce un aspetto fondamentale per la realizzazione del contraddittorio. In primo luogo, spetta al PM, sul quale incombe l’onere della prova, e cioè l’onere di convincere il giudice della reità dell’imputato. Successivamente, al fine di confutare la tesi dell’accusa, spetta all’imputato l’onere di ricercare sia quelle prove che possono convincere il giudice della non credibilità della fonte o della inattendibilità degli elementi a carico, sia quelle tendenti a dimostrare che i fatti si sono svolti diversamente. L’AMMISSIONE DELLA PROVA L’ammissione del mezzo di prova deve essere chiesta al giudice dalle parti; il giudice ammette la prova in base a 4 criteri: • La prova deve essere pertinente, e cioè deve dimostrare l’esistenza del fatto storico enunciato nel capo di imputazione o di uno degli elementi indicati nell’art. 187; • La prova non deve essere vietata dalla legge; • La prova non deve essere superflua, e cioè non deve tendere ad acquisire il medesimo risultato probatorio che ci si aspetta da una pluralità di mezzi di prova; • La prova deve essere rilevante, e cioè utile all’accertamento. In base all’art. 190, non occorre che la rilevanza o la non superfluità siano certe; è sufficiente il dubbio, e cioè la non manifesta irrilevanza o superfluità. In caso di dubbio, il giudice deve ammettere il mezzo di prova. Il giudice deve provvedere sulla richiesta di ammissione “senza ritardo con ordinanza” - egli deve motivare l’eventuale rigetto della richiesta e soprattutto deve provvedere subito, senza poter riservarsi di decidere sull’ammissione. Il codice prevede espressamente il “diritto alla prova contraria”. Si tratta di un diritto costituzionalmente garantito dall’art. 111, co. 3, Cost. che, con riferimento al solo imputato, proclama il diritto di “ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore”. Ove siano stati ammessi i mezzi di prova richiesti dall’accusa, l’imputato ha diritto all’ammissione delle “prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico”. Il medesimo diritto spetta al PM “in ordine alle prove a carico dell’imputato sui fatti costituenti oggetto delle prove a discarico”. Il diritto ad ottenere l’ammissione della prova di tipo dichiarativo è stato limitato in 3 ipotesi: ▪ Quando l’imputazione ha ad oggetto i delitti di associazione mafiosa o assimilati; ▪ Quando l’imputazione ha ad oggetto alcuni reati in materia di violenza sessuale e di pedofilia, se l’esame riguarda un testimone minore degli anni 18; ▪ In ogni caso in cui l’esame testimoniale riguarda una persona offesa in condizione di particolare vulnerabilità. In tali casi, se la persona, che una parte vuole sentire in dibattimento, ha già reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio o in altro dibattimento, l’esame è ammesso soltanto in due casi: a) Se riguarda fatti o circostanze diverse da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni; b) se il giudice o una delle parti lo ritengono necessario sulla base di specifiche esigenze. In tali casi si vuole tutelare la parte dichiarante, evitando rischi di intimidazione o di sicurezza per la sua persona; allo stesso tempo viene comunque tutelato il principio del contraddittorio, in quanto le proprie dichiarazioni sono state già poste al vaglio del contraddittorio, ma in altra sede. Il giudice di regola non può introdurre un mezzo di prova senza una richiesta di parte, e cioè d’ufficio; tuttavia, l’art. 190, co. 2 prevede che è la legge a stabilire i casi eccezionali in cui le prove sono ammesse d’ufficio. Tale potere è giustificato dal fatto che l’esito dell’accertamento in un processo penale incide sulla libertà personale, bene inviolabile e indisponibile della persona umana. Pertanto, il potere di iniziativa probatoria del giudice serve ad evitare che, per inerzia di una delle parti, sia reso disponibile un diritto inviolabile. L’ASSUNZIONE DELLA PROVA L’assunzione della prova attiene alle modalità attraverso le quali una prova viene formata. Le parti hanno il diritto di partecipare all’assunzione del mezzo di prova, e quando ciò avviene con l’esame incrociato, hanno diritto a formulare direttamente le domande al dichiarante. Si ricorda che il “diritto a confrontarsi” con l’accusatore discende direttamente dall’art. 111, co. 3 Cost. Il termine acquisizione, riferito alla prova, è utilizzato dal codice in due significati: • in senso stretto, per indicare l’ammissione della prova “precostituita”, e cioè formata fuori del procedimento o prima del dibattimento; • in senso lato, è utilizzato per ricomprendere anche l’ammissione e l’assunzione della prova “non precostituita” quale è la dichiarazione. LA VALUTAZIONE DELLA PROVA Le parti hanno il diritto di offrire la propria valutazione degli elementi di prova, argomentando sulla base dei risultati che sono stati acquisiti: in dibattimento ciò avviene al momento della discussione finale. In ogni caso, la valutazione finale sugli elementi di prova è effettuata dal giudice, il quale ha il dovere di dare una valutazione logica sull’elemento di prova raccolto. Nella valutazione della prova, vige il principio del libero convincimento del giudice: tale principio deve tener conto delle norme che disciplinano la valutazione delle prove e la motivazione della sentenza. Infine, va precisato che nel processo penale, a differenza di quanto avviene nel processo civile, non esiste l’istituto della prova legale. Nel processo civile si ha prova legale in tutte quelle ipotesi nelle quali la legge si sostituisce al libero convincimento del giudice nella valutazione di un determinato elemento di prova. Nel processo penale, invece, ogni prova è sempre liberamente valutabile dal giudice, che può ritenerla non attendibile. 4. L’onere della prova. L’art. 27, co. 2 Cost. afferma che “l’imputato non è considerate colpevole sino alla condanna definitiva”. Da tale principio, oltre a derivarne una regola di trattamento (l’imputato non deve essere assimilato al colpevole sino al momento della condanna), ne consegue anche una regola probatoria: essendo l’imputato un presunto innocente, l’onere della prova ricade sulla parte che sostiene la reità dello stesso. La presunzione d’innocenza è una presunzione legale relativa, e cioè valida finché non sia stato dimostrato il contrario. Si distingue tra onere della prova in senso sostanziale ed in senso formale: - l’onere della prova in senso sostanziale è il dovere di convincere il giudice dell’esistenza del fatto affermato dalla parte; l’onere è adempiuto quando il giudice ritiene esistente il fatto medesimo. - l’onere della prova in senso formale impone alle parti il dovere di chiedere al giudice l’ammissione del mezzo di prova (art. 190); l’onere è adempiuto quando il giudice ha ammesso il mezzo di prova. 5. Il quantum della prova. Lo standard probatorio identifica la quantità di prova necessaria a convincere il giudice. Mentre nel processo civile il quantum di prova è identico per l’attore e per il convenuto, nel processo penale il quantum è maggiore per colui che accusa; difatti, quest’ultimo ha l’onere di provare la reità dell’imputato in modo da eliminare ogni ragionevole dubbio. Con la L. n. 46 del 2006, il Parlamento ha modificato l’art. 533, co. 1, stabilendo che il giudice pronuncia la sentenza di condanna quando l’imputato “risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”. Il termine “ragionevole” è stato interpretato nel senso di “comprensibile da una persona razionale” e dunque oggettivabile attraverso una motivazione che faccia riferimento ad argomentazioni logiche nel rispetto del principio di non contraddizione. Il criterio del ragionevole dubbio costituisce sia una regola probatoria, sia una regola di giudizio: è una regola probatoria in quanto disciplina nel quantum l’onere della prova che è a carico del PM; è una regola di giudizio, in quanto il giudice è tenuto ad applicarla, con la conseguenza che in presenza di dubbio razionale deve ritenere la reità dell’imputato non provata, e quindi, assolverlo. 6. Oralità, immediatezza e contraddittorio. Il principio di oralità. Si ha oralità in senso pieno soltanto quando le parti possono porre domande ed ottenere risposte a viva voce dal dichiarante nell’esame incrociato. L’oralità permette di valutare in modo pieno la credibilità e l’attendibilità di un dichiarante. In tal modo è assicurato il diritto dell’imputato a confrontarsi con il dichiarante. Il principio di immediatezza. Il principio di immediatezza è attuato quando vi è un rapporto privo di intermediazioni tra l’assunzione della prova e la decisione. Da un lato, si vuole che il giudice prenda direttamente contatto con la fonte di prova; dall’altro, si tende ad assicurare che vi sia identità fisica tra il giudice che assiste all’assunzione della prova e colui che prende la decisione di condanna o assoluzione. Tutto ciò, al fine di permettere una migliore valutazione sulla credibilità e sull’attendibilità del dichiarante. Il principio del contraddittorio. L’art. 111, co. 4 dispone che “il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova”. Dal principio si ricava che, di regola, il giudice del dibattimento deve decidere soltanto in base alle prove raccolte nel contraddittorio. Vi possono essere casi nei quali è attuato il contraddittorio, ma non l’immediatezza: ciò avviene quando per le prove formate con lo strumento dell’incidente probatorio. Il contraddittorio è assicurato in quanto l’escussione di una persona avviene mediante l’esame incrociato ad opera del PM e del difensore dell’indagato; tuttavia, se le dichiarazioni verbalizzate sono lette nel successivo dibattimento, il principio di immediatezza non è rispettato. L’art. 194 pone un secondo limite alle domande: esse devono avere ad oggetto “fatti determinati”; di conseguenza, il teste di regola non può esprimere valutazioni né apprezzamenti personali, “salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti”. Infine, non può deporre su “voci correnti nel pubblico”. L’esame del teste può estendersi ai rapporti di parentela o di interesse che lo legano alle parti o ad altri testimoni; inoltre può avere ad oggetto le circostanze che servono ad accertare la credibilità sia delle parti, sia dei testimoni. 3. La testimonianza indiretta. Il testimone può avere una conoscenza diretta o indiretta dei fatti da provare: a) ha una conoscenza diretta quando ha percepito personalmente il fatto da provare con uno dei cinque sensi; b) ha una conoscenza indiretta (cd. de relato) quando non ha percepito personalmente il fatto, ma gli è stato riferito da altri a voce, per scritto o con altro mezzo. In quest’ultimo caso si ha una testimonianza indiretta, ed è disciplinata all’art. 195 (“il testimone si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone”). La persona che ha riferito del fatto al teste è generalmente denominata “teste di riferimento”. Il problema della testimonianza indiretta è dovuto al fatto che nel processo penale, attraverso l’esame incrociato, è possibile accertare la credibilità e l’attendibilità del testimone che ha avuto una conoscenza personale del fatto da provare: a tal fine, il codice permette che siano fatte le contestazioni e le domande-suggerimento nel controesame. Tuttavia, il codice pone alcune condizioni all’utilizzabilità della testimonianza indiretta: La prima condizione, posta dall’art. 195, co. 7, richiede che il testimone indiretto indichi la persona o la fonte “da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell’esame”; e ciò, a pena di inutilizzabilità della deposizione. Si tratta di una condizione della quale non si può fare a meno in quanto la mancata individuazione della fonte impedisce di valutare la credibilità e l’attendibilità di quanto è stato riferito. Ciò trova conferma nell’art. 194, co. 3, che vieta al teste di deporre su “voci correnti nel pubblico”. La seconda condizione, posta dall’art. 195, co. 1, opera laddove le parti facciano richiesta al giudice di sentire nel processo la persona che ha avuto conoscenza diretta del fatto; in questo caso, il giudice ha l’obbligo di disporne la citazione, e se non lo fa, la testimonianza indiretta non è utilizzabile. Se invece nessuna delle parti ha chiesto la citazione, la testimonianza indiretta è utilizzabile, anche senza l’escussione del teste diretto. Inoltre, il codice permette (ma non lo obbliga) al giudice di disporre d’ufficio la citazione del testimone indiretto se essa non è stata chiesta da alcuna delle parti (art. 195, co. 3). In via eccezionale la testimonianza indiretta è utilizzabile quando l’esame del testimone diretto “risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità”. In particolare, l’irreperibilità del teste è una situazione che presuppone che lo stesso sia già stato non soltanto individuato, ma anche identificato. L’irreperibilità presuppone che sia stato impossibile notificare la citazione ai sensi dell’art. 167 al testimone già identificato (dai privati o dalla PG). Valutazione della testimonianza indiretta. Nei casi previsti, la testimonianza indiretta è utilizzabile, ma tuttavia dovrà essere valutata con particolare cura, e ciò in quanto la mancata deposizione del teste diretto rende difficile il controllo sulla attendibilità di quanto si è appreso de relato. Va, inoltre, considerato che è vietato assumere deposizioni su fatti appresi da persone vincolate da segreto professionale o d’ufficio, salvo che queste abbiano comunque divulgato i fatti. Una volta che siano state osservate le condizioni poste dal codice, il giudice può utilizzare la testimonianza indiretta ai fini della decisione. Il codice pone un divieto di testimonianza sulle dichiarazioni “comunque rese” dall’imputato (o dall’indagato) in un atto del procedimento. L’inosservanza di tale divieto rende la testimonianza inutilizzabile. La finalità della norma è la seguente: la prova delle dichiarazioni rese dall’imputato (o dall’indagato) deve ricavarsi unicamente dal verbale che deve essere redatto ed utilizzato “con le forme ed entro i limiti previsti per le varie fasi del procedimento”. In tal modo si vuole tutelare il diritto al silenzio dell’imputato o dell’indagato, ed evitare che questo sia aggirato recuperando ai fini probatori le dichiarazioni rese in atti del procedimento. Per quanto attiene all’ambito del divieto, dall’art. 62 si ricava che: • il divieto ha natura oggettiva, e cioè si riferisce a chiunque riceva le dichiarazioni, sia egli un testimone qualsiasi o un appartenente alla PG; • il divieto ha per oggetto “dichiarazioni” in senso stretto, e cioè espressioni di contenuto narrativo (non vi sono ricompresi, ad es., meri comportamenti, un avvertimento, una minaccia); • le dichiarazioni rispetto alle quali opera il divieto sono quelle rese “nel corso del procedimento”, che non va inteso come “durante la pendenza del procedimento”, bensì “in occasione” di un atto tipico; una dichiarazione resa fuori di un atto del procedimento può essere oggetto di testimonianza; • d) il divieto riguarda le dichiarazioni dell’imputato che abbiano una valenza di “prove”, e non quelle che siano rilevanti come “fatti storici di reato” che devono necessariamente essere accertati mediante un processo penale. L’art. 195, co. 4 stabilisce che gli ufficiali e gli agenti di PG non possono deporre sul contenuto sia delle sommarie informazioni assunte da testimoni o imputati connessi, sia delle denunce, querele o istanze, sia delle informazioni e delle dichiarazioni spontanee rese dall’indagato. In tal modo si vuole garantire il principio del contraddittorio, secondo cui le dichiarazioni rese in segreto durante le indagini sono di regola inutilizzabili. Infatti, se la polizia potesse riferire al giudice le dichiarazioni ricevute dal possibile testimone in segreto, le dichiarazioni medesime diventerebbero utilizzabili per la decisione e sarebbe aggirata la regola della inutilizzabilità. Gli altri casi ammessi per la testimonianza indiretta sono quelli nei quali la polizia è chiamata a riferire su dichiarazioni ricevute fuori dall’esercizio delle sue funzioni; oppure su dichiarazioni percepite dalle persone informate sui fatti nel corso di attività tipiche come identificazioni, ricognizioni informali, sequestri, o atipiche quali appostamenti, pedinamenti. In tali casi non opera il divieto, ma si applicano le condizioni previste dai primi tre commi dell’art. 195. 4. L’incompatibilità a testimoniare. Il codice pone, in via generale, la regola secondo cui ogni persona ha la capacità di testimoniare (art. 196, co. 1); prevede poi una serie di eccezioni, che consistono in situazioni di incompatibilità relative ad un determinato procedimento (art. 197). L’incompatibilità a testimoniare ricorre quando una persona, pur capace di deporre, non è legittimata a svolgere la funzione di testimone in un determinato procedimento penale a causa della posizione assunta in tale procedimento o a causa dell’attività ivi esercitata. Le situazioni di incompatibilità sono ricollegabili a due distinti ordini di ragioni: - le prime 3 ipotesi vogliono escludere che alcune persone abbiano un obbligo, penalmente sanzionato, di dire il vero; - L’ultima ipotesi (lett. d), vogliono escludere che possano deporre quei soggetti che hanno svolto “nel medesimo procedimento” le funzioni di giudice, PM o loro ausiliario o altre funzioni ritenute incompatibili con quella di testimone. In particolare, le situazioni di incompatibilità sono le seguenti: Lett. A - non possono essere assunti come testimoni gli imputati concorrenti nel medesimo reato. L’incompatibilità opera a prescindere dal fatto che i rispettivi procedimenti siano riuniti o separati e cessa per il singolo imputato con l’irrevocabilità della sentenza che lo riguarda. Lett. B - di regola, non possono essere assunti come testimoni, bensì sentiti con l’esame ai sensi dell’art. 210, gli imputati in procedimenti legati da una connessione debole e gli imputati in procedimenti collegati ai sensi dell’art. 371, co. 2, lett. B. Tale regola di incompatibilità subisce due eccezioni: in primo luogo, i predetti soggetti possono assumere la qualità di testimone se la sentenza emessa nei loro confronti è divenuta irrevocabile; in secondo luogo, i predetti soggetti possono assumere la qualità di testimone se, nel corso dell’interrogatorio, hanno reso dichiarazioni su fatti “altrui”, e cioè concernenti la responsabilità di altri imputati collegati o connessi teleologicamente. In quest’ultimo caso si ha una incompatibilità parziale, in quanto gli imputati possono testimoniare solo su fatti “altrui” già in precedenza dichiarati. Lett. C - Non possono essere assunte come testimoni le persone che, nel medesimo processo, sono presenti nella veste di responsabile civile e civilmente obbligato per la pena pecuniaria. Esse possono rendere dichiarazioni, su loro consenso o richiesta, in qualità di parti e, quindi, senza l’obbligo penalmente sanzionato di dire il vero. Lett. D - Non possono essere assunti come testimoni: • Coloro che, nel medesimo procedimento, svolgono o hanno svolto la funzione di giudice, PM o loro ausiliario. L’incompatibilità si fonda sul rilievo che le predette persone non sono psicologicamente “terze” rispetto agli atti compiuti. • Il difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva e coloro che hanno formato la documentazione dell’intervista o che hanno redatto la relazione che recepisce le dichiarazioni scritte “ai sensi dell’art. 391-ter”. Salvo quanto disposto dal codice deontologico forense, per il resto il difensore è compatibile con la qualità di testimone. 5. Il privilegio contro l’autoincriminazione. Il codice pone la regola generale in base alla quale il testimone ha l’obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte nel corso dell’esame. A tale regola è prevista un’eccezione, in forza della quale il testimone “non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale” (art. 198, co. 2). Tale situazione può definirsi “privilegio”, perché si prevede un’esenzione da un regime ordinario, che è appunto l’obbligo di rispondere. Il privilegio permette al testimone di non rispondere non soltanto alla singola domanda, ma a tutte le domande che concernono quei “fatti” dai quali emerga una sua responsabilità per un reato commesso in passato. In questi casi, il testimone è libero di scegliere se rispondere o meno. L’art. 198, co. 2 stabilisce un divieto probatorio che ha come destinatario il giudice. Quando il testimone rifiuta di rispondere ad una domanda autoincriminante, la legge vieta al giudice di costringerlo a parlare; se il giudice lo costringe e successivamente si riconosce l’esistenza del privilegio contro l’autoincriminazione, le dichiarazioni eventualmente rese sono inutilizzabili. Occorre però che il teste eccepisca il privilegio in modo fondato e non pretestuoso: e cioè, deve dare una giustificazione allo stesso, con l’ovvio limite che non può essere obbligato a precisare troppi dettagli. Il giudice valuta le giustificazioni addotte e, se le ritiene infondate, può rinnovare al testimone l’avvertimento che ha l’obbligo di dire la verità. Occorre precisare che non sono coperte da privilegio quelle dichiarazioni che concretino esse stesse un fatto di reato. Le risposte autoincriminanti. Se il testimone decide di rendere dichiarazioni autoincriminanti, o comunque emergono indizi di reità a suo carico per un reato pregresso, in base all’art. 63 l’autorità procedente (giudice, PM o PG) deve per prima cosa interrompere l’esame; in secondo luogo deve avvertirlo che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti; infine deve invitarlo a nominare un difensore. Quanto al valore probatorio delle precedenti dichiarazioni, esse non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese, ma possono essere utilizzate a suo favore. Si tratta di un’ipotesi di inutilizzabilità relativa, in quanto le precedenti dichiarazioni possono essere utilizzate contro altre persone. Ai sensi dell’art. 63, co. 2, le dichiarazioni rese da una persona che avrebbe dovuto essere sentita fin dall’inizio dalla polizia o dall’autorità giudiziaria come indagato o imputato (e che pertanto avrebbe dovuto ricevere l’avviso della facoltà di non rispondere), non possono essere utilizzate né contro la persona che le ha rese, né contro altre persone. Trattasi di un’ipotesi di inutilizzabilità assoluta. 6. Il testimone prossimo congiunto dell’imputato. I prossimi congiunti dell’imputato non possono essere obbligati a deporre (art. 199). Con tale disposizione il codice antepone il rispetto dei sentimenti familiari all’interesse della Giustizia all’accertamento dei fatti; e ciò in sintonia con l’art. 384, co. 1, in base al quale non è punibile chi ha commesso falsa testimonianza per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore. Sono prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti. Il codice impone che il testimone prossimo congiunto dell’imputato sia avvisato dal giudice della facoltà di astenersi dal rendere la deposizione; se l’avviso è omesso, la dichiarazione resa è affetta da nullità relativa e l’eventuale reato di falsa testimonianza non è punibile. 184, co. 1, in favore di chi agisce per salvarsi da un grave e inevitabile pericolo nella libertà o nell’onore. Tale causa di non punibilità, però, non è applicabile in relazione ai delitti di calunnia e di simulazione di reato. Mentire, però, può provocare conseguenze dal punto di vista processuale: difatti, se durante l’esame o successivamente emerge che l’imputato ha mentito, da quel momento sarà ritenuto inattendibile, e le sue affermazioni difficilmente potranno convincere il giudice, a meno che non siano supportate da prove. Il diritto a restare in silenzio. L’imputato, nel corso dell’esame, può rifiutarsi di rispondere ad una qualsiasi domanda; ai sensi dell’art. 209, co. 2, del suo silenzio deve essere fatta menzione nel verbale e può essere valutato dal giudice come argomento di prova. Inoltre, data la particolare posizione dell’imputato, egli può affermare fatti da altri riferitigli, senza essere vincolato alle condizioni di utilizzabilità poste dall’art. 195. Ovviamente, non indicando la fonte da cui ha appreso l’esistenza del fatto, non è detto che la dichiarazione sia ritenuta “attendibile”. 3. Le parti private diverse dall’imputato. Il responsabile civile, il civilmente obbligato per la pena pecuniaria e la parte civile (che non debba essere esaminata come testimone), sono sottoposti all’esame incrociato sulla base delle regole generali previste dal codice per l’esame delle parti: - Sono esaminati sono se lo richiedono o vi consentano; - Possono non rispondere alle domande; - Non rispondono di falsa testimonianza, poiché non sono testimoni; - Se affermano di aver “sentito dire”, valgono le ordinarie condizioni previste dall’art. 195. Quando la parte civile deve essere sentita come testimone, questa deporrà in tale qualità e non in quella di parte, con la conseguenza che avrà l’obbligo di rispondere secondo verità. 4. L’esame di persone imputate in procedimenti connessi. L’imputato “connesso o collegato” è l’imputato di quel procedimento che ha, rispetto al procedimento principale, un rapporto di connessione o di collegamento probatorio, a prescindere dalla circostanza che i rispettivi procedimenti siano riuniti o separati. Tale soggetto può contribuire all’accertamento dei fatti con 4 differenti strumenti di prova. 1) L’esame degli imputati concorrenti nel medesimo reato e situazioni assimilate (art. 12, lett. a). L’imputato concorrente è incompatibile con la qualifica di testimone, fino a che nei suoi confronti non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile. In linea generale l’imputato concorrente gode delle medesime garanzie che sono riconosciute all’imputato principale; l’unica differenza, assai significativa, consiste nel fatto che, qualora una parte ne faccia richiesta o, nei casi previsti, sia disposto d’ufficio dal giudice, l’imputato concorrente ha l’obbligo di presentarsi a rendere l’esame, e se non si presenta, il giudice ne ordina l’accompagnamento coattivo. Ciò in quanto all’imputato concorrente è chiesto di deporre anche su fatti concernenti la responsabilità altrui; in ogni caso, egli deve essere avvisato che ha la facoltà di non rispondere e non ha l’obbligo di dire la verità, in quanto è incompatibile con il testimone e non può essere obbligato a rendere dichiarazioni autoincriminanti. Infine, deve essere assistito da un difensore, e se ne è sprovvisto, gli deve essere designato un difensore d’ufficio. 2) L’esame degli imputati collegati o connessi teleologicamente (art. 12, lett. c). L’art. 210, co. 6, stabilisce un regime peculiare per gli imputati collegati o connessi teleologicamente che non hanno reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato. Si tratta di soggetti incompatibili con la qualità di testimone. All’imputato collegato o connesso teleologicamente si applicano le disposizioni relative all’esame dell’imputato connesso: essi hanno il dovere di presentarsi; sono assistiti da un difensore (di fiducia o di ufficio); sono avvisati che hanno la facoltà di non rispondere. Inoltre, tali soggetti, sono avvisati che, se renderanno dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri, assumeranno la qualifica di teste limitatamente a tali fatti. 5. La testimonianza assistita. Il codice prevede due categorie di testimonianza assistita, per le quali si applicano le seguenti regole generali: ▪ Ai testimoni assistiti si applicano le norme sulla testimonianza, salvo se derogate espressamente o implicitamente dalle regole contenute nell’art. 197-bis; ▪ I testimoni devono essere assistiti da un difensore (di fiducia o d’ufficio); ▪ Le dichiarazioni rilasciate dai testimoni assistiti non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese nel procedimento a suo carico, nel procedimento di revisione della sentenza di condanna ed in qualsiasi giudizio civile o amministrativo relativo al fatto” addebitato al dichiarante; in tal modo si vuole evitare che dalle dichiarazioni rese possa derivare un pregiudizio per il teste assistito; ▪ Le dichiarazioni dei testi assistiti sono utilizzabili soltanto in presenza di riscontri che ne confermino l’attendibilità. ▪ Essendo il testimone assistito un “imputato”, sia pure connesso o collegato, non si applica nei suoi confronti l’art. 63 a tutela delle dichiarazioni auto-indizianti: se egli rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi a proprio carico, l’autorità procedente non deve interrompere l’esame, né dare avvertimenti, né invitarlo a nominare un difensore (che, peraltro, è già presente). 3)I testimoni assistiti prima della sentenza irrevocabile. L’imputato collegato o quello connesso teleologicamente con procedimento pendente, possono essere sentiti come testimoni assistiti se ricorrono le seguenti condizioni: ➔ L’imputato deve essere stato ritualmente avvisato che se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà l’ufficio di testimone. Devono essere fatti che concernono la responsabilità di altri per un reato connesso teleologicamente o collegato probatoriamente con quello addebitato al dichiarante. ➔ Una volta avvertito, l’imputato collegato o connesso teleologicamente deve aver reso dichiarazioni su un fatto altrui (sia in dibattimento, sia durante le indagini); Solo in presenza di tali condizioni, l’imputato collegato o connesso teleologicamente diventa compatibile con la qualifica di testimone assistito. Si tratta, dunque, di una compatibilità condizionata e parziale: condizionata perché scatta soltanto se l’imputato in questione ha reso dichiarazioni sul fatto altrui; parziale perché è limitata al singolo fatto altrui già dichiarato. Lo “speciale” privilegio contro l’autoincriminazione. Il testimone assistito con procedimento pendente, oltre a godere del comune privilegio contro l’autoincriminazione con riferimento a reati diversi da quello che sono oggetto del procedimento a suo carico, gode anche di un ulteriore privilegio: egli può non rispondere sui fatti che concernono la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti. Ne consegue che, il testimone assistito non è obbligato a deporre sui fatti altrui già dichiarati in precedenza, se questi concernono anche la propria responsabilità in ordine al reato contestatogli nel procedimento a suo carico (cd. fatti inscindibili). In tali casi, l’imputato connesso o collegato ha diritto di rimanere in silenzio; tuttavia, se decide ugualmente di rispondere, egli ha l’obbligo penalmente sanzionato di rispondere secondo verità. Tale disciplina si applica sia nel caso in cui i procedimenti collegati o connessi siano stati riuniti, sia laddove sono separati. 4)La testimonianza assistita dell’imputato “giudicato”. Parzialmente diversa è la disciplina prevista per la testimonianza assistita resa dall’imputato connesso o collegato dopo che la sentenza che lo riguarda è diventata irrevocabile. In questo caso, l’imputato giudicato può essere sempre chiamato come testimone assistito in un procedimento collegato o connesso, anche se non ha mai reso dichiarazioni su fatti altrui. La posizione processuale dell’imputato connesso o collegato, dopo che la sentenza che lo riguarda è diventata irrevocabile, dipende dalla formula terminativa della sentenza medesima. Occorre distinguere 3 differenti situazioni: I. L’imputato condannato o al quale è stata applicata la pena su sua richiesta può sempre essere chiamato come testimone assistito di un procedimento collegato o connesso, anche se non ha mai reso dichiarazioni su fatti altrui. Tali soggetti hanno l’obbligo penalmente sanzionato di rispondere secondo verità. In loro favore opera la garanzia in base alla quale le dichiarazioni rilasciate dai testimoni assistiti non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese nel procedimento a suo carico, nel procedimento di revisione della sentenza di condanna ed in qualsiasi giudizio civile o amministrativo relativo al fatto addebitato al dichiarante. Inoltre, godono del privilegio contro l’autoincriminazione su fatti diversi da quelli giudicati, salvo in un caso: quando il dichiarante è stato condannato con sentenza irrevocabile, non può essere obbligato a deporre sui fatti per i quali è stata pronunciata in giudizio sentenza di condanna nei suoi confronti se nel procedimento aveva negato la propria responsabilità o non aveva reso alcuna dichiarazione; tale privilegio non può essere invocato dalla persona nei cui confronti sia stata emessa sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti. II. Anche l’imputato prosciolto con formule terminative diverse dall’assoluzione perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto può sempre essere chiamato come testimone assistito di un procedimento collegato o connesso, anche se non ha mai reso dichiarazioni su fatti altrui. Tuttavia, essi non godono di alcun privilegio contro l’autoincriminazione sul fatto proprio coperto dalla sentenza irrevocabile; ciò in quanto il dichiarante coperto dal principio del ne bis in idem. Diversamente, godono del comune privilegio contro l’autoincriminazione in relazione a fatti diversi da quello per cui si è proceduto a loro carico. III. L’imputato assolto con formula piena perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto, essendo stato riconosciuto estraneo rispetto al fatto, deve essere esaminato senza l’assistenza di un difensore e senza che sia necessario acquisire un riscontro esterno al fine di valutarne l’attendibilità. Conseguentemente, è obbligato a rispondere secondo verità sul fatto proprio coperto dalla sentenza irrevocabile. Tali soggetti sono quindi sostanzialmente assimilati al testimone comune in quanto, secondo la Corte Cost., sono in una “situazione di assoluta indifferenza” rispetto ai fatti oggetto del procedimento. Resta ferma la garanzia dell’inutilizzabilità contra se delle dichiarazioni rese e del comune privilegio contro l’autoincriminazione in relazione a fatti diversi da quello per cui si è proceduto a suo carico. 6. La deposizione degli indagati o imputati connessi in caso di archiviazione o di non luogo a procedere. La situazione conseguente alla sentenza di non luogo a procedere: 1. Gli imputati connessi per concorso nel medesimo reato, che siano stati oggetto di sentenza di non luogo a procedere, sono radicalmente incompatibili con la qualifica di teste e sono esaminati ai sensi dell’art. 210, co. 1. 2. Viceversa, gli imputati collegati o connessi teleologicamente, che siano stati oggetto di non luogo a procedere, sono compatibili come testimoni se hanno reso dichiarazioni sul fatto altrui e purché siano stati avvisati ai sensi dell’art. 64, co. 3, lett. c.. In caso contrario, essi sono esaminati ai sensi dell’art. 210, co. 6. La situazione conseguente al provvedimento di archiviazione. Occorre una premessa: sebbene l’art. 197, lett. a, b, si riferisce testualmente agli “imputati” connessi o collegati, tale norma potrebbe essere estesa anche all’indagato in forza della clausola di equiparazione posta dall’art. 61. Diversamente però, le Sezioni Unite della Cassazione hanno precisato che a seguito della archiviazione, il soggetto perde la qualifica di indagato, e conseguentemente non vi è alcuna incompatibilità con la qualifica di testimone. Si tratta però, di una soluzione che lascia senza tutela l’archiviato, nonostante quest’ultimo si trovi in una situazione delicatissima: difatti, in qualsiasi momento le indagini a suo carico possono essere riaperte sulla base dei presupposti stabiliti dall’art. 414 (e cioè, la mera esigenza di nuove investigazioni). Secondo la dottrina sarebbe preferibile applicare anche all’archiviato la stessa disciplina prevista per l’imputato prosciolto con sentenza di non luogo a procedere. CONFRONTI, RICOGNIZIONI ED ESPERIMENTI GIUDIZIALI 1. Il confronto. Il "confronto" consiste nell'esame congiunto di due o più persone che siano già state esaminate o interrogate, quando vi è disaccordo tra di esse su fatti e circostanze importanti (art. 211). La ratio dell'istituto è quella di vagliare le dichiarazioni contrastanti. I protagonisti del "confronto" possono essere sia l'imputato, sia i testimoni, sia altre parti private; ovviamente l'imputato può avvalersi del diritto al silenzio. Anche fuori dai casi di perizia, il PM e le parti private possono nominare consulenti tecnici, avvalendosi dell’opera di specialisti al fine di raccogliere elementi di prova scientifica, tecnica, artistica. Il consulente di parte propone valutazione tecniche, che si traducono in memorie scritte e che possono essere oggetto di deposizione orale nell’esame incrociato. Inoltre, può svolgere indagini difensive per ricercare ed individuare elementi di prova e può conferire con le persone che possono dare informazioni, nonché visionare, previa autorizzazione, il materiale che l’autorità giudiziaria ha posto sotto sequestro. Anche per il consulente tecnico nominato fuori della perizia valgono le medesime regole in tema di incapacità e incompatibilità. 4. La perizia che richiede atti idonei ad incidere sulla libertà personale. Può accadere che nel corso della perizia si renda necessario compiere atti idonei ad incidere sulla libertà personale dell’indagato o di altre persone (es. prelievi di campioni biologici finalizzati all’estrazione del profilo del DNA). I prelievi e gli accertamenti con il consenso dell’interessato. Qualora l’interessato sia consenziente, i prelievi e gli accertamenti possono essere effettuati nel corso delle comuni attività peritali, senza particolari formalità, e cioè a prescindere dalla gravità del reato per cui si procede e indipendentemente dal requisito dell’indisponibilità ai fini probatori. Resta il limite posto dall’art. 5 c.c. in relazione agli atti di disposizione del proprio corpo: l’individuo non può consentire ad atti che comportino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o psichica o che ledano la propria dignità. I prelievi e gli accertamenti coattivi. In tali ipotesi trova applicazione la disciplina dell’art. 224-bis, secondo cui: ▪ Possono essere disposti solo se si procede per un delitto doloso o preterintenzionale, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a 3 anni, oppure per i delitti colposi di omicidio stradale e lesioni stradali; ▪ È necessario che la perizia risulti assolutamente indispensabile ai fini probatori; ▪ Le attività che possono essere compiute sono gli “atti idonei ad incidere sulla libertà personale, quali il prelievo dei capelli, di peli o di mucosa del cavo orale su persone viventi ai fini della determinazione del profilo del DNA”, oppure gli “accertamenti medici”. Al ricorrere di tutti i presupposti, il giudice dispone gli accertamenti con ordinanza motivata. Un esempio di accertamento previsto dalla legge è quello in materia di violenza sessuale e di pedofilia, per cui l’imputato ha l’obbligo di sottoporsi agli accertamenti tendenti ad individuare “patologie sessualmente trasmissibili”; un accertamento questo effettuato sia nell’interesse della persona offesa, sia al fine di individuare ulteriori titoli di reato (es. lesioni personali o tentato omicidio). Non sono ammesse le “operazioni che contrastano con espressi divieti posti dalla legge” o che possano “mettere in pericolo la vita, l’integrità fisica o la salute della persona o del nascituro”; nonché quelli che “secondo la scienza medica, possano provocare sofferenze di non lievi entità”. In ogni caso, le operazioni peritali devono essere eseguite “nel rispetto della dignità e del pudore di chi vi è sottoposto” ed a parità di risultato, vanno prescelte tecniche meno invasive. PROVA DOCUMENTALE 1. La definizione di documento. Il documento non contiene una definizione espressa di documento. Generalmente è definito come quella rappresentazione di un fatto che è incorporata su di una base materiale con un metodo analogico o digitale. Da ciò si ricava che il concetto di documento comprende 4 elementi: a. Il fatto rappresentato, ovvero tutto ciò che può essere oggetto di prova (un accadimento naturalistico, una dichiarazione, ecc.); b. La rappresentazione, e cioè la riproduzione di un fatto (es. tramite parole, immagini, suoni o gesti). c. L’incorporamento, e cioè l’operazione mediante la quale la rappresentazione è fissata su di una base materiale. L’incorporazione a sua volta può avvenire attraverso il metodo analogico (incorporamento “materiale”: es. scritto, fotografia, vinile) o attraverso il metodo digitale (incorporamento “immateriale”: documento informatico); d. La base materiale è quell’oggetto su cui è incorporata la rappresentazione; è sufficiente che sia idonea a conservare la rappresentazione al fine di riprodurla quando occorra (es. carta, nastro magnetico, supporto informatico). 2. Documento e documentazione. La documentazione. Se l’oggetto rappresentato è un atto del procedimento, il codice utilizza il termine “documentazione” (es. verbale di un interrogatorio reso da un indagato al PM); l’utilizzabilità dipende dal singolo atto di cui si tratta (così ad es., gli atti di indagine sono di regola inutilizzabili in dibattimento). La forma di “documentazione” di un atto del procedimento è, di regola, il verbale. Si desume che il verbale non è un documento, bensì una forma di documentazione. Il documento. Viceversa, il documento rappresenta un fato o un atto differente dall’atto processuale compiuto nel procedimento nel quale il documento è acquisito. Il documento, in quanto mezzo di prova, è di regola utilizzabile nel dibattimento. 3. Il valore probatorio del documento contenente dichiarazioni. Il documento contenente dichiarazioni può costituire prova del fatto rappresentato nella medesima e può essere ammesso ai sensi dell’art. 190, fermo restando il diritto dell’imputato a confrontarsi con l’autore della dichiarazione. 4. Il documento anonimo. Il documento anonimo è quella rappresentazione della quale non è identificabile l’autore. Per quanto attiene all’utilizzabilità dello stesso, è previsto che solamente il documento anonimo che contenga una dichiarazione è inutilizzabile. Diverso è il caso del documento che contenga una rappresentazione diversa dalla dichiarazione: in questo caso, il codice nulla dice in merito al regime dell’utilizzabilità; poiché è posto come regola generale il libero convincimento del giudice, ne deriva che le ipotesi di inutilizzabilità di elementi di prova devono essere espressamente previste. In assenza di un espresso divieto di utilizzazione, si ritiene che il documento che contenga una rappresentazione diversa dalla dichiarazione sia utilizzabile. Nel caso di documento “misto”, che contiene cioè sia una dichiarazione sia una diversa rappresentazione, sarà utilizzabile solo in quella parte di rappresentazione non consistente in dichiarazione. Il codice prevede due eccezioni al divieto di utilizzabilità del documento anonimo contenente una dichiarazione. In base all’art. 240, sono utilizzabili le dichiarazioni: - Che costituiscono corpo del reato (es. dichiarazione anonima calunniosa), e cioè quando sulle stesse o mediante le stesse è stato commesso il reato, oppure quando esse ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo; si tratta di un’applicazione dell’art. 235, che impone che il corpo del reato sia sempre acquisito al procedimento. - Che provenga “comunque” dall’imputato, da intendersi nel senso di quelle dichiarazioni anonime “prodotte” in giudizio dall’imputato, che per qualsiasi motivo ne sia venuto in possesso. 5. La disciplina di determinati documenti. L’art. 234, co. 3, vieta l’acquisizione di documenti che contengono informazioni sulle voci correnti nel pubblico intorno ai fatti di cui si tratta nel processo. Inoltre, la norma pone un generale divieto di utilizzazione di documenti concernenti la moralità delle persone che partecipano al processo penale, salvo due eccezioni: • Ai fini del giudizio sulla personalità dell’imputato e della persona offesa dal reato, sono utilizzabili i certificati del casellario giudiziale, la documentazione esistente presso gli uffici del servizio sociale e della magistratura di sorveglianza, le sentenze irrevocabili del giudice italiano e le sentenze straniere riconosciute (art. 236, co. 1); • Ai fini della valutazione della credibilità dei testimoni sono utilizzabili soltanto le sentenze sopra menzionate ed i certificati del casellario giudiziale (art. 236, co. 2) Il codice pone l’obbligo di acquisire i documenti che costituiscano il corpo del reato “qualunque sia la persona che li abbia formati o li detenga”; ai sensi dell’art. 253, co. 2, sono corpo del reato “le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso nonché le cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo”. Inoltre, è consentita l’acquisizione anche d’ufficio di qualsiasi documento formato dall’imputato, anche se sequestrato presso altri o da altri prodotto (art. 237). 6. L’uso di atti di altri procedimenti. L’art. 238 permette alle parti di ottenere, a determinate condizioni, che siano acquisite ed utilizzate in dibattimento le prove che sono state raccolte in un altro procedimento penale o civile. Dalla norma è ricavabile un regime differente a seconda che gli atti assunti nel procedimento a quo siano ripetibili o non ripetibili nel procedimento ad quem: • Gli atti non ripetibili possono essere utilizzati in due ipotesi: a) se si tratta di impossibilità di ripetizione originaria; b) se si tratta di impossibilità di ripetizione sopravvenuta; • Gli atti ripetibili, l’art. 238 effettua un’ulteriore distinzione tra i verbali di dichiarazioni e quelli di prove non dichiarative: o Le prove dichiarative. Con riferimento ad esse occorre distinguere in base alla sede in cui sono state assunte: ▪ I verbali delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini sono utilizzabili in due ipotesi: 1) se l’imputato del procedimento ad quem vi consente; b) in mancanza di consenso dell’imputato, sono utilizzabili se la persona viene esaminata nel procedimento ad quem, nei limiti della disciplina delle contestazioni previste dagli artt. 500 e 503; ▪ I verbali delle dichiarazioni assunte in incidente probatorio o in dibattimento sono utilizzabili sia nelle ipotesi predette, sia nel caso in cui il difensore dell’imputato del procedimento ad quem abbia partecipato all’assunzione della prova; ▪ Le dichiarazioni rese in un giudizio civile chiuso con sentenza irrevocabile sono utilizzabili contro l’imputato, se nei suoi confronti fa stato la sentenza civile. o Le prove non dichiarative. Si ritiene che le prove non dichiarative che siano ripetibili e che provengano dal procedimento a quo sono utilizzabili nel procedimento ad quem soltanto se si tratta di dati raccolti nell’incidente probatorio, nel dibattimento o nel giudizio civile concluso con sentenza irrevocabile. La possibilità di utilizzare prove o atti di un altro procedimento incontra un limite generale: le parti del procedimento ad quem hanno il diritto di ottenere l’esame della persona le cui dichiarazioni sono state eseguite, purché l’atto sia ripetibile. Se l’esame ha luogo, la lettura dei verbali di dichiarazioni può avvenire soltanto dopo che la persona è stata interrogata. Infine, l’art. 238-bis consente che le sentenze irrevocabili possano essere acquisite ai fini della prova di un fatto in esse accertato. Il codice pone come condizione che vi siano riscontri esterni che ne confermino l’attendibilità ai sensi dell’art. 192, co. 3. Naturalmente le parti sono ammesse a provare il contrario. Anche in tal caso, non sono utilizzabili le dichiarazioni accusanti rese da chi si è sempre sottratto all’esame dell’imputato e del suo difensore, anche se contenute in una sentenza irrevocabile legittimamente acquisita ai sensi dell’art. 238-bis; viceversa, si avrebbe un’elusione delle garanzie dettate dall’art. 526, co. 1-bis. 7. I documenti illegali. L’art. 240, co. 2, prevede l’inutilizzabilità rafforzata dall’obbligo di distruzione per i documenti predisposti attraverso attività di spionaggio e di dossieraggio. Il PM deve disporne l’immediata secretazione e custodia in luogo protetto, ed entro 48 ore deve chiedere al GIP di disporre la distruzione dei relativi documenti, supporti ed atti. Il GIP decide in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del PM e del difensore dell’indagato, e con la partecipazione facoltativa del difensore della persona offesa. 5.1. La nozione di intercettazione. Il codice non dà una definizione di intercettazione. La giurisprudenza ha definito "intercettazione" quella "captazione, ottenuta mediante strumenti tecnici di registrazione, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione segreta in corso tra due o più persone, quando l'apprensione medesima è operata da parte di un soggetto che nasconde la sua presenza agli interlocutori". Da tale definizione si ricavano i requisiti dell'intercettazione: 1) Comunicazione o conversazione segreta. I soggetti devono comunicare tra loro con il preciso intento di escludere estranei dal contenuto della comunicazione e secondo modalità tali da tenere quest'ultima segreta. 2) Strumenti di captazione. Il soggetto che intercetta deve usare strumenti tecnici di registrazione che siano idonei a superare le cautele elementari, che dovrebbero garantire la libertà e segretezza del colloquio, e a captarne il contenuto. 3) Terzietà e clandestinità. Il soggetto che intercetta deve essere assolutamente estraneo al colloquio e deve operare in modo clandestino. L'intercettazione, così definita, è un'attività che può essere compiuta soltanto su iniziativa del PM e su autorizzazione del GIP nei casi e nei modi previsti dalla legge (artt. 266-271). L'intercettazione può avere ad oggetto: ▪ conversazioni o comunicazioni telefoniche e altre forme di telecomunicazione; ▪ il flusso di comunicazioni relativo a sistemi informatici o telematici, ovvero incorrente tra più sistemi; ▪ le comunicazioni o conversazioni tra presenti. Non costituiscono intercettazioni, non avendo ad oggetto comunicazioni: a) il pedinamento mediante apparecchiatura satellitare G.P.S.; b) l'acquisizione dei tabulati del traffico telefonico. E ancora, non è un'intercettazione, bensì un documento: c) la registrazione fonografica occultatamente eseguita da uno degli interlocutori. Utenze rintracciabili. Il codice prevede che sono rintracciabili sia le utenze riferibili agli indagati, sia quelle riferibili ai testimoni, sia, infine, le utenze riferibili a persone estranee ai fatti, quando queste ultime possono essere destinatarie di comunicazioni provenienti da indagati o da testimoni. Le operazioni di intercettazione possono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica, salvo i casi in cui questi risultino insufficienti o inidonei e sussistano eccezionali ragioni di urgenza; in tal caso sono utilizzati impianti di pubblico servizio o presso la PG. 5.2. I principi costituzionali sulle intercettazioni. L'art. 15 Cost. dispone che la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge. Tale norma pone in primis una riserva di giurisdizione, prevedendo che un giudice può autorizzare l'intercettazione; in secondo luogo, prevede una riserva di legge rinforzata, dal momento che comunque devono essere stabilite "garanzie" con le norme che prevedono le limitazioni alla libertà e segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni. Le intercettazioni devono essere autorizzate dal GIP con decreto motivato (art. 267), su richiesta del solo PM che procede alle indagini, e devono rispettare diversi requisiti stabiliti dalla legge, che variano in base al tipo di reato oggetto del singolo procedimento. La disciplina delle intercettazioni è stata profondamente modificata dal D.lgs. n. 216/2017 (Riforma Orlando). A seguito dell’ulteriore proroga, disposta dal Decreto Sicurezza Bis, la disciplina si applica per i provvedimenti autorizzativi disposti a partire dal 31 dicembre 2019. La novità più importante della Riforma Orlando concerne la regolamentazione del captatore informatico, che consente sia di svolgere intercettazioni di comunicazioni tra presenti, sia di compiere vere e proprie perquisizioni all'interno di un dispositivo collegato alla rete. Nello specifico, si tratta di un software, che viene installato in un dispositivo, di norma a distanza e in modo occulto, per mezzo del suo invio con una mail, un sms o un’applicazione di aggiornamento. Esso permette lo svolgimento di varie attività: es. captare tutto il traffico di dati in arrivo o in partenza dal dispositivo “infettato”; attivare il microfono e registrare conversazioni (intercettazioni ambientali); attivare la webcam e carpire le immagini; perquisire l’hard disk e fare copia dei dati ivi contenuti. 5.3. I requisiti per disporre le intercettazioni. Il codice distingue i requisiti in base al tipo di reato oggetto del procedimento. In particolare, distingue tra: 1) Procedimenti per reati comuni (art. 266). In tale categoria sono ricompresi sia reati abbastanza gravi, poiché puniti con una pena superiore nel massimo a 5 anni, sia reati meno gravi, ma particolarmente odiosi, o che si consumano con attività in relazione alle quali l’intercettazione si rivela uno strumento di indagine particolarmente utile. I requisiti probatori. L’intercettazione può essere disposta solo se dagli atti di indagine risultino “gravi indizi di reato”, e cioè indizi dell’avvenuta commissione di uno di quei reati che consentono l’intercettazione. A differenza di quanto previsto per le misure cautelari, non è necessaria la prova della responsabilità di un reato a carico di una determinata persona, anzi, l’individuazione del responsabile è proprio lo scopo per il quale l’intercettazione è disposta. L’intercettazione deve essere, inoltre, “assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini”, e ciò avviene quando la prova non può essere acquisita con mezzi diversi dall’intercettazione, ma comunque altri atti di investigazione sono stati già compiuti. La durata dell’intercettazione non può superare i 15 giorni, ma può essere prorogata dal giudice con decreto motivato per periodi successivi di 15 giorni, qualora permangano i predetti presupposti. È consentita l’intercettazione di comunicazioni tra presenti, denominata nella prassi “intercettazione ambientale”. Qualora però questa avvenga nel domicilio privato, l’intercettazione è consentita soltanto se vi è fondato motivo di ritenere che nel domicilio medesimo si stia svolgendo l’attività criminosa. L’intercettazione ambientale può avvenire anche mediante il captatore informatico, ma in questo caso il decreto autorizzativo deve indicare “le ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini, nonché “i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono”. 2) Procedimenti per reati di criminalità organizzata o equiparati. In tale categoria di reati, per la quale i requisiti per procedere ad intercettazione sono attenuati, sono ricompresi i delitti di “criminalità organizzata”, la “minaccia col mezzo del telefono”, il terrorismo anche internazionale, i delitti contro la libertà individuale. I requisiti probatori. In tali casi, l’intercettazione è ammessa quando vi sono “sufficienti indizi di reato” e quando l’intercettazione è necessaria (e non indispensabile) per lo svolgimento (e non la prosecuzione) delle indagini; pertanto, tale atto può anche essere il primo da compiere. La durata dell’intercettazione non può superare i 40 giorni, ma può essere prorogata dal giudice con decreto motivato per periodi successivi di 20 giorni; se vi è urgenza, alla proroga provvede il PM con provvedimento sottoposto alla convalida del GIP. Nei reati di criminalità organizzata o ad essi equiparati, le intercettazioni ambientali nel domicilio sono consentite anche se non vi è motivo di ritenere chenel domicilio medesimo si stia svolgendo attività criminosa. Inoltre, è sempre consentito l’uso del captatore informatico; per gli altri reati occorre che vi sia fondato motivo di ritenere che nel domicilio si stia svolgendo attività criminosa. 3) Procedimenti per i più gravi reati contro la PA commessi di pubblici ufficiali. Per tali delitti, puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni, si applica la medesima disciplina prevista per i reati di criminalità organizzata, anche per quanto attiene all’utilizzo del captatore informatico. 5.4. Il procedimento esecutivo. La Riforma Orlando ha apportato modifiche anche al procedimento autorizzativo ed esecutivo delle intercettazioni, allo scopo di porre fine alla prassi consistente nel pubblicare sui giornali il testo delle intercettazioni perché nessuno temeva la sanzione estremamente esigua prevista dall’art. 684 c.p., peraltro oblazionabile; in tal modo per finalità di scoop giornalistico, venivano pubblicate notizie irrilevanti per il processo, ma lesive della privacy o della onorabilità sia di persone accusate del reato, sia di persone completamente estranee nella vicenda processuale. La Riforma ha così previsto, in primo luogo, che le conversazioni da verbalizzare siano selezionate all’origine, cioè prima che le registrazioni vengano trascritte e che venga meno il segreto esterno, con la conseguente libertà di pubblicazione sui mezzi di informazione. In tal modo, vengono selezionate solamente le conversazioni rilevanti ai fini probatori, mentre sulle altre vige il divieto di verbalizzazione. In secondo luogo, è stato istituito un “archivio riservato” presso il PM, nel quale devono essere conservate tutte le intercettazioni, i verbali e le annotazioni. Infine, ha effettuato una distinzione tra il deposito presso la segreteria del PM e il tradizionale inserimento nel fascicolo delle indagini ad opera del GIP. La prima selezione è operata dalla PG in stretto collegamento con l’ufficio del PM. La PG provvede a trascrivere anche sommariamente il contenuto delle comunicazioni intercettate; nella prassi i verbali sono denominati “brogliacci” e concernono le conversazioni rilevanti. Per le conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini, vige il divieto di trascrizione; in questo caso, nel verbale delle operazioni devono essere indicate soltanto la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è avvenuta. La PG deve informare preventivamente il PM con un’annotazione sui contenuti delle comunicazioni giudicate non rilevanti, al fine di permettere all’accusa di effettuare un controllo sulla rilevanza delle stesse. Il divieto di verbalizzazione senza annotazione. Le comunicazioni avvenute tra la persona assistita e il relativo testimone non possono essere intercettate; qualora l’intercettazione avvenga, vige il divieto di trascrizione. Inoltre, la PG non deve redigere alcuna annotazione. Al termine delle operazioni, la PG deve trasmettere al PM i verbali, le registrazioni e le annotazioni; tale documentazione sarà conservata nell’archivio riservato, che è gestito con modalità informatiche e con vincoli di segretezza. Entro 5 giorni dal termine delle operazioni di intercettazione, ai sensi dell’art. 268-bis, il PM deve: • depositare le annotazioni, i verbali, le registrazioni ed i decreti di autorizzazione, convalida e proroga delle intercettazioni; • formare e depositare l’elenco delle comunicazioni che egli ritiene rilevanti a fini di prova; • dare avviso immediatamente ai difensori delle parti della facoltà di prendere visione dell’elenco e della facoltà di ascoltare le registrazioni. I difensori entro il termine di 10 giorni dalla ricezione dell’avviso: • hanno la facoltà di accedere all’archivio riservato al fine di esaminare gli atti, prendere visione dell’elenco delle intercettazioni ritenute rilevanti dal PM e di ascoltare le registrazioni, senza però fare copia di atti, verbali e registrazioni; • hanno la facoltà di chiedere l’acquisizione di comunicazioni che considerano rilevanti, ma che non sono ricomprese nell’elenco del PM; • hanno la facoltà di chiedere l’eliminazione di comunicazioni che considerano irrilevanti, ma che sono ricomprese nell’elenco del PM. Le richieste dei difensori, unitamente agli atti allegati a loro fondamento, sono depositate nella segreteria del PM, che le trasmette al GIP. La riforma Orlando ha operato una separazione tra la decisione sull’acquisizione delle intercettazioni (che si compie entro la conclusione delle indagini preliminari), da quella sulla necessità della trascrizione delle medesime (che si compie all’inizio del dibattimento). MISURE CAUTELARI PERSONALI 2. La struttura normativa delle misure cautelari personali. 2.1. Le misure cautelari personali. Il codice prevede varie categorie di misure cautelari. La prima fondamentale distinzione è quella tra misure cautelari personali e misure cautelari reali: le misure cautelari personali comportano limiti alla libertà personale o alla libertà di determinazione nei rapporti familiari e sociali; le misure cautelari reali comportano limiti alla libertà di disporre di beni mobili o immobili. Le misure cautelari personali, a loro volta, si dividono in 3 categorie: 1) Le MISURE COERCITIVIE sono enumerate dal codice in ordine crescente di gravità e si dividono in misure ordinatorie e misure custodiali. Le misure ordinatorie sono: ➔ Il divieto di espatrio impone all’imputato di non uscire dal terreno nazionale senza l’autorizzazione del giudice, che può dare tutte le disposizioni necessarie per assicurare l’esecuzione del provvedimento (es. ritiro dei documenti validi per l’espatrio). ➔ L’obbligo di presentarsi alla PG impone all’imputato di presentarsi presso gli uffici della PG nei giorni e nelle ore indicate dal giudice. ➔ Il divieto di dimora impone all’imputato di non dimorare in un determinato luogo e di non accedervi senza l’autorizzazione del giudice. ➔ L’obbligo di dimora impone all’imputato di non allontanarsi, senza l’autorizzazione del giudice, dal comune o da una sua frazione. Può essere aggiunto un obbligo di reperibilità. ➔ L’allontanamento dalla casa familiare impone all’imputato di lasciare immediatamente la casa familiare, o di non farvi rientro e di non accedervi senza l’autorizzazione del giudice; qualora sussistano esigenze di tutela della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti, il giudice può prescrivere obblighi accessori, come il divieto di avvicinarsi a luoghi determinati, o l’obbligo di versare un assegno periodico ai conviventi. ➔ Il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa impone all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati, abitualmente frequentati dalla persona offesa, dai prossimi congiunti di questa o da persone legate da relazione affettiva o convivenza con la persona offesa; il giudice può anche prescrivere all’imputato di mantenere una determinata distanza dai predetti luoghi. Inoltre, il giudice può vietare all’imputato di comunicare, attraverso qualsiasi mezzo, con la persona offesa, i suoi prossimi congiunti e le persone a lei legate da relazione affettiva o convivenza. Le misure custodiali comportano per l’imputato una situazione di custodia, dalla quale derivano due conseguenze: da un lato, la configurabilità del delitto di evasione, nel caso in cui l’imputato si allontani dal luogo di custodia senza autorizzazione; dall’altro, il periodo trascorso in custodia sarà computato come esecuzione della pena detentiva, nel caso in cui questa debba essere eseguita in seguito a condanna. Le misure custodiali sono le seguenti: ➔ Gli arresti domiciliari impongono all’imputato di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora, ovvero da un luogo pubblico di cura o di assistenza, purché non si tratti di un immobile occupato. Il giudice può sia inasprire la misura, aggiungendo limiti alla facoltà dell’imputato di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano; sia attenuarla, autorizzando, ad es., a recarsi al lavoro in quanto non può altrimenti provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita ovvero versa in situazione di assoluta indigenza. Il braccialetto elettronico non è una misura cautelare, bensì una modalità di esecuzione degli arresti domiciliari; mediante il braccialetto elettronico è possibile controllare costantemente gli spostamenti dell’indagato e permette di evitare la custodia in carcere. Il codice impone al giudice, dopo aver ordinato l’arresto domiciliare, di accertare la disponibilità del braccialetto elettronico da parte della PG e di utilizzarlo. Laddove, pur essendoci la disponibilità, il giudice decida di non utilizzarlo, deve motivare il perché non lo ritiene necessario in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare. In ogni caso, siccome tale strumento incide sui diritti fondamentali della persona e comprime la riservatezza della vita privata, la sua applicazione è subordinata al consenso dell’indagato; laddove il giudice ritenga necessario il braccialetto elettronico, ma l’indagato non presti il proprio consenso, il giudice deve applicare la misura della custodia cautelare in carcere. ➔ La custodia in carcere è la più grave delle misure coercitive; con il relativo provvedimento il giudice dispone che l’imputato venga immediatamente condotto in un istituto di custodia a disposizione dell’autorità giudiziaria. Se l’imputato necessità di cure specialistiche che non possono essere fatte in luogo di detenzione, il giudice ne dispone la custodia cautelare in luogo di cura. Se la malattia è un’infermità mentale, si distingue a seconda che l’imputato sia o meno socialmente pericoloso: a) se l’imputato non è socialmente pericoloso, il giudice dispone il ricovero presso il servizio psichiatrico ospedaliero; b) se l’imputato è socialmente pericoloso il giudice applica in via provvisoria la misura di sicurezza prevista dall’art. 222 c.p. e dispone il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario (se l’infermità di mente è totale) o in una casa di cura e custodia (se l’infermità è parziale). 2) Le MISURE INTERDITTIVE consistono nell’applicazione provvisoria a scopo cautelare di determinati divieti. La loro previsione risponde alla finalità di far fronte alle esigenze cautelari con misure meno gravi di quelle custodiali, quando sia possibile evitare queste ultime. L’applicazione di tali misure comprime la facoltà di esercitare determinati diritti e poteri collegati ad una condizione giuridica soggettiva propria di uno status civile o professionale, lasciando però inalterata la libertà fisica intesa in senso stretto. Tali misure possono essere applicate, di regola, solo in ordine ai delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione nel massimo a tre anni. Sono previsti 3 tipi di misure interdittive: ➔ La sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale, che priva temporaneamente l’imputato, in tutto o in parte, dei poteri ad essa inerenti. ➔ La sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio, che impedisce temporaneamente all’imputato, in tutto o in parte, le relative attività. ➔ Il divieto temporaneo di contrarre con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere prestazioni di pubblico servizio. Tale misura interdittiva è stata introdotta con la L. n. 3/2019 (“Spazza-corrotti”). 3) Le MISURE DI SICUREZZA APPLICATE PROVVISORIAMENTE A SCOPI CAUTELARI. Il codice prevede tale possibilità all’art. 312. È necessario che siano presenti i seguenti presupposti: a) i gravi indizi di commissione del fatto; b) che l’imputato sia socialmente pericoloso ai sensi dell’art. 203 c.p.; c) che non siano applicabili in concreto le cause di giustificazione, di non punibilità o di estinzione del reato. ➔ Il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario per l’imputato che sia affetto da vizio di mente totale. ➔ Il ricovero in una casa di cura o custodia per l’imputato semi-infermo di mente. ➔ La libertà vigilata. 2.2. Le condizioni generali di applicabilità delle misure cautelari personali. Il codice pone le seguenti condizioni generali di applicabilità delle misure cautelari personali. La gravità del delitto. Gli artt. 280 e 287 dispongono che non sono applicabili le misure coercitive ed interdittive in ordine alle contravvenzioni; in questi ultimi si possono adottare soltanto misure cautelari reali. Inoltre, l’art. 280 prevede che una soglia minima di gravità del delitto contestato, sotto la quale non possono essere applicate le misure coercitive e interdittive. Ai fini della determinazione della quantità di pena che consente in astratto di applicare le misure cautelari, il codice impone di considerare la pena detentiva in astratto nel massimo per il singolo delitto, senza tener conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze comuni del reato; vanno invece considerate la circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 5 (“l’aver profittato di situazioni di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”) e la circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4 c.p. (“il danno o il lucro di speciale tenuità”), nonché le circostanze ad effetto speciale. In particolare, nel regolare l’applicazione delle misure cautelari personali, il codice distingue 3 fondamentali categorie di delitti: a) I delitti punibili nel massimo con la reclusione fino a 3 anni, per i quali di regola non può essere disposta alcuna misura coercitiva o interdittiva; b) i delitti punibili nel massimo con la reclusione superiore a 3 anni, ma inferiore a 5, per i quali sono applicabili, di regola, le misure cautelari diverse dalla custodia in carcere; c) i delitti punibili nel massimo con la reclusione di almeno 5 anni o con l’ergastolo, per i quali sono consentite tutte le misure cautelari personale. La punibilità in concreto del delitto. L’art. 273, co. 2, ai fini dell’applicazione di una misura cautelare personale, impone che il delitto addebitato all’imputato sia punibile in concreto, nel senso che non può essere applicata alcuna misura laddove risulti che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione o di non punibilità o se sussiste una causa di estinzione del reato, ovvero una causa di estinzione della pena che si ritiene possa essere irrogata. I gravi indizi di colpevolezza. L’art. 273 pone come requisito della misura cautelare personale l’esistenza di “gravi indizi di colpevolezza”; il termine “indizio” è qui utilizzato in senso ampio, idoneo a ricomprendere sia le prove critiche, sia quelle rappresentative. Il termine “gravi”, invece, indica il quantum (o standard) di prova (critica o rappresentativa) che serve a legittimare: occorre che l’accusa provi come molto probabile la reità dell’indagato. 2.3. Le esigenze cautelari. Alle condizioni generali di applicabilità si aggiunge un ulteriore requisito: le misure cautelari personali possono essere applicate soltanto quando esiste in concreto una delle esigenze cautelari indicate tassativamente dall’art. 274: 1. Il pericolo di inquinamento della prova. Il PM deve dimostrare che vi sono in concreto situazioni di attuale pericolo sia per l’acquisizione della prova (pericolo di occultamento), sia per l’acquisizione in modo genuino (pericolo di alterazione). Le indagini, cui si riferisce il pericolo, devono essere relative al fatto di reato per il quale si procede (e non per eventuali altri reati ipotizzati dal PM). La situazione di pericolo deve essere fondata su circostanze di fatto espressamente indicate nel provvedimento a pena di nullità. Inoltre, è stato precisato che dal silenzio dell’imputato non si può ricavare l’esistenza del pericolo di inquinamento della prova. Infine, per tale esigenza cautelare, è previsto che il giudice fissi la data di scadenza della misura, in relazione alle indagini da compiere. 2. Il pericolo di fuga. Tale esigenza sussiste quando l’imputato si è dato alla fuga o vi è il pericolo concreto ed attuale che egli si dia alla fuga; in ogni caso, la concretezza e l’attualità del pericolo non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede. Tale esigenza cautelare non ha rilevanza nel caso in cui il giudice ritenga possibile che all’imputato possa essere irrogata in concreto con la sentenza una pena inferiore a due anni di reclusione. 3. Il pericolo che vengano commessi determinati reati. La misura coercitiva deve essere applicata quando vi è il pericolo concreto e attuale che l’imputato commetta una delle seguenti categorie di delitti: - Gravi delitti con l’uso delle armi o di altri mezzi di violenza personale; - Gravi delitti diretti contro l’ordine costituzionale; - Delitti di criminalità organizzata; - Delitti della stessa specie di quello per il quale si procede. Il pericolo concreto e attuale di commissioni dei suddetti reati deve essere desunto da specifiche modalità del fatto di reato e dalla personalità pericolosa dell’autore del fatto, con il limite che la pericolosità non può essere desunta esclusivamente dalla gravità del titolo di reato addebitato, bensì deve essere ricavata dai precedenti penali o da comportamenti o atti concreti, che devono essere espressamente indicati. Tutto ciò deve essere oggetto di motivazione specifica a pena di nullità. L'interrogatorio di garanzia si svolge sulla base delle disposizioni generali sull'interrogatorio dell'indagato: dati gli avvisi, deve essere contestato all'indagato l'addebito e devono essergli resi noti gli elementi di prova. Se l'indagato è detenuto, deve essere disposta la registrazione fonografica o audiovisiva dell'interrogatorio a pena di inutilizzabilità. Occorre precisare che le misure cautelari coercitive e interdittive perdono immediatamente efficacia se il giudice non procede all'interrogatorio entro i termini fissati dal codice. 4. Le vicende successive. 4.1. La revoca e la sostituzione delle misure cautelari personali. Il codice prevede 3 ipotesi nelle quali può essere modificata la misura cautelare: 1) La revoca deve essere immediatamente disposta: a) quando si accerti che le condizioni generali di applicabilità risultino mancanti, anche per fatti sopravvenuti; b) quando si accerti che siano venute meno completamente le esigenze cautelari. 2) La sostituzione in melius della misura deve essere disposta quando le esigenze cautelari, pur non essendo venute meno, risultano attenuate; o quando la misura non appare più proporzionata all'entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere inflitta. La sostituzione in melius può essere disposta su richiesta dell'indagato o del PM, ovvero eccezionalmente d'ufficio dal giudice. Una volta disposta la sostituzione va dato avviso alla persona offesa se il delitto per cui si procede è stato commesso con violenza alla persona. 3) La sostituzione in peius della misura può essere disposta soltanto su richiesta del PM; ciò avviene sia quando le esigenze cautelari risultano essersi aggravate, sia quando l'imputato ha trasgredito alle prescrizioni che concernono la misura. In tal caso, il procedimento è segreto, come previsto per la prima applicazione della misura cautelare. 4.2. Le cause di estinzione delle misure cautelari personali. Le misure cautelari personali si estinguono in due modi differenti: • in seguito a un provvedimento del giudice che accerta il modificarsi dei presupposti applicativi; • di diritto, per perdita di efficacia dovuta al verificarsi di determinati eventi previsti dalla legge. Una volta accertata la caducazione automatica della misura per uno dei suddetti motivi, il giudice adotta i provvedimenti necessari per l'immediata cessazione della misura stessa e, se si tratta di custodia cautelare, dispone l'immediata liberazione della persona, se non detenuta per altra causa. 4.3. I termini di durata massima delle misure cautelari personali. Una delle cause di estinzione delle misure cautelari coercitive è la decorrenza del termine di durata massima. Il termine massimo è stato posto allo scopo di attuare due garanzie costituzionali: in primo luogo, quella prevista dall'art. 13, co. 5, Cost., secondo cui la legge deve stabilire "i limiti massimi della carcerazione preventiva"; in secondo luogo, la garanzia prevista dall'art. 27, co. 2, Cost. che vieta di anticipare la sanzione penale prima della condanna definitiva. I termini massimi coprono il periodo di tempo che va dalla esecuzione della misura, fino a quando la sentenza di condanna è divenuta irrevocabile. Il codice prevede varie tipologie di termini: 1) I termini massimi intermedi (o di fase) sono ricollegati a determinate fasi (o gradi) del procedimento; tali termini sono autonomi tra loro, nel senso che operano soltanto in quella determinata fase (o grado) del procedimento. Una volta conclusa la fase (o grado) anteriore, inizia a decorrere il successivo termine intermedio, e ciò anche se il periodo di tempo precedente non è stato utilizzato per intero. Sono previsti 4 termini massimi intermedi: a) dall'esecuzione della misura alla richiesta di rinvio a giudizio; b) dal rinvio a giudizio alla sentenza di primo grado; c) dalla sentenza di primo grado alla condanna in appello; d) dalla condanna in appello alla sentenza irrevocabile. 2) Il termine massimo complessivo, dall'esecuzione della misura fino alla sentenza irrevocabile. Esso costituisce il limite entro il quale deve intervenire la sentenza di condanna irrevocabile e opera a prescindere dalla durata dei singoli termini intermedi. 3) I termini finali sono quei termini massimi comprensivi della sospensione ex art. 304, oltre i quali la custodia cautelare non può comunque protrarsi. I termini finali intermedi sono pari al doppio dei termini intermedi; il termine finale complessivo è pari al termine complessivo aumentato della metà. A questi si aggiunge un termine finale sussidiario, che opera soltanto se più favorevole rispetto agli altri termini finali ed è pari a 2/3 del massimo della pena temporanea prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza. 4.4. La sospensione del decorso dei termini. Il decorso dei termini di custodia cautelare può essere sospeso soltanto in ipotesi tassativamente indicate e per una durata che non può comunque eccedere un ammontare fisso. La sospensione può essere definita come una stasi della decorrenza di un termine, imposta da peculiari esigenze sostanziali, che inducono a non tenere conto di tale periodo nel computo della durata del termine stesso. Sono previste 3 cause sospensive generali, che si riferiscono a tutti i tipi di reati, ed una causa sospensiva speciale, applicabile soltanto nei procedimenti relativi ad alcuni delitti particolarmente gravi. Le cause sospensive generali sono: 1. Sospensione o rinvio del dibattimento, dell’udienza preliminare o del giudizio abbreviato per impedimento dell’imputato o del suo difensore, o su richiesta di questi ultimi; 2. Sospensione o rinvio del dibattimento, dell’udienza preliminare o del giudizio abbreviato dovuti alla mancata presentazione, all’allontanamento o alla mancata partecipazione di uno o più difensori che rendano privo di assistenza uno o più imputati; 3. Nel giudizio ordinario e nel giudizio abbreviato, durante la pendenza dei termini per la redazione della motivazione della sentenza. La causa sospensiva speciale è prevista in relazione al dibattimento ed al giudizio abbreviato relativo a delitti di criminalità organizzata, terrorismo e ipotesi assimilate, qualora l’accertamento risulti particolarmente complesso. La sospensione è disposta dal giudice con ordinanza appellabile a norma dell’art. 310. Per quanto attiene ai termini finali, è previsto che la durata della custodia non può comunque superare il doppio dei termini intermedi o il termine complessivo aumentato della metà. Se più favorevole all’imputato, opera il termine finale sussidiario. 5. Le impugnazioni contro le misure cautelari personali. 5.1. Il riesame. Il riesame è un’impugnazione completamente devolutiva, che permette all’imputato di ottenere un controllo giurisdizionale sulla legittimità e sul merito del provvedimento che applica una misura coercitiva ab initio. Si tratta di un’impugnazione completamente devolutiva in quanto il tribunale ha il potere di valutare la legittimità ed il merito della misura coercitiva, senza essere vincolato né dagli eventuali motivi del ricorso dell’imputato, né dalla motivazione del provvedimento che ha applicato la misura. Ciò comporta che il tribunale della libertà può riformare il provvedimento anche per motivi diversi da quelli enunciati nell’impugnazione, ovvero confermare il provvedimento per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso. Il tribunale della libertà valuta i presupposti della misura coercitiva tenendo conto sia degli atti che erano conosciuti dal giudice, che ha emanato il provvedimento, sia degli atti e documenti che le parti hanno presentato successivamente al tribunale stesso; non può però disporre l’audizione di persone, né l’assunzione di prove non rinviabili, né imporre al PM di svolgere determinate indagini. Procedimento. La richiesta di riesame deve essere presentata nella cancelleria del tribunale della libertà dall’indagato o dal suo difensore entro il termine di 10 giorni a pena di inammissibilità. Tale termine decorre dall’esecuzione o dalla notificazione del provvedimento; per il difensore decorre dalla notifica dell’avviso di deposito dell’ordinanza che dispone la misura. A seguito della presentazione della richiesta, il presidente del tribunale della libertà fa dare immediato avviso al PM che, entro 5 giorni dalla richiesta di riesame, deve trasmettere sia gli atti presentati quando aveva chiesto a suo tempo la misura coercitiva, sia tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini. Se il PM non rispetta tale termine, la misura cautelare perde efficacia e il giudice lo deve dichiarare d’ufficio; inoltre, salve eccezionali esigenze cautelari specificamente modificate, la misura cautelare non può essere rinnovata. L’avviso della data fissata per l’udienza è comunicato al PM e notificato all’indagato e al suo difensore almeno 3 giorni prima. Fino al giorno dell’udienza gli atti restano depositati in cancelleria, con facoltà per il difensore di esaminarli e di estrarne copia. L’indagato, entro 2 giorni dalla notificazione dell’avviso di udienza, può chiedere personalmente per giustificati motivi al tribunale di differire la data dell’udienza da un minimo di 5 giorni a un massimo di 10. L’udienza si svolge in camera di consiglio, e cioè con contraddittorio facoltativo; il PM e i difensori devono essere avvertiti, ma possono non parteciparvi. Se presenti hanno diritto di esporre oralmente le proprie conclusioni. Il tribunale deve decidere con ordinanza entro il termine di 10 giorni dalla ricezione degli atti e la motivazione deve essere depositata in cancelleria entro 30 giorni dalla decisione. Tutti i termini sono perentori, e laddove non vengano rispettati, la misura perde di efficacia. Il tribunale della libertà può pronunciare 4 tipi di decisione: a) può dichiarare l’inammissibilità della richiesta di riesame; b) può riformare in senso favorevole all’indagato il provvedimento impugnato; c) può confermare il provvedimento impugnato; d) può annullare il provvedimento impugnato sia quando l’ordinanza è carente di uno degli elementi essenziali indicati a pena di nullità, sia quando manca la motivazione o comunque non contiene l’autonoma valutazione delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa. 5.2. L’appello. L’appello è un mezzo di impugnazione limitatamente devolutiva che permette di controllare tutti quei provvedimenti presi dal giudice in tema di misure cautelari personali, che non sono sottoponibili a riesame. Pertanto, l’appello è un mezzo di impugnazione residuale rispetto al riesame e riguarda tutte quelle ordinanze che non applicano per la prima volta una misura coercitiva. È limitatamente devolutiva in quanto il tribunale è vincolato ai motivi di appello degli appellanti (che l’appello deve contenere a pena di inammissibilità). Possono proporre appello sia l’indagato e il suo difensore, sia il PM. L’appello deve essere proposto innanzi al tribunale della libertà competente, a pena di inammissibilità, entro 10 giorni dall’esecuzione o notificazione del provvedimento. Il tribunale decide entro 20 giorni dalla ricezione degli atti, ma tali termini sono ordinatori e non perentori (quindi, ove non rispettati, la misura non perde di efficacia). Il deposito della motivazione deve avvenire entro 30 giorni (o 45 se particolarmente complessa) dalla decisione, ma anche questo è un termine ordinatorio. 5.3. Il ricorso per cassazione. Il ricorso per cassazione è un mezzo di impugnazione esperibile contro le decisioni che il tribunale della libertà ha pronunciato sulla richiesta di riesame o sull’appello. Il ricorso per cassazione deve essere proposto entro 10 giorni dalla comunicazione o dalla notificazione dell’avviso di deposito del provvedimento che viene impugnato. Sono legittimati a proporlo l’imputato, il suo difensore, il PM che ha richiesto l’applicazione della misura e il PM presso il tribunale della libertà. Occorre precisare che l’imputato, comunque, non può sottoscrivere personalmente il ricorso per cassazione, ma deve esercitare il proprio diritto a ricorrere mediante un difensore iscritto all’albo speciale, e ciò a pena di inammissibilità del ricorso. La corte di cassazione non può valutare il merito dell’ordinanza, bensì soltanto la mancanza, contraddittorietà o illogicità della motivazione del provvedimento impugnato e anche il travisamento della prova. La corte decide entro 30 giorni dalla ricezione degli atti, osservando le forme previste dall’art. 127. Se la Corte annulla con rinvio il provvedimento impugnato, il giudice del rinvio deve decidere entro 10 giorni dalla ricezione degli atti e l’ordinanza deve essere depositata entro 30 giorni dalla decisione. Si tratta di termini perentori, il cui mancato rispetto comporta l’inefficacia della misura cautelare. PARTE III – IL PROCEDIMENTO ORDINARIO Capitolo 1 LE INDAGINI PRELIMINARI 1. Le disposizioni generali sulle indagini. Le indagini preliminari costituiscono la prima fase del procedimento penale. Essa inizia nel momento in cui la notizia di reato perviene alla polizia giudiziaria o al PM e termina quando quest’ultimo esercita l’azione penale o ottiene dal giudice l’archiviazione richiesta. Le indagini preliminari consistono nelle investigazioni svolte dal PM e dalla PG. In base all’art. 327 la direzione delle indagini spetta al PM. La norma tende ad attuare il principio costituzionale secondo cui l’autorità giudiziaria dispone direttamente della PG (art. 109 Cost.). All’interno di tale fase occorre distinguere tra: • Atti compiuti ad iniziativa della PG (art. 347 ss.); • Atti compiuti ad iniziativa del PM (art. 358 ss.). Tutti gli atti di indagine sono svolti in segreto dal soggetto che investiga e, quindi, sono assunti in modo unilaterale e senza contraddittorio. Per tale motivo, di regola, non sono utilizzabili ai fini della decisione pronunciata in dibattimento. 1.1. Le finalità delle indagini preliminari. In base all’art. 326, il PM e la PG svolgono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale. In realtà, le indagini preliminari hanno 3 distinte finalità: ▪ gli elementi di prova acquisiti sono valutati dal PM per decidere se esercitare l’azione penale; ▪ sono utilizzati come prove dal GIP nel momento in cui questi pronuncia i provvedimenti di sua competenza; ▪ sono utilizzati, sia pure in via eccezionale e con determinate cautele, dal giudice del dibattimento per emettere la decisione finale. 1.2. Il giudice per le indagini preliminari. Nel corso della fase delle indagini preliminari è previsto l’intervento del GIP. Quest’ultimo svolge una funzione di controllo imparziale sui provvedimenti più importanti, senza esercitare poteri di iniziativa: la sua funzione è esercitata soltanto “nei casi previsti dalla legge” e su richiesta di parte (art. 328). Un’altra peculiarità è data dal fatto che si tratta di un giudice senza fascicolo, nel senso che deve decidere soltanto sulla base dei verbali presentati dal PM o dalle altre parti potenziali. 2. La notizia di reato. La notizia di reato è un’informazione che permette alla PG e al PM di venire a conoscenza di un illecito penale. Essa produce 3 effetti: 1) segna il passaggio dalla funzione di polizia di sicurezza alla funzione di polizia giudiziaria; 2) impone alla PG, che abbia appreso la notizia di un reato, l’obbligo di informare il PM; 3) impone al PM l’obbligo di provvedere alla immediata iscrizione della notizia nel “registro delle notizie di reato”. Il codice regola espressamente due notizie di reato: la denuncia e il referto. Inoltre, prevede le condizioni di procedibilità, e cioè la querela, l’istanza, la richiesta di procedimento e l’autorizzazione a procedere: questi atti contengono sia l’informativa su di un illecito penale, sia la manifestazione della volontà che si proceda contro il responsabile dello stesso. Sono “condizioni di procedibilità” nel senso che, in determinati casi, la loro mancanza impedisce al PM di esercitare l’azione penale. 2.1. La denuncia. La denuncia può essere presentata da qualsiasi persona che abbia avuto notizia di un reato. Può essere scritta o orale e può essere presentata ad un ufficiale di PG o direttamente al PM. La denuncia contiene l’esposizione degli elementi essenziali del fatto ed indica il giorno dell’acquisizione della notizia di reato, nonché le fonti di prova già note. Quando è possibile, contiene le generalità della persona alla quale il fatto è attribuito, della persona offesa e di coloro che sono in grado di riferire circostanze rilevanti per la ricostruzione del fatto. Di regola è facoltativa (art. 333), ma vi sono ipotesi nelle quali la denuncia costituisce, per persone che svolgono determinate funzioni o professioni, un obbligo penalmente sanzionato (artt. 331 e 334). La denuncia da parte di privati cittadini. Una persona privata ha l’obbligo di denuncia nei seguenti casi: o Quando sia un cittadino italiano ed abbia avuto notizia di un delitto contro la personalità dello Stato per il quale la legge stabilisce l’ergastolo; o Quando abbia ricevuto cose provenienti da delitto; o Quando abbia notizia di materie esplodenti situate nel luogo da lui abitato; o Quando abbia subito un furto di armi o esplosivi; o Quando abbia avuto conoscenza di un delitto di sequestro di persona a fini di estorsione. I pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio hanno l’obbligo di presentare denuncia dei reati procedibili d’ufficio dei quali vengano a conoscenza sia nell’esercizio delle funzioni, sia a causa delle funzioni o servizio. Una disciplina peculiare è prevista per gli ufficiali e gli agenti di PG, in quanto per la particolare qualifica rivestita, sono tenuti ad informare il PM di tutti i reati procedibili d’ufficio dei quali sono venuti comunque a conoscenza, quindi anche fuori del servizio svolto. Sono, invece, esentati dall’obbligo di denuncia il difensore ed i suoi ausiliari, i quali non hanno obbligo di denuncia nemmeno in relazione ai reati dei quali abbiano avuto notizia in corso delle attività investigative da essi svolte. La disposizione deve intendersi nel senso che tali soggetti sono vincolati al segreto professionale sia quando svolgono investigazioni difensive, sia quando comunque svolgono il loro mandato e, pertanto, non hanno l’obbligo di denuncia dei reati dei quali vengono a conoscenza nell’esercizio delle loro funzioni. 2.2. Il referto. Il referto è una particolare forma di denuncia alla quale è tenuto colui che, nell’esercizio di una professione sanitaria, ha prestato la propria assistenza o opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto procedibile d’ufficio. Il soggetto obbligato deve far pervenire il referto entro 48 ore (o, se vi è pericolo nel ritardo, immediatamente) al PM o alla PG. L’obbligo viene meno quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale. Sul punto, però, occorre distinguere tra il medico privato e il medico dipendente pubblico: a) per il medico privato l’obbligo di referto scatta nell’ipotesi in cui assista la persona offesa dal reato, e non anche il responsabile dello stesso; in tali casi prevale il diritto alla salute, posto che qualora il referto fosse obbligatorio, difficilmente l’autore del reato si sottoporrebbe alle opportune cure; b) per il medico dipendente pubblico, invece, si applica la disciplina prevista per gli incaricati di pubblico servizio, con la conseguente obbligatorietà di denuncia-referto tutte le volte in cui, nell’esercizio o a causa delle sue funzioni, abbia avuto conoscenza di un reato procedibile d’ufficio. In ogni caso, a differenza di quanto previsto per il pubblico ufficiale e dell’incaricato di pubblico servizio, il presupposto del referto è l’aver “prestato la propria assistenza od opera” in casi che possono presentare i caratteri di un delitto procedibile d’ufficio, e non anche la mera conoscenza dello stesso. Il referto deve indicare la persona alla quale è stata prestata assistenza e, se possibile, le sue generalità, il luogo dove si trova attualmente e quanto altro valga a identificarla nonché il luogo, il tempo e le circostanze dell’intervento; dà inoltre le 4.3. Il divieto di pubblicazione. L’art. 114, co. 1 c.p.p. pone il divieto di pubblicare determinati atti del procedimento penale con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione. Il divieto è di tipo assoluto (è vietato pubblicare la riproduzione totale o parziale, sia il riassunto, sia il contenuto generico dell’atto) o attenuato (è possibile pubblicare il contenuto generico dell’atto). In particolare, mentre per gli atti segreti è posto il divieto assoluto di pubblicazione, per gli atti conoscibili vige il divieto attenuato. Inoltre, vi è il divieto assoluto di pubblicare le generalità e l’immagine dei minorenni in relazione a qualsiasi atto del procedimento penale, nonché quelli della persona offesa relativamente ai procedimenti in materia di violenza sessuale e assimilati. Al termine delle indagini preliminari e precisamente dopo l’emanazione del decreto che dispone il giudizio, occorre distinguere tra: a) Il fascicolo per il dibattimento, i cui atti sono di regola pubblicabili attraverso la riproduzione totale o parziale del loro testo; b) Il fascicolo del PM, per il quale vige un divieto attenuato di pubblicazione, mentre non vi è alcun divieto dopo l’emanazione della sentenza in grado d’appello. 5. L’attività di iniziativa della polizia giudiziaria. 5.1. La regolamentazione dell’attività di iniziativa. L’attività di iniziativa della PG può essere di 3 tipi: a) L’iniziativa autonoma di polizia (o in senso stretto). Tale attività consiste nel raccogliere ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole (art. 348, co. 1). Tale attività inizia dal momento in cui è pervenuta la notizia di reato e termina nel momento in cui il PM ha impartito le sue direttive. b) L’iniziativa successiva (o in senso ampio). Tale attività è svolta dalla PG dopo aver ricevuto le direttive dal PM e si distingue a sua volta in: 1) iniziativa guidata, che consiste nella stretta esecuzione delle direttive del PM; 2) iniziativa parallela, che comprende tutte le altre attività di indagine per accertare i reati che la polizia può eseguire purché ne informi prontamente il PM. c) L’iniziativa integrativa. Tale attività è svolta sulla base dei dati emersi a seguito del compimento di atti delegati dal PM, per assicurarne la massima efficacia. Tale attività non può comunque essere in contrasto con le direttive del PM, il quale deve essere prontamente informato sugli ulteriori elementi raccolti. La PG svolge diversi atti tipici di sua iniziativa, con o senza esercizio di poteri coercitivi: - Senza esercizio di poteri coercitivi: 1) sommarie informazioni dall’indagato; 2) sommarie informazioni da persone informate; 3) atti od operazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, e per i quali la PG può avvalersi di ausiliari. - Con l’esercizio di poteri coercitivi: 1) identificazione dell’indagato e di altre persone; 2) perquisizione in caso di flagranza o evasione; 3) l’acquisizione di plichi o di corrispondenza; 4) accertamenti urgenti e sequestro; 5) arresto in flagranza; 6) fermo di persona gravemente indiziata. 5.2. Le sommarie informazioni dall’indagato. L’art. 350 indica 3 modalità con cui l’indagato può rendere dichiarazioni alla PG: 1) Le informazioni con la presenza del difensore. L’atto può essere compiuto solo da un ufficiale di PG, il quale può assumere informazioni dall’indagato ponendogli domande solo a due condizioni: a) che l’indagato sia libero; b) e che il suo difensore (di fiducia o d’ufficio) sia presente. L’ufficiale di PG, prima di porre domande all’indagato deve dagli gli avvertimenti previsti dall’art. 64, mentre, diversamente dall’interrogatorio svolto dal PM, l’ufficiale di PG non è tenuto a contestare all’indagato un addebito provvisorio né di rendere noti gli elementi a suo carico. 2) Le dichiarazioni spontanee. L’ufficiale o l’agente di PG può ricevere dichiarazioni spontanee dall’indagato libero o arrestato. In questo caso, la PG non pone domande all’indagato, ma è quest’ultimo che decide di sua iniziativa di rendere dichiarazioni. La PG non ha l’obbligo di dare avvisi di cui all’art. 64, co. 3. 3) Le informazioni per la prosecuzione delle indagini. L’ufficiale di PG può assumere informazioni ponendo domande all’indagato libero o arrestato anche in assenza del difensore; tuttavia, delle informazioni così assunte è vietata sia la documentazione, sia l’utilizzazione in dibattimento ed in fasi precedenti. Il codice pone due limiti: a) le domande possono essere rivolte all’indagato soltanto sul luogo o nell’immediatezza del fatto di reato; b) deve trattarsi di notizie utili ai fini della immediata prosecuzione delle indagini. Anche in questo caso, non è imposto alla PG di dare gli avvertimenti di cui all’art. 64, co. 3.: le informazioni servono solamente ad “indirizzare” le indagini, ma non possono essere utilizzate nel procedimento. 5.3. Le sommarie informazioni da persone diverse dall’indagato. Coloro che rendono informazioni (diversi dall’indagato) sono indicati dal codice con l’espressione “persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini” e nella prassi sono denominate “persone informate”. Tra queste vi rientra anche la persona offesa. Tali persone rivestono una posizione processuale analoga a quella del testimone, poiché hanno un obbligo di verità a causa del rinvio che l’art. 351 opera nei confronti dell’art. 362, che richiama, tra gli altri, l’art. 198, co. 1. Inoltre, a causa dell’ulteriore richiamo all’art. 197, è estesa alla persona informata quella incompatibilità a testimoniare che è ivi prevista in relazione all’imputato; di conseguenza, colui che risulta indagato non può essere sentito come persona informata. Tuttavia, l’obbligo di verità della persona informata che rende dichiarazioni alla PG non ha un’apposita disciplina sanzionatoria nel codice penale, poiché l’art. 371-bis c.p. ha per oggetto le informazioni assunte personalmente dal PM. Il mancato rispetto dell’obbligo di verità può dar luogo, però, ad una differente responsabilità penale se, davanti alla PG, la persona informata che attraverso false dichiarazioni aiuta un’altra persona ad eludere le investigazioni dell’autorità o a sottrarsi alle ricerche di questa: tale condotta, integra gli estremi del delitto di favoreggiamento personale. La regolamentazione. Alle sommarie informazioni sono applicabili molte tra le disposizioni che regolano la testimonianza. La persona informata è titolare del privilegio contro l’autoincriminazione; inoltre, può opporre all’inquirente l’esistenza di un segreto nei casi previsti dalla legge. Se è prossimo congiunto dell’indagato, deve essere avvisata della facoltà di astenersi dal rendere dichiarazioni. La persona informata ha l’obbligo di presentarsi alla polizia, se convocata; ove non si presenti, può essere incriminata per inosservanza di un provvedimento della pubblica autorità. Inoltre, essa ha l’obbligo di attenersi alle prescrizioni date (es. può esserle imposto di identificare cose o persone). Le sommarie informazioni sono documentate mediante verbale; di regola non sono utilizzabili in dibattimento; eccezionalmente sono utilizzabili, se ripetibili, mediante contestazione nei limiti posti dall’art. 500; se sono divenute non ripetibili, sono utilizzabili mediante lettura alle condizioni previste dall’art. 512. 5.4. L’identificazione. L’identificazione è un atto non garantito con cui viene dato un nome ad un volto: oggetto dell’identificazione è una persona fisica individuata, di cui però non si conoscono le generalità. Possono essere sottoposti ad identificazione tutte le persone che hanno avuto a che fare con il reato, direttamente o indirettamente (persona offesa, persone informate, persona sottoposta alle indagini). L’accompagnamento coattivo per identificazione. Tale strumento può essere utilizzato dalla PG ogni volta che una persona rifiuta di farsi identificare, oppure fornisce generalità o documenti con cui si possa ritenere la falsità. Consiste nel portare la persona da identificare negli uffici di polizia e ivi trattenerla per il tempo strettamente necessario per l’identificazione e comunque non oltre le 12 ore. Dell’accompagnamento e dell’ora in cui questo è stato compiuto la PG deve darne immediato avviso al PM, che in qualsiasi momento può disporre che la persona trattenuta sia rilasciata, laddove riscontri che non sussistono le condizioni previste. L’identificazione dell’indagato. La persona sottoposta alle indagini è invitata a dichiarare le proprie generalità, con l’avviso che costituisce reato sia il rifiutarsi di fornirle, sia di darle false. In caso di rifiuto di dichiarare le generalità, l’indagato commette il reato di cui all’art. 651 c.p., mentre in caso di false dichiarazioni sulla propria identità commette il reato di cui all’art. 496 c.p. Ove occorra, la PG può procedere a rilievi antropometrici, fotografici o dattiloscopici. Tra i rilievi da compiersi nei confronti dell’indagato per fini di identificazione è compreso il prelievo di materiale biologico, ovvero di capelli o saliva, che può avvenire su consenso dell’interessato. Se l’indagato non presta il consento, la PG procede al prelievo coattivo, previa autorizzazione del PM. 5.5. I rilievi e gli accertamenti urgenti: il sopralluogo. I rilievi e gli accertamenti urgenti hanno le seguenti finalità: a) comprendere la dinamica del fatto dalla quale spesso dipende l’esistenza o meno del reato; b) raccogliere gli elementi di prova presenti; c) cercare spunti per la successiva attività di indagine. Nel corso del sopralluogo, l’attività della PG osserva la seguente progressione di adempimenti. a) L’attività di conservazione, che consiste nel curare che le cose o tracce pertinenti al reato siano conservate e che lo stato dei luoghi non sia mutato prima dell’intervento del PM. b) Rilievi urgenti, che consistono nella attività di osservazione dello stato dei luoghi, delle cose o delle persone, nonché nella descrizione delle tracce o degli effetti materiali del fatto di reato; si tratta di atti non ripetibili, che gli ufficiali di PG possono compiere in presenza di due presupposti: a) che il PM non possa intervenire prontamente o non ha ancora assunto la direzione delle indagini; b) che ci sia il pericolo che nel frattempo lo stato dei luoghi cambi o le tracce vadano perdute. c) Accertamenti urgenti, che consistono in un’operazione di tipo tecnico che deve essere compiuta dalla PG in presenza dei suddetti presupposti. Occorre precisare che se l’accertamento comporta una modifica dell’elemento di prova, tale operazione è riservata al PM, che lo compirà nelle forme garantite dell’art. 360 (accertamento tecnico non ripetibili da svolgersi con preavviso all’indagato o all’offeso). d) Il sopralluogo su supporti e sistemi informatici, dei quali la PG deve assicurarne la conservazione, nonché, ove possibile, deve farne copia; e) Il sequestro probatorio, che la PG compie per assicurare le fonti di prova se vi è pericolo nel ritardo ed il PM non può intervenire tempestivamente o non ha ancora assunto la direzione delle indagini; il verbale è trasmesso entro le 48 ore al PM del luogo dove il sequestro è stato eseguito; questi, nelle 48 ore successive, convalida il sequestro con decreto motivato, se ne ricorrono i presupposti. f) Avvisare l’indagato, se presente al rilievo, all’accertamento, alla perquisizione o al sequestro, della facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia; g) L’acquisizione di reperti biologici dai luoghi, cadaveri o cose, da cui può essere estratto il profilo genetico; h) Il prelievo di materiale biologico, che può essere prelevato con il consenso o coattivamente dall’indagato al fine di provvedere all’identificazione personale dello stesso; mentre su persone diverse dall’indagato può avvenire solo con il consenso delle stesse. 6. L’attività di iniziativa del pubblico ministero. 6.1. Il registro delle notizie di reato. L’informazione di garanzia. L’arrivo dell’informativa proveniente dalla PG fa sorgere a carico del PM l’obbligo di iscrivere la notizia di reato nell’apposito registro. Tale iscrizione avviene su ordine del PM a cura della segreteria. Esistono 3 tipi di registri: a) Il registro delle notizie di reato. Il PM ordina l’iscrizione della singola notizia di reato anche nel caso in cui non sia in grado di individuare la persona alla quale debba essere addebitato il reato. Il nome di un indagato può essere annotato, anche successivamente, a fianco della singola notizia di reato. L’art. 359-bis disciplina l’accertamento coattivo del PM svolto durante le indagini preliminari, rinviando per lo più alla disciplina predisposta in relazione alla perizia coattiva. Quando occorre eseguire accertamenti idonei ad incidere sulla libertà personale, il PM può procedervi direttamente attraverso il proprio consulente tecnico soltanto se vi è il consenso della persona: viene così prelevato un campione biologico dalla persona, o un reperto da un oggetto o un luogo. Qualora non vi sia il consenso dell’interessato, l’art. 359-bis permette il prelievo coattivo di campioni biologici finalizzato alla tipizzazione del profilo genetico e il compimento di accertamenti medici. A tal fine, il PM deve chiedere al GIP l’autorizzazione al compimento dell’atto, che la concede con ordinanza quando ricorrono le condizioni previste dall’art. 224-bis. Occorre precisare che l’accertamento tecnico coattivo è comunque un atto di indagine, e non un mezzo di prova come la perizia; pertanto, è coperto dal segreto investigativo e quando si svolge come atto ripetibile, l’indagato ha il diritto di venire a conoscenza dell’accertamento tecnico coattivo soltanto quando lui stesso vi si è sottoposto o comunque al termine delle indagini. Il mancato rispetto della disciplina comporta la nullità delle operazioni poste in essere e l’inutilizzabilità delle informazioni acquisite. La procedura d’urgenza. Quando vi è fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave o irreparabile pregiudizio alle indagini, il PM dispone lo svolgimento delle operazioni con decreto motivato senza richiedere l’autorizzazione al GIP. Tale provvedimento deve contenere tutti i requisiti che l’art. 224-bis, co. 2 richiede in relazione all’ordinanza che dispone la perizia coattiva. Entro le 48 ore successive all’accertamento, il PM deve chiedere al GIP la convalida del decreto; il GIP entro le 48 ore successive provvede alla convalida con ordinanza, dandone immediato avviso al PM e al difensore. 6.7. L’individuazione di persone e di cose. Altre attività di indagine. Durante le indagini preliminari il PM può procedere all’individuazione di persone o cose personalmente o mediante delega alla PG; si tratta di un atto simile alla ricognizione, con la differenza che l’individuazione non è un mezzo di prova e non è utilizzabile ai fini della decisione dibattimentale. A norma dell’art. 361, il PM procede all’individuazione di persone o cose quando è necessario per la immediata prosecuzione delle indagini. Trattandosi di un atto ritenuto sempre ripetibile, il codice presenta una scarna disciplina in relazione all’individuazione, che è del tutto priva delle garanzie previste per la ricognizione, previste a pena di nullità al fine di assicurare l’attendibilità del risultato. Il codice prevede solamente che il PM deve avvisare il difensore dell’indagato almeno 24 ore prima del compimento dell’atto, ma non è necessaria la sua presenza. Nei casi di assoluta urgenza, il PM può procedere anche prima del termine prefissato dandone avviso al difensore senza ritardo e comunque tempestivamente. 7. L’arresto in flagranza e il fermo. La PG e il PM hanno il potere di disporre misure coercitive temporanee denominate arresto e fermo, che limitano la libertà personale dell’indagato in situazioni di urgenza, fino a quando non interviene la convalida del giudice. Tali misure sono dette “precautelari”, per indicare che consistono in un anticipo della tutela predisposta mediante le misure cautelari e funzionali all’adozione di quest’ultime. La gravità del delitto che consente l’applicazione delle misure precautelari è determinata con le stesse modalità che valgono per le misure cautelari. 7.1. L’arresto. L’arresto in flagranza è un provvedimento che di regola è disposto dalla PG, ed eccezionalmente dai privati. Il potere di arresto ha la finalità di assicurare alla giustizia gli autori del reato e di impedire che il reato medesimo venga portato a conseguenze ulteriori. In base all’art. 382, è in stato di flagranza colui che viene colto nell’atto di commettere un reato. È in stato di quasi flagranza il soggetto che, subito dopo il reato, è inseguito dalla PG, dalla persona offesa o da altre persone, ovvero è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che abbia commesso il reato immediatamente prima. Arresto obbligatorio. L’arresto in flagranza è obbligatorio per la PG: • In presenza di un delitto non colposo per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a 5 anni e nel massimo a venti; • In presenza di alcuni delitti (es. associazione mafiosa, traffico di stupefacenti, furto aggravato, rapina, estorsione, pornografia minorile, ecc.) per i quali sono presenti esigenze di tutela della collettività, anche se tali delitti non rientrano nei limiti edittali di cui sopra. • In presenza di ulteriori fattispecie di reato, per le quali il legislatore ha previsto espressamente l’arresto obbligatorio (es. violenza sessuale). Arresto ad opera di persone private. Negli stessi casi in cui è obbligatorio per la polizia, l’arresto può essere effettuato da ogni persona se il delitto è procedibile d’ufficio. In tal caso, il soggetto che ha eseguito l’arresto deve senza ritardo consegnare la persona arrestata e le cose costituenti il corpo del reato alla PG, che redige il verbale di consegna e ne rilascia copia. Arresto facoltativo. L’arresto in flagranza è consentito quando si procede per un delitto non colposo per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione nel massimo a 3 anni, sia per un delitto colposo per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni. In tali ipotesi, viene rimessa alla discrezionalità della PG valutare se l’arresto è giustificato dalla gravità del fatto, o dalla pericolosità del soggetto desunta dalla sua personalità, o dalle altre circostanze di fatto. L’arresto facoltativo in flagranza è consentito anche in ulteriori ipotesi previste dall’art. 381, co. 2, a prescindere dalla pena edittale (es. furto, truffa, evasione, ecc.), nonché da altre norme di parte speciale del codice penale. L’arresto obbligatorio o facoltativo non è consentito quando tenuto conto delle circostanze del fatto, appare che questo è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima ovvero in presenza di una causa di non punibilità. 7.2. Il fermo. Il fermo è un provvedimento che può essere disposto, di regola, dal PM quando sono presenti le seguenti condizioni: I. Che vi siano gravi indizi a carico dell’indagato; II. Che sussistano specifici elementi di prova che fanno ritenere fondato il pericolo di fuga; III. Che si proceda per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a 2 anni e superiore nel massimo a 6 anni. Si prescinde dalla pena edittale per i delitti concernenti le armi da guerra e gli esplosivi, o per i delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico. La PG può procedere al fermo nei medesimi casi nel quali tale atto può essere disposto dal PM, se: a) il PM non ha ancora assunto la direzione delle indagini; b) il PM ha assunto la direzione delle indagini, ma è stato individuato un indiziato fino ad allora ignoto; c) il PM ha assunto la direzione delle indagini, ma vi sono specifici elementi sopravvenuti che rendono fondato il pericolo che l’indiziato stia per darsi alla fuga e non sia possibile, per la situazione di urgenza, attendere il provvedimento del PM. 7.3. La convalida dell’arresto e del fermo. Il procedimento di convalida dell’arresto e del fermo attua due principi fondamentali posti dalla Costituzione. In primo luogo, il principio in base al quale le misure limitative della libertà personale possono essere applicate soltanto dal giudice (art. 13 Cost.); in secondo luogo, le norme attuano il principio in base al quale la PG è sotto la diretta disponibilità dell’autorità giudiziaria (art. 109 Cost.). Il procedimento di convalida può essere suddiviso in 3 fasi. 1) La prima fase del procedimento: adempimenti connessi all’esecuzione dell’arresto e del fermo. La PG, dopo aver eseguito l’arresto o il fermo, ha il dovere di informativa nei confronti dell’arrestato, del difensore di questi e del PM. Per quanto attiene all’arrestato, la PG deve consegnargli una comunicazione scritta, in una lingua a lui comprensibile, in cui lo informa: • della facoltà di nominare un difensore e di essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato nei casi previsti; • del diritto di ottenere informazioni in merito all'accusa; • del diritto all'interprete e alla traduzione di atti fondamentali; • del diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere; • del diritto di accedere agli atti sui quali si fonda l’arresto o il fermo; • del diritto di informare le autorità consolari e di dare avviso ai familiari; • del diritto di accedere all'assistenza medica d'urgenza; • del diritto di essere condotto davanti all'autorità giudiziaria per la convalida entro 96 ore dall’avvenuto arresto o fermo; • del diritto di comparire dinanzi al giudice per rendere l'interrogatorio e di proporre ricorso per cassazione contro l’ordinanza che decide sulla convalida dell’arresto o del fermo. Inoltre, la PG deve: 1) dare immediata notizia del provvedimento al PM del luogo ove l’arresto o il fermo è stato eseguito; 2) trasmettergli l’informativa di reato; 3) se non è nominato un difensore di fiducia, chiede al PM la designazione del difensore d’ufficio; 4) informa immediatamente dell’arresto o del fermo il difensore; 5) senza ritardo e con il consenso dell’arrestato, deve dare ai familiari di quest’ultimo notizia dell’esecuzione della misura. Infine, la PG deve provvedere a due ulteriori adempimenti: a) deve porre l’arrestato o il fermato a disposizione del PM al più presto e, comunque, non oltre le 24 ore; di regola, la PG conduce l’arrestato nella casa circondariale del luogo nel quale la misura è stata eseguita; eccezionalmente, il PM può disporre che l’arrestato sia custodito nei luoghi nei quali si esegue l’arresto domiciliare; b) deve trasmettere al PM il verbale dell’arresto sempre entro le 24 ore. Il PM può autorizzare una dilazione, in modo che comunque sia possibile presentare al giudice il verbale entro 48 ore dall’arresto. 2) La seconda fase del procedimento ha la funzione di mettere in grado la pubblica accusa sia di formulare la richiesta di convalida, sia di decidere nella successiva udienza una delle misure cautelari personali. A tal fine il PM può procedere all’interrogatorio dell’arrestato o del fermato dando previo avviso al difensore, che ha la facoltà di essere presente all’atto. Prima dell’interrogatorio, il PM procede a dare all’arrestato o al fermato gli avvisi di cui all’art. 64. Il PM può liberare l’arrestato o il fermato, senza chiedere la convalida al giudice, in due casi: a) Risulta evidente che l’arrestato o il fermo è stato eseguito per errore di persona o fuori dai casi consentiti dalla legge; b) La misura è divenuta efficace perché sono decorsi i termini per porre l’arrestato a disposizione del PM o per chiedere la convalida al giudice. Inoltre, il PM ordina la liberazione, ma deve egualmente chiedere al giudice la convalida, quando pur considerando giustificato l’arresto o il fermo, ritiene di non dover chiedere al giudice l’applicazione di una misura cautelare coercitiva. 3) La terza fase del procedimento inizia con la richiesta di convalida che deve essere presentata dal PM al GIP competente in relazione al luogo dove l’arresto o il fermo è stato eseguito. Ricevuta la richiesta, il giudice fissa l’udienza di convalida al più presto e comunque entro le 48 ore successive dandone avviso senza ritardo al PM e al difensore. L’udienza si svolge in camera di consiglio con la partecipazione facoltativa del PM e necessaria del difensore dell’indagato. L’indagato non è obbligato a presentarsi, ma qualora lo faccia, deve essere interrogato dal giudice. Il giudice, anche d’ufficio, verifica che all’arrestato o al fermato sia stata data la comunicazione sui diritti della difesa e provvede, se del caso, a fornire o a completare le informazioni ivi indicate. L’arresto o il fermo cessa di avere efficacia se l’ordinanza di convalida non è pronunciata o depositata nelle 48 ore successive alla richiesta di convalida. La prova assunta nell’incidente probatoria può essere utilizzata in dibattimento mediante la lettura ai sensi dell’art. 511. Siccome la funzione dell’incidente probatorio è quella di anticipare la formazione della prova garantendo il diritto di difesa dell’imputato, il codice pone sia il divieto di estendere l’oggetto della prova a fatti riguardanti indagati differenti da quelli i cui difensori partecipano all’incidente, e per tali da intendersi tutti coloro a cui vengano attribuiti fatti capaci di dar luogo a responsabilità penale; sia il divieto di verbalizzare le dichiarazioni aventi tale oggetto. Ai divieti si può derogare soltanto se si provvede ad integrare il contraddittorio in favore delle nuove persone interessate. Inoltre, sono inutilizzabili in dibattimento nei confronti dell’imputato le prove assunte nell’incidente senza la partecipazione del suo difensore e, quindi, senza la garanzia del contraddittorio. 9. L’avviso di conclusione delle indagini. Quando il PM ritiene di chiedere il rinvio a giudizio, deve far notificare all’indagato ed al suo difensore l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. Tale avviso, che deve essere notificato prima della scadenza del termine per le indagini, contiene la sommaria enunciazione del fatto per il quale si procede con l’indicazione delle norme di legge che si assumono violate, della data e del luogo del fatto. In tal modo, l’indagato viene ufficialmente informato della conclusione delle indagini a proprio carico. Inoltre, l’avviso contiene l’avvertimento che l’indagato ed il suo difensore hanno la facoltà di prendere visione del fascicolo delle indagini, depositato presso la segreteria del PM. In tal modo, la difesa può conoscere tutti gli atti di indagine in un momento anteriore al deposito della richiesta di rinvio a giudizio. L’indagato è, altresì, avvertito che entro il termine di 20 giorni può esercitare le seguenti facoltà: • può presentare memorie, produrre documenti, depositare documentazione relativa ad investigazioni del difensore; • può chiedere al PM il compimento di atti di indagine; • può presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio. Capitolo 2 LA CONCLUSIONE DELLE INDAGINI PRELIMINARI 1. Il termine per le indagini preliminari. 1.1. Il termine nel procedimento contro un indagato. Il termine per le indagini nei confronti di un indagato inizia a decorrere dal momento in cui il nome di questi è iscritto nel registro delle notizie di reato. Il termine ordinario è di 6 mesi; in via eccezionale, il termine è di un anno se si procede per delitti gravi o di criminalità organizzata. Entro tali termini, il PM deve esercitare l’azione penale o chiedere l’archiviazione, ovvero deve chiedere la proroga delle indagini. Gli atti compiuti dopo la scadenza del termine sono inutilizzabili. Il termine può essere prorogato una o più volte, prima di ciascuna scadenza, con ordinanza del giudice su richiesta del PM: a) la prima proroga può essere motivata su di una generica giusta causa; b) le successive proroghe possono essere richieste dal PM nei casi di particolare complessità delle indagini ovvero di oggettiva impossibilità di concluderle entro il termine prorogato. Ciascuna proroga può essere autorizzata dal giudice per un tempo non superiore a 6 mesi. Il termine massimo per le indagini contro un indagato, comprensivo di proroghe, è di 18 mesi. È previsto, però, un termine di 2 anni nei seguenti casi: a) se le indagini preliminari riguardano delitti gravi o di criminalità organizzata, indicati specificamente; b) se le investigazioni sono particolarmente complesse per il numero di reati collegati o di indagati o di persone offese; c) se le indagini richiedono il compimento di atti all’estero; d) se si tratta di procedimenti collegati. 1.2. La proroga del termine per le indagini. Il procedimento avente ad oggetto la proroga del termine per le indagini è di due tipi: ordinario e speciale: 1) Il procedimento speciale ha ad oggetto le indagini per i delitti di criminalità organizzata mafiosa e reati assimilati: in tale procedimento non vi è alcun contraddittorio sulla richiesta del PM ed il giudice decide de plano entro 10 giorni dalla richiesta; 2) Il procedimento ordinario ha ad oggetto le indagini per ogni altro reato: in tale procedimento la richiesta di proroga del PM deve essere notificata all’indagato ed alla persona offesa (che abbia dichiarato di volerne essere informata), i quali sono avvisati che possono presentare memorie entro 5 giorni dalla notificazione; il giudice decide entro 10 giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle memorie. Il giudice decide de plano qualora allo stato degli atti ritenga di accogliere la richiesta di proroga; in caso contrario, fissa la data di udienza e ne fa dare avviso al PM, all’indagato e all’offeso. Il procedimento si svolge in camera di consiglio e la decisione è presa con ordinanza non impugnabile. Se accoglie la richiesta, concede la proroga per un tempo non superiore a 6 mesi; viceversa, se la rigetta, il PM deve formulare l’imputazione o chiedere l’archiviazione. Gli atti compiuti dopo il termine. Gli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine sono di regola inutilizzabili; sono utilizzabili soltanto se la richiesta di proroga è stata presentata prima della scadenza ed il giudice (anche successivamente) ha concesso la proroga. L’eventuale inutilizzabilità opera non solo ai fini della decisione dibattimentale, ma anche nelle fasi anteriori: gli atti non potranno essere valutati dal giudice che provveda alle richieste del PM relative, ad esempio, ad una misura cautelare. 1.3. Il termine nel procedimento contro ignoti. La disciplina è per lo più identica a quella relativa al procedimento contro indagati noti: il termine inizia a decorrere dal momento dell’iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro; entro il termine di 6 mesi il PM deve chiedere l’archiviazione perché è ignoto l’autore del reato, ovvero la proroga. Il termine ha la funzione di assicurar il rispetto dell’obbligatorietà dell’azione penale.
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