Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

PROCESSO AL MUSEO - DRAGONI, Sintesi del corso di Museologia

Riassunto "Processo al museo. Settant'anni di dibattito sulla valorizzazione museale in Italia" di Dragoni.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 30/10/2020

Giulia.Voltarelli
Giulia.Voltarelli 🇮🇹

4.6

(52)

11 documenti

1 / 24

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica PROCESSO AL MUSEO - DRAGONI e più Sintesi del corso in PDF di Museologia solo su Docsity! Processo al museo. Sessant’anni di dibattito sulla valorizzazione museale in Italia 1. Verso il Novecento in Europa e negli Stati Uniti, pg.17 Gli anni 1926-27 vengono individuati come iniziali di una nuova stagione per i musei, grazie alla fondazione dell’OIM e di Mouseion. Grandi contestazioni derivavano da una nuova concezione dei musei, non più legati all’ideale sacrale che se ne aveva nell’Ottocento. Come sostenuto anche da Foillon “i musei sono fatti per il pubblico”. Secondo un’inchiesta portata avanti intorno alla fine degli anni ‘20 del 900 tra i problemi dei musei c’era l’eccessiva esposizione di opere, motivo per il quale si consigliava di adottare il modello americano del doppio percorso espositivo. ↓ In America, George Brown Goode fu tra i primi teorizzatori dell’educational museum fino ad arrivare nel 1917, quando John Cotton Dana concepì il museo come community service (→deve offrire conoscenze pratiche oltre al piacere estetico). Elemento di scossa che condusse gli americani a rivalutare il concetto di museo furono sicuramente le Esposizioni Universali. Il prototipo del nuovo museo si identifica nel Cleveland Museum of Art. La forte attenzione per il pubblico da personaggi come Alexander Dorner e John Dewey. ↓ Dorner sperimentò nel Landesmuseum di Hannover nuove soluziono allestitive che coinvolgessero il visitatore, considerando anche l’ambiente parte dell’allestimento. Es. “Gabinetto Astratto” – El Lissitzky (1925) Già suggerito da Goethe nel 1821.Il Museo di Storia Naturale di Londra lo aveva adottato e successivamente von Bode lo aveva esportato a Berlino (1886). Allievo di Riegl.Riteneva che la necessità di riallestire le collezioni museali fosse segno dell’adesione a categorie e idee immutabili e che il vero protagonista dovesse essere il pubblico. Anche Dewey sosteneva che l’opera d’arte potesse essere considerata estrapolandola dall’esperienza umana. Secondo lui il pensiero dell’individuo nasce dall’esperienza sociale, perciò l’educazione deve partire dalla quotidianità del soggetto. La volontà di presentare le opere nel contesto in cui erano state create si realizza in America con le period rooms. 2. La situazione in Italia fra le due guerre, pg. 21 La situazione italiana è un po’ diversa da quella del resto d’Europa e dell’America. Nel 1927 Francesco Sapori aveva presentato su Mouseion le realizzazioni dell’Italia fascista nell’ambito delle Belle Arti (sottolineando l’istituzione o riapertura di musei), ma il tratto fondamentale verteva sul bisogno di rispettare la tradizione per il riordino e la fondazione di nuovi musei (es. Museo Benito Mussolini al Campidoglio). Alcune voci si esprimevano a favore di una modernizzazione, come nel caso di Antonio Monti (dir. Museo del Risorgimento di Milano) ciò nonostante la situazione italiana era fortemente legata ai vincoli strutturali e ad una concezione di pubblico socialmente ristretta. Importante novità viene dalla politica propagandistica del regime, che dà impulso ad una forte politica espositiva incoraggiano eventi come la Biennale di Venezia e la Triennale di Milano oltre a creare la Quadriennale di Roma dal momento che il regime considerava l’arte un elemento indispensabile per l’educazione delle masse. Tale svolta segnò i decenni successivi come dimostrato dagli sforzi affrontati negli anni ‘70 per portare l’arte nelle borgate e dalle posizioni di Togliatti che in linea con il pensiero di Gramsci darà valore a questa forma di associazionismo a cui si legano peraltro i primi episodi di turismo di massa. Si deve inoltre ricordare che, nel ventennio fascista, le grandi esposizioni si trasformano in musei permanenti e offrono soluzioni per la preparazione di altri stabilimenti museali.ù Mussolini stesso richiese la progettazione di un museo stabile a seguito della “Mostra della Rivoluzione fascista” (1932). Quattro anni dopo venne decisa la costruzione di un sistema di musei nazionali da stabilire nei palazzi costruiti all’EUR (→quartiere creato appositamente per celebrare 20 anni dalla marcia su Roma) una volta terminate le esposizioni. In questo sistema viene inserito anche il Palazzo della Civiltà Italiana (aka Colosseo quadrato) realizzato da un gruppo di architetti, fra i quali BBPR. Intanto nuovi musei sorgono anche nel resto d’Italia, come nel caso del Museo Archeologico Nazionale progettato da Marcello Piacentini a Reggio Calabria. Si tratta di un edificio monumentale decorato con un basamento a bugnato e raffigurazioni delle monete delle città della Magna Grecia sulla facciata. Considerato il primo museo in Italia ad essere realizzato con criteri moderni grazie alla presenza di grandi vetrate, alla concezione spaziale aperta, ai servizi inclusi (gabinetto fotografico e laboratorio di restauro) e alloggi per direttore e custodi. Ma soprattutto l’esistenza di percorsi che permettevano itinerari di visita lineari. Il tema della didattica museale in Italia fu nuovamente affrontato durante il Convegno di Museologia di Perugia (1955). In questo contesto si parlò anche della formazione del personale e della promozione. Fu accolta la proposta di Pietro Romanelli di inserire le visite ai musei tra gli strumenti didattici e conseguentemente, di rendere i musei maggiormente accoglienti ed interessanti per i giovani. Di questo argomento tornerà a parlare anche Argan in un articolo su “Casabella- Continuità” nel quale sostiene che il museo non è più il “tempio dell’arte” e che “nella condizione attuale deve essere un bene della comunità”. E ancora Argan sosterrà che la crisi del museo è dovuta: - alla “concentrazione dei musei sulla loro funzione di tutela preclude ogni possibilità di sviluppo” - ad una “società che vede il museo come attrazione turistica invece che come fattore di sviluppo essenziale” - agli studiosi italiani “afflitti dal culto della personalità, dalla venerazione del genio e dal disprezzo per l’arte mechanica” L’Italia aderisce nel 1956 alla Campagna Internazionale dei Musei promossa dall’UNESCO. Nell’ambito della Campagna avrà grande successo la “Settimana dei Musei” che verrà poi ripetuta annualmente. Per quanto riguarda il bisogno di avvicinare il pubblico ai musei, si rivela interessante la proposta del soprintendente alle Antichità della Campania Antonio Maiuri il quale sosteneva che troppo spesso il pubblico evitava di andare al museo in quanto si sentiva intimorito davanti ad un’opera d’arte a cui mancava un’adeguata spiegazione. Ne è la prova che proponendo visite guidate, l’aumento dell’interesse è lampante. Maiuri incitava quindi ad aumentare visite guidate e guide brevi, ma sottolineava la necessità di formare il personale. Recommandation concernant les moyens le plus efficaces de rendre les musées accesibles à tous→ documento dell’UNESCO che evidenzia le istanze di diffusione della cultura. Viene affermato che i musei (di qualsiasi tipo) sono strumenti essenziali per la conoscenza fra le diverse culture e pertanto tutti i paesi membri devono adottare misure per rendere i contenuti comprensibili a quanto più pubblico possibile, oltre a dover favorire lo sviluppo delle funzioni educative. Vengono poi fornite una serie di indicazioni operative tra cui: - visite gratuito, o almeno 1 gg/settimana esente da tassazione .- agevolazione dei costi tramite abbonamenti - nel caso di visite d’istruzione, gratuità - stabilire accordi con istituti culturali e servizi turistici per la promozione delle visite - in ogni museo dovranno lavorare specialisti dell’educazione - creazione di specifici servizi educativi grazie alla collaborazione con gli insegnanti - massimo coordinamento tra domanda della scuola e mezzi del museo Da questo documento inizia una migliore definizione del ruolo del museo, al punto che nel 1963 viene organizzato un convegno sulla Didattica dei Musei e dei Monumenti (tappa fondamentale della storia della didattica museale italiana). I temi in esame sono: - cosa può fare il museo per la scuola - cosa deve fare la scuola di fronte al museo - definizione dei rapporti scuola-museo Negli anni ‘50 si iniziava ad osservare il paesaggio e i suoi valori culturali. D’Ossat nel 1957 apriva il numero di “Ulisse” sottolineando il pericolo della totale assenza di una specifica legislazione unitaria. Le esigenze di tutela e valorizzazione si dilatavano sul territorio ed erano avvertite soprattutto dai professionisti del settore. La questione del patrimonio culturale acquista con il tempo sempre più spazio sulla stampa quotidiana e periodica. Episodi di valore: - costituzione di “Italia Nostra” (1955) - articoli di Antonio Cederna su “Mondo” Dobbiamo tenere a mente che la salvaguardia e la valorizzazione dei monumenti e in generale del paesaggio si connettevano certamente con le utilità economiche del turismo, ma anche con il tema dell’ambiente nella sua accezione generale. 5. La Commissione Franceschini, pg.49 Negli anni Sessanta il contesto internazionale è caratterizzato da una diffusa domanda di qualità della vita, come dimostrato dall’istituzione di un ministero della cultura in Francia e del National Endowment for the Arts negli USA. Contemporaneamente cresce l’attenzione verso i danni ambientali nei paesi più industrializzati, che porterà alla nascita di associazioni come il World Wildlife Fund (1961). Questo clima influenza anche l’Italia, dove la necessità è di porre un limite alla dissipazione dei beni artistici, ambientali e storici dovuta alla modernizzazione degli stili di vita, così come al turismo di massa e alla cementificaziione del territorio. Allo scopo di sollecitare una svolta, nel 1960 Ranuccio Bianchi Bandinelli, direttore del Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti rassegna le proprie dimissioni. Nel 1964 Luigi Gui istituisce la Commissione di indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e del paesaggio alla quale affida il compito di revisionare il quadro giuridico, amministrativo e tecnico. C’era comunque il rischio di soluzioni riduttive in quanto secondo molti era sufficiente potenziare il sistema vigente (→ rafforzare ruolo del Consiglio Superiore; incrementare organi ministero). Nel contesto sociale del dopoguerra e del boom economico dei vent’anni seguenti risultava già chiaro che gli obiettivi di tutela non potevano basarsi più su leggi del 1939 e la valorizzazione non poteva risolversi in attività di educazione al culto dell’arte. La Commissione lavorerà quindi inizialmente sulle nozioni di “cultura” e “bene culturale”. Presieduta dall’On. Franceschini e formata da membri di alto prestigio, la C. Concluderà i lavori nel 1967. Decideranno di editare tre volumi “Per la salvezza dei beni culturali in Italia” nei quali sono raccolte ricerche e analisi sulle condizioni del patrimonio archeologico, storico-artistico, ambientale e museale e che spesso proponevano soluzioni innovative. Franceschini sostiene dunque il bisogno di una riforma, in quanto determinante per la democrazia (→insiste su questo termine in quanto secondo lui solo attraverso maturazioni culturali un popolo può aderire ad un ideale democratico). Questo pensiero si contrappone alle precedenti politiche, soprattutto quelle fasciste. La C. Elaborò 84 “Dichiarazioni” e 9 “Raccomandazioni” iniziali, dalle quali emerge che la decadenza del patrimonio italiano andava soprattutto addebitata alla limitata nozione di “cose di pregio e rarità” su cui si basava la legge del ‘39. ↓ Così facendo la gran parte dei beni veniva tralasciata e quelli che dovevano essere i principali beneficiari risultavano estraniati e non riuscivano più a riconoscere il patrimonio come bene pubblico. La nozione di “bene culturale” elaborata dalla C. Doveva servire proprio al rovesciamento di questa situazione. L’attenzione veniva spostata sull’insieme di testimonianze storiche e sulle relazioni di contesto. Per recepire questa nuova nozione di cultura e di “bene culturale” occorreva un regime giuridico che mirasse ad implementare la funzione sociale del patrimonio. La C. Proponeva un’amministrazione autonoma dei beni fornita di indipendenza organizzativa, gestionale ed economica, capace di un confronto con l’amministrazione centrale e gli enti territoriali. Inoltre segnalava la necessità di incentivare la ricerca potenziando la catalogazione. Viene rilevato uno stato di grandi carenze nella sicurezza dei beni e nella loro custodia, come sottolineato anche da Bruna Forlani Tamaro nella sez. V. Le carenze erano emerse grazie alla conduzione di una “scheda di valutazione” in sette punti. Le soluzioni suggerite non sono poi così diverse da quelle riportate in Musei e Gallerie d’Italia. 1945-53: - preferenza per sedi di nuova costruzione - invito al lavoro congiunto di direttori e architetti - precisazione che tutto deve avvenire nel massimo rispetto dell’opera d’arte A livello scientifico si lamenta una burocrazia troppo incombente. Soprattutto si lamenta la mancanza di attività didattiche e di un personale formato (anche nell’ottica di eventi come la Settimana dei Musei), oltre ad invocare corsi di formazione per docenti. Riguardo ai problemi di tutela si pensa che questi possano essere affrontati con la collaborazione dell’ICR o degli istituti universitari. Si basava sulla conservazione fisica solo di alcuni Inoltre si incolpava il museo di depotenziare il messaggio artistico, sottraendo gli oggetti alla dimensione reale della vita e dandogli un valore estetico che annulla il loro potere comunicativo. Si inizia a parlare di musei-mausolei, musei-cimiteri, musei-prigioni e musei- lager. L’Istituto Accademico di Roma condusse un’indagine dalla quale emerse lo stato di declino dell’istituto museale, individuandone la radice “agli inizi del secolo scorso, quando la generazione di Schinkel vide nel museo il tempio dell’arte e non un luogo di vita sociale, bensì un luogo di isolamento” e come diceva Argan “il museo riesce ad eliminare tutto ciò che l’arte voleva rappresentare” (→ effetto tragico soprattutto per l’arte d’avanguardia). Si riuscì a trovare una soluzione solo per i musei di arte contemporanea attraverso due modalità: - Fuoriuscita dal museo, creando nuovi spazi d’azione. Nel 1967 si era aperto a Washington, nel quartiere di Anacostia l’Anacostia Neighborhood Museum. ↓ Il nuovo modello viene riconosciuto nel “museo-forum”, luogo in cui sperimentare un diverso rapporto tra opere e spazi oltre che tra percorsi e pubblico. In Francia verrà realizzato l’edificio-simbolo dell’anti-museo: il Centre Pompidou. L’idea alla base della creazione era quella di voler realizzare “un centro culturale che fosse contemporaneamente museo e centro di sperimentazione”. In Italia l’esigenza di modernizzare l’istituzione assumeva forme contraddittorie. Per Bruno Molajoli il cambiamento doveva consistere nel rimuovere gli inconvenienti e sostituirli con il proprio opposto, ovvero l’immagine di un luogo gradevole ed invitante in cui ci si rechi volentieri. Nemmeno durante il convegno su Il museo come esperienza sociale vennero fuori idee innovative. L’obiettivo rimaneva quello di avvicinare il pubblico al museo facendolo entrare nel vivo della società moderna . A questo scopo furono comunque suggeriti i soliti metodi: curare l’accoglienza, aprirsi alle esigenze educative di giovani ed operai, avvalersi delle esperienze americane, evitare affollamento di opere e facilitare la comprensione attraverso didascalie etc. In questo contesto si distingue almeno in parte Paola della Pergola, direttrice della Galleria Borghese all’interno della quale costituì un’equipe di ricerca interdisciplinare che aveva il compito di comprendere gli interessi del pubblico e progettare quindi specifiche forme di visita al museo. La maggiore eccezione è quella rappresentata da Franco Russoli fondatore della sezione italiana dell’ICOM. Russoli svolge un’analisi completa del perché il museo debba diventare un’arma culturale a portata sociale. Parte dall’individuazione di due determinanti primarie: Primo museo “di quartiere”, inizialmente senza collezioni, ma luogo di incontro, esperienze, riscatto e identificazione comunitaria.Successivamente - indirizzi ideologico-politici delle istituzioni poiché il funzionamento del museo in quanto strumento di formazione culturale è fortemente dipendente dalle ideologie di chi lo gestisce - organizzazione interna del museo Riteneva che né la struttura giuridico-amministrativa di beni e musei, né l’organizzazione interna degli istituti fossero in grado di consentire un efficace lavoro culturale a portata sociale. Per poter sviluppare un’efficace azione culturale e per rispondere alle esigenze di salvaguardia del patrimonio occorrerebbe operare per dimostrare che la produttività sociale del museo non è un concetto astratto. E’ per questo necessario che il responsabile scientifico del museo sappia uscire dalla sua competenza settoriale, consapevole del fatto che il museo non deve essere un luogo privilegiato, ma un luogo in cui si va per alimentare la propria conoscenza. Sarà importante offrirsi alle scuole come un “laboratorio” aperto ad ogni indirizzo di ricerca, consultazione e discussione. Russoli afferma che il concetto di “bene” o “patrimonio” vada sostituito con quello di “strumento”. La proposta di Russoli non trovò l’approvazione del convegno. Nel 1972, Pierre Bordieu e Alain Darbel presentarono un’inchiesta che dimostrava come la classe operaia costituisse una parte minoritaria e trascurabile dei frequentatori del museo. Inoltre provavano che chi non fosse entrato nei musei in età giovanile, difficilmente lo avrebbe poi fatto da adulto. I due screditavano inoltre le dichiarazioni di chi puntava ad aprire il museo al popolo (senza però tener conto della mancata istruzione scolastica di cui il popolo stesso soffriva). Giovanni Bechelloni riprende le contestazioni del ‘68 e propone di cambiare radicalmente il museo in funzione del pubblico. Colpevolizza l’idea di “museo democratico, destinato ad educare, e pubblico” in quanto a decidere sono membri elitari e quanto esposto ha significato solo per coloro che posseggono una certa educazione. Secondo queste affermazioni quindi il museo in quanto istituzione tradizionale va riservato ad un’élite privilegiata di conoscitori e ad un pubblico medio. Il “non-pubblico” (operai e contadini) non può essere acquisito al museo con tecniche di animazione culturale ma solo attraverso forti cambiamenti dei rapporti sociali e quindi di produzione e diffusione della cultura. Suggerisce di prendere come riferimento il modello estero. Bechelloni sottolinea che in Italia, gli sforzi di chi vuole democratizzare la cultura sono ostacolati dal fatto che ci si concentra più sulla conservazione che sulla valorizzazione delle opere. Luciano Berti→ il concetto di “museo vivo” implica l’idea di “consumazione”, mentre quello di “Museo” si associa a quella di “conservazione”. Berti avverte il timore per le “masse di visitatori turisticizzati, estremamente frettolosi” che possono trasformarsi da tropeaux in hordes danneggiatrici. La sua conclusione è che per quanto oggi si dica che il pubblico sia un elemento costitutivo fondamentale, l’idea di Museo può sussistere anche senza di esso. A riprova delle diverse idee presenti nell’ambiente troviamo il contributo di Paola della Pergola secondo cui un museo vuoto è una sconfitta. Della Pergola rimarca poi la necessità di condurre “esperimenti nella e con la scuola, nelle borgate e con i suoi abitanti, nel e col museo in modo da dare alla museologia un significato sociale, moderno e aperto”. La scelta di un linguaggio chiaro e semplice risultava ancora inaccettabile per molti. Tra le sue proposte la studiosa afferma che gli oggetti debbano essere presentati nelle piazze e nelle strade e non in qui vecchi contenitori che sono i musei. (Convegno di Firenze, 1974) Pietro Zampetti, durante lo stesso convegno, segnala un beneficio del trasferimento di competenze in musei alle Regioni in quanto spesso i musei locali non possono supportare le spese di un Direttore di Museo. Si ritorna poi sul tema della formazione professionale, attraverso la richiesta di riformare corsi universitari rimasti troppo generici. I temi della valorizzazione e delle abilità professionali specifiche rimasero non considerati anche durante il dibattito del 1975 per la conversione del decreto istitutivo del Ministero dei Beni Culturali. Dopo aver fatto chiudere Brera per denunciare le carenze che ne impedivano un corretto funzionamento, Russoli torna sul problema del personale e riprende la proposta di Argan di utilizzare il museo come luogo di formazione degli addetti. Parallelamente realizza una mostra intitolata Processo per il museo allo scopo di portare l’attenzione del pubblico e degli addetti ai lavori su proposte concrete per un uso sociale del museo. Le azioni tendevano a mostrare come un’opera potesse essere letta diversamente a seconda delle condizioni culturali e sociali dei committenti. Erano stati scelti tre dipinti provenienti dalla chiesa dell’Incoronata di Lodi eseguiti da Callisto, Martino Piazza e Ambrogio Bergognone corredati dalla scheda di catalogazione. L’impostazione di Russoli circa il rapporto museo-territorio faceva seguito ad un’ampia letteratura dovuta specialmente ad Andrea Emiliani che tra il 1967-74 produsse una raccolta intitolata Una politica dei beni culturali. Nel 1972 Bruno Toscano riportò in un articolo scritto su Spoletium le linee di fondo per una nuova era della museologia: “innalzato dai doveri di mera conservazione a compiti di promozione ed educazione, il museo potrà diventare un prezioso strumento di conoscenza del territorio e un centro di indagine animato dalla consapevolezza che politica dei beni culturali è anche politica del territorio”. A questa svolta concorrevano la nascita delle Regioni e l’attribuzione ad esse delle competenze amministrative in ambito di musei. La ricerca archeologica si era legata ad altre discipline storiche ponendo l’attenzione sui temi della gestione del patrimonio. Significativa l’inaugurazione nel 1978 del Museo civico di Torino alla cui progettazione aveva partecipato Vittorio Viale, concependolo anche come museo del territorio. Va fatto discorso a parte per l’intervento di Andrea Emiliani, il quale, dopo le prese di posizione di due anni prima in favore di un modello “che era all’orizzonte di un’organizzazione politica e culturale intorno agli anni 1965-75, in attesa di una novità quale la creazione dell’Ente regione e del decentramento” ora proponeva un punto di osservazione decisamente diverso e che vedeva le ragioni della crisi museale frutto di una crisi sia culturale che finanziaria, colpa anche di un modello museale inadeguato e decaduto”. Due soluzioni lungimiranti sono offerte da: - Pietro Petraroia→ chiarisce l’importanza di comprendere le caratteristiche dei potenziali utenti dei musei per conoscere i reali rapporti che si instaurano tra l’utenza odierna dei musei e gli oggetti, l’ambiente. Suggerisce inoltre di abrogare la legge 22 settembre 1960, n°1080 che prevede la “ripartizione dei musei in piccoli, medi e grandi” per sostituirla con una “legge quadro sui musei degli enti locali che delinei i requisiti minimi per assicurare la conservazione e la corretta fruizione dei beni culturali custoditi nei musei locali” augurandosi che le Regioni provvedano ad un’adeguata formazione di specialisti per la gestione dei musei locali. - Pietro Valentino→ illustra lo studio di fattibilità condotto insieme a Paolo Leon in funzione di una proposta di legge per avviare “iniziative volte al sostegno dell’occupazione e alla tutela e valorizzazione del patrimonio-artistico mediante un miglioramento della gestione e della fruizione di musei ed istituti”. Lo studio era focalizzato sugli aspetti gestionali e dei servizi al pubblico. Preso atto delle carenze registrate dall’ISTAT erano state considerate le modalità possibili per sviluppare un’adeguata offerta dei servizi, era stata misurata la capacità occupazionale delle attività da implementare ed era stato determinato lo spazio di mercato, individuando i servizi da assoggettare a tariffa in modo da poter pianificare i rientri finanziari. Uno dei punti emersi evidenziava il fatto che se gli italiani non frequentavano i musei era anche perché non venivano visti come luoghi di incontro. I due autori dello studio hanno quindi proceduto a stilare una mappa di servizi necessari al raggiungimento dei fini richiesti. Sappiamo però che la legge non fu mai approvata. Pierluigi Spadolin successivamente si esprimerà in forma contraria rispetto all’insegnamento settoriale portato avanti durante la formazione degli “addetti ai lavori”, supportato anche da Andreina Ricci. Per quanto concerna la crescita della domanda di cultura Francesco Perego osserva che si tratta di un fenomeno strutturale in quanto “vi concorrono l’aumento del benessere e del tempo libero, con il passaggio dai consumi elementari a quelli immateriali” e avverte che “per essere all’altezza della sfida occorre elaborare nuovi costrutti concettuali, in grado di dare conto del ruolo dei beni culturali nell’epoca della nascita di una civiltà propensa ai consumi immateriali di cui al momento si possono vedere solo alcuni contorni”. Non ci sono però nuove indicazioni che il museo dovrebbe seguire per adeguarsi a questa nuova civiltà. Andreina Ricci ripete infatti gli opposti modelli del British Museum (→ molte opere da “ammirare”) e del Museo della città (→ concepito come un musei “di storia”, meno esaltante ma più comprensibile) per far notare che in Italia i musei appaiono raffrontabili al primo caso e suscitano nel visitatore le impressioni che già aveva espresso Valery nel 1923 “i musei hanno in sé qualcosa del tempio, del salone di esposizione, del cimitero, del locale scolastico”. Sarebbe quindi necessario trasformare questi impianti in “luoghi in cui i materiali hanno la possibilità di creare agglomerati tematici dove poter presentare discorsi più ampi e complessi che il grande pubblico sia in grado di recepire”. Francesco Valcanover intende il museo come un luogo “accogliente” e che deve proporsi come “luogo di incontro e partecipazione per un’utenza sempre più vasta ed eterogenea” attraverso indicazioni segnaletiche in città, spazi adeguati alla lettura, alle funzioni educative, a mostre temporanee, biblioteche e fototeche specializzate nonché occasioni di comfort. Inoltre per creare maggiori incentivi e ampliare l’interesse di più fasce di pubblico suggerisce di sfruttare mezzi tecnologici come videotapes e videodischi che consentano la conoscenza visiva delle opere, con un corredo di dettagli e spunti di confronto. Analoghe segnalazioni fatte da Pierre Rosemberg il quale lamenta che anche in Francia, come in Italia, i musei non vengono visti come “luoghi per il pubblico”. Rosemberg pone inoltre l’accento sulla necessità di riequilibrare la distribuzione territoriale dei flussi turistici, modificando l’itineraria in favore di musei meno noti. In tal modo si potrebbe ottenere che “le opere d’arte viaggino meno e il pubblico di più”. In seguito al sondaggio condotto da CENSIS, è risultato che i fruitori dei musei sono maggiormente interessati ad un incremento e miglioramento degli aspetti organizzativi e informativi, quali segnaletica e supporti audiovisivi. Meno interesse invece rispetto a servizi aggiuntivi quali punto ristoro, caffetterie, negozi e librerie. Sulla base di questi risultati è evidente che le indicazioni per giungere alla valorizzazione dei beni puntano sulla “politica di restauro, conservazione e valorizzazione dell’offerta, potenziale ed espressa, di musei ed istituzioni similari”. Di più ampio respiro è la prospettiva delineata da Alberto Clementi, secondo il quale la tutela dei beni culturali è indissolubilmente intrecciata con le politiche di pianificazione urbana e territoriale e “deve prendere le mosse da un disinquinamento generalizzato dell’ambiente”. A questo fine considera che da un lato si debba provare a comprendere sia “il ruolo della domanda, i suoi sistemi di preferenze e le sue modalità di appercezione del mondo” sia “le circolarità che si stabiliscono tra condizioni di produzione, gestione dell’offerta e modalità di fruizione”. Tuttavia negli ultimi anni Ottanta la denuncia dell’insufficiente produttività sociale ed economica dei musei si misura poco con questi orizzonti. La questione resta circoscritta all’esigenza dell’efficiente svolgimento dei normali compiti interni di tutela, studio e servizio ai visitatori e gestione pubbliche e in particolare di un’amministrazione statale “concepita e messa in opera in un’epoca ormai remota”. Anche Bertelli si domanda se avrebbe senso una privatizzazione della gestione, pur rimanendo pubblica la proprietà. La risposta che si fa avanti è che si apre un vasto campo di valorizzazione e promozione dei beni stessi, nel quale l’intervento pubblico deve coordinarsi con quello privato. Si guarda in particolar modo al merchandising e al copyright, lamentando che lo Stato rinuncia a cogliere così importanti opportunità benchè l’inserimento di questi negozi all’ingresso dei musei possa portare a profitti molto alti. 8. Gli anni Novanta, pg. 119 Durante gli anni Novanta si rafforza la consapevolezza che la tutela e la valorizzazione dei beni debbano coesistere. A causa della contrazione della spesa statale imposta dall’esigenza di contenere il deficit pubblico si accresce la convinzione di doversi impegnare a ridurre i costi di gestione e potenziare la redditività dei servizi e, in generale, la capacità di autofinanziamento. I temi fino ad ora affrontati, come il rapporto tra valorizzazione e tutela, tra museo e territorio, l’autonomia museale etc., vengono ora analizzati dal punto di vista economico. E’ indicativo il successo ottenuto dal libro di Frey e Pommerehne dovuto al rapporto fra “muse e mercati” e in particolare alle accuse inerenti l’inefficace conduzione dei musei e al formalismo delle procedure che ne riduce il funzionamento. Gli autori danno rilievo all’affermazione secondo la quale “se i responsabili di un museo ricevono dal governo i fondi necessari per mandare avanti l’istituzione, essi avranno scarso interesse a gestire il museo in modo efficiente”, totalmente controcorrente rispetto all’approccio comune. Concludono quindi sostenendo che “l’unico modo per risolvere il problema è quello di modificare le condizioni istituzionali in cui i responsabili sono chiamati ad operare” per esempio privatizzando i musei oppure introducendo un legame tra i sussidi governativi e il livello qualitativo del museo/il numero di visitatori. Si inizia quindi a parlare di innovare la gestione museale, adottando metodi improntati ad efficacia, efficienza ed economicità, aprendo ai privati e mettendo mano ad una revisione della legislazione. Molti di questi temi sono oggetto della commissione Covatta (1990), nata per elaborare una proposta di riforma con cui dar vita ad un “sistema museale nazionale”. Viene concesso ai musei di stabilire le “tasse d’ingresso”, i canoni di concessione e le elargizioni a qualunque titolo. Possono anche stipulare, previa autorizzazione della Soprintendenza, accordi e convenzioni con enti pubblici e privati aventi come oggetto lo svolgimento dei servizi di vigilanza, biglietteria, ristoro, guardaroba etc. Quanto al personale, interessante il progetto di costituire un “Istituto di formazione per Direttori, Operatori Scientifici ed Amministratori dei musei” la cui frequentazione doveva costituire un titolo preferenziale per l’assunzione di posizioni direttive o dirigenziali. Covatta presentò il disegno di legge il 12 maggio 1992, ma non fu mai approvato. In questo periodo si tende quindi ad un’impostazione che vuole una riduzione dell’intervento statale nella funzione di gestione. A proposito di questo, si confronta il caso italiano con quello francese, spagnolo e inglese. Si crea però un equivoco tra privatizzazione dei beni e servizi culturali e l’adozione di provvedimenti atti ad introdurre logiche gestionali mutuate da imprese private per raggiungere efficacia ed efficienza. Spesso si alza quindi la protesta di associazioni come la Bianchi Bandinelli → rivendica la natura pubblica del settore. Si avverte che “proposte di privatizzazione rilevano una grave incompetenza e una visione gretta della redditività del patrimonio culturale” in quanto tale redditività viene considerata solo in termini economici e non in rapporto a ciò che il patrimonio rappresenta in termini di civiltà. L’augurio è quindi che vengano evitate iniziative sbagliate e che si decida di avviare una riforma del senso del decentramento e dell’autonomia che sono la chiave di volta di una valorizzazione più piena del territorio. Già l’anno dopo il ministro Paolucci dichiara che “i musei italiani richiedono un intervento di “restauro” funzionale” che migliori l’accoglienza, modernizzi le strutture, valorizzi le risorse scientifiche e le potenzialità didattiche individuando tutte le possibilità didattiche. Secondo lui lo strumento indispensabile per raggiunge questi obiettivi era l’autonomia (→ da intendere come riconoscimento de iure dell’istituto museo e come individuazione di precisi ambiti di specificità tecnico-scientifica e gestionale). La soluzione che riteneva idonea era che l’autonomia dei musei si inscrivesse all’interno di una maggiore libertà delle soprintendenze territoriali. Sebbene questa riforma non ebbe mai luogo, nel triennio 1997-99 fu varato un insieme di leggi che sembrarono aver recepito almeno in parte gli spunti emersi durante gli anni Novanta, fornendo gli strumenti per ripensare l’ordinamento dei musei, per ridare loro identità e autonomia e trovare soluzione ai loro problemi di funzionamento e gestione. Importante la legge n. 59 del 1997 che affermò la sussidiarietà verticale ed orizzontale, previde il trasferimento agli enti territoriali della gestione dei musei statali e riservò allo Stato la sola funzione di tutela. Questa legge iniziò ad essere applicata a partire dall’anno successivo. La norma attuativa operò una distinzione tra le funzioni di tutela e quelle di “valorizzazione”, “gestione” e “promozione” che fino a quel momento erano assenti nell’ordinamento giuridico. Portò poi alla costituzione di una commissione nazionale presieduta dal “Ministro per i beni culturali e ambientali o da un Sottosegretario da lui delegato” e composta da membri del Ministero, delle Regioni e degli Enti locali. Tale commissione aveva lo scopo di: - individuare i musei e i beni culturali statali da trasferire in gestione ad enti territoriali - elaborare i “criteri tecnico-scientifici” e gli “standard minimi” di funzionamento Queste disposizioni furono accolte come condizione ottimale perché l’attribuzione di compiti agli enti territoriali avvenisse senza il rischio di “discentramento” dallo stato nazionale, in quanto sostenuta da un forte coordinamento centrale scientifico, tecnico e culturale. “Marketing dei musei”, Torino, 1999→ edito da Cesare Annibaldi. Volume nella cui Introduzione Annibaldi stesso spiegava chela presentazione del libro doveva servire in Italia a consolidare un modo più ampio di considerare i musei e i beni culturali. Come? Riconoscendo il collegamento tra patrimonio artistico-culturale e sviluppo, facendo maturare una sensibilità verso la dimensione economica e della cultura, portando ad un nuovo metodo di gestione dei beni culturali che fosse più attento agli aspetti economici e al rapporto con i fruitori. Annibaldi comprende la preoccupazione che deriva dall’inserimento di dinamiche economiche nelle strategie culturali, ma sostiene che questa diffidenza non debba tradursi nella compromissione degli obiettivi. Negli anni Novanta sorsero anche contestazioni alla legge Ronchey a causa della “mancanza di una politica unitaria culturale ed economica”. La distinta separazione fra gestione culturale (affidata a funzionari dello Stato) e gestione economica (affidata a privati) ha permesso di cogliere solo parzialmente le opportunità derivanti dalla valorizzazione economica del patrimonio artistico. Sostanzialmente l’accusa mossa da Annibaldi è che non sempre il sistema museale italiano si sia concentrato sul rapporto con i visitatori, andando a ledere sia l’aspetto del marketing che le finalità del museo stesso (es. Funzione didattica). Da tali argomentazioni si sarebbe potuti partire per affrontare molti temi, mentre invece fu evidenziato unicamente il rischio di incorrere nella cosiddetta “Sindrome Sedara”. ↓ Questi timori non si verificarono però al momento di attuare il decreto 112/98, sia perché il trasferimento della gestione dai musei statali agli enti non ebbe mai luogo, sia per il modo in cui vennero definiti gli standard. Entro due anni dall’insediamento della commissione paritetica sarebbe dovuto essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale l’elenco dei musei di cui trasferire la gestione. Non essendo però stata fissata alcuna sanzione qualora una delle parti avesse provato ad ostacolare il trasferimento, alla componente ministeriale bastò smettere di convocare la commissione per bloccare i trasferimenti. In preparazione dei lavori della commissione, la Conferenza delle Regioni predispose un documento sugli Standard per i musei italiani (settembre, 1999) attraverso il quali fissare una serie di regole nella convinzione che dei punti fermi avrebbero favorito l’applicazione della definizione di museo e la diffusione di una cultura di gestione, di un’etica professionale e istituzionale. L’elaborato delle Regioni trattò con cura la questione del personale, affermando l’esigenza di profili professionali, alle specifiche abilità richieste per ciascun adempimento incluso nella catena del valore. Ancora più significativo fu che si ritenne di dover aggiungere un ottavo ambito ai VII già inclusi dall’ICOM, dedicato al rapporto museo-territorio, giudicando “decisiva, in Italia, la particolare connessione sussistente tra museo come istituto e territorio come museo diffuso”. Consiste nel considerare i beni culturali come qualcosa da tutelare per via del fattore economico che rappresentano e non per il loro valore intrinseco. Nel 1999 inoltre l’ICTOP elaborò le Curricula Guidelines for museum professional development, con le quali si richiedeva un’equilibrata presenza di diverse aree formative (museologia, conservazione delle collezioni, discipline giuridico-istituzionali e politico-economiche. La novità più importante del millennio fu l’introduzione di un nuovo attore a cui affidarsi per soddisfare le prospettive deluse dai pubblici poteri. Nel 2000 vengono infatti a compimento le fondazioni bancarie fra i cui compiti troviamo il rafforzamento dei sistemi di governo locali in funzione di una valorizzazione culturale dei territori. 9. Nuovo Millennio, pg. 142 A far credere che il 2001 sarebbe stato l’anno di svolta fu l’introduzione di due provvedimenti di regolamentazione tecnica, uno per i musei statali e locali, l’altro per i musei ecclesiastici. Il decreto emanato del maggio 2001 Atto di indirizzo sui criteri tecnino-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei sembra portare a termine il dibattito sui musei e la valorizzazione individuando e motivando la missione del museo nell’attuale contesto italiano ed internazionale, fornendo gli strumenti atti a conferirgli identità ed autonomia (almeno economicamente e a livello gestionale), declinando la catena del valore e dettagliandone i componenti fondamentali per le attività di back office che nei confronti del pubblico. Descrive infine le funzioni da esercitare rispetto al territorio. Il tutto animato da una “cultura del servizio” pubblico, da una vasta e diffusa sensibilità etica nei confronti dell’utenza. Fu un evento “di portata epocale” come lo definisce Cristina Acidini, “in grado di dotare i musei italiani di adeguati strumenti gestionali e di colmare una lacuna presente nei Beni Culturali di identità e autoregolamentazione”. Musei ecclesiastici Nel 2001 venne redatta la Lettera circolare sulla funzione pastorale dei musei ecclesiastici. Anche i musei ecclesiastici dovevano essere dotati di un regolamento e di un direttore (e ovviamente personale preparato). La sede deve essere in un luogo che permetta di identificare chiaramente il museo e che sia facilmente accessibile. Gli edifici devono poter mantenere la propria identità, in modo che i visitatori possano al contempo ammirare l’architettura e le opere esposte. Il museo deve disporre di almeno una sala dedicata alle mostre/eventi culturali temporanei, di una sala didattica, un’aula per la formazione interna, una biblioteca specializzata, un’archivio. Si raccomanda inoltre l’allestimento di un bookshop e di luoghi di ristoro. Si deve procedere alla promozione dell’immagine e alla stipulazione di un piano economico a breve termine, a medio termine e pluriennale. Un museo ecclesiastico è radicato nel territorio, dove si collega e diffonde, in modo da rendere visibile l’unità dell’intero patrimonio storico-artistico, la sua continuità e il suo sviluppo nel tempo. E’ una struttura dinamica che si realizza attraverso il coordinamento tra beni museizzati e in loco.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved