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Processo esecutivo, Sintesi del corso di Diritto Civile

F. P. Luiso, Diritto processuale civile, vol. III, Il processo esecutivo, Milano, Giuffrè, ultima edizione, riassunto di tutto il libro, 84 pag.

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

Caricato il 16/05/2016

jois18
jois18 🇮🇹

4.4

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29 documenti

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Scarica Processo esecutivo e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Civile solo su Docsity! 1 Diritto processuale civile 3: Il processo esecutivo CAP. 1 – Esecuzione forzata nel quadro dell’ordinamento (pp. 3 – 8) Qualunque sistema normativo opera prendendo in considerazione i comportamenti umani e qualificandoli come leciti o doverosi. Alcune norme danno facoltà di compiere certe attività e altre vietano il compimento di altre attività. Al di fuori del settore penalistico, il legislatore prevede che il comportamento, qualificato come doveroso, sia funzionale alla realizzazione di un interesse altrui, che assurge alla dignità di situazione sostanziale protetta. Il legislatore assicura un’utilità ad un soggetto, gli garantisce un bene della vita. Alcune situazioni sostanziali protette si attuano fornendo al titolare pot di comportamento in relazione ad un determinato bene e facendo obbligo a tutti gli altri soggetti dell’ord di non inframmettersi tra il titolare del dir e il bene garantito: cioè imponendo a carico di tutti gli altri soggetti dei doveri di astensione. Se si pensa, ad es, alla struttura del dir di proprietà o di un dir personale di godimento come la locazione, si capisce che il conduttore e il proprietario non hanno bisogno della cooperazione di nessun altro per trarre dal bene tutta l’utilità che l'ord loro garantisce. Essi hanno bisogno solo che non sia loro impedito di utilizzare i pot che l'ord loro attribuisce. Queste situazioni sono chiamate finali. Talvolta si constata che l’interesse, che costituisce la situazione sostanziale protetta, è garantito non dall'attività indisturbata del titolare del dir, ma da un comportamento attivo di un altro soggetto, senza il quale comportamento la situazione sostanziale non è soddisfatta. Queste situazioni sono chiamate strumentali'. Accanto a questa prima distinzione fra situazioni finali e strumentali, va posta una seconda fra doveri di comportamento primari e secondari. Talvolta i doveri sono primari, nel senso che attuano lo svolgimento fisiologico della situazione sostanziale: si tratta di tutti i casi in cui, sul piano del dir sostanziale, è previsto come obbligo primario quello di tenere un certo comportamento attivo. Talvolta i doveri sono secondari, in quanto nascono da un precedente illecito: nascono dal fatto che esisteva un altro dovere a monte, che non è stato rispettato; a ciò consegue la nascita di un dovere di contenuto diverso detto secondario, perché origina da un precedente dovere inadempiuto, e che ha una funz ripristinatoria. Il problema che si deve porre qualunque ord è: che cosa accade quando il soggetto, che dovrebbe tenere il comportamento satisfattivo del dir altrui, non tiene tale comportamento e contravviene all'obbligo che l'ord gli impone (realizza un illecito)? Ai fini della tutela esecutiva, è sufficiente che sul piano del dir sostanziale non sia stato tenuto quel comportamento, che è necessario per dare al titolare del dir l'utilità che l’ord gli garantisce, quando gli riconosce una situazione sostanziale protetta rispetto ad un certo bene. Di fronte alla violazione di un dovere di comportamento, previsto a favore di un altro soggetto (inadempimento) non serve una tutela in via dichiarativa: quella tutela, disciplinata nel libro2° c.p.c., che porta a statuire sui reciproci dir ed obblighi delle parti. Occorre far sì che l’avente dir riceva quell’utilità che gli dovrebbe provenire dall'adempimento dell'obbligato. La tutela dichiarativa è insufficiente, perché, quand'anche si giunga a stabilire che uno ha sottratto il bene a un altro e è obbligato a restituirlo, niente esclude che l'inadempimento dell'obbligato permanga anche dopo di essa. A fronte dell'inadempimento di obblighi imposti dal dir sostanziale, talvolta è l’avente dir che può sostituirsi all'obbligato con la propria attività sul piano del dir sostanziale, per ottenere quel risultato utile che l’ord gli garantisce e che non ha ottenuto con lo spontaneo adeguamento dell'obbligato alla regola di condotta di dir sostanziale. Talvolta il titolare della situazione protetta, a fronte dell'inattività dell’obbligato, può fare qualcosa per procurarsi autonomamente quell’utilità che non gli è provenuta dal comportamento dell’obbligato; e ciò sia prima che dopo l’eventuale proc di cognizione che statuisca sul modo d’essere dei rapp tra le parti. Non sempre sul piano del dir sostanziale è possibile quest'attività sostitutiva. Non sempre l’avente dir può autonomamente procurarsi l’utilità che gli era garantita dall’ord (salvo l'eventuale risarc dei danni nei confronti dell’inadempiente). Il dir sostanziale è impotente: occorre uno strumento che possa fornire all'avente dir quell'utilità, che gli spetta secondo dir sostanziale, e che non ha ricevuto. Questo strumento è l'esecuzione forzata. La tutela dichiarativa non costituisce un prius logico e cronologico, rispetto alla tutela esecutiva. Sarebbe un errore pensare che in sede esecutiva si attui quanto previsto in sede dichiarativa, e che l'oggetto dell'esecuzione sia l’atto di accertamento (sentenza, lodo). Ciò può essere vero solo se l'ord prevede che l’esistenza di un atto di accertamento costituisce presupposto indispensabile per avere accesso alla tutela esecutiva. Ma non è così per l'esecuzione forzata civile, presupposto della quale possono essere anche atti, che non hanno la caratteristica di impartire tutela dichiarativa (atti di notaio, tit di credito), sicché il previo ricorso alla tutela dichiarativa da parte del titolare del dir insoddisfatto a causa dell’inadempimento dell'obbligato si rende necessario solo ove non esista un tit esecutivo stragiudiziale, e il titolare del dir debba procurarsi un tit esecutivo giudiziale attraverso il proc di cognizione. Il titolare del dir insoddisfatto può ottenere ciò che gli interessa: e cioè la tutela esecutiva. Il previo accertamento dell’esistenza del dir da tutelare non solo non costituisce un presupposto logico indispensabile della tutela esecutiva, ma non ne costituisce neppure un presupposto costante. Tutela dichiarativa e esecutiva si pongono su piani diversi e non necessariamente in consecuzione cronologica: altro è determinare, in modo vincolante, quali sono le regole di condotta che vigono tra le parti con riferimento ad una situazione sostanziale; altro è procurare all'avente dir quell’utilità, che gli doveva provenire da un comportamento altrui, che non è stato tenuto. Come -in sede di tutela dichiarativa- è indifferente che, fra le regole di comportamento che vengono determinate, una o più prevedano l'obbligo di effettuare una prestazione; così -in sede di tutela esecutiva- non ci si chiede se esiste l'obbligo di effettuare la prestazione, ma si dà per scontato che sussista l’obbligo. Per qst esistono strumenti cognitivi che consentono all’esecutato di far valere l'eventuale inesistenza del dir sostanziale che con l’esecuzione forzata si vuole vedere tutelato. 2 CAP. 2 – Esecuzione diretta e esecuzione indiretta (pp. 9 – 15) Il dir di az e di difesa, previsti dall’art. 24 Cost, comprendono anche la tutela esecutiva. La norma cost ha una portata assai più vasta di quanto può apparire, perché garantisce il dir ad una tutela giurisdizionale efficace che si deve esplicare in tutte le forme necessarie per la soddisfazione dei vari dir: nella forma del proc di cognizione, laddove si rende necessario statuire sui rispettivi dir ed obblighi delle parti, e determinare i comportamenti che queste possono e debbono vicendevolmente tenere; nella forma del proc cautelare, laddove la situazione sostanziale protetta corre il rischio di un pregiudizio per il tempo occorrente a farla valere in via ordinaria; nella forma dell’esecuzione forzata, laddove ci si trovi di fronte ad obblighi di comportamento che rimangono disattesi e che sono funzionali alla soddisfazione del titolare dell'interesse protetto. La Corte di Strasburgo ha affermato che il dir all’equo proc, previsto dall’art. 6 CEDU, comprende anche la tutela esecutiva. La Corte cost ha dichiarato l'illegittimità cost di alcune norme che impedivano la tutela esecutiva. All’inadempimento dell'obbligato si può reagire, in sede giurisdizionale esecutiva, con l’esecuzione diretta e indiretta. Si ha esecuzione diretta tutte le volte in cui l'inerzia dell’obbligato è sostituita dall’attività dell’uff esecutivo, il quale si attiva in luogo dell’inadempiente, compie ciò che quest'ultimo avrebbe dovuto fare, e fa conseguire all’avente dir l'utilità che gli spetta secondo il dir sostanziale. Poiché l'attività dell'uff è sostitutiva di quella che doveva tenere l'obbligato, e l’uff esercita i pot e le facoltà che ha l’obbligato, ma che questi non ha utilizzato per adempiere, è ovvio che, attraverso la tutela esecutiva, il titolare del dir non può ottenere di più di quello che avrebbe ottenuto in virtù dell'adempimento spontaneo dell'obbligato. È chiaro che il tipo di attività che deve tenere l’uff esecutivo è correlato al tipo di attività che doveva tenere l’obbligato: i due tipi d’attività devono essere omogenei. L'uff fa quelle stesse cose che avrebbe fatto l’obbligato se fosse stato adempiente. Bisogna sottolineare la necessaria omogeneità tra il comportamento sostitutivo dell'uff e il comportamento sostituito; non vi può essere una disomogeneità perché, altrimenti, l’avente dir otterrebbe non quell’utilità che gli spetta secondo dir sostanziale, ma un'utilità diversa. Questa tecnica di tutela esecutiva ha un limite: per il titolare del dir dev’essere indifferente che la prestazione provenga personalmente dall’obbligato, o da un terzo; l'obbligo dev’essere fungibile. Questa tecnica di tutela non è utilizzabile quando per il titolare del dir non è indifferente che la prestazione provenga personalmente dall’obbligato, o da un terzo: quando l’obbligo è infungibile, e non idoneamente sostituibile dal comportamento di un altro soggetto. Bisogna distinguere gli obblighi fungibili dagli obblighi infungibili. La nozione di fungibilità/infungibilità è diversa da quella disciplinata dagli artt. 1285 ss. c.c.: qui essa sta ad indicare la sostituibilità o meno, da parte di un terzo, della prestazione inadempiuta dall'obbligato. Fanno parte degli obblighi infungibili tutti quelli in cui l’adempimento personale da parte dell'obbligato è determinante o a causa del contenuto personale della prestazione o perché si tratta di obblighi di astensione: tutti gli obblighi di astensione sono infungibili. Quando si è in presenza di obblighi infungibili, si rende necessaria l'esecuzione indiretta: occorre indurre l'obbligato ad adempiere, e ciò può essere ottenuto prevedendo che l’obbligato inadempiente vada incontro a conseguenze negative per lui più onerose dell’adempimento. La storia ed il dir comparato insegnano che queste conseguenze possono essere o civili o penali: a) si ha esecuzione indiretta con misure coercitive civili quando sia previsto che a carico dell'inadempiente, una volta verificatisi i presupposti della tutela esecutiva, sorge l'obbligo di pagare una certa somma di denaro (stabilita dal legislatore, o determinata dal giudice dell'esecuzione entro parametri stabiliti dal legislatore) per ogni ulteriore periodo di inerzia o per ogni ulteriore violazione del dovere di astensione. La somma è determinata con riferimento ad una unità temporale (giorno, settimana, mese) per l’inadempimento di obblighi di fare, e con riferimento ad ogni illecito commesso per la violazione degli obblighi di astensione. Il beneficiario delle somme versate può essere lo Stato (o altro ente pubblico), o la controparte. È quest'ultimo, ad es, il caso delle astreintes francesi. Si tenga presente che dal punto di vista funzionale diverso è il caso in cui beneficiario della somma di denaro sia la controparte rispetto al caso in cui di essa sia beneficiario un terzo; b) si ha esecuzione indiretta con misure coercitive pen quando sia previsto che, verificatisi i presupposti della tutela esecutiva, gli ulteriori inadempimenti dell'obbligato integrano un’ipotesi di reato. Questa tecnica è utilizzata, ad es, in Germania ed in Inghilterra. Nel ns ord, oltre ad un’esecuzione indiretta generalizzata per tutte le prestazioni infungibili (art. 614-bis c.p.c.), il legislatore prevede ipotesi specifiche di esecuzione indiretta, talvolta adottando la tecnica civilistica e talaltra quella penalistica. Dal punto di vista dell'efficienza non vi è dubbio che l'esecuzione diretta garantisce maggiormente il raggiungimento del risultato voluto. L'esecuzione indiretta potrebbe essere usata sia per gli obblighi infungibili che per quelli fungibili, ma di solito è utilizzata solo per quelli infungibili, perché come tecnica esecutiva ha degli inconvenienti. a) gli strumenti coattivi operano sulla volontà dell'obbligato, e possono essere inefficaci, ove l’obbligato sia particolarmente determinato a non adempiere. b) lo strumento coattivo di natura pen costituisce un ulteriore appesantimento per la giurisdizione pen che è già sovraccarica, e che spesso, a causa di questo sovraccarico, non riesce ad applicare la sanzione. c) lo strumento coattivo di natura civile è un’arma spuntata nei confronti di chi non ha un patrimonio con cui rispondere dell’obbligazione pecuniaria. In direzione speculare, l'esecuzione indiretta non serve se l'obbligato ha un patrimonio talmente ingente, da essere insensibile al pagamento della somma. È noto l’episodio del ricchissimo romano che si divertiva a schiaffeggiare le persone che incontrava, ed era seguito da un servitore, che pagava immediatamente allo schiaffeggiato la sanzione pecuniaria prevista per le percosse. Se la somma dovuta va alla controparte, è necessario porre un limite massimo ad essa, per evitare che si verifichi un ingiustificato arricchimento dell'avente dir. Questo inconveniente è evitato se si prevede 5 nell’individuazione del bene oggetto dell'intervento esecutivo e del fare che dev’essere compiuto. L’individuazione di ciò che dev'essere compiuto non è necessaria nella consegna o rilascio, perché è già tipizzata dal legislatore: si tratta del trasferimento della materiale disponibilità di un bene mobile o immobile da colui che esercita attualmente siffatta materiale disponibilità ed è obbligato alla consegna o rilascio, a colui che ha dir di ottenere la materiale disponibilità del bene. L’esecuzione per obblighi di fare non è tipizzata dal legislatore; e il tit esecutivo deve contenere l’individuazione non solo del bene su cui si deve operare, ma anche del tipo di intervento necessario. Anche l'esecuzione per obblighi di omettere non è tipizzata dal legislatore. b) L’espressione dir liquido si riferisce ai crediti relativi a somme di denaro (o a quantità di cose fungibili) ed è l'equivalente della certezza riferita ai dir su beni individuati; il credito che spetta dev’essere quantificato numericamente, direttamente nel tit esecutivo, o quantificabile con operazioni matematiche sulla base di elementi contenuti nello tit. La liquidità sussiste sia quando la somma dovuta è già numericamente quantificata nel tit esecutivo, o quando il tit esecutivo, pur non individuando numericamente la somma dovuta, contiene gli elementi per poterla calcolare con operazioni matematiche. Più incerta è la disciplina della rivalutazione. La condanna alla rivalutazione è calcolabile con un’operazione matematica, perché basta moltiplicare il tasso d'inflazione per il capitale. Il problema è che il tasso di inflazione di solito non risulta dal tit esecutivo. Occorre tener conto che la giurisprudenza fa un'eccezione per il tit esecutivo giudiziale. Prendendo spunto dal fatto che, in materia di efficacia dichiarativa della sentenza, per chiarire la portata precettiva della stessa si può far riferimento a elementi esterni ed extra-testuali, non desumibili dal tit, ma risultanti dagli atti del proc, la Cass ha esteso la regola anche al tit esecutivo giudiziale. Un’altra eccezione alla regola della liquidità è costituita dall'art. 614-bis c.p.c. c) Il dir esigibile significa non sottoposto a termine o condizione. Il dato dell'esigibilità non dev’essere riferito al momento della formazione del tit ma al momento dell'esecuzione forzata. Un'ipotesi di non esigibilità è prevista dall'art. 478 c.p.c., quando l’efficacia del tit esecutivo è subordinata alla prestazione di una cauzione. In taluni casi il giudice può emettere un provv che ha efficacia esecutiva, subordinando l’esecutività dello stesso al fatto che il creditore presti una cauzione. In questi casi, secondo l’art. 478 c.p.c., non si può iniziare l'esecuzione forzata finché questa non sia stata prestata. Analogamente dispone l’art. 669-novies c.p.c., con riferimento ai provv cautelari. La cauzione non costituisce requisito per l’emanazione del provv, ma presupposto dell'efficacia esecutiva dello stesso. L'art. 474 c.p.c. elenca i tit esecutivi, suddividendoli in tre categorie. La prima è quella dei tit esecutivi giudiziali. Sono tali le sentenze di condanna e non quelle di mero accertamento; non le sentenze con le quali si accerta il dir di una delle parti in relazione alla situazione sostanziale dedotta in giudizio, ma quelle con le quali si condanna l'obbligato a tenere una certa prestazione. Tutte le sentenze di condanna, in qualunque sede emesse, hanno efficacia esecutiva. Ai tit esecutivi giudiziali si possono ricondurre anche le ordinanze, e i d. La riforma del ‘06 ha aggiunto l’espressione “e gli altri atti” alle parole “le sentenze e i provv”. Con ciò si è voluto risolvere la vexata quaestio dell’efficacia esecutiva del verbale di conciliazione giudiziale: la conciliazione è quel modo di chiusura del proc che si ha quando le parti si trovano d'accordo per una risoluzione consensuale della controversia; l'accordo è recepito nel verbale della causa, che viene sottoscritto in ud dalle parti e dal giudice, e costituisce tit esecutivo. Poiché, per talune forme di esecuzione, l'ord prevede l'esistenza di un tit esecutivo giudiziale, ci si chiedeva se tale verbale fosse tit esecutivo giudiziale (idoneo per qualunque forma di esecuzione forzata) o stragiudiziale (idoneo solo per l'espropriazione e non anche per le altre forme di esecuzione per le quali occorre un tit giudiziale). Il verbale di conciliazione non è un provv. La modifica introdotta nel ‘06 ha eliminato ogni dubbio, equiparando il verbale di conciliazione ai tit esecutivi giudiziali. Se le parti, durante il proc di cognizione, si trovano d'accordo, è assurdo che il proc debba andare avanti solo al fine che il giudice recepisca nella sua sentenza il loro accordo, perché altrimenti il verbale di conciliazione non sarebbe idoneo come tit esecutivo. Ciò costituirebbe uno spreco di attività processuale. La seconda categoria di tit esecutivi, prevista dall'art. 474 c.p.c., è costituita dalle scritture private autenticate e dai tit di credito: le cambiali, gli assegni e gli altri tit ai quali la l. attribuisce la stessa efficacia. Le scritture private autenticate costituiscono tit esecutivo relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in essi contenute. Quindi non tutti gli obblighi contenuti in una scrittura privata sono suscettibili di dare luogo all'esecuzione forzata; lo sono solo gli obblighi relativi a somme di denaro. Le scritture private sono tit esecutivi solo per l'espropriazione, e non per le altre forme di esecuzione forzata. Così il contratto di compravendita, stipulato di fronte al notaio in forma di scrittura privata (e non di atto pubblico), è tit esecutivo per l'obbligo del compratore di pagare il prezzo, e non lo è per l'obbligo del venditore di consegnare il bene: l’obbligo del compratore ha ad oggetto il pagamento di una somma, e il contratto è tit esecutivo; l'obbligo del venditore ha ad oggetto la consegna del bene, e la scrittura privata non è sotto questo aspetto tit esecutivo. Quando l’art. 474 c.p.c. parla di scrittura privata fa riferimento non solo ai contratti, ma anche agli atti unilaterali, ad es, alle promesse di pagamento ed alle ricognizioni di debito (atti con cui un soggetto si obbliga a pagare una certa somma di denaro). Per quanto riguarda i tit di credito, la l. sulla cambiale e quella sull'assegno prevedono che questi siano tit esecutivi solo se in regola con il bollo fin dal momento della loro emissione. Se non sono in regola con bollo fin dall'origine, valgono come tit di credito, però non hanno efficacia esecutiva. La terza categoria di tit esecutivi è costituita dagli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla l. a riceverli. Come previsto dall'art. 474 c.p.c., l'atto pubblico costituisce tit esecutivo anche in relazione all'esecuzione per consegna e rilascio. Quel contratto di compravendita che -se stipulato di fronte al notaio per scrittura privata autenticata è tit esecutivo solo in relazione all'obbligo dell'acquirente di pagare il prezzo e non anche in relazione 6 all'obbligo del venditore di consegnare il bene- qualora di fronte allo stesso notaio sia stipulato per atto pubblico, costituisce tit esecutivo sia a favore del venditore sia a favore dell’acquirente. Vi sono molti altri tit esecutivi che il legislatore individua in l. speciali. L'efficacia di tit esecutivo dev’essere prevista espressamente dal legislatore e non può essere attribuita in via di interpretazione analogica. Fra le varie fattispecie di tit esecutivo, ne rilevano alcune. Una di esse negli ultimi tempi è sempre più spesso prevista dal legislatore: si intende la conciliazione stragiudiziale, cioè di quel proced che è volto a favorire una soluzione negoziale della controversia. A questo scopo -per invogliare le parti ad esperire il proced conciliativo, garantendo loro un risultato che, se la conciliazione riesce, è equivalente alla tutela data da una sentenza- il legislatore attribuisce all’accordo, raggiunto nelle sedi conciliative che lo stesso legislatore indica, l'efficacia piena di tit esecutivo. Il verbale di conciliazione, autenticato dai legali che hanno assistito le parti o munito dell'exequatur del trib, costituisce tit esecutivo per l'espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l'iscrizione di ipoteca giudiziale: così l'art. 12 d.lgs. 28/10 sulla mediazione civile e commerciale. Anche l'art. 5 d.l. 132/14, stabilisce che l’accordo raggiunto in sede di negoziazione assistita costituisce tit esecutivo. Un’altra fattispecie è prevista dall’art. 12 d.lgs. 124/04. Sulla base di tale disp, ove il personale delle direzioni provinciali del lavoro, in occasione dello svolgimento della loro attività di vigilanza, verifichi l’inosservanza, da parte del datore, di disp da cui scaturisce la sussistenza di crediti a favore del lavoratore, diffida il datore a corrispondere quanto dovuto. Tale diffida -decorsi 30gg senza che sia stato trovato un accordo fra datore e lavoratore- acquista efficacia di tit esecutivo a favore del lavoratore per le somme indicate. La particolarità di questa fattispecie di tit esecutivo sta in ciò, che qui l’atto ammin della PA costituisce tit esecutivo non a favore della PA, ma a favore di un terzo. L’atto della PA non ha alcuna efficacia preclusiva, e il datore può far valere tutte le sue difese di merito in sede di opposizione all'esecuzione, senza limite alcuno. Dal momento che non è previsto alcun onere di impugnativa, il datore può far valere in sede di opposizione all'esecuzione anche le eventuali invalidità dell'atto. Rileva il perché il legislatore attribuisce l'efficacia di tit esecutivo a certi atti e non ad altri. In dottrina è prevalente l'opinione che riconduce il comune denominatore dell'efficacia esecutiva di certi atti a ciò che questi atti darebbero certezza dell'esistenza del dir da tutelare; è opinione prevalente che il legislatore attribuisce efficacia esecutiva a certi atti, e non a altri, in ragione dell’efficacia di accertamento propria degli uni, e non anche degli altri. La dottrina prevalente afferma: poiché il dir da tutelare deve esistere, essenziale per avere il dir alla tutela esecutiva è un accertamento dell'esistenza del dir da tutelare. Tale accertamento scaturisce dagli atti indicati nell'art. 474 c.p.c., mentre non scaturisce da altri atti, ai quali il legislatore nega l'efficacia esecutiva, perché non danno sufficiente certezza dell’esistenza del dir sostanziale da tutelare. Questa impostazione non convince. Non c'è dubbio che l'atto, al quale il legislatore attribuisce efficacia esecutiva, può fornire una sufficiente certezza dell'esistenza del dir da tutelare. Però la certezza dell’esistenza del dir da tutelare non è l’elemento fondamentale, unificante che sta alla base della scelta del legislatore per l'individuazione dei tit esecutivi, e per la concessione della tutela esecutiva. Ciò che conta è che il legislatore ritenga per motivi vari meritevole di tutela esecutiva una certa situazione sostanziale. Una situazione sostanziale può essere ritenuta meritevole di tutela esecutiva per varie ragioni: quando il dir è sufficientemente certo; o quando il dir appartiene a un ente pubblico o previdenziale; o quando appartiene ad un soggetto che abbia necessità di rapida tutela esecutiva del proprio dir; finanche quando si vogliono raggiungere fini fiscali. La stessa scrittura privata, a seconda che consacri un obbligo di pagare una somma o un obbligo di consegna di un bene o un obbligo di fare, è tit esecutivo per l'obbligo di pagare e non è tit esecutivo per la consegna del bene o per l'obbligo di fare. Allora, se lo stesso atto è tit esecutivo per i crediti pecuniari, ma non per gli obblighi di dare o di fare, la ratio della sua efficacia esecutiva non può stare in ciò, che l'uno è un dir certo e l'altro no, dato che non vi è diversità in ordine alla certezza dei due dir. È evidente che la ragione che induce il legislatore a riconoscere tutela solo all'uno e non all'altro è di carattere diverso: non può essere la certezza, che è identica, stante che la scrittura privata autenticata è sempre la stessa. Altro es lo si trarre dall'art. 474 c.p.c. I tit di credito hanno efficacia esecutiva solo se bollati fin dal momento della loro emissione; se non sono in regola col bollo fin dall’origine, non hanno efficacia di tit esecutivo. Non è una marca da bollo sulla cambiale o sull’assegno che dà certezza dell’esistenza del dir; qui la ragione sta in ciò che il legislatore vuole incassare i proventi dell’imposta di bollo anche sui tit di credito che non saranno utilizzati come tit esecutivo, e dà loro efficacia esecutiva solo se hanno il bollo fin dall'origine. I tit di credito sono scritture private la cui sottoscrizione non è necessariamente autenticata da un pubblico ufficiale, e non danno certezza della loro provenienza; nulla impedisce a uno di acquistare una cambiale dal tabaccaio, e sottoscrivere a nome di altro l'impegno a pagare una somma. Si forma così un tit di credito falso, il cui portatore può iniziare, alla data di scadenza, l'esecuzione forzata. La cambiale ha efficacia esecutiva contro un soggetto, la cui sottoscrizione non è accertata: il tit di credito può essere anche un falso. Manca la ragione di certezza: manca l’accertamento della provenienza del tit. L’ord attribuisce tutela esecutiva a un dir, senza che vi sia la certezza della provenienza del tit di credito da colui, contro il quale viene proposta l’esecuzione forzata. Il legislatore, volendo attribuire tutela esecutiva ai tit di credito, sconta il rischio della loro falsificazione, e fa una valutazione: fra il non dare efficacia esecutiva ai tit di credito se non c'è certezza della loro provenienza, ed il rischiare un'esecuzione forzata ingiusta attribuendo tutela esecutiva ad un dir che non esiste, è più opportuno correre il rischio di attribuire la tutela esecutiva ad un dir inesistente, piuttosto che pretendere una certezza dell’esistenza del dir, che avrebbe necessariamente portato ad escludere l’efficacia esecutiva dei tit di credito, la cui sottoscrizione non fosse autenticata. Quindi non la certezza dell'esistenza del dir, ma altre 7 ragioni stanno a fondamento dell’efficacia esecutiva attribuita ai tit di credito. Gli elementi che il legislatore prende in considerazione per attribuire la tutela esecutiva sono disomogenei: rileva anche la certezza dell’esistenza del dir, ma solo come uno dei tanti fattori presi in considerazione. Il legislatore attribuisce efficacia esecutiva all'atto, quando ritiene che il dir, in esso contenuto, sia meritevole di tutela esecutiva. I fattori, che il legislatore prende in considerazione in questo giudizio di meritevolezza della tutela esecutiva sono variabili, e la scelta è difficilmente sindacabile dal punto di vista della legittimità cost. In teoria niente impedirebbe un sindacato di costituzionalità, almeno sotto il profilo dell'art. 3 Cost, ma la Corte cost non ha mai accolto questioni di costituzionalità che riguardavano l’attribuzione dell’efficacia esecutiva a certi atti e non a altri. È difficile controllare le scelte del legislatore in questo settore, proprio a causa della varietà e disomogeneità degli elementi che concorrono nel giudizio di meritevolezza. Tali considerazioni consentono di chiarire i rapp fra tutela dichiarativa e esecutiva. La tutela esecutiva non è fornita a chiunque la richieda affermando di essere titolare di un dir leso dall’inerzia dell’obbligato: occorre che venga ad esistenza un dir processuale -dir alla tutela esecutiva- diverso dal dir sostanziale -dir da tutelare-. Per accedere alla tutela esecutiva occorre avere un tit esecutivo. Se l’interessato non ha un tit esecutivo stragiudiziale, deve procurarsene uno: il che può accadere solo attraverso un proc di cognizione. In tal caso il proc di cognizione è prostituito ad una funz diversa da quella sua propria: all'attore non interessa tanto che siano stabilite le regole di condotta fra lui e la controparte relativamente alla sua situazione sostanziale protetta, quanto procurarsi l'accesso alla tutela esecutiva, tramite la formazione di un tit esecutivo. Il provv dichiarativo è solo una tappa verso la meta finale, tappa resa necessaria dal fatto che il ns ord adotta il princ nulla executio sine titulo, e subordina la concessione della tutela esecutiva al verificarsi di un effetto giuridico processuale specifico e diverso da quello sostanziale che dev’essere tutelato: l'esistenza di un tit esecutivo. È evidente che, quanto più si moltiplicano i tit esecutivi stragiudiziali, più si alleggerisce il proc di cognizione da tutte quelle domande che hanno come scopo la formazione di un tit esecutivo. Più si moltiplicano i tit esecutivi, e meno valore residua al princ nulla executio sine titulo. L’equilibrio è precario: non vi è dubbio che il legislatore ha ritenuto preferibile moltiplicare i tit esecutivi, onde evitare una richiesta di tutela dichiarativa strumentale solo all'ottenimento della tutela esecutiva. CAP. 5 – Titolo esecutivo in senso sostanziale e titolo esecutivo in senso documentale (pp. 31 – 39) Il tit esecutivo sta fuori e prima dell’esecuzione; esso non è l'oggetto dell'esecuzione, ma la fattispecie in presenza della quale si ha l'az esecutiva, il dir processuale alla tutela esecutiva del dir sostanziale. Oggetto della tutela esecutiva non è il tit esecutivo, ma il dir sostanziale da tutelare. Ciò significa che l’esecuzione forzata costituisce l'attuazione non del provv del giudice, ma della situazione sostanziale protetta. Questa precisazione è avvenuta in sede di proc civile e non di proc ammin o pen, perché in questi ultimi l'esecuzione presuppone sempre un provv giurisdizionale, mentre nel proc civile l’esecuzione può prescinderne, in quanto esistono anche i tit esecutivi stragiudiziali. L’esistenza dei tit esecutivi stragiudiziali ha costretto a rimeditare sulla specificazione del termine esecuzione e ha imposto di concludere che il termine esecuzione si riferisce non al provv giurisdizionale, ma al dir sostanziale. Non avrebbe senso parlare di esecuzione della cambiale, o di esecuzione della scrittura privata, o dell’atto notarile. Si può parlare di un’esecuzione in base alla sentenza, ma non di esecuzione della sentenza. Se si guarda il c.p.p., si trova che la parte relativa all'esecuzione forzata è intitolata come esecuzione delle sentenze. E nel proc ammin l'esecuzione forzata si chiama esecuzione del giudicato. L’esistenza dei tit esecutivi stragiudiziali ha consentito di mettere a fuoco i rapp tra tit ed esecuzione, e di rendersi conto che il tit esecutivo è la fattispecie che consente lo svolgimento dell’esecuzione forzata, ne costituisce un presupposto processuale specifico, e non è l'oggetto dell’esecuzione, l’elemento che dev’essere preso in considerazione per affrontare i vari problemi che sorgono in tema di esecuzione forzata. L’attenzione va concentrata sulla tutela esecutiva del dir sostanziale, consentita dal e non misurata sul tit esecutivo. Il rapp tra il tit esecutivo ed il dir da tutelare è il rapp tra la fattispecie che rende possibile lo svolgimento dell'esecuzione forzata e l'oggetto dell'esecuzione stessa. L'aver riportato l’oggetto dell’esecuzione all'attuazione non del provv del giudice ma del dir sostanziale è determinante, perché la struttura del proc esecutivo si deve adattare al tipo di dir che si vuole tutelare, e non al tipo di provv che funge da presupposto. L'attenzione va portata sulla situazione sostanziale, perché è questa determinante per stabilire che cosa si deve, che cosa si può, e che cosa non si può o non si deve fare all'interno dell'esecuzione forzata, e non sul fatto che tit esecutivo sia un provv del giudice, o una cambiale, o un atto notarile. Il tit esecutivo costituisce il presupposto, non l’oggetto dell’attuazione esecutiva; quindi non al provv, ma al dir occorre rifarsi per stabilire come deve atteggiarsi la tutela esecutiva: se cambia il presupposto, ma resta immutato il dir da tutelare, l’esecuzione forzata rimane sempre la stessa. Al contrario, se è identico il presupposto, ma muta il dir da tutelare, l'esecuzione forzata è diversa. Ciò porta ad un’altra considerazione: l'esistenza del tit esecutivo è condizione sufficiente per la tutela esecutiva. La fattispecie prevista dall'art. 474 c.p.c. produce da sola l’effetto giuridico che il titolare della situazione sostanziale, descritta nel tit esecutivo, ha il dir di rivolgersi all'uff esecutivo e l’uff esecutivo ha il dovere di porre in essere la propria attività, di svolgere la propria funz a tutela della situazione sostanziale indicata nel tit. Il tit esecutivo è condizione sufficiente per la tutela esecutiva, e chi ha suo favore il tit esecutivo ha dir a pretendere l’intervento giurisdizionale. L'effetto di natura processuale (cioè il dir all'intervento dell'uff esecutivo ed il dovere dell'uff esecutivo di attivarsi) scaturisce solo dal tit esecutivo; tuttavia l’esistenza di questo effetto processuale non incide sulla liceità dell’esecuzione forzata sul piano del dir sostanziale. Non è sufficiente che sussista 10 del dir; o se e quando l'avente dir può utilizzare il tit esecutivo contro un soggetto diverso da quello individuato nello stesso tit come obbligato; o se e quando ci può essere una variazione sia dal lato del creditore che del debitore. Molte sono le norme che prevedono che un certo atto è efficace verso soggetti diversi da quelli individuati nell’atto. Queste norme non sono idonee a risolvere il problema, perché prevedono, sì, che i provv hanno effetti verso certi terzi, ma non anche che costituiscono tit esecutivo verso questi terzi. Si potrebbe anche intendere che ai terzi è estesa solo l’efficacia dichiarativa della sentenza e non anche l’efficacia esecutiva della stessa. La distinzione fra efficacia preclusiva (o di accertamento) ed efficacia esecutiva è possibile. L’efficacia propria della sentenza è quella dichiarativa: l’efficacia esecutiva è disomogenea rispetto all'efficacia di accertamento. Non si può fondare l’efficacia del tit esecutivo verso i terzi sulle norme che prevedono l’efficacia dell’atto verso i terzi, ma bisogna ricorrere alle norme che prevedono specificamente l'efficacia del tit esecutivo nei confronti di determinati terzi, per ricavare un princ generale che consenta di dare, alle ipotesi non espressamente contemplate, una disciplina ricavata in via analogica dalle norme. Constatare che l'atto (che funge da tit esecutivo) è efficace verso certi terzi non vuol dire necessariamente che esso sia utilizzabile come tit esecutivo da e contro questi terzi. Bisogna prendere in esame le norme che trattano espressamente di efficacia del tit esecutivo verso i terzi e vedere se è possibile trarre da queste un princ generale da applicare ai casi in cui non è prevista espressamente tale efficacia esecutiva, casi che presentano la stessa ratio di quelli regolati. Art. 475, II c.p.c.: la spedizione del tit in forma esecutiva è possibile anche a favore di soggetti, non individuati nel tit come creditori, che siano successori dell’avente dir. L’efficacia del tit esecutivo a favore dei successori non è espressamente prevista nella norma, ma è da essa presupposta, quando dispone che il successore può farsi rilasciare il tit esecutivo in senso documentale. Si è certi di avere individuato un'ipotesi di efficacia del tit esecutivo a favore di terzi per un duplice motivo: da un punto di vista strutturale, in virtù delle caratteristiche secondarie del tit esecutivo in senso documentale rispetto a quello in senso sostanziale (il primo rappresenta documentalmente il secondo); e da un punto di vista funzionale, poiché non ha senso che il successore si possa far rilasciare il tit esecutivo in senso documentale, se non lo può utilizzare. La successione nel dir porta alla nascita, a favore dell'avente causa, di un dir diverso oggettivamente e soggettivamente da quello del dante causa, ma a questo connesso per pregiudizialità-dipendenza. Sul piano sostanziale esiste il dir pregiudiziale del dante causa; viene in essere una successione; un dir, diverso ma dipendente, sorge in capo all'avente causa. Dall'art. 475, II c.p.c. si ricava che, insieme alla successione nel dir sostanziale, si ha successione anche nel dir processuale alla tutela esecutiva, che spettava al dante causa. La successione si definisce come quel fenomeno in virtù del quale gli effetti prodottisi in relazione ad un’entità giuridica si mantengono anche in relazione ad un’altra entità giuridica: la situazione sostanziale dipendente mantiene integre le caratteristiche che aveva la situazione pregiudiziale. La situazione del successore, oggettivamente diversa da quella del dante causa ma connessa per pregiudizialità-dipendenza con quest’ultima, acquista la tutelabilità esecutiva che aveva la situazione pregiudiziale. Poiché la successione è avvenuta dopo la formazione dell’atto-tit esecutivo, l’atto in questione ha, nei confronti del successore, e relativamente al modo di essere del dir pregiudiziale, gli stessi effetti preclusivi che ha verso il dante causa. Il dir pregiudiziale è accertato dall'atto con identica efficacia sia nei confronti del dante causa che nei confronti del suo successore. Le stesse difese ed eccezioni che ha l’uno contro l’atto, le ha anche l'altro. L'efficacia preclusiva riguarda il solo dir pregiudiziale, non anche il dir dipendente. La cambiale emessa a favore di uno ha ad oggetto il dir di questo, non il dir dell'erede. Il tit esecutivo utilizzato dal successore si caratterizza non solo e non tanto perché in esso il successore non è indicato come creditore, quanto perché il dir del successore, oggetto dell’esecuzione, è diverso da quello del de cuius, oggetto del tit esecutivo. Il tit esecutivo è utilizzato per la tutela esecutiva di un dir oggettivamente diverso da quello consacrato nel tit stesso, dir che è connesso a quello di cui al tit per pregiudizialità-dipendenza. Dall’art. 475 c.p.c. si ricava che il tit esecutivo, esistente a favore di Tizio per il dir X, è utilizzabile da Sempronio per il dir Y quando fra X e Y vi è un rapp di pregiudizialità- dipendenza, e l’esistenza del dir X è accertata dall’atto-tit esecutivo, nei confronti di Sempronio, con efficacia preclusiva identica a quella che tale atto ha nei confronti di Tizio. Il successore non ha obbligo di dimostrare al soggetto che deve spedire il tit in forma esecutiva, la sua qualità di successore, cioè l'effettiva esistenza del fatto successorio. La tutela contro i falsi successori, che hanno ottenuto la copia esecutiva affermando esistente una successione che in realtà non si è verificata, è data dall'opposizione all'esecuzione, che può proporre chi si vede minacciata l’esecuzione da un falso successore. L'efficacia, a favore del successore, del tit esecutivo formatosi a favore del dante causa ha la funz di evitare la necessità di instaurare un proc di cognizione nei confronti del debitore, al solo fine di accertare l’esistenza della successione: ciò che è superfluo, se il debitore non la contesta. Lo scopo è di evitare un proc di cognizione che potrebbe essere inutile, e che diviene necessario solo se l’esecutato contesta l'esistenza della successione. L’ord si trova di fronte ad un’alternativa, da un lato, se nega l'efficacia, a favore del successore, del tit esecutivo esistente a favore del dante causa, rende inevitabile l’instaurazione di un proc di cognizione fra avente causa e debitore, al solo fine di formare un tit esecutivo diretto fra costoro. In tale proc di cognizione vi sarebbe solo da accertare l'effettiva esistenza del fatto successorio, in quanto l'altro elemento della fattispecie del dir oggetto del proc (cioè l’esistenza del dir pregiudiziale) è contenuto nell'atto-tit esecutivo, che è efficace nei confronti del successore. Dall’altro lato, se l’ord afferma l'efficacia, a favore del successore, del tit esecutivo esistente a favore del dante causa, rende concreto il rischio che l’esecuzione sia iniziata da chi non è effettivamente un successore. Di fronte a tali rischi contrapposti -necessità di un proc di cognizione; possibilità che il tit esecutivo sia utilizzato da chi non è successore- il ns ord 11 sceglie il secondo, rimettendo l’iniziativa dell’accertamento della qualità di successore all'eventuale contestazione dell’esecutato. Se l'esecutato non si oppone, non c’è contestazione e viene evitato un proc di cognizione che sarebbe stato inutile, perché non sarebbe intervenuto a risolvere alcuna controversia. Nell’eventuale proc di opposizione spetta al creditore dimostrare ciò che ha affermato al momento in cui ha chiesto la spedizione del tit esecutivo: e cioè la sua qualità di successore di colui che risulta creditore secondo il tit esecutivo. Sulla base dell’art. 477 c.p.c., il tit esecutivo contro il de cuius ha efficacia contro gli eredi. Sul piano sostanziale si ha una situazione analoga, ma rovesciata, rispetto a quella prevista dall’art. 475 c.p.c.: si ha la successione nell’obbligo. L'erede è titolare di un obbligo connesso per pregiudizialità-dipendenza con l'obbligo del de cuius. L'art. 477 c.p.c. non impone al creditore di provare che l'esecutato è effettivamente l’erede. È sufficiente che colui che vuole procedere ad esecuzione forzata, affermi che l’esecutato è l’erede di colui che risulta debitore secondo il tit esecutivo. Eventuali false dich del creditore sono fronteggiabili dall'esecutato con l’opposizione all'esecuzione e l’onere della prova della qualità di erede è a carico di chi procede ad esecuzione forzata. La funz della norma è quella di evitare al creditore la necessità di instaurare un proc di cognizione per far accertare la qualità di erede dell'esecutato. Sarebbe un proc inutile se l'esecutato non contestasse la propria qualità di erede; diviene necessario solo se la contestazione è effettuata. Un accertamento preventivo costituirebbe un’inutile spendita di attività, ed una perdita di tempo, perché sarebbe rivolto ad accertare qualcosa che potrebbe non essere contestata. Al contrario dell'art. 475 c.p.c., che ricomprende qualsiasi ipotesi di successione, l’art. 477 c.p.c. prevede non qualunque ipotesi in cui si crea un nesso di dipendenza tra l'obbligo contemplato nel tit esecutivo e l’obbligo di cui è titolare il terzo, contro il quale il tit esecutivo viene utilizzato e che diviene oggetto dell'esecuzione, ma solo una delle tante ipotesi che generano tale dipendenza: la successione a tit universale. Ma la previsione dell’art. 477 c.p.c. è estensibile analogicamente a tutte le altre ipotesi di successione, in quanto sussiste la stessa ratio. La relazione esistente fra l’obbligo pregiudiziale di cui al tit esecutivo e quello dipendente del terzo è identica vuoi nell'ipotesi di successione universale vuoi in tutte le altre ipotesi di successione a tit particolare negli obblighi. Se si concentra l’attenzione sul singolo obbligo, rispetto al quale si verifica la successione, si riscontra che non c'è alcuna diversità tra una successione a tit universale (che si caratterizza per avere come potenziale oggetto tutta una serie di rapp, tra i quali anche quello contenuto nel tit esecutivo) e qualunque altra ipotesi di successione nell’obbligo. Sia nell’uno che nell'altro caso l’obbligo pregiudiziale è un elemento della fattispecie costitutiva dell’obbligo dipendente. È vero che l'erede, insieme all’obbligo consacrato nel tit esecutivo, succede in tutti gli altri obblighi del de cuius. Ma ciò è irrilevante quando si concentra l’attenzione su quel singolo obbligo consacrato nel tit esecutivo: rispetto a quel singolo obbligo il nesso che sussiste tra la situazione pregiudiziale e la situazione dipendente è lo stesso, vuoi che la successione dell’obbligo avvenga solitaria, a tit particolare, vuoi che sia una delle varie successioni che si verificano contemporaneamente tra il de cuius e l’erede. La differenze tra la successione universale e la successione a tit particolare non sono rilevanti per ciò che attiene alle relazioni di natura sostanziale esistenti fra l’obbligo pregiudiziale e l’obbligo dipendente. Poiché la successione ereditaria da luogo, sotto tutti i profili rilevanti, ad un fenomeno analogo alle altre ipotesi in cui si verifica la nascita di un obbligo dipendente da quello consacrato nel tit, niente osta ad estendere la disciplina dell’art. 477 c.p.c., al di là dell'ipotesi espressamente prevista, ai casi in cui si verifica lo stesso fenomeno sostanziale, cioè la nascita di un obbligo dipendente: a condizione che l’atto, che funge da tit esecutivo, sia efficace nei confronti del titolare dell’obbligo dipendente. Il tit esecutivo è utilizzabile da o contro un terzo quando costui è titolare di un dir o di un obbligo dipendenti da quelli contenuti nel tit esecutivo; ciò a condizione che l'atto, che funge da tit esecutivo, abbia verso il titolare della situazione dipendente e con riferimento alla situazione pregiudiziale, gli stessi effetti che ha nei confronti del dante causa. L’art. 2909 c.c. si applica quando è pronunziata una sentenza di condanna ed il terzo, dopo il passaggio in giudicato della stessa, diviene titolare di un dir o di un obbligo dipendenti da quello oggetto nella pronunzia. L'art. 111 c.p.c. si applica quando lo stesso tipo di successione ha luogo nel corso del proc. In virtù dell’art. 1595 c.c., la sentenza pronunciata fra locatore e conduttore ha effetti anche contro il sub-conduttore. Un’altra ipotesi è quella del socio illimitatamente responsabile di società di persone. Poiché la sentenza che accerta l’esistenza di un obbligo sociale è vincolante nei confronti del socio, il tit esecutivo formato nei confronti della società consente di procedere ad esecuzione forzata anche nei confronti del socio illimitatamente responsabile. Un’ulteriore fattispecie è data dall’art. 2495 c.c., in virtù del quale, dopo la cancellazione della società, i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione. Se al momento della cancellazione un creditore aveva un tit esecutivo contro la società cancellata, può utilizzarlo contro i singoli soci. L’efficacia del tit esecutivo a favore e contro terzi costituisce un'ulteriore ipotesi di non coincidenza fra tit esecutivo in senso sostanziale e tit esecutivo in senso documentale. Nei casi in cui l’esecuzione a favore o contro terzi è consentita dall’ord, dal tit esecutivo in senso documentale utilizzato non risulta che il terzo, il quale pretende di utilizzare, o contro il quale si pretende di utilizzare il tit, è effettivamente successore, e non risulta l'esistenza del dir che si vuole vedere tutelato con l’esecuzione. Quando l'erede del creditore usa il tit esecutivo esistente a nome del deceduto, oggetto del tit esecutivo in senso documentale è il credito pregiudiziale del de cuius, ma la situazione sostanziale, oggetto dell’esecuzione e della quale l’erede chiede la tutela, è il suo dir, e non quello del dante causa. Il tit esecutivo in senso documentale contiene la rappresentazione di una situazione sostanziale che sta a monte di quella oggetto dell’esecuzione. L’efficacia del tit esecutivo a favore e contro terzi non comporta 12 problemi di dir di difesa e contraddittorio, come invece l'efficacia della sentenza verso terzi. L’efficacia della sentenza verso terzi dev’essere rapportata al rispetto del dir di difesa, perché vincolare al contenuto della sentenza un soggetto, che non è stato parte del proc di formazione della sentenza stessa, costituisce lesione del princ del contraddittorio: nessuno può essere vincolato ad un provv emesso senza che egli si sia potuto difendere. Nel caso dell'efficacia verso i terzi del tit esecutivo questo non accade, perché ciò che consegue a tale efficacia è la possibilità che un soggetto, estraneo al proced di formazione del tit esecutivo, possa usare, o contro di lui possa essere usato, tale tit esecutivo. Ma ciò non incide sul dir di difesa, perché l’esecutato ha gli strumenti idonei per contestare la pretesa efficacia ultra partes del tit esecutivo, con onere della prova a carico di chi afferma la sussistenza di tale efficacia. Non c’è mai il vincolo dell’esecutato alle affermazioni del creditore procedente; ci può essere una sorta di provocatio ad probandum da parte dell'esecutato, che può richiedere l’accertamento dell'effettiva sussistenza delle condizioni previste dagli artt. 475 e 477 c.p.c., con l’opposizione all’esecuzione, che apre un ordinario proc di cognizione, e con onere della prova a carico dell’istante. Ne consegue che il legislatore è libero nel creare ipotesi di efficacia del tit esecutivo verso terzi, mentre non è libero nel creare ipotesi di efficacia della sentenza verso terzi. Rispetto a tale secondo fenomeno, egli è frenato dall'art. 24 Cost e può vincolare i terzi agli effetti della sentenza solo se ciò non contrasta con l'art. 24 Cost. Nel primo caso il legislatore è libero di articolare l’efficacia soggettiva del tit esecutivo come meglio crede, trattandosi di una scelta di opportunità che non è vincolata da princ cost. CAP. 7 – Notificazione del titolo esecutivo e del precetto (pp. 50 – 53) Secondo l’art. 479 c.p.c., il tit esecutivo in senso documentale dev’essere notificato all'esecutando prima dell’inizio dell’esecuzione forzata. Contestualmente o successivamente deve essergli notificato anche il precetto, atto disciplinato dall’art. 480 c.p.c. Il precetto è definito come l’intimazione ad adempiere all'obbligo risultante dal tit esecutivo in un termine non inferiore ai 10gg, salvo che ai sensi dell'art. 482 c.p.c. sia autorizzato l’inizio immediato dell'esecuzione, con esonero dal rispetto di tale termine. Col precetto si intima all’esecutato di adempiere in un determinato termine avvertendolo che, in mancanza dell’adempimento, si procederà all’esecuzione forzata. Un elemento essenziale del precetto è l'indicazione delle parti del proc esecutivo. Normalmente queste sono i soggetti che risultano dal tit esecutivo in senso documentale ma, quando si verificano le ipotesi degli artt. 475 e 477 c.p.c., possono essere anche soggetti diversi. Se il tit esecutivo è usato da o contro un terzo, le parti individuate nel precetto devono essere quelle nei cui confronti si svolgerà il proc esecutivo. Non è possibile intimare il precetto a un morto: il precetto dev’essere fatto all’erede, nonostante il tit esecutivo porti il nome del de cuius. Il precetto costituisce la necessaria attualizzazione del tit esecutivo in senso documentale: eventuali divergenze fra tit esecutivo documentale e tit esecutivo sostanziale devono essere esplicitate nel precetto. La realtà consacrata nel tit esecutivo documentale dev’essere attualizzata nel precetto per tutti i mutamenti che si sono avuti tra la formazione del tit e l'esecuzione forzata. Anche dal punto di vista oggettivo il precetto costituisce l'attualizzazione del tit esecutivo. L’art. 480 c.p.c. stabilisce che l'intimazione, di cui al precetto, deve riguardare l’adempimento di obblighi risultanti dal tit esecutivo. È possibile che il tit esecutivo in senso documentale debba essere integrato da elementi estranei ad essa. Per quanto riguarda l’individuazione dei beni che saranno sottoposti a esecuzione, bisogna distinguere. Se al precetto segue un'esecuzione per consegna o rilascio o per obblighi di fare, bisogna identificare i beni oggetto dell’esecuzione, beni che sono individuati nel tit esecutivo (salva l'eventuale attualizzazione del contenuto del tit). Se al precetto segue un'espropriazione, è necessario individuare il credito tutelato, ma non i beni che saranno pignorati. L'art. 480 c.p.c. prevede che nel precetto sia contenuta l'indicazione della data di notificazione del tit esecutivo, sempre che il tit esecutivo sia stato notificato separatamente. Il precetto deve contenere la dich di residenza o l’elezione di domicilio della parte istante nel comune in cui ha sede il giudice competente per l’esecuzione. La sottoscrizione del precetto è l'ultimo elemento. È sufficiente anche la sottoscrizione personale del creditore, e non è necessaria quella del procuratore legale. Non c’è, in questa fase, obbligo di difesa tecnica, che scatta con l’inizio dell'esecuzione forzata. Un’eccezione all’obbligo di notificare il tit esecutivo, ed una conseguente modificazione del contenuto del precetto, sono previste per i tit esecutivi documentali che vengono utilizzati in originale, e non in copia esecutiva. Si tratta delle scritture private autenticare (che non siano depositate presso il pubblico ufficiale che le ha autenticate), degli accordi raggiunti in sede di mediazione e di negoziazione assistita, e dei tit di credito. In questi casi, non è possibile notificare il tit esecutivo originale, e il legislatore prevede che tale notificazione sia effettuata mediante la trascrizione del tit esecutivo nel precetto. Il precetto è un atto del proc esecutivo, anche se anteriore all’inizio dell’esecuzione forzata. L'inizio del proc esecutivo non coincide con l'inizio dell’esecuzione forzata. L'art. 617 c.p.c., che regola uno dei possibili proc di cognizione incidentali al proc esecutivo, dispone, nel disciplinare l’opposizione agli atti esecutivi, che tale opposizione è proponibile in relazione al tit esecutivo ed al precetto, così come a tutti gli altri atti del proc esecutivo. La norma, equiparando il tit esecutivo in senso documentale e il precetto a tutti gli altri atti del proc esecutivo, consente di qualificare il precetto come un atto del proc esecutivo anteriore all'inizio dell’esecuzione forzata: da ciò si ricava che il proc esecutivo inizia prima dell'esecuzione forzata. Il precetto ha la funz della domanda giudiziale: esso individua il dir di cui si richiede la tutela esecutiva. Come atto, che ha la stessa funz che nel proc di cognizione hanno la citazione o il ricorso, anche il precetto produce gli effetti sostanziali della domanda giudiziale: l’impedimento della decadenza, l’interruzione e la sospensione della prescrizione, ecc. Rispetto alla 15 nullità dei singoli atti può essere posta dall'uff esecutivo a fondamento del suo rifiuto di provvedere solo se la l. prevede che tale nullità possa essere rilevata d'uff, o se essa è stata tempestivamente eccepita dalla parte che aveva il pot di farlo. Nel proc dichiarativo, quando viene sollevata una questione relativa alla nullità formale o extra-formale di un atto, essendo il proc strutturato in modo tale da poter decidere della questione, il giudice la decide con lo stesso provv con cui decide il merito della controversia. La cognizione dell'uff esecutivo che esamina la sussistenza dei presupposti per la sua attività e la carenza di un presupposto processuale o la nullità dei singoli atti, non ha natura decisoria e l’esito di tale ricognizione non può intendersi come dec della questione: la ricognizione è strumentale a stabilire se emettere o meno la misura esecutiva. L’esito dell’esame è o l’emanazione della misura esecutiva (se l'uff ritiene che la nullità non vi sia) o il rifiuto dell'emanazione della misura esecutiva (se l’uff ritiene che la nullità vi sia). Nel proc dichiarativo, le questioni di rito sono decise; nel proc esecutivo vengono delibate per orientare l’az dell'uff esecutivo, senza che ciò costituisca attività decisoria, perché il proc non ha una struttura idonea a decidere. Occorre che vi sia uno strumento per decidere le contestazioni relative alla correttezza dell’operato dell'uff esecutivo. L’ord offre come strumento l'opposizione agli atti del proc esecutivo, cioè un proc di cognizione che ha come oggetto l'accertamento della validità dell’atto esecutivo e nel quale sono decise quelle questioni che nel proc esecutivo sono state affrontate per stabilire se emettere o meno la misura esecutiva. La delibazione dell’uff esecutivo sbocca in un atto che pone in essere la misura esecutiva o la rifiuta, e che può essere contestato dalle parti interessate attraverso l’opposizione agli atti esecutivi. Si apre così un proc dichiarativo, dove si discute della validità dell'atto esecutivo, e si decide la questione che è stata delibata, in via incidentale, dall'uff esecutivo. L'uff esecutivo non ha mai il pot di valutare l'esistenza della situazione sostanziale di cui si chiede la tutela, perché lo scopo del proc esecutivo non è quello di accertare, ma di compiere l'attività necessaria per tutelare il dir, che viene presupposto come esistente. L’esecutato non può sollevare, all’interno del proc esecutivo, contestazioni circa l'esistenza di tale dir, ma lo deve fare, fuori del proc esecutivo, proponendo opposizione all'esecuzione. Rimane il problema se l'uff esecutivo deve accertare la sussistenza di un tit esecutivo in senso sostanziale. Secondo la soluzione che appare preferibile, l'uff esecutivo (salve le eccezioni previste dalla l.) non ha il pot di rilevare d’uff l’inesistenza del tit esecutivo in senso sostanziale; per l'uff esecutivo rileva solo il tit esecutivo in senso documentale e non sono rilevabili d’uff tutti i fatti modificativi ed estintivi dell’efficacia esecutiva del tit. Uno dei possibili oggetti dell’opposizione all’esecuzione -oltre all’inesistenza del dir sostanziale di cui si chiede la tutela esecutiva- è costituito dall'inesistenza del tit esecutivo in senso sostanziale. L’esecutato può aprire un incidente di cognizione, se l'esecuzione viene iniziata o proseguita in carenza di un tit esecutivo in senso sostanziale (cioè del dir di procedere ad esecuzione forzata). Tale opposizione può essere proposta solo dall'esecutato e non dal creditore procedente o dalle altre parti del proc esecutivo. Aderendo alla soluzione, che afferma rilevabile d'uff la sopravvenuta carenza del tit esecutivo in senso sostanziale, l'uff esecutivo, qualora ritenga che il tit esecutivo in senso sostanziale sia venuto meno, dovrebbe rifiutare di procedere oltre. Il creditore procedente dovrebbe contestare la dec dell’uff con l'opposizione agli atti esecutivi, e la questione -sussistenza del tit esecutivo in senso sostanziale- sarebbe oggetto di due proc di cognizione a seconda del dato che l’uff esecutivo ritenga esistente o inesistente il dir di procedere ad esecuzione forzata. Se lo ritiene esistente, emette la misura esecutiva, e l’esecutato propone un'opposizione all'esecuzione; se lo ritiene inesistente, rifiuta la misura esecutiva, ed il procedente propone opposizione agli atti esecutivi. Se si ritiene che la carenza del tit esecutivo in senso sostanziale non è rilevabile dall’uff esecutivo, il quale si deve attenere solo al tit esecutivo in senso documentale, si arriva al risultato che: di fronte alla richiesta del procedente, l'uff esecutivo deve procedere, ma l’esecutato può proporre l'opposizione all'esecuzione, instaurando un proc di cognizione idoneo a decidere sulla questione dell’esistenza o meno del tit esecutivo in senso sostanziale. L’inconveniente non si verifica qualora si ritenga che le questioni, attinenti all’esistenza del dir a procedere ad esecuzione forzata, siano oggetto dell’opposizione agli atti esecutivi. In tal caso, niente osterebbe a riconoscere all’uff esecutivo anche il pot di valutare la sussistenza del tit esecutivo in senso sostanziale. In tal caso lo strumento per contestare la correttezza dell'operato dell'uff esecutivo sarebbe l’opposizione agli atti esecutivi, proponibile alternativamente dal creditore, se l’uff rifiuta di compiere l’atto; dall’esecutato, se l’uff compie l'atto. Questa seconda alternativa non è accettata dalla giurisprudenza la quale si infila in un garbuglio inestricabile in quanto: a) ritiene rilevabile d’uff la carenza di tit esecutivo, e afferma che il giudice dell’esecuzione può per tale motivo fermare il proc esecutivo e che avverso tale provv il creditore può proporre opposizione agli atti esecutivi; b) qualora il giudice dell'esecuzione non fermi il proc esecutivo, afferma che il debitore esecutato debba proporre opposizione all'esecuzione. Sussiste una contraddizione insanabile: la carenza di tit esecutivo o è motivo di opposizione all’esecuzione o è motivo di opposizione agli atti esecutivi. Non può essere o l’uno o l'altro a seconda di chi prende l’iniziativa di proporre l'opposizione. Nel proc esecutivo non ci si chiede se esiste la situazione sostanziale oggetto della tutela esecutiva, perché si parte dal presupposto che tale situazione esista; quindi nel proc esecutivo sono rilevanti solo le questioni relative al come tutelare la situazione sostanziale, la cui esistenza è data per scontata. Ciò non significa che all’interno del proc esecutivo non sia attuato il princ del contraddittorio, e che non sia rispettato il dir di difesa previsti dagli artt. 24 e 111 Cost. Parte della dottrina nega che nel proc esecutivo abbia vigore il princ del contraddittorio. Si sostiene che non vi sarebbe spazio per tale princ, in quanto il proc esecutivo è immune da tutte le questioni attinenti all’esistenza della situazione sostanziale da tutelare; si ricollega così il princ del contraddittorio ad un proc in cui si discuta di 16 un dir per accertarne l’esistenza. Altra parte della dottrina ritiene sussistente il princ del contraddittorio solo dove vi sia una controversia sull’esistenza di una situazione sostanziale, il che significa ricollegare tale princ ad una nozione troppo ristretta di intervento giurisdizionale, dimenticando che gli artt. 24 e 111 Cost sono norme che non si applicano solo laddove vi sia da decidere una controversia, o di statuire circa i comportamenti leciti o doverosi delle parti. Gli artt. 24 e 111 Cost si ricollegano a tutti gli interventi giurisdizionali, anche a quelli che non hanno funz dichiarativa. Il princ del contraddittorio ha senso perché i soggetti, che verranno incisi dagli effetti della misura giurisdizionale, hanno il dir di partecipare alla fase di ricognizione dei presupposti per stabilire se la misura giurisdizionale richiesta dev’essere emessa, che contenuto deve avere, ecc; il princ del contraddittorio è rispettato quando gli interessati hanno la possibilità di partecipare, in condizione parità, all’attività con la quale l’organo giurisdizionale raccoglie il materiale che serve per stabilire che cosa fare, in modo che ciascuno possa convincere il soggetto, investito del pot giurisdizionale, della bontà delle proprie affermazioni, così che la misura sia emessa con un certo contenuto o con altro. Il princ del contraddittorio ha senso quando le parti possono collaborare a raccogliere ciò che è rilevante per l'emanazione della misura giurisdizionale. Ciò che serve per l'emanazione della misura giurisdizionale dipende dal tipo di intervento giurisdizionale che è stato richiesto. Se si chiede una statuizione sui dir e obblighi delle parti, nella fase precedente all'emanazione della sentenza è raccolto tutto ciò che serve per accertare quale sia, sul piano del dir sostanziale, la realtà esistente fra le parti, di modo che sia consequenziale il contenuto di merito che il giudice deve dare alla sua sentenza. Anche nel proc esecutivo l’uff esecutivo deve procedere alla raccolta di tutto quanto serve per decidere se emettere o meno la misura giurisdizionale, o quale contenuto dare alla stessa; anche nel proc esecutivo vi è una cognizione dell'uff esecutivo, che è, come nel proc dichiarativo, finalizzata a stabilire se emettere o meno, o che contenuto dare ad un provv esecutivo. Il princ del contraddittorio nel proc esecutivo si esplica consentendo alle parti di contribuire, in parità, alla raccolta di ciò che è rilevante per l’emanazione della misura esecutiva. È assurdo negare che nel proc esecutivo si attui il princ del contraddittorio, perché le parti non possono interloquire su qualcosa che è irrilevante per l'emanazione della misura esecutiva: l'esistenza del dir sostanziale di cui si chiede la tutela. Non avrebbe senso pretendere, per ritenere rispettato il princ del contraddittorio, che le parti possano discutere se il dir è prescritto, o se è stato soddisfatto. Per l’ufficiale giudiziario che il dir sia estinto è irrilevante ai fini del compimento della loro attività. Per ritenere rispettato il princ del contraddittorio, è necessario che le parti possano interloquire su ciò che è rilevante per l’attività dell’uff esecutivo. Il princ del contraddittorio garantisce il dir di difesa rispetto a ciò che serve, non rispetto a ciò che non serve in vista dell’emanazione del provv giurisdizionale. Negare la vigenza del princ del contraddittorio, perché all'interno del proc esecutivo non si discute di ciò che è irrilevante nel proc esecutivo stesso, sarebbe come negare che viga il princ del contraddittorio nel proc dichiarativo perché non si discute di come tutelare esecutivamente la situazione sostanziale accertata all’interno del proc stesso; sarebbe come dire che non c’è contraddittorio di fronte al giudice della cognizione, perché poi il modo con cui tutelare esecutivamente il dir, che il giudice accerta, non è una questione oggetto di possibile discussione. All’interno del proc esecutivo si deve stabilire quali sono le attività da compiere per impartire la tutela; è in relazione al compimento di tali attività che occorre garantire alle parti il dir di interloquire in parità nei confronti del giudice. In virtù degli artt. 485-487 c.p.c., che regolano le domande e le istanze che si propongono al giudice dell’esecuzione e i provv del giudice, l’ord prevede che l’uff esecutivo debba sentire le parti prima di emettere la misura; sentire le parti vuol dire instaurare il contraddittorio circa le modalità con cui il proc esecutivo deve andare avanti. Ciascuna delle parti può cercare di convincere il giudice ad emettere o no una misura esecutiva, o a darle un contenuto invece che un altro. L’audizione delle parti avviene avvertendole della fissazione della relativa ud da parte del giudice. Il giudice fissa l'ud, disponendo la comparizione delle parti, ed il provv è comunicato alle parti interessate. L'art. 485 c.p.c. stabilisce che, se risulta che una delle parti avvertite non è comparsa all'ud per cause indipendenti della sua volontà, il giudice fissa una nuova ud e dispone che il provv di fissazione della nuova ud sia comunicato alla parte non comparsa. Sussistono tutti i requisiti per il rispetto del princ del contraddittorio: il giudice fissa l’ud per sentire le parti; il provv viene comunicato alle parti; se il giudice accerta che una delle parti non è potuta comparire all’ud, deve fissarne un'altra. L’art. 486 c.p.c. dispone che le domande delle parti si propongono con ricorso da depositare in cancelleria o oralmente, nel verbale d’ud. Non vi è alcuna posizione privilegiata del creditore rispetto al debitore. Qualcuno ha ritenuto che il creditore abbia posizione preminente rispetto all'esecutato, perché l’esecuzione è a senso unico, cioè tutela il solo creditore. L’equivoco sta nell’assolutizzare le caratteristiche del proc di cognizione. Nel proc dichiarativo, se si giunge a una pronuncia di merito, tale pronuncia può essere favorevole sia all'attore sia al convenuto. Ma questa è una caratteristica specifica del proc di cognizione, non è una caratteristica assoluta, tale da far concludere che, ove essa non si realizzi, non c’è contraddittorio perché le parti non sono sul piede di parità. Per quanto riguarda il proc esecutivo, è vero che, se esso ha luogo, produce effetti a favore di una sola delle parti; però è anche vero che, escludendo dall’ambito del proc esecutivo ciò che è irrilevante, cioè l’esistenza del dir da tutelare, per tutto quanto riguarda gli elementi rilevanti per il suo svolgimento, il creditore non ha più pot del debitore; quando si tratta di convincere l'uff esecutivo a compiere o non compiere una certa attività, la parola del creditore non è più attendibile di quella del debitore. Nel discutere di ciò che è rilevante, le parti non sono in una posizione di squilibrio. Quindi le due obiezioni (la prima, secondo la quale nel proc esecutivo non si discute dell'esistenza del dir; la seconda, secondo la quale nel proc esecutivo le parti non sono su un piano di parità) alla vigenza del princ del contraddittorio 17 sono infondate. L’art. 487 c.p.c. prevede che i provv del giudice dell’esecuzione abbiano la forma dell'ordinanza, che può essere modificata o revocata fino a che non ha avuto esecuzione; una volta che sia stata eseguita, il giudice non può più modificarla. Gli uff giudiziari competenti per l’esecuzione forzata sono indicati dagli artt. 9 e 26 c.p.c. In senso verticale, per l’esecuzione forzata è sempre competente il trib. In senso orizzontale, territorialmente competente per l’espropriazione immobiliare e mobiliare è il giudice del luogo dove si trova il bene; per l’espropriazione presso terzi è competente il giudice del luogo dove risiede il terzo debitore; per l'esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare è competente il giudice del luogo dove l’obbligo dev’essere adempiuto; per l’esecuzione forzata per consegna e rilascio ritorna competente il giudice del luogo dove si trovano i beni. La competenza territoriale è inderogabile dalla volontà delle parti: le parti non possono accordarsi per far svolgere l’esecuzione da un giudice diverso da quello indicato dagli artt. 16 e 26 c.p.c. L'incompetenza è rilevabile anche d’uff non solo dal giudice, ma anche dall'ufficiale giudiziario. Da non confondersi con la competenza per l'esecuzione ex artt. 9 e 26 c.p.c. è la competenza per le cause di cognizione incidentali all’esecuzione, che sono proc di cognizione, la competenza per i quali è disciplinata dagli artt. 17 (competenza per valore) e 27 (competenza territoriale) c.p.c. Con la riforma del ‘90 è stata estesa anche al proc di fronte al trib la regola della monocraticità. Tutti i proc incidentali all’esecuzione forzata sono decisi dal giudice monocratico. L’uff esecutivo non è composto dal trib nel suo complesso, ma da uno o più giudici, ai quali vengono attribuite le mansioni di giudice dell'esecuzione. Anche il cancelliere fa parte dell’uff esecutivo. Assume un ruolo importante nel proc esecutivo l'ufficiale giudiziario che, in talune forme di esecuzione forzata, è l'unico soggetto a svolgere attività. Le mansioni affidate al giudice dell’esec e all'ufficiale giudiziario sono variabili a seconda dei vari proced. CAP. 9 – Espropriazione forzata (pp. 68 – 70) Il proc con cui si tutelano esecutivamente i crediti relativi a somme di denaro è l'espropriazione forzata, disciplinata dal tit II libro III. Il fondamento dell'espropriazione forzata non sta nel c.p.c., ma nel c.c., all’art. 2740, che va letto insieme all'art. 2910. In queste due norme, viste una dal punto di vista del debitore (art. 2740 c.c.) ed una del creditore (art. 2910 c.c.), sta il fondamento dell’espropriazione forzata, cioè la regola in virtù della quale i beni del debitore rispondono dell’adempimento delle obbligazioni e il creditore ha il pot di farli espropriare. La respons patrimoniale, di cui all’art. 2740 c.c., costituisce il fondamento di ogni forma di espropriazione forzata. Per poter concepire un princ come la respons patrimoniale, occorre affermare la prevalenza del credito sulla proprietà, e che i beni del debitore siano assoggettati al pot del creditore. Il secondo princ attiene al tipo di pot che il creditore ha sui beni del debitore. Ciò è chiarito dall’art. 2910 c.c., che è la norma speculare all’art. 2740 c.c. La norma non dice che il creditore può impadronirsi dei beni del creditore per soddisfare il suo dir: essa stabilisce che il creditore può far espropriare i beni del debitore, e non espropriare. Quindi il creditore non ha un dir sostanziale sui beni del debitore, bensì ha un dir processuale verso lo Stato, acciocché lo Stato eserciti il suo pot espropriativo nei confronti del debitore. Fra creditore, debitore e Stato si crea una triangolazione: 1) lo Stato ha verso il debitore il pot di espropriare; 2) il creditore ha verso lo Stato il dir processuale di ottenere che questo eserciti il pot di espropriare; 3) il creditore ha verso il debitore il dir sostanziale di credito. Il debitore risponde coi propri beni dei suoi debiti non nel senso che i beni non sono suoi, ma nel senso che essi sono soggetti al pot espropriativo dello Stato, che è esercitato quando lo richieda un creditore che ne ha dir. Il proc di espropriazione forzata è il più complesso di tutti, perché passa attraverso tre momenti indispensabili e non sostituibili. Il primo momento è costituito dall'individuazione e conservazione dell’elemento attivo del patrimonio del debitore. Quando l’art. 2740 c.c. stabilisce che il debitore risponde con tutti i suoi beni, non fa riferimento al bene materiale, ma al dir sul bene. Non è il bene nella sua materialità ciò che è oggetto dell’espropriazione forzata, ma il dir che il debitore ha su quel bene. Dalla garanzia generica si passa alla garanzia specifica: non più un generico dir su tutti quanti gli elementi attivi, ma uno specifico dir processuale del creditore su singoli ed individuati elementi attivi del patrimonio del debitore. La funz di individuare e conservare l’elemento attivo è svolta dal primo atto dell'espropriazione, che è il pignoramento. Il secondo momento è costituito dalla trasformazione del dir pignorato. L’elemento attivo, individuato e conservato, dev’essere liquidato, trasformato in una somma di denaro. Tale fase non è necessaria quando oggetto del pignoramento è (la proprietà del creditore su) una somma di denaro. In tal caso non c’è necessità di liquidare l’elemento attivo, che è già liquido. Il terzo momento è costituito dalla distribuzione del ricavato. Il dir del debitore, oggetto del pignoramento, è liquidato, cioè trasformato in una somma di denaro, e con tale somma si paga il creditore. L’ultima fase non è possibile quando non si realizza una liquidità; se la fase di liquidazione non dà un risultato utile, la fase di distribuzione del ricavato non può avere luogo. Il proc di espropriazione opera giuridicamente sull’elemento attivo del patrimonio del debitore, individuandolo, conservandolo, liquidandolo e distribuendo il ricavato al creditore. L’espropriazione è più complessa delle altre forme di tutela esecutiva, in quanto entrano in gioco due situazioni sostanziali: il dir del creditore da tutelare e il dir del debitore, l'elemento attivo del patrimonio del debitore che dev’essere individuato, conservato, liquidato. Alla fine del proc di espropriazione, se tutto è andato bene, il dir di credito viene soddisfatto, ed il dir del debitore, cioè l’elemento attivo del suo patrimonio, di cui prima dell’esecuzione egli era titolare, dopo l'esecuzione è nella titolarità di un terzo. Si ha il trasferimento di un elemento patrimoniale attivo dal debitore ad un terzo, e l’estinzione del dir di credito, a tutela del quale è stata posta in essere l'attività esecutiva. L’espropriazione opera su un duplice oggetto: trasferendo l'uno ed estinguendo l'altro. L’espropriazione si 20 direttamente di tale bene mobile. Ciò accade, ad es, per l’autovettura nella rimessa o per i valori nella cassetta di sicurezza della banca. c) La terza possibilità di pignoramento mobiliare diretto si ha quando l’ufficiale giudiziario sottopone a pignoramento le cose del debitore che il terzo possessore consente di esibirgli. Della cosa mobile il debitore non ha la disponibilità materiale, perché tale cosa mobile è nel possesso o detenzione di terzo, ad es, a tit di comodato, locazione, deposito. In questi casi le possibilità sono due: o il terzo riconosce che il bene posseduto è di proprietà del debitore e ne consente il pignoramento; o, se il terzo rifiuta il consenso al pignoramento diretto, diviene necessario ricorrere al pignoramento presso terzi, in quanto occorre accertare la proprietà del bene mobile in capo al debitore, nel contraddittorio del terzo detentore o possessore. Gli artt. 514-516 c.p.c. indicano una serie di cose mobili in relazione alla quale la pignorabilità è assolutamente (art. 514) o parzialmente esclusa (art. 515) o consentita in condizioni particolari di tempo (art. 516). Sono norme che riguardano beni di primaria necessità per il debitore e/o di scarso valore economico. Le questioni relative alla pignorabilità dei beni danno luogo a opposizione all'esecuzione. Il pignoramento mobiliare si svolge attraverso la ricerca dei beni mobili, nei luoghi previsti dall’art. 513 c.p.c., e nei limiti stabiliti dagli artt. 514-515-516 c.p.c., da parte dell'ufficiale giudiziario. Sono irrilevanti le eventuali affermazioni del debitore esecutato circa la non corrispondenza fra appartenenza e proprietà. Se anche il debitore afferma che i beni, che si trovano in quei determinati luoghi, non sono suoi, ciò non esime l’ufficiale giudiziario dal procedere ugualmente al pignoramento, tranne che il creditore, presente al pignoramento stesso, non decida di rinunciare, in quanto si convinca della fondatezza delle affermazioni del debitore. Quest'ultimo non è legittimato a far valere dir altrui. Spetta a chi si afferma proprietario dei beni pignorati tutelare il suo dir nella forma che il proc esecutivo prevede (l’opposizione di terzo). Ex art. 517 c.p.c. l’ufficiale giudiziario deve preferire i beni di maggior valore e di più sicura realizzazione (denaro, oggetti preziosi, tit di credito) e, al di fuori di tali beni, deve scegliere le cose che possono essere liquidate più facilmente. La quantità di beni pignorati deve corrispondente ad un presumibile valore di realizzo pari all'entità del credito indicato nel precetto, aumentato della metà. L’ufficiale giudiziario, man mano che individua i beni coi criteri dell'art. 517 c.p.c., li descrive, mediante rappresentazione fotografica o altro strumento simile, con l’assistenza di uno stimatore. È possibile il differimento delle sole operazioni di stima. L’ufficiale giudiziario effettua prima un pignoramento provvisorio; poi interviene lo stimatore, che ha la possibilità di accedere al luogo in cui si trovano i beni pignorati. Una volta effettuata la stima, sulla scorta dei risultati di questa l’ufficiale giudiziario procede al pignoramento definitivo. L’ufficiale giudiziario trasmette copia del verbale di pignoramento al creditore e al debitore che lo richiedono. L’art. 518 c.p.c. prevede la possibilità di procedere al completamento del pignoramento, quando lo richieda il creditore entro il termine per il deposito dell'istanza di vendita, e il giudice ritenga errato il valore di realizzo dei beni determinato in sede di pignoramento. Ricorrendo al giudice il creditore ha la possibilità di ottenere un riesame delle valutazioni effettuate dall'ufficiale giudiziario in sede di pignoramento. Una disp analoga è contenuta nell’art. 540-bis c.p.c.: qualora, all’esito della vendita, la somma ricavata non sia sufficiente, il giudice dell’esecuzione, su istanza di uno dei creditori, ordina l’integrazione del pignoramento. I beni così pignorati sono venduti senza che sia necessario presentare un'altra istanza di vendita. Ai sensi dell'art. 165 disp. att. c.p.c., al pignoramento può partecipare il creditore, a sue spese. Dopo aver redatto il verbale di pignoramento, l’ufflciale giudiziario provvede ad asportare i beni, per collocarli in un deposito. L’asportazione dei beni è fatta per evitare che il bene mobile possa essere sottratto all'esecuzione. Ex art. 521 c.p.c. non può essere nominato custode il creditore o il suo coniuge senza il consenso del debitore, né il debitore o familiari con lui conviventi senza il consenso del creditore. Dato che i dir sui beni mobili possono essere acquistati a tit originario, colui che ha la materiale disponibilità del bene è in grado, consegnando il bene all’acquirente di buona fede in base ad un tit astrattamente idoneo, di far acquistare a costui un dir prevalente su quello del creditore. Ecco la necessità che il bene sia custodito da persona fidata. La riforma del ‘14 ha introdotto nuove modalità di pignoramento degli autoveicoli, motoveicoli e rimorchi. Gli autoveicoli sono beni mobili registrati: ciò significa che il pignoramento si effettua -come per i beni immobili- mediante un atto notificato e poi trascritto. Per pignorare un autoveicolo non c'è necessità di apprendere materialmente il bene, come accade per gli altri beni mobili. L’apprensione dell'autoveicolo, non necessaria per il perfezionarsi del pignoramento, diviene necessaria per la vendita dello stesso, in quanto la vendita forzata del bene mobile prevede che l’acquirente deve poter vedere o aver potuto vedere il bene. L’autoveicolo, dopo essere stato pignorato, andava trovato; e ciò costituiva un forte ostacolo, in quanto era sufficiente che l’esecutato avesse la precauzione di tenere il bene lontano dalla sua abitazione o dal suo luogo di lavoro per impedirne l’apprensione e la vendita. Il legislatore ha modificato i criteri di competenza, stabilendo che competente è il giudice del luogo ove il debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede, e non il giudice del luogo ove si trova il bene. L’art. 521-bis c.p.c. stabilisce che l’esecutato deve consegnare l’autoveicolo all'istituto vendite giudiziarie entro 10gg dal pignoramento. Se non lo consegna, gli organi di polizia che individuano un autoveicolo pignorato lo portano via e lo consegnano all’istituto vendite giudiziarie del luogo. B) Pignoramento immobiliare, disciplinato dagli artt. 555 ss. c.p.c. Oggetto dell’esecuzione forzata è il dir che il debitore esecutato ha sull'immobile; il dir dev’essere suscettibile di trasferimento: tali sono proprietà, usufrutto, nuda proprietà, dir di superficie, enfiteusi. Non possono essere oggetto di espropriazione il dir d’uso e abitazione (perché non trasferibili) e le servitù (che non sono trasferibili separatamente dal fondo a cui ineriscono; esse seguono le sorti del fondo dominante). La situazione 21 di titolarità del dir sul bene immobile è di più facile accertamento rispetto ai beni mobili. Esistono i pubblici registri immobiliari e l’usucapione, che è fenomeno percepibile dall’esterno. L’appartenenza si determina dall’affermazione, da parte del creditore procedente, che il debitore ha un dir trasferibile sul bene immobile. In base all’art. 170 disp. att. c.p.c., l’atto di pignoramento di un bene immobile dev’essere sottoscritto dal creditore pignorante, e il creditore si assume la respons della sua affermazione. Il legislatore si accontenta del minimo di certezza che il debitore esecutato sia effettivamente titolare del dir sul bene immobile. Spetta al creditore effettuare, nel suo interesse, gli opportuni accertamenti. L’individuazione del dir sul bene avviene ex art. 555 c.p.c. La descrizione del bene è effettuata dal creditore con gli estremi richiesti dal c.c. per l’individuazione dell’immobile ipotecato, e cioè attraverso la tipologia del bene (terreno, fabbricato, etc), il comune in cui si trova e gli estremi catastali. Il creditore chiede all’ufficiale giudiziario di procedere al pignoramento del bene immobile, individuato e descritto dal creditore stesso in un atto che assume forma scritta, ed è da lui sottoscritto. L’ufficiale giudiziario aggiunge a tale atto la sua ingiunzione e notifica il tutto al debitore esecutato. Dopodiché si trascrive l’atto di pignoramento nel registro immobiliare. Notifica e trascrizione sono i momenti che determinano la decorrenza degli effetti del pignoramento: gli effetti verso il debitore decorrono dalla notifica e l’opponibilità del pignoramento ai terzi decorre dalla trascrizione. La disciplina della custodia del bene immobile pignorato è stata innovata nel ‘06. Siccome il pignoramento immobiliare non presuppone una situazione di possesso del bene in capo al debitore, è possibile effettuare il pignoramento anche di beni di cui il debitore magari è proprietario ma che non possiede. In tal caso la disciplina della custodia prevista dagli artt. 559 e 560 c.p.c. non si applica, perché essa presuppone che, al momento del pignoramento, l’esecutato abbia il possesso del bene. Fin dal momento della notificazione del pignoramento, e a prescindere dalla sua trascrizione, l’esecutato diviene custode del bene. Il giudice dell'esecuzione deve sostituire l’esecutato nella custodia del bene, se questo non è da lui occupato. Con tale espressione si deve intendere una situazione, in cui un terzo ha la materiale disponibilità dello stesso, in virtù di un qualunque tit o anche senza tit. La sostituzione del debitore con un altro custode, ove l’immobile non sia occupato dal debitore, costituisce attività vincolata del giudice, senza che al riguardo egli abbia alcuna discrezionalità. La ratio della necessaria sostituzione consiste nell’opportunità che i rapp col terzo che occupa il bene siano tenuti non dall'esecutato, ma da un soggetto che dia maggiori garanzie. Si pensi alla riscossione dei canoni, o alla liberazione del bene, ove la detenzione del terzo non sia opponibile all’esecuzione. È opportuno che la gestione del bene non occupato dall’esecutato sia tenuta da un estraneo. La custodia dell’esecutato -che permane solo se il bene è da lui occupato- cessa al momento nel quale viene disposta la vendita. In luogo dell’esecutato, è nominato custode il soggetto incaricato della vendita o l’istituto vendite giudiziarie. A ciò si fa eccezione nei casi, in cui la sostituzione sia reputata dal giudice dell’esecuzione inutile per la particolare natura dei beni. Per stabilire quando la sostituzione sia inutile, occorre individuare la ratio della sostituzione stessa: occorre chiedersi perché il legislatore ha ritenuto opportuno che, al momento in cui inizia il sub-proced di vendita, anche i beni occupati dall’esecutato passino nella custodia di un terzo. Se il motivo, che ha indotto il legislatore ad affidare ad un terzo la custodia dei beni non occupati dal debitore, sta nell’opportunità che i rapp con l’occupante siano tenuti da un terzo, in questo caso la ragione sta in quanto prevede l’art. 560, V c.p.c.: cioè nella necessità che i soggetti, interessati all’acquisto, possano esaminare il bene, e nella maggior affidabilità che dà un custode estraneo rispetto all'esecutato. Se questa è la ragione, per la quale l’esecutato perde la custodia dei beni, sebbene siano da lui occupati, allora le ipotesi nelle quali la sostituzione è inutile si verificano quando l’esame dei beni da parte dei potenziali acquirenti può avvenire anche senza la collaborazione del custode: si pensi ad un terreno non recintato confinante con una strada pubblica, facilmente accessibile. L’art. 559 c.p.c. stabilisce che i provv di nomina e sostituzione del custode sono dati dal giudice con ordinanza non impugnabile, non modificabile o revocabile - salve le sopravvenienze-. Il provv del giudice è controllabile con l’opposizione agli atti esecutivi. L’art. 560 c.p.c. ha recepito le esperienze di alcuni trib, che avevano mostrato la necessità, in sede di espropriazione immobiliare, di una figura simile al curatore delle espropriazioni concorsuali. Il custode del bene immobile pignorato è una sorta di mini-curatore, che differisce dal fratello maggiore concorsuale per il fatto che l’esecutato perde la legittimazione processuale. Rilevante è l’art. 560 c.p.c., nella parte in cui dispone che il custode provvede, previa autorizzazione del giudice dell'esecuzione all’ammin e alla gestione dell'immobile pignorato ed esercita le az previste dalla l. e occorrenti per conseguirne la disponibilità. L’art. 560 c.p.c. stabilisce che spetta al giudice dell'esecuzione, nel disporre la vendita del bene, prevedere le modalità con cui i potenziali acquirenti possano esaminare lo stesso. In questa fase, l’esecutato non è più custode, salvi i casi previsti dall'art. 559 c.p.c. Ex art. 560 c.p.c., il provv di aggiudicazione o assegnazione costituisce motivo di revoca dell'autorizzazione ad abitare l’immobile. Nell’ipotesi di revoca di detta autorizzazione, l’ordinanza costituisce tit esecutivo nei confronti dell’esecutato, attraverso il quale il custode può ottenere la disponibilità del bene. Sicché l’acquirente è sollevato dall'onere di ottenere dall'esecutato la materiale disponibilità del bene, poiché questo gli sarà consegnato libero dal custode. Sono salvi accordi fra acquirente ed esecutato che conferiscano a quest'ultimo un tit alla detenzione del bene: ad es, la stipulazione di un contratto di locazione. C) Pignoramento dei crediti. L’ord non si accontenta dell’affermazione del creditore, e non è possibile quell’indice di appartenenza che forma il presupposto del pignoramento mobiliare. Il legislatore, perché si possa procedere al pignoramento di crediti (o beni mobili del debitore in possesso di terzi), istituisce un meccanismo che dopo la riforma del ‘12 può avere una disciplina diversificata. Se il terzo debitore è solvibile, il pignoramento dei crediti è la forma più sicura e meno dispendiosa di 22 espropriazione forzata, cui si ricorre di preferenza. Occorre tener presente che vi sono limiti alla pignorabilità dei crediti. Il pignoramento si effettua notificando al debitore esecutato e al terzo debitore un atto che deve contenere: l’indicazione del credito per il quale si procede, del tit esecutivo e del precetto e l’indicazione delle somme o cose dovute dal terzo debitore al debitore esecutato. Nell’atto di pignoramento dev’essere fissata un'ud dinanzi al trib, e dev’essere indicato l’indirizzo pec del creditore procedente (suo difensore). L’art. 26-bis c.p.c. individua come competente il giudice del luogo ove il debitore esecutato ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede. Eccezionalmente, se debitore esecutato è una PA, competente è il giudice dove il terzo debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede. Questa regola di competenza serve ad evitare che si accentrino sul trib di Roma la gran parte dei pignoramenti contro una PA. Il debitore esecutato dev’essere citato a comparire all'ud fissata, mentre il terzo debitore è invitato a rendere la dich ex art. 547 c.p.c, mediante lettera raccomandata o pec, da inviare al difensore del creditore nel termine di 10gg dalla notificazione dell’atto di pignoramento. Egli dev’essere avvertito delle conseguenze della sua eventuale inerzia. Con la notifica di tale atto si producono già tutti gli effetti del pignoramento. La produzione di tali effetti è provvisoria e condizionata al completamento del proced. Ex art. 543 c.p.c. l’atto di pignoramento contiene l’ingiunzione al debitore di non disporre del bene. La posizione del terzo debitore, dal momento in cui gli viene notificato il pignoramento, è quella del custode. Egli non deve più adempiere nei confronti del debitore esecutato. L’eventuale adempimento è inopponibile al creditore procedente, e il terzo debitore sarà costretto a ripetere l’adempimento al creditore o a colui al quale l’esecuzione forzata trasferirà il credito pignorato. Vi è un limite agli effetti del pignoramento: il credito dell’esecutato è pignorato per l’entità massima del 150% della somma oggetto del pignoramento. Se il credito pignorato è superiore a tale entità, per la parte eccedente il terzo non è soggetto agli obblighi di custodia, e può adempiere. L’ulteriore sviluppo del proced di pignoramento dei crediti differisce a seconda che il terzo debitore renda o meno una dich conforme a quanto affermato dal creditore nell'atto di pignoramento. Se il terzo rende una dich conforme a quanto affermato dal creditore nell'atto di pignoramento, questo si perfeziona e si consolidano quegli effetti che si erano provvisoriamente prodotti con la notifica dell’atto. Se il creditore riceve dal terzo la lettera o la pec, nella quale quest’ultimo rende una dich conforme a quanto contenuto nell’atto di pignoramento, egli all'ud produce il doc, e il proc esecutivo può andare avanti, perché il pignoramento si è perfezionato. Se il creditore non riceve risposta dal terzo, e lo dichiara all'ud, il giudice, con ordinanza, fissa un’ud successiva. L’ordinanza è notificata al terzo almeno 10gg prima della nuova ud. Il pignoramento dei crediti costituisce una fattispecie a formazione progressiva. Gli effetti si producono provvisoriamente dal momento della notificazione dell’atto e sono condizionati al perfezionamento della fattispecie. Se la fattispecie non si perfeziona, gli effetti sono eliminati retroattivamente: anche quegli effetti provvisori, che fino all'ud si erano prodotti, vengono meno. Bisogna distinguere a seconda che il terzo rimanga inerte, o renda una dich negativa o difforme da quanto affermato dal creditore nell'atto di pignoramento. Nella versione originaria del c.p.c. del ‘42, il terzo debitore era sempre chiamato a partecipare all'ud per rendere la dich. Per questa ragione la competenza era determinata dalla residenza del terzo debitore: per facilitare la sua presenza all'ud. Se il terzo si presentava e rendeva una dich conforme, il giudice assegnava il credito. Se il terzo non si presentava, o presentandosi taceva o rendeva una dich non conforme, il creditore procedente aveva l'onere di proporre una domanda di accertamento dell’obbligo del terzo. Si apriva un ordinario proc di cognizione, al termine del quale poteva accadere che fosse accertato esistente o non esistente l’obbligo del terzo. Nel primo caso il pignoramento si perfezionava, nel secondo il proc esecutivo si estingueva ed il pignoramento perdeva effetti, trattandosi di una fattispecie a formazione progressiva che non si era completata. Nell’espropriazione dei crediti il pignoramento si perfezionava alternativamente sulla base di una sentenza di accertamento o sulla base della dich del terzo debitore, dich avente natura confessoria e che valeva ad accertare l’esistenza del dir del debitore oggetto del pignoramento. L’accertamento che deriva dalla dich è equivalente a quello che deriva dalla sentenza. La disciplina originaria del c.p.c. comportava: l’assegnazione del credito poteva avvenire solo dopo che fosse stata accertata l’esistenza del credito pignorato, cioè dell’obbligo del terzo. Tale certezza era raggiunta alternativamente o in virtù di una dich del terzo, conforme all’atto di pignoramento o, se difforme, non contestata dal creditore; o in virtù di una sentenza. Quando il creditore assegnatario, a fronte dell’eventuale inadempimento del terzo, si fosse trovato costretto a procedere ad esecuzione forzata contro di lui -ciò che egli poteva fare utilizzando come tit esecutivo l’ordinanza di assegnazione- il terzo avrebbe potuto, per contestare l’esistenza del proprio debito, sollevare solo le contestazioni compatibili con l’efficacia preclusiva o della sua dich o della sentenza: solo allegando fatti modificativi ed estintivi successivi alla sua dich o all'ud di precisazione delle conclusioni del proc da cui era scaturita la sentenza che aveva accertato il suo credito. L’ordinanza di assegnazione era sottoponibile all'opposizione agli atti esecutivi ma solo per vizi processuali della stessa, e non per contestare l’esistenza del credito pignorato. Quand'anche il giudice dell'esecuzione, errando, avesse assegnato un credito di entità superiore a quella risultante dalla dich o dalla sentenza, e il terzo assegnato non avesse proposto opposizione agli atti esecutivi, ciò non gli avrebbe impedito di far valere, nelle sedi opportune, l’effettiva somma che lui doveva pagare. L’ordinanza esecutiva è pronunciata nell'esercizio di un pot non decisorio, e non è in grado di risolvere la controversia relativa a quanto il terzo assegnato deve pagare all'assegnatario. Si innesta qui la riforma del ‘12. Il legislatore ha previsto che, se il terzo non invia la sua dich e non si presenta all'udienza, e il creditore dichiara che non gli è pervenuta la sua dich, il giudice fissa un'altra ud alla quale il terzo è invitato a comparire. L'ordinanza è notificata al terzo. Se 25 colui che ha richiesto la tutela; sia qui che là il princ, che la durata del proc non deve danneggiare colui che ha dir alla tutela, impone di applicare norme speciali a tali eventi; sia qui che là vale la regola del minimo mezzo: la divergenza delle norme speciali (applicabili agli eventi che si verificano nel corso del proc) rispetto alle norme di dir comune (applicabili agli eventi che si verificano al di fuori del proc) dev’essere limitata allo stretto indispensabile. Gli strumenti a disp dell'ord per evitare il pregiudizio sono svariati. In primo luogo si potrebbe qualificare nullo l’atto di alienazione del bene pignorato: se l’atto è nullo, non produce alcun effetto; l’acquirente del bene pignorato non ne diviene proprietario. Ma tale meccanismo è esagerato, ed ha un effetto dirompente erga omnes; raggiunge sì lo scopo, ma in modo devastante. Osta a tale soluzione il princ del minimo mezzo. Lo strumento di cui avvalersi deve produrre solo quegli effetti necessari e sufficienti a raggiungere lo scopo, mentre qui si avrebbero due effetti ulteriori e non necessari: l'atto non produrrebbe effetti neppure fra le parti e la nullità investirebbe anche i terzi, non interessati all'esecuzione, perché la nullità opera erga omnes. Tutto ciò sarebbe eccessivo. Un secondo meccanismo potrebbe consistere nell'affermare l’inefficacia relativa sul piano sostanziale dell'atto di alienazione. L’atto di trasferimento del bene pignorato trasferisce la proprietà sia fra le parti del negozio giuridico (debitore esecutato-acquirente del bene pignorato) sia nei confronti dei terzi, ma non nei confronti del creditore procedente, per il quale la proprietà rimane del debitore esecutato. È questa la soluzione maggioritaria in dottrina: ma anch'essa, ad una più approfondita analisi, si rivela eccessiva. Anche la soluzione dell’inefficacia relativa sostanziale è eccessiva, perché l'atto di disp può avere effetti, sul piano del dir sostanziale, anche nei confronti del creditore; l'importante è che non abbia effetti sul piano processuale, cioè all'interno del proc esecutivo, ed in particolare nel proc di opposizione, che l'acquirente del bene pignorato proponga per chiedere la liberazione dal pignoramento del bene da lui acquistato. Allora la regola da seguire è quella dell'inefficacia relativa sul piano processuale. L’atto di alienazione del bene pignorato trasferisce efficacemente la proprietà sul piano sostanziale erga omnes (anche nei confronti del creditore procedente): ma tale trasferimento non è idoneo a fondare un’opposizione. Se l’acquirente del bene pignorato fonda la sua opposizione su un atto di disp, inefficace ex art. 2913 c.c. rispetto al creditore, l'opposizione dev’essere rigettata. L’art. 2913 c.c. estende l’inopponibilità degli atti di disp del bene pignorato anche ai creditori che intervengono nell’esecuzione. L’art. 2913 c.c. stabilisce che il pignoramento è un vincolo a porta aperta, perché gli effetti del pignoramento vanno a vantaggio di tutti i creditori che intervengono nel proc esecutivo, anche se l'intervento ha luogo dopo che il bene è stato alienato. Il creditore intervenuto si può giovare degli effetti utili che il pignoramento produce a favore dell’intera massa dei creditori. C'è una differenza fra la disciplina dell'art. 2913 c.c. e quella dell’art. 111 c.p.c. Di solito si istituisce il parallelismo fra la res litigiosa e la res pignorata: il che non è errato. Ma il parallelismo non è perfetto, perché, nella successione ex art. 111 c.p.c., gli effetti della domanda giudiziale si verificano solo a favore di colui che la propone e non di altri soggetti che intervengono nel proc, proponendo altre domande. I soggetti che propongono ulteriori domande nel proc in corso non sono protetti dalla domanda giudiziale originaria, mentre i creditori che intervengono nell'esecuzione sono protetti dal pignoramento originario. La ragione di ciò deriva dal fatto che l'oggetto del proc di espropriazione è dato dal dir sul bene pignorato; il creditore che interviene non amplia l’oggetto del proc, e può beneficiare degli effetti prodotti in relazione all’unico oggetto del proc. Al contrario, chi interviene in via innovativa (proponendo una domanda) nel proc di cognizione amplia l’oggetto del proc; e gli effetti sostanziali prodottisi in relazione ad un oggetto del proc non si trasferiscono al diverso oggetto, individuato con la domanda di intervento. L'alienazione del bene pignorato muta l'oggetto dell’espropriazione? Oggetto dell’espropriazione rimane il dir che il debitore esecutato ha sul bene, o oggetto dell’espropriazione diviene il dir che sul bene ha l’acquirente dal debitore esecutato? Considerato che l’art. 2919 c.c. prevede che la vendita forzata trasferisce all'acquirente il dir che sulla cosa spettavano a colui che ha subito l’espropriazione, quando il bene pignorato è alienato, chi subisce l’espropriazione, il debitore esecutato o il terzo acquirente? L'art. 2913 c.c. deve conservare al creditore procedente i dir che sul bene spettavano al debitore esecutato e non far acquistare più dir di quelli che aveva il debitore. Oggetto dell’espropriazione rimane il dir del debitore e non quello dell’acquirente del bene pignorato. Il tit d’acquisto del creditore si forma contro il debitore e non contro l'acquirente: e ciò per non privare l’acquirente terzo dei tit di proprietà del bene diversi e ulteriori rispetto a quello proveniente dal debitore esecutato. È necessario paralizzare il tit d’acquisto del terzo da Tizio, e non gli ulteriori tit di acquisto che egli abbia, oltre a quello derivante dal debitore esecutato: ciò sarebbe eccessivo e il creditore, con la vendita forzata, acquisterebbe più dir di quanti ne aveva il debitore. L'art. 2914 c.c. costituisce l’applicazione dell’art. 2913 c.c., e individua i criteri per risolvere il conflitto fra l’esecuzione e gli aventi causa del debitore esecutato, cioè coloro che abbiano acquistato dir sul bene pignorato. L’art. 2914 c.c. fornisce le regole che determinano la priorità fra l'atto di pignoramento e l’atto di alienazione: così che, se prioritario è l’atto di pignoramento, si determina l'inefficacia prevista dall’art. 2913 c.c.; se prioritario è l'atto di alienazione, si applica la regola dell’efficacia dell'atto di alienazione nei confronti del creditore procedente: e l'acquirente prevale sul creditore, salvo l’esperimento, da parte di quest'ultimo in separata sede, delle az a tutela del creditore (revocatoria, simulazione, nullità, etc). L'art. 2914 c.c. prevede quattro fattispecie, che risolvono il conflitto fra creditore procedente e terzo acquirente dal debitore esecutato attraverso gli stessi criteri, coi quali si risolve il conflitto fra due aventi causa dello stesso dante causa, equiparando il creditore procedente, nel conflitto con gli aventi causa del debitore esecutato, ad un avente causa del debitore stesso. L’ipotesi dell'art. 2914 c.c. è: Caio pignora un bene di Tizio; Sempronio avanza dir sul bene in quanto afferma di averli derivati da Tizio. Chi prevale? Ex art. 26 2914 c.c., il conflitto fra Caio e Sempronio si risolve come il conflitto fra due aventi causa da un comune dante causa, equiparando la posizione di Caio a quella di un avente causa del debitore esecutato. Col pignoramento Caio acquista un dir processuale-strumentale che è equiparato, nel conflitto con Sempronio, ad un dir reale. All'art. 2914 c.c., n. 1, con riferimento ai beni immobili, si stabilisce che fra Sempronio, avente causa del debitore esecutato Tizio, e Caio, creditore pignorante, prevale colui che per primo ha trascritto, rispettivamente, l'atto di acquisto o il pignoramento. Secondo l’art. 2644 c.c., nel caso di doppio atto di disp sullo stesso bene immobile, prevale quello, dei due soggetti, che ha trascritto per primo il proprio atto. Al n. 2 si stabilisce che, nell'ipotesi in cui oggetto di pignoramento è un credito che sia stato ceduto da parte del debitore esecutato a un terzo, il conflitto fra creditore pignorante (che vuole sottoporre il credito del suo debitore all’espropriazione forzata) e il cessionario (che vuole far valere ciò che ha acquistato dal debitore esecutato) si risolve sulla base della priorità fra il pignoramento e la notificazione della cessione al debitore ceduto, o l’accettazione della cessione da parte di costui con atto di data certa. L'atto di pignoramento, in quanto posto in essere da un pubblico ufficiale -ufficiale giudiziario- è un atto pubblico che ha data certa. L'art. 1265 c.c., che riguarda la doppia cessione del credito, dà la stessa disciplina dell’art. 2914 n. 2 c.c.: fra i due creditori cessionari, prevale quello che ha notificato per primo la cessione o che ha visto per primo accettata la propria cessione con atto avente data certa. Nel caso di pignoramento, la priorità della notifica della cessione o dell’accettazione della stessa mediante atto avente data certa, rispetto alla notifica del pignoramento, dà al cessionario la prevalenza rispetto al creditore procedente, e viceversa; il creditore procedente è equiparato ad un avente causa del debitore esecutato. Per quanto riguarda l’art. 2914 n. 3 c.p.c., occorre prendere atto che, nel c.c., non esiste una norma che disciplina il conflitto derivante dalla doppia alienazione di universalità di mobili. Ciò perché, in tale ipotesi, torna applicabile la regola generale, valida laddove il legislatore non stabilisca diversamente, e cioè che fra i due acquirenti prevale quello che ha un atto di data certa anteriore. Se venissero cancellati gli artt. 2644, 1265, 1155 c.c., il criterio che dovrebbe essere utilizzato per risolvere il conflitto fra due aventi causa da un comune dante causa sarebbe quello della priorità dell’atto di acquisto. Ma l’atto di acquisto, per essere opponibile ai terzi, deve avere data certa. Nel caso in cui non esistessero gli artt. 1155, 1265, 2644 c.c., il conflitto fra i due aventi causa da un comune dante causa sarebbe risolto attraverso il criterio dell'atto di data certa anteriore. In conseguenza, anche per l'ipotesi dell’art. 2914 n. 3 c.c. il creditore procedente è equiparato a un avente causa del debitore esecutato, dato che la doppia alienazione di universalità di mobili è l'unica ipotesi residua nel ns ord in cui si applica il criterio generale dell'atto di data certa anteriore, criterio che sarebbe applicabile a tutti i casi di doppia alienazione, se non ci fossero gli artt. 1155, 1265 e 2644 c.c. Il c.c. ha disciplinato solo le ipotesi che derogano al criterio generale dell’atto di data certa anteriore e non quelle che ne fanno applicazione, anche se tale criterio è divenuto residuale perché si applica solo alla doppia alienazione delle universalità di mobili. Ultima ipotesi è il conflitto fra creditore pignorante e acquirente di un bene mobile dal debitore esecutato. L’art. 1155 c.c. contiene due criteri per risolvere il conflitto derivante da una doppia alienazione mobiliare: a) una delle parti ha acquisito in buona fede il possesso e è preferita all'altra: si ha un’applicazione dello stesso princ previsto dall'art. 1153 c.c.; b) se nessuno degli acquirenti acquisisce in buona fede il possesso del bene mobile, vale il criterio generale dell’atto di data certa anteriore. Nell'art. 2914 n. 4 c.c. c'è una particolarità. Colui che ha acquistato il bene mobile dal debitore prevale sul creditore procedente in due casi: se ha conseguito in buona fede il possesso del bene prima del pignoramento; o se il suo acquisto risulta da un atto di data certa anteriore al pignoramento. Il primo criterio non interessa, perché costituisce piena applicazione dell’art. 1155 c.c. Si presuppone, nell’ipotesi, che il debitore esecutato abbia venduto il bene mobile; che la vendita sia consacrata in un atto avente data certa, ma il venditore non abbia trasmesso il possesso del bene mobile all’acquirente e lo abbia conservato presso di sé; il bene si trova nei luoghi immobili appartenenti al debitore e è pignorato. L’acquirente del bene mobile propone opposizione di terzo, dimostra che il bene gli era stato venduto con atto di data certa anteriore al pignoramento e vince l’opposizione. Se l’art. 2914 n. 4 c.c. fosse la trasposizione dell’art. 1155 c.c. quale sarebbe la soluzione? Chi consegue per primo il possesso del bene prevale sull'altro e allora il creditore procedente dovrebbe prevalere su chi, pur avendo acquistato il bene mobile dal debitore con atto di data certa anteriore al pignoramento, non ha conseguito il possesso del bene stesso. Ipotesi analoga in materia di pignoramento: Caio è il creditore pignorante; Sempronio è l’avente causa del debitore esecutato Tizio. Se Tizio vende il bene a Sempronio possono succedere due cose: che Sempronio consegue in buona fede il possesso, e prevale su Caio; che Sempronio ha un tit di data certa anteriore al pignoramento, e prevale su Caio. Ma col pignoramento il possesso viene tolto al debitore esecutato, e, se il creditore pignorante Caio fosse equiparato ad un avente causa di Tizio, col pignoramento Caio dovrebbe acquistare il possesso e prevalere su Sempronio, anche se questi ha un tit di data certa anteriore. Ma ciò non succede. Se viene pignorato un bene mobile che precedentemente è stato alienato da Tizio a Sempronio con atto di data certa anteriore al pignoramento, tale acquisto continua ad essere prevalente sull'acquisizione del possesso da parte di Caio col pignoramento. La spiegazione è la seguente. È vero che col pignoramento il possesso viene tolto al debitore, però ciò non fa acquisire al creditore pignorante una situazione possessoria, perché il dir del creditore procedente non ha natura sostanziale, ma processuale; egli non è titolare di un dir reale, il cui esercizio possa essere qualificato come possesso. Il possesso del bene pignorato rimane congelato, paralizzato fino a che con la vendita forzata l’acquirente del bene, al quale sarà consegnato, instaurerà di nuovo un rapp possessorio, come specchio del dir di proprietà o del dir reale minore, che avrà acquistato in sede di vendita forzata. 27 Il creditore, col pignoramento, non acquisisce il possesso del bene e non può scattare a suo favore la fattispecie di tale norma. Con la vendita forzata l’aggiudicatario acquisisce il possesso del bene che gli dà un tit prevalente su Sempronio, che continua a mantenere la prevalenza, che gli deriva dall'atto di data certa anteriore al pignoramento, fino alla vendita forzata. Se il creditore procedente col pignoramento acquisisse il possesso del bene, l’art. 2914 n. 4 c.c. dovrebbe essere formulato diversamente e non dovrebbe contenere le parole «salvo che risulti da atto avente data certa». Perché: o l’acquirente dal debitore ha acquisito il possesso del bene e il pignoramento presso il debitore non è più possibile, perché il bene si trova presso l’acquirente; o l'acquirente non ha acquisito il possesso del bene e, nel momento del pignoramento, se questo desse al creditore pignorante un possesso idoneo, il creditore pignorante, acquisendo per primo il possesso del bene, acquisterebbe la prevalenza. Siccome il possesso del bene non viene acquisito dal creditore, continua a rimanere prevalente, fino alla vendita forzata, la posizione dell’acquirente del bene mobile che ha un tit di data certa anteriore al pignoramento, sebbene non abbia conseguito il possesso. L’art. 2915 c.c. detta una disciplina identica a quella che si ha quando un soggetto acquista un dir sul quale grava un vincolo di indisponibilità (ad es, costituzione fondo patrimoniale; cessione dei beni a creditori). Anche in questo caso, se il vincolo è trascritto prima della trascrizione dell’atto di acquisto, il vincolo prevale sull’atto di acquisto (beni immobili o mobili registrati). Se è trascritto prima l’atto di acquisto e poi il vincolo di indisponibilità, allora prevale il primo sul secondo. Nel caso di beni mobili o universalità di mobili è rilevante l’atto di data certa anteriore. Più complesso è l'esame dell'art. 2915 c.c. Occorre far riferimento agli artt. 2652 e 2653 c.c. Essi prevedono una serie di domande giudiziali che sono soggette a trascrizione per essere opponibili ai terzi. La trascrizione della domanda giudiziale ha un duplice effetto. Ha un effetto di natura processuale: rispetto ai terzi la litispendenza si determina con riguardo al momento della trascrizione della domanda. Ove la trascrizione della domanda dell'attore contro il convenuto sia anteriore alla trascrizione dell'acquisto del terzo contro il convenuto, la posizione dell'avente causa del convenuto è disciplinata dall'art. 111 c.p.c. Quindi la sentenza emessa al termine di quel proc, la cui domanda è stata trascritta anteriormente alla trascrizione dell'atto di acquisto del terzo, è efficace e vincolante anche verso l’avente causa del convenuto. Questi non può contestare il contenuto della sentenza emessa contro il suo dante causa. Il vantaggio per colui che rivendica il bene è solo processuale: sul piano del dir sostanziale, la trascrizione del suo atto di acquisto non gli dà più dir di quanti gliene ha trasmessi il suo dante causa e, se questi non era proprietario del bene, non ha acquistato la proprietà dello stesso. L'attore è vittorioso con una sentenza che non può spendere verso colui che rivendica, avente causa del convenuto; potrà, però, convenire in giudizio ex novo l'avente causa, dimostrare di essere proprietario del bene e ottenere tutela anche nei confronti di colui che rivendica senza che questi ci guadagni nulla, sul piano del dir sostanziale, dal fatto che ha trascritto il suo tit d'acquisto prima della trascrizione della domanda giudiziale contro il suo dante causa. Mettendo al posto dell’acquirente del bene, il creditore pignorante. Il conflitto fra attore in rivendicazione e pignorante dello stesso bene si risolve col criterio della priorità delle rispettive trascrizioni. Se la domanda dell’attore in rivendicazione contro il debitore è trascritta anteriormente al pignoramento, la sentenza che accerta la proprietà dell’attore in rivendicazione è efficace e vincolante verso il debitore e il suo avente causa (pignorante) che è equiparato ad un successore nel dir controverso; se nel proc esecutivo ha luogo la vendita forzata, la sentenza è efficace anche nei confronti dell’aggiudicatario. Qualora il pignoramento sia trascritto prima della domanda giudiziale dell’attore in rivendicazione, la sentenza non è vincolante verso il pignorante, equiparato ad un avente causa ante lite; se, nel proc esecutivo, ha luogo la vendita forzata, la sentenza non è efficace neppure nei confronti dell'aggiudicatario. Nella seconda alternativa (la trascrizione del pignoramento è anteriore alla trascrizione della domanda), si pone un problema connesso al proc esecutivo. Quando l’attore in rivendicazione vuole ottenere una sentenza efficace anche contro il pignorante, avente causa ante lite dal debitore, deve instaurare il contraddittorio nei confronti del pignorante. Egli chiama il pignorante a partecipare al proc attraverso una delle tecniche previste (litisconsorzio facoltativo passivo, chiamata in causa). Ma se l’avente causa è un creditore procedente, non è possibile proporre la domanda nei modi ordinari, perché l'esecuzione forzata non ha una struttura che prevede un suo rappresentante, abilitato a condurre proc con effetti per l’esecuzione. Non potendo l’attore instaurare un ordinario proc di cognizione contro l’esecuzione forzata, si rende necessario che egli proponga la domanda all’interno del proc esecutivo, attraverso l'opposizione di terzo, che consente l’instaurazione del contraddittorio nei confronti dell'esecuzione. La domanda così proposta è nel suo contenuto identica a quella che l'attore avrebbe proposto in un ordinario proc di cognizione, se l'avente causa fosse stato un acquirente, anziché un creditore pignorante. La trascrizione della domanda, oltre all'effetto processuale, ha talvolta anche effetti sostanziali: ciò accade nell'ipotesi previste dall'art. 2652 c.c. La priorità della trascrizione della domanda dell’attore contro il convenuto rispetto alla trascrizione dell’atto di acquisto dell’avente causa del convenuto comporta le stesse conseguenze della rivendicazione: la sentenza è efficace e vincolante anche verso l’avente causa del convenuto, che non può contestarne il contenuto. Viceversa, la priorità della trascrizione dell'atto di acquisto dell'avente causa rispetto alla trascrizione della domanda, da sola o insieme ad altri elementi (buona fede, tit oneroso, decorso del tempo), determina -oltre all’inefficacia processuale dell’emananda pronuncia- anche un tit di preferenza sul piano sostanziale dell’avente causa verso l’attore: l'avente causa acquista una posizione che è preferita, sul piano del dir sostanziale, a quella dell’attore. Tornando all’art. 2915 c.c., e sostituendo il creditore pignorante all’avente causa: l’attore, il quale trova trascritto il pignoramento prima della trascrizione della sua domanda di rivendicazione, è pregiudicato solo per il fatto che deve far 30 Il contrasto fra i due aggiudicatari è risolto in un ordinario proc di cognizione. Per stabilire chi degli aggiudicatari ha acquistato il dir, occorre stabilire se il dir spettava a Tizio o a Mevio. Non ha rilevanza la priorità della trascrizione dell’un pignoramento rispetto all'altro, poiché ciascuno di essi è effettuato contro un soggetto diverso (Tizio e Mevio). Il contrasto può essere risolto anche in via preventiva, attraverso lo strumento dell'opposizione di terzo. Il creditore pignorante Caio può proporre opposizione di terzo nel proc esecutivo instaurato da Sempronio, e il creditore pignorante Sempronio può proporre opposizione di terzo nel proc esecutivo instaurato da Caio, ciascuno affermando che il dir da lui pignorato è prevalente sul dir pignorato dall’altro creditore. Ciò vale per il pignoramento degli immobili, delle universalità di mobili e dei crediti. Se è pignorato un bene mobile, i proc esecutivi debbono essere riuniti, anche se i debitori sono diversi. E ciò perché la vendita forzata mobiliare ha natura di acquisto a tit originario, e prevale la vendita effettuata per prima, a prescindere dal fatto che l’esecutato sia o meno proprietario del bene. Riuniti i proc, e venduto il bene mobile, in sede di distribuzione del ricavato si accerterà quale dei due debitori era l'effettivo proprietario del bene mobile: il ricavato della vendita sarà distribuito ai creditori di quel debitore. Il princ, che impedisce che due proc esecutivi abbiano luogo, quando pignorato è lo stesso dir nei confronti dello stesso debitore (nel caso dei beni mobili, anche nei confronti di debitori diversi) è il ne bis in idem. Princ, questo, che si trova anche nel proc di cognizione, perché non è possibile avere due sentenze aventi lo stesso oggetto; così nel proc esecutivo non è possibile che lo stesso dir possa essere oggetto di più atti di trasferimento. Si può avere una pluralità di crediti tutelati con lo stesso proc esecutivo e si possono avere anche più proc esecutivi diversi a tutela dello stesso credito. Ciò significa che il creditore, avendo un tit esecutivo, può chiedere cumulativamente la tutela dello stesso credito con le varie forme di espropriazione (es, pignoramento mobiliare, pignoramento di crediti, pignoramento immobiliare), o possono essere fatte più esecuzioni dello stesso tipo su beni diversi. Il cumulo trova il limite dell’art. 2911 c.c., in base al quale il creditore che ha ipoteca, pegno o privilegio speciale sui beni del debitore non può pignorare altri beni dello stesso debitore se non sottopone ad esecuzione anche i beni gravati da prelazione a suo favore. La ratio di tale norma è di evitare che il creditore, che ha una garanzia su un bene, pignori un altro bene per soddisfarsi su quest’ultimo continuando a mantenere la sua prelazione sull’altro. A parte tale eccezione, il cumulo dei mezzi di espropriazione, o più espropriazioni dello stesso tipo su beni diversi, sono ammissibili. Ma il cumulo potrebbe essere eccessivo, cioè il valore dei beni sottoposti a pignoramento potrebbe eccedere il credito per cui si procede. Ma se l’espropriazione è eccessiva, su opposizione del debitore il giudice può limitare l’espropriazione al mezzo che il creditore sceglie o, in mancanza, a quello che il giudice determina. Così gli altri proc esecutivi si chiudono ed i beni in essi pignorati sono liberati. Per tale valutazione di eccessività bisogna tener conto, se ci sono già stati, anche dell’intervento di altri creditori. Un altro istituto è il pagamento nelle mani dell’ufficiale giudiziario. Il co.1 art. 494 c.p.c. consente al debitore esecutato di adempiere nelle mani dell'ufficiale giudiziario: di conseguenza l'esecuzione forzata non ha luogo perché il credito si estingue. L’art. 494 c.p.c. stabilisce che in tal modo si evita il pignoramento. Così l’ufficiale giudiziario, invece di effettuare il pignoramento, riceve la somma, che consegna al creditore. Per dir sostanziale il pagamento va fatto al creditore o ad un suo rappresentante, e se è fatto ad un soggetto diverso non è liberatorio. Ma l’ufficiale giudiziario non è un rappresentante del creditore, ma un organo esecutivo, così come il giudice: anche il pagamento fatto al giudice non sarebbe liberatorio. La previsione contenuta nell’art. 494 c.p.c. è importante perché consente di effettuare il pagamento con effetto liberatorio anche ad un soggetto diverso da quelli a cui il pagamento dovrebbe essere fatto secondo il dir sostanziale. L'art. 494 c.p.c. si riferisce alla ripetizione dell'indebito, regolata dagli artt. 2033 ss. c.c. Colui che abbia pagato un debito inesistente, può ripetere il pagamento da colui che lo ha ricevuto. Il co.2 art. 494 c.p.c. è superfluo, perché il dir di agire in ripetizione dell’indebito non viene meno, anche se la riserva non è effettuata. Si tratta solo di un rafforzativo, che non aggiunge niente alle regole sostanziali. L'istituto è interessante anche sotto un altro profilo. L'esistenza del credito, da tutelare esecutivamente, è irrilevante nel proc esecutivo. Invece qui un effetto di dir sostanziale (il pagamento e l'estinzione del credito) è rilevante anche sul piano processuale, perché rende legittima l’omissione del pignoramento. Nel caso disciplinato dal co.3 art. 494 c.p.c. le conseguenze giuridiche sono diverse, anche se il comportamento del debitore coincide con quello previsto dal co.1. In ambo i casi l’ufficiale giudiziario vuole effettuare il pignoramento e il debitore gli dà del denaro. Nell’ipotesi disciplinata nel co.1 (pagamento nelle mani dell'ufficiale giudiziario) il denaro è dato come adempimento, e evita il pignoramento. L’esecuzione così non inizia. Nell'ipotesi disciplinata dal co.3 il debitore dà all'ufficiale giudiziario una somma di denaro maggiore di quella prevista nel co.1 (credito e spese sono aumentati del 20%); ma tale somma è percepita dall'ufficiale giudiziario come oggetto di pignoramento. L'ufficiale giudiziario non consegna la somma al creditore, ma la versa nelle casse dell’esecuzione, così come accade quando l’ufficiale giudiziario trova del denaro da pignorare. L’ufficiale giudiziario deposita il verbale di pignoramento insieme al denaro, il cancelliere forma il fascicolo dell'esecuzione e si apre il proc di espropriazione. Quali sono i vantaggi e gli svantaggi delle due possibilità offerte al debitore? Nel caso del co.3 il debitore sceglie di sottoporre a pignoramento il denaro per evitare il pignoramento di mobili, immobili o crediti, perché ritiene di poter dimostrare, in sede di opposizione all’esecuzione, che l’esecuzione non deve aver luogo in quanto il creditore non ha il dir di procedere ad esecuzione forzata. La somma di denaro che egli versa all’ufficiale giudiziario non viene consegnata al creditore, ma è depositata nelle casse dell'esecuzione, e poi distribuita dal giudice. L’opposizione del debitore consente al giudice di sospendere il proc esecutivo. Quindi il debitore ha in mente di proporre opposizione e di chiedere la sospensione della 31 distribuzione del denaro. Se il giudice accoglie l'istanza di sospensione, e poi l’opposizione all’esecuzione è ritenuta fondata, il debitore ha il vantaggio che la somma di denaro gli verrà restituita, perché è al sicuro nelle casse dell'esecuzione. Al contrario, col pagamento di cui al co.1 c’è il pericolo che il creditore prenda il denaro, e poi risulti insolvibile di fronte alla sentenza che riconoscerà fondata la ripetizione dell'indebito. Se il debitore ritiene di non poter proporre, con speranza di buon esito, l'opposizione all’esecuzione, è inutile che effettui il versamento di cui al co.3: tanto vale che effettui il pagamento di cui al co.1. Lo stesso fenomeno di cui all'art. 494 c.p.c. è previsto anche nell'art. 495 c.p.c. sotto il nome di conversione del pignoramento. Qui si ha una sostituzione dell’oggetto del pignoramento: originariamente sono stati pignorati beni del debitore e il debitore sostituisce ai beni pignorati una somma di denaro, cioè si realizza ex post ciò che si sarebbe potuto fare fin dall’inizio col meccanismo dell'art. 494 c.p.c. Ma bisogna tener conto che, se ci sono stati interventi di altri creditori, la somma da versare non è calcolata solo sulla base del credito del creditore procedente ma anche dei crediti dei creditori intervenuti, perché altrimenti c’è il rischio che la somma non basti per tutti. La conversione può essere fatta da qualunque soggetto, non solo dal debitore, ma anche dal terzo il quale, ad es, abbia acquistato i beni pignorati. Il proced si svolge in due fasi: all'istanza di conversione del debitore (insieme alla quale dev’essere depositata una somma pari ad 1/5 dell'importo dei crediti del creditore procedente e dei creditori intervenuti) segue una prima ordinanza del giudice che determina la somma definitiva da versare e dà un termine al debitore per il versamento del saldo; viene poi fissata un’ud successiva al termine in questione, per verificare se la somma è stata effettivamente versata. Se il versamento è stato effettuato, con una seconda ordinanza il giudice dispone la liberazione dal pignoramento dei beni; altrimenti dispone che il proc esecutivo vada avanti. In tal caso, la somma provvisoriamente versata rimane acquisita all'esecuzione. L'art. 496 c.p.c. stabilisce che, su istanza del debitore o d'uff, quando il valore dei beni pignorati è superiore all'importo delle spese e dei crediti di cui all’art. 495 c.p.c., il giudice, sentiti il creditore pignorante e i creditori intervenuti, può disporre la riduzione del pignoramento. L'ipotesi è che siano stati pignorati più beni, perché altrimenti la riduzione non sarebbe possibile. Se è stato pignorato un unico bene (es, un cavallo del valore di 100.000,00 € per un credito di 50.000,00 €) non è possibile ridurre a metà il pignoramento; se sono stati pignorati due beni, può essere ridotto il pignoramento a uno solo. Il valore dei beni pignorati dev’essere superiore al credito del creditore procedente, ai crediti degli intervenuti ed alle spese. Con la riduzione del pignoramento, alcuni beni vengono liberati dal pignoramento e ritornano nella libera disponibilità del debitore esecutato. Un istituto analogo è previsto dall’art. 546 c.p.c.: nel caso di pignoramento di una pluralità di crediti nei confronti di più terzi debitori, il debitore può chiedere la riduzione dei pignoramenti o la dich di inefficacia di taluno di essi qualora la somma dei crediti pignorati ecceda l’entità del credito precettato, aumentata del 50%. Ultimo istituto è la cessazione dell'efficacia del pignoramento. Il pignoramento può perdere efficacia se il creditore procedente non iscrive tempestivamente a ruolo il proc esecutivo. L’art. 518 c.p.c. per l’esecuzione mobiliare; l'art. 543 c.p.c. per l'esecuzione presso terzi; e l'art. 557 c.p.c. per il pignoramento immobiliare stabiliscono che l'ufficiale giudiziario, effettuato il pignoramento, invia gli atti al difensore del creditore procedente, il quale deve depositarne una copia, da lui autenticata, nel termine indicato in tali norme, iscrivendo la causa a ruolo. Altrimenti, il pignoramento perde efficacia. La cessazione dell’efficacia del pignoramento può derivare dall'art. 497 c.p.c. Come il precetto dev’essere seguito dal pignoramento in un termine minimo di 10, massimo 90gg, così all'avvenuto pignoramento deve seguire in un termine minimo di 10, massimo 90gg la richiesta di liquidazione del bene, cioè la richiesta del creditore di passare alla fase successiva dell’espropriazione. Tale fase non ha luogo, e la richiesta non è necessaria, quando oggetto del pignoramento è un quid che non dev’essere liquidato, cioè una somma di denaro: in tal caso si passa immediatamente alla fase della distribuzione del ricavato. Quando il pignoramento diviene inefficace, bisogna tener conto dell’art. 562 c.p.c. in materia di espropriazione immobiliare, il quale prevede la cancellazione della trascrizione del pignoramento. Se il pignoramento immobiliare perde efficacia, rimane sempre nei registri immobiliari la sua trascrizione, anche se ormai solo apparente, perché il pignoramento ha perso efficacia. Occorre procedere alla cancellazione della trascrizione. La cancellazione del pignoramento si effettua trascrivendo un altro atto, nel quale si dichiara che il pignoramento è divenuto inefficace; la cancellazione è un’operazione giuridica e non materiale. Risultano dai registri immobiliari la trascrizione dell’atto di pignoramento, e poi la trascrizione dell’ordinanza del giudice, con cui si dichiara che il pignoramento ha perso efficacia. Occorre esaminare gli artt. 2668-bis e 2668-ter c.c. La trascrizione delle domande giudiziali ha efficacia per 20anni, prima della scadenza dei quali la trascrizione dev’essere rinnovata, altrimenti perde effetti. L'art. 2668-ter c.c. estende alla trascrizione del pignoramento la disciplina delle trascrizione delle domande. Se l’esecuzione forzata dura più di 20anni, prima della scadenza del ventennio dalla trascrizione del pignoramento, questa dev’essere rinnovata: altrimenti la trascrizione del pignoramento perde effetti. Può accadere che il proc esecutivo si estingua (prima della vendita) senza che vi sia un provv formale del giudice di dich di estinzione, e senza che si abbia un ordine di cancellazione della trascrizione. Ed ottenere un ordine di cancellazione può non essere semplice, soprattutto a distanza di tempo, perché occorre notificare la richiesta di cancellazione agli interessati, i quali, a distanza di anni, possono non essere facilmente individuabili e/o reperibili. La disp contenuta nell'art. 2668-ter c.c. consente di non tener conto delle trascrizioni dei pignoramenti effettuate oltre 20anni prima: chi vuole acquistare il bene, o la banca che vuole concedere un mutuo garantito da ipoteca, può disinteressarsi di tali trascrizioni. Sulla base di tali istituti risulta chiaro che l’ord non considera colui che subisce l'esecuzione come una statua di sale, che sta li a subire gli effetti del proc 32 esecutivo; al contrario, egli ha a sua disp tutta una serie di strumenti, interni al proc esecutivo, coi quali non si mette mai in dubbio il se dell'esecuzione. Tutti gli istituti sono strumenti attraverso i quali non si afferma mai questa esecuzione non si ha da fare, ma, sul presupposto che sussista il dir di procedere all’esecuzione forzata, si fa si che il proc esecutivo vada avanti nella maniera più corretta possibile. Il cumulo dei mezzi dell'espropriazione si ha quando l'espropriazione è eccessiva rispetto al credito; il pagamento nelle mani dell’ufficiale giudiziario parte dal presupposto che, in mancanza del pagamento, si farà il pignoramento; la conversione del pignoramento parte dal presupposto che quell’esecuzione debba andare avanti. Per contestare il se dell'esecuzione occorre ricorrere ad un proc di cognizione, incidentale all'esecuzione, nel quale si accerta la sussistenza delle condizioni necessarie per poter procedere all’esecuzione forzata. Il debitore, che voglia contestare il dir di procedere ad esecuzione forzata, ha a disp strumenti esterni all’esecuzione, anche se incidenti sull’esecuzione stessa: sono proc di cognizione, separati dal proc esecutivo, il cui compito è quello di accertare se c’è o no il dir di procedere ad esecuzione forzata. All'interno dell'esecuzione si parte dal presupposto che il dir da tutelare vi sia e si adegua il proc esecutivo nel miglior modo possibile allo scopo da raggiungere: affinché si abbia la soddisfazione del dir, ma senza eccedere nell’espropriazione. Un altro elemento importante ricavabile da alcuni istituti, riguarda i rapp fra entità del credito e valore dei beni pignorati. Il pignoramento è valido, anche se è eccessivo: gli strumenti a disp del debitore conducono alla liberazione dei beni, mai alla dich di nullità del pignoramento, e alla caducazione dell’esecuzione. Parallelamente, si può da ciò dedurre che le contestazioni del debitore circa l'entità del credito, di cui il creditore procedente chiede la tutela esecutiva, non possono mai condurre alla caducazione del proc esecutivo: il pignoramento è valido anche se il credito è in realtà inferiore a quello vantato nel precetto. Affinché il creditore abbia dir di procedere ad esecuzione forzata è necessario che il credito vi sia, non anche che esso abbia una certa entità. Conseguentemente, le contestazioni del debitore sull'entità del credito del creditore procedente possono essere fatte valere non con l’opposizione all'esecuzione al fine di ottenere la caducazione del proc esecutivo (perché esse, anche se fondate, non possono mai produrre tale effetto), ma con altri strumenti (riduzione, cumulo, conversione, controversie in sede di riparto) e ad altri effetti. CAP. 13 – Intervento dei creditori (pp. 122 – 135) L’intervento dei creditori nell’espropriazione trova il suo fondamento nell'art. 2741 c.c., che va letto congiuntamente all'art. 2740 c.c. Come l'art. 2740 c.c. stabilisce che il debitore risponde dell’adempimento delle proprie obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri, così l'art. 2741 c.c. stabilisce che i creditori hanno uguale dir di essere soddisfatti sui beni del debitore, salve le cause legittime di prelazione: privilegi, pegno, ipoteca. I privilegi si caratterizzano per il fatto che sono previsti dalla l. in ragione della natura del credito. Non hanno dir di sequela: essi hanno effetto finché il bene resta nel patrimonio del debitore, e non seguono il bene se esce dal patrimonio del debitore. Il pegno e l’ipoteca hanno normalmente una causa convenzionale o nascono in virtù di un atto o un provv specifici (l’ipoteca può essere anche giudiziale). Vi sono forme di ipoteca legale, ma debbono essere oggetto di iscrizione nei pubblici registri. Nel ns sistema non esistono ipoteche generali o occulte (ipoteche che abbiano ad oggetto tutti i beni di un soggetto, o che non possano essere conosciute), perché l’ipoteca deve risultare dal pubblico registro. Pegno e ipoteca, al contrario dei privilegi, sono dir reali di garanzia, cioè hanno sequela anche nei confronti del patrimonio di soggetti diversi dal debitore. Se un bene è gravato da pegno o da ipoteca e il proprietario lo vende, esso passa all'acquirente gravato dall’ipoteca e dal pegno. Pertanto il creditore può perseguire il bene anche quando e di proprietà di soggetti diversi dal debitore. A tale scopo esiste un proced espropriativo particolare, che è l’espropriazione contro il terzo proprietario. Dalla lettura congiunta degli artt. 2740 e 2741 c.c. si ricava che le ragioni di prelazione sono l’unico meccanismo che incide sul princ della par condicio dei creditori. Le cause di prelazione nascono dal dir sostanziale e non dal proc: il proc deve rispettare le cause di prelazione che esistono sulla base del dir sostanziale e non crea ragioni di prelazione che non esistono sulla base del dir sostanziale, cioè non siano privilegi, pegno o ipoteca. Nel proc esecutivo si deve rispettare la condizione che i creditori hanno sul terreno del dir sostanziale. La vera portata del princ della par condicio non va cercata sul terreno del dir sostanziale, ma sul terreno del dir processuale. Tale princ non va inteso nel senso che, sulla base di esso, tutti i creditori dovrebbero essere chirografari, e ogni previsione normativa che istituisce una prelazione costituisce una deroga al princ stesso. Al contrario, sul piano sostanziale il legislatore è libero di fare quello che vuole, purché rispetti l'art. 3 Cost. È sul piano della tutela giurisdizionale che non vi debbono essere -salvo eccezioni- prelazioni che non trovino una radice nel dir sostanziale. Gli artt. 2740 e 2741 c.c. devono essere letti unitariamente come se dicessero: il debitore risponde nei confronti di tutti i suoi creditori, secondo le regole del dir sostanziale, dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri; la tutela esecutiva dei dir di credito dev’essere strutturata in modo tale da attuare le prescrizioni del dir sostanziale, e da non alterare le scelte del legislatore sostanziale. E, fino alla riforma del ’06, tutti i creditori avevano la possibilità di intervenire nell'esecuzione aperta da uno di essi, per chiedere la soddisfazione del proprio dir sulla base delle regole previste dal dir sostanziale. La nuova disciplina dell’intervento dei creditori costituisce una fra le più importanti e la più infelice innovazione di questa riforma. Essa presenta fondati profili di incostituzionalità. Modificando le scelte effettuate dal legislatore del ‘42, l'art. 499, I c.p.c. limita l’intervento: a chi ha tit esecutivo (anche successivo al pignoramento); a chi, al momento del pignoramento, ha un credito garantito da pegno, da prelazione iscritta o da sequestro; e a chi, sempre al 35 mantiene i dir reali di garanzia esistenti sul bene, la vendita forzata li estingue, e il bene passa libero nelle mani dell'acquirente. Si noti che la vendita forzata non estingue tutti i dir reali che vi siano sul bene, ma solo i dir reali di garanzia. Proprio perché la vendita forzata ha un tale effetto -detto purgativo- nei confronti dei creditori muniti di ragioni di prelazione, essi devono essere avvertiti della pendenza del proc esecutivo, così che possano intervenire e far valere sul ricavato il loro dir di credito, munito della ragione di prelazione, che hanno su quel certo bene. Per capire come mai solo i creditori con prelazione risultante da pubblici registri devono essere avvertiti, bisogna distinguere i creditori con dir reale di garanzia, che risulta da pubblico registro; i creditori con dir reale di garanzia, che non risulta da pubblico registro; ed i creditori muniti di privilegio. Il creditore munito di privilegio ha prelazione finché il bene rimane nel patrimonio del debitore; quando il bene, per una qualunque ragione, esce dal patrimonio del debitore, viene ad estinguersi anche la prelazione. Il privilegio non dà dir di sequela. Perché solo i creditori privilegiati iscritti debbono essere avvertiti? L’avvertimento, che il creditore procedente deve dare a tali creditori, costituisce condizione necessaria per procedere alla vendita; sarebbe assurdo imporre al creditore pignorante l’obbligo di avvertire tutti quanti i creditori con prelazione, quando il creditore pignorante non fosse in grado di venire a conoscenza della loro esistenza. Sarebbe per il creditore un onere che non potrebbe soddisfare, perché non sarebbe in grado di individuare i creditori muniti di dir di prelazione non reso pubblico. E sarebbe impossibile controllare, prima di autorizzare la vendita, che il creditore abbia effettivamente avvertito tutti i creditori muniti di ragioni di prelazione, anche di quelle non risultanti dai pubblici registri. Bisogna limitare l’onere del creditore all’ispezione dei pubblici registri per vedere se risultano prelazioni iscritte ed obbligarlo ad avvertire coloro che sono iscritti nei pubblici registri. Però anche i creditori che non risultino iscritti nei pubblici registri perdono la loro prelazione con la vendita forzata del bene: eppure non è necessario che siano avvertiti. La diversità di trattamento si giustifica diversamente a seconda che si tratti di privilegio o di dir reale di garanzia (soprattutto del pegno, che costituisce l’ipotesi principale di dir reale di garanzia non iscritto). Nel caso del privilegio il problema non si pone perché, il privilegio sussiste fino a quando il bene permane nel patrimonio del debitore: per il creditore la vendita forzata non ha effetto diverso dalla vendita di dir comune. L’effetto purgativo della vendita forzata vale solo per i dir reali di garanzia, perché per i privilegi l'effetto della vendita forzata non è diverso da quello della vendita che il debitore compia sul terreno del dir sostanziale; anche in questo ultimo caso il bene esce dal suo patrimonio e il creditore privilegiato perde ogni dir su quel bene. Per i creditori privilegiati la vendita forzata non ha effetti diversi dalla vendita di dir comune. L’estinzione dei privilegi è un effetto della vendita in genere, e non della vendita forzata in particolare. E poiché la vendita di dir comune è valida ed efficace anche se i creditori privilegiati non sono avvertiti, anche la vendita forzata può essere effettuata senza la necessità di avvertire i creditori privilegiati. Nel caso dei dir reali di garanzia non iscritti la vendita forzata ha un effetto estintivo della prelazione che la vendita di dir comune non ha; il creditore munito di pegno può far valere il suo dir contro qualunque soggetto a cui il proprietario trasferisca la proprietà del bene, ma non nei confronti dell’aggiudicatario. Bisogna considerare che, per l’esistenza del pegno, occorre che il bene sia sottratto al debitore e sia in possesso del creditore o di un terzo. Se il bene è nel possesso del creditore pignoratizio, l’esecuzione forzata va instaurata nei suoi confronti ex art. 543 c.p.c., e il creditore viene necessariamente a conoscenza del pignoramento, e può intervenire. Se il bene si trova presso un terzo, l'espropriazione si deve svolgere nelle forme dell'art. 543 c.p.c., in quanto costui è terzo detentore del bene che appartiene al debitore esecutato, e per regola di dir sostanziale egli è obbligato ad avvertire il creditore pignoratizio. Il suo obbligo di custodia gli impone di avvertire il creditore della pendenza del proc esecutivo, affinché il creditore possa intervenire. Per i dir reali di garanzia che risultano iscritti nei pubblici registri scatta l’obbligo dell’art. 498 c.p.c. Il creditore procedente deve notificare a costoro un avviso contenente l’indicazione del creditore pignorante, del credito per il quale si procede e del tit. In mancanza di tale notifica, il giudice deve rifiutarsi di emettere l'ordinanza di vendita. Il creditore procedente, sulla base dell'art. 567 c.p.c., deve allegare all'istanza di vendita i certificati delle trascrizioni ed iscrizioni; egli deve farsi rilasciare dalla Conservatoria dei registri immobiliari (o dal conservatore dei registri mobiliari: P.R.A., Registro navale o aeronautico, etc) un certificato in cui si attesta se vi sono e quali sono le iscrizioni di dir reali di garanzia sul bene. Il giudice è così in grado di controllare se sono state effettuate le notifiche ai creditori iscritti. È impossibile che si dia luogo alla vendita senza che siano stati avvertiti i creditori iscritti; il mancato avvertimento può derivare o da un errore del conservatore nel controllare i registri o da una disattenzione del giudice. In ambo i casi il creditore privilegiato iscritto, che non sia stato avvertito, ha dir al risarc dei danni da parte del creditore pignorante, che abbia omesso la notifica, o da parte del conservatore, se l'errore è imputabile a quest'ultimo. L’intervento dei creditori può essere tempestivo o tardivo. Gli artt. 528 (per l'espropriazione mobiliare), 551 (per l’espropriazione dei crediti), e 565 (per l’espropriazione immobiliare) c.p.c. distinguono i creditori intervenuti tempestivamente o tardivamente con riferimento ai creditori chirografari, cioè ai creditori che non sono muniti di un dir di prelazione. I creditori con prelazione, in qualunque momento del proc esecutivo intervengano, sono soddisfatti secondo l’ordine delle prelazioni previsto dal c.c. L'intervento, sia per i creditori chirografari sia per quelli muniti di prelazione, ha come termine ultimo il momento in cui si effettua la distribuzione del ricavato. Dopo tale momento, l'intervento non è più possibile perché il proc esecutivo ormai è concluso. Mentre i creditori chirografari tempestivi sono soddisfatti (dopo i creditori con prelazione) in ragione percentuale del loro credito, i creditori chirografari tardivi sono soddisfatti sul residuo che eventualmente avanza, dopo che siano stati soddisfatti per intero i chirografari tempestivi. Si hanno 36 tre categorie di creditori: con dir di prelazione, chirografari tempestivi e chirografari tardivi. Il momento che determina la tempestività dell'intervento è dato dalla prima ud fissata per stabilire le modalità di assegnazione o di vendita, cioè l'ud che apre la fase di liquidazione. La specificazione prima ud fissata per l’autorizzazione della vendita comporta che, se alla ud fissata, per qualsiasi ragione, viene effettuato un rinvio ad un’ud successiva, rilevante è la prima ud e non quella in cui viene effettivamente autorizzata la vendita. Se l’intervento è effettuato entro tale ud è tempestivo, se effettuato dopo è tardivo. Nel caso dell’art. 525 c.p.c., cioè nel caso della piccola espropriazione mobiliare (che si ha quando il valore dei beni pignorati non supera i 20mila€) la tempestività dell’intervento è misurata sull'istanza -precedente- con cui il creditore pignorante chiede che sia fissata l'ud per determinare le modalità di liquidazione. La fase di liquidazione si apre col ricorso di un creditore munito di tit esecutivo che chiede al giudice disporsi la vendita o la assegnazione del bene. A seguito di tale ricorso il giudice fissa l'ud per stabilire le modalità di vendita o assegnazione. Nella piccola espropriazione la tardività è anticipata rispetto a quella dell’espropriazione ordinaria. Per quanto riguarda l’espropriazione dei crediti, rilevante è l’ud di comparizione delle parti, fissata dal creditore pignorante col ricorso ex art. 543 c.p.c. ln tale ud, qualora il terzo renda o abbia reso una dich conforme, ha luogo anche l’assegnazione del credito, ed il proc esecutivo si chiude. Sicché, un intervento tardivo nell’espropriazione dei crediti è possibile solo se la dich è omessa o contestata, perché in tal caso il creditore avrà la possibilità di intervenire, sia pur tardivamente. Se il pignoramento si perfeziona con la conforme dich del terzo pignorato, il termine per l’intervento coincide col momento in cui si chiude il proc esecutivo. La ragione per cui il legislatore distingue fra creditori tempestivi e tardivi è: attraverso una serie di istituti l'ord consente al creditore di muoversi liberamente nella scelta delle varie forme di espropriazione e nell’individuazione dei beni da espropriare. Tuttavia, se il creditore esagera nella sua attività di espropriazione, è possibile ricondurre il valore dei beni pignorati all’entità del credito (riduzione del pignoramento, cumulo dei mezzi di espropriazione). Come meccanismo inverso vi è l’estensione del pignoramento, che è provocata dall'intervento dei creditori. Tali meccanismi possono funzionare solo nella fase anteriore alla vendita forzata. Ci dev’essere un momento in cui ci si ferma: il proc esecutivo non arriverebbe mai alla fine, se l’entità dei beni pignorati venisse di continuo ad ampliarsi o ridursi, a seconda dei creditori che intervengono e del valore dei beni. Tale momento è quello in cui si passa alla fase di liquidazione. L'intervento di un creditore, in un momento successivo al passaggio alla fase di liquidazione, sconvolgerebbe tutti i calcoli che sono stati fatti sul presupposto che vi sia una certa quantità di crediti da soddisfare, col rischio che i beni, di cui è stata disposta la liquidazione, risultino insufficienti per soddisfare i creditori. Questa è la ragione per cui, da un certo momento in poi, l’intervento del creditore chirografario è tardivo e come tale il creditore è soddisfatto dopo che si sono soddisfatti i creditori tempestivi; in ogni caso, dopo il creditore procedente. È chiaro che tale regola non ha ragion d'essere per i creditori privilegiati: in ogni caso questi hanno dir alla soddisfazione prima dei chirografari, anche tempestivi. Secondo l’art. 499 c.p.c., ai creditori, che siano intervenuti tempestivamente, il creditore pignorante ha facoltà di indicare, all'ud o con atto notificato l'esistenza di altri beni del debitore utilmente pignorabili. Il creditore procedente ha pignorato certi beni con riferimento al valore del suo credito (altrimenti rischia di subire la riduzione del pignoramento). Oggetto del pignoramento è una quantità di beni di valore pari o di poco superiore al credito. Ma tali beni, che sono sufficienti per il creditore procedente, diventano insufficienti quando intervengono altri creditori. Se i beni pignorati sono tutto quanto c’è di attivo nel patrimonio del debitore, si verifica una situazione di incapienza del patrimonio del debitore. Si applicano le regole di dir sostanziale: si fa una lista di creditori da soddisfare, mettendo prima i creditori con prelazione nell'ordine previsto dal c.c., poi i creditori chirografari in proporzione ai rispettivi crediti. Ma se la quantità dei beni pignorati deriva da una doverosa scelta del creditore procedente, che ha limitato il pignoramento in relazione all’entità del suo credito, e nel patrimonio del debitore vi sono altri beni utilmente pignorabili, è chiaro che il meccanismo della soddisfazione proporzionale non funziona più, perché qui non si è in una situazione di incapienza. Gli altri creditori sono intervenuti nell’esecuzione non perché nel patrimonio del debitore non vi fossero altri beni, ma per loro scelta, o perché non hanno tit esecutivo. Il creditore procedente può allora indicare agli intervenuti l’esistenza di altri beni, ed invitarli ad estendere il pignoramento (se hanno tit esecutivo) o (se non hanno il tit) ad anticipare a lui le spese, per effettuare l'estensione col proprio tit. Una volta che il procedente abbia così agito, la palla passa ai creditori intervenuti, i quali, se non rispondono all’invito ad estendere il pignoramento, diventano postergati al creditore procedente al momento della distribuzione. Si è in presenza di una seconda ipotesi di prelazione di natura processuale (la prima è la tardività dell'intervento dei creditori chirografari). L’art. 499 c.p.c. omette di stabilire cosa accade se l’invito è effettuato dal creditore procedente ad un creditore intervenuto non munito di tit esecutivo, e questi omette di anticipargli le spese necessarie all’estensione del pignoramento. Ma le conseguenze saranno identiche: il creditore pignorante acquista una prelazione processuale in sede di distribuzione. CAP. 14 – Vendita e assegnazione in generale (pp. 136 – 145) Nella seconda fase del proc d'espropriazione, il dir pignorato viene liquidato, cioè trasformato in una somma di denaro, in modo da poter soddisfare il creditore procedente ed i creditori eventualmente intervenuti. La liquidazione non è necessaria se il bene pignorato consiste in una somma di denaro (bene che l'ufficiale giudiziario deve preferire); nel caso dell’art. 494, ult. co., c.p.c., cioè quando il debitore ha consegnato una somma di denaro come oggetto del pignoramento; e nell’ipotesi 37 dell’art. 495 c.p.c., in seguito alla conversione del pignoramento. Negli altri casi occorre procedere alla liquidazione. Nel passaggio dalla fase del pignoramento a quella della liquidazione è fondamentale l'art. 501 c.p.c., che prevede un termine minimo di 10gg dal pignoramento alla domanda di assegnazione o vendita. Considerando che il pignoramento perde effetti decorsi 90gg dal giorno in cui è compiuto senza che sia chiesta l'assegnazione o la vendita, effettuato il pignoramento, ci sono 80gg utili per proporre l’istanza di vendita. Il termine dilatorio previsto dall'art. 501 c.p.c. ha due funz: consente al debitore di reagire al pignoramento, es, con una richiesta di conversione, con un’istanza di riduzione, con le opposizioni; in secondo luogo, dà agli altri creditori un minimo di tempo per poter tempestivamente intervenire nell'esecuzione. Con riferimento al pignoramento dei crediti, il termine dilatorio è quello che va dalla notificazione dell'atto di pignoramento all'ud fissata nello stesso atto. Il termine dilatorio per l’istanza di vendita non si applica alle cose deteriorabili, per le quali la liquidazione può essere immediata. L’art. 529 c.p.c. stabilisce che, decorso il termine dilatorio, il creditore procedente ed i creditori intervenuti muniti di tit esecutivo possono chiedere la distribuzione del denaro e la vendita di tutti gli altri beni. L’art. 552 c.p.c. per l'espropriazione dei crediti rinvia agli artt. 529 e ss. c.p.c. L'art. 567 c.p.c. per l'espropriazione immobiliare ripete ciò che è previsto per l’espropriazione mobiliare. Da tali norme si ricava che, per proporre istanza di vendita, occorre essere muniti di tit esecutivo e l’istanza può essere proposta dal creditore procedente o da qualsiasi altro creditore. Mancando l'istanza, il pignoramento perde efficacia. I creditori privi di tit esecutivo aspetteranno di avere un tit esecutivo o terranno gli occhi aperti per vedere se ci sarà un altro pignoramento e per poter così intervenire nella successiva espropriazione. I modi per procedere alla liquidazione sono la vendita e l'assegnazione. Dal punto di vista degli effetti sostanziali non c’è differenza: in ogni caso il dir pignorato si trasferisce ad un altro soggetto. La differenza è processuale: nella vendita il soggetto, che diventa titolare del dir pignorato al posto dell’esecutato, può essere qualunque soggetto (anche creditori), tranne il debitore esecutato; mentre nell’assegnazione il dir viene trasferito a uno dei creditori (procedente o intervenuto). L’assegnazione è un affare fatto in famiglia coi creditori, fra soggetti che già sono parti del proc esecutivo: è ovvio che esistono delle condizioni e dei limiti all’assegnazione, per garantire che essa non abbia luogo per una somma non corrispondente al valore effettivo del bene. L'assegnazione può assumere due diverse configurazioni. In una prima ipotesi il creditore si rende assegnatario soddisfacendosi in tutto o in parte del proprio credito attraverso l’attribuzione del dir pignorato. Tale assegnazione si definisce satisfattiva; si produce con un unico atto un duplice effetto: l'effetto traslativo del dir pignorato dal debitore al creditore, e l’effetto estintivo, totale o parziale, del credito dell’assegnatario verso il debitore. Mentre nelle altre ipotesi il provv liquidativo ha solo un effetto traslativo, nell’assegnazione satisfattiva si produce anche l'estinzione del credito. Si ha l'assegnazione- vendita quando il creditore assegnatario, per rendersi tale, paga una somma di danaro. Quindi non si soddisfa del suo credito, perché il corrispettivo del trasferimento del dir non viene da lui trattenuto ad estinzione del suo credito, ma è da lui versato e poi sarà oggetto di distribuzione come se il bene pignorato fosse stato venduto. La fase della distribuzione, che si ha nell’assegnazione-vendita, non si ha nell’assegnazione satisfattiva, dove il proced si chiude col provv di assegnazione. Nel caso di assegnazione-vendita, la situazione è diversa perché il creditore si rende assegnatario e paga una somma che viene poi distribuita nelle forme normali. I vantaggi che il creditore ha nell'assegnazione-vendita possono essere diversi: ad es., dopo una vendita fallita, egli non vuole che il bene vada svenduto a un prezzo inferiore al suo valore, e preferisce rendersi assegnatario per il valore effettivo. I rapp tra la vendita e l’assegnazione sono: 1) vi sono beni che debbono essere assegnati senza un previo tentativo di vendita: tali sono i crediti pignorati che siano scaduti o che scadano entro 90gg; 2) vi sono beni che possono essere assegnati senza un previo tentativo di vendita: i tit di credito e le altre cose il cui valore risulta dal listino di borsa o di mercato. Qui non è necessario il previo tentativo di vendita perché il valore dei beni risulta dal listino; quindi, anche se si procedesse alla vendita, presumibilmente non si potrebbe realizzare un valore maggiore; 3) vi sono beni che debbono essere assegnati dopo un tentativo di vendita fallito: gli oggetti d'oro e d’argento non possono essere in nessun caso venduti per un prezzo inferiore al valore intrinseco. Se restano invenduti sono assegnati per tale valore ai creditori; 4) tutti gli altri beni possono essere assegnati dopo un primo tentativo di vendita fallito. Ciò significa che nel tentativo di vendita non si è raggiunto il prezzo di stima del bene. Il creditore, che chiede l’assegnazione per il valore di stima, non pregiudica né il debitore né gli altri creditori intervenuti, perché quel valore non è stato raggiunto nel tentativo di vendita ed è non inferiore all’effettivo valore del bene secondo la stima. Con questi meccanismi si ha la garanzia che l’assegnazione non abbia luogo in pregiudizio del debitore o degli altri creditori. L’assegnazione di cui ai nn. 1) e 3) è coattiva, cioè prescinde dalla domanda dei creditori, mentre quella di cui ai nn. 2 e 4) è volontaria, cioè ha luogo solo su istanza del creditore. Tuttavia, per evitare che l'assegnazione avvenga ad un prezzo di favore, in base ad un accordo dei creditori tra loro, viene stabilito un valore minimo di assegnazione, che si applica solo all'ipotesi sub n. 4. L'art. 506 c.p.c. stabilisce che l'assegnazione può essere fatta solo per un valore non inferiore alle spese di esecuzione e ai crediti aventi dir a prelazione anteriore a quello dell’offerente. Se il valore del bene eccede quello indicato nel co. precedente, sull’eccedenza concorrono l’offerente e gli altri creditori osservate le cause di prelazione che li assistono. Quindi il valore dell’assegnazione è il maggiore tra il valore di stima del bene e la somma delle spese di esecuzione e dei crediti che hanno prelazione e che sono collocati anteriormente al creditore offerente. Quando, decorsi 10gg dal pignoramento ed entro 90 dallo stesso, viene fatta un'istanza di vendita o di assegnazione (quest'ultima nei casi in cui è possibile procedere all’assegnazione senza il previo tentativo di vendita), le norme che trovano 40 dividono e bisogna seguire le varie forme di espropriazione nelle loro singole specificità, perché i vari tipi di beni sono assoggettati a modalità diverse di liquidazione. CAP. 15 – Singole forme di vendita forzata (pp. 146 – 158) Nell'espropriazione mobiliare, la disciplina è unitaria per l’espropriazione diretta e per quella di beni mobili che il debitore ha presso terzi. L'art. 552 c.p.c. rinvia agli artt. 529 e ss. c.p.c. I modi di liquidazione del bene mobile sono due: la vendita a mezzo commissionario e la vendita all'incanto. La vendita a mezzo commissionario è disciplinata dagli artt. 532 e 533 c.p.c. Essa consiste nell’affidare la vendita del bene mobile, previamente stimato da un esperto, per un prezzo minimo stabilito dal giudice, ad un soggetto il quale lo vende a trattativa privata, attraverso un contratto che egli stipula con l'acquirente. L'incarico è conferito all'istituto vendite giudiziarie, e può essere conferito ad un soggetto diverso dall’istituto vendite giudiziarie solo se si tratta di beni con caratteristiche peculiari, che consigliano di rivolgersi ad un commerciante, specializzato nel settore. La liquidazione avviene con un atto che ha la natura, le caratteristiche e gli effetti di un ordinario atto negoziale di compravendita di un bene mobile. L’atto traslativo non avviene all’interno del proc esecutivo, ma è delegato ad un terzo; il proc esecutivo recepisce gli effetti dell’atto traslativo che viene compiuto fra il commissionario e l’acquirente in vendita forzata. Il commissionario ha dir ad un compenso che stabilisce il giudice, deve documentare la vendita e versare la somma che ha ricavato nelle casse dell’esecuzione. L'altra modalità di vendita per i beni mobili è la vendita all’incanto, che è disciplinata dagli artt. 534 e 537 c.p.c. Secondo l'art. 534 c.p.c., la vendita all’incanto può essere affidata al cancelliere, o all’ufficiale giudiziario, o ad un istituto allo scopo autorizzato. Di solito viene affidata agli istituti vendite giudiziarie, che sono società che hanno, tra le altre finalità, anche quella di procedere alla vendita forzata dei beni mobili. Viene stabilito un prezzo minimo per l’incanto, viene fissata la data dell’incanto e nei giorni precedenti all’incanto l'incaricato si reca a ritirare i beni mobili dal custode, perché la vendita all’incanto dei beni mobili avviene in presenza del bene: chi partecipa alla vendita all’incanto vede il bene che viene messo in vendita. L'aggiudicazione, come accade all’incanto, è fatta al maggior offerente. L’acquirente paga il prezzo e si porta via il bene, il soggetto incaricato della vendita versa all'esecuzione il ricavato, trattenendosi il compenso che per l. spetta all'incaricato della vendita dei beni mobili. Nella vendita all’incanto dei beni mobili, il trasferimento della proprietà avviene al momento del pagamento del prezzo. Non si applica il princ consensualistico valido per i contratti: ciò conferma che all’analogia degli effetti della vendita forzata e della vendita di dir comune non corrisponde un’analogia nel regime dei rispettivi atti: atti aventi una natura ed una disciplina diverse possono produrre gli stessi effetti. Può darsi che la vendita del bene mobile non abbia luogo in alcuna delle due forme, perché non si trova nessuno che offra il prezzo minimo di stima. Si ha l’ipotesi della vendita fallita, cioè della vendita non effettuata per mancanza di offerenti. L'art. 538 c.p.c. prevede due possibilità: che si abbia l’assegnazione del bene, su richiesta di uno o più creditori, per il valore di stima che il giudice ha determinato prima di procedere alla vendita dello stesso; se nessuno chiede l'assegnazione, l'incaricato effettua una seconda vendita all’incanto ad un prezzo base inferiore del 20% rispetto al precedente. La seconda vendita a prezzo libero non può essere disposta per gli oggetti d’oro e d'argento, i quali, se invenduti, debbono essere coattivamente assegnati per il loro valore intrinseco. Gli artt. 534-bis e 534-ter c.p.c. disciplinano una forma particolare di vendita dei beni mobili registrati (autoveicoli, navi, aeromobili, etc). Il giudice può delegare le operazioni di vendita, con incanto o senza incanto, all’istituto vendite giudiziarie o, se non vi è l’istituto vendite giudiziarie, ad un professionista (notaio, avv, commercialista) iscritto nell’apposito elenco tenuto presso il trib. Il proced di vendita su delega dei beni mobili registrati ha la stessa disciplina della vendita su delega degli immobili. Perfezionato il pignoramento, si può procedere alla liquidazione del credito, che avviene attraverso il trasferimento del credito dal debitore esecutato, che ne è titolare, ad un soggetto diverso. Nell'espropriazione singolare l’uff esecutivo non cura la riscossione del credito. L’unica maniera per liquidare il credito è di trasferirlo ad un altro soggetto, il quale poi compirà l’attività necessaria per la riscossione. Il trasferimento del credito costituisce una cessione del credito. L'assegnatario è un cessionario, e diventa il nuovo titolare del credito. Il terzo debitore diventa debitore dell’assegnatario, e si applicano tutte le regole della cessione circa l’opponibilità al cessionario delle eccezioni da parte del debitore ceduto. Il ceduto può opporre al cessionario tutte le eccezioni che può opporre a un cessionario che sia divenuto tale in virtù di un atto di dir sostanziale, secondo le regole del c.c. Occorre tener presente una differenza; al contrario della cessione di dir comune, che può aver luogo anche senza alcun previo accertamento di esistenza del credito, qui si può avere una vicenda pregressa costituita da una dich di natura confessoria del terzo debitore, dich alla quale il terzo debitore è vincolato. Le eccezioni opponibili dal terzo debitore all’assegnatario non possono contrastare col contenuto vincolante della dich. Occorre tener conto del fatto che, in virtù degli effetti del pignoramento, il terzo debitore non può opporre all'assegnatario o all’acquirente del credito le eccezioni che non può opporre al creditore procedente. Se il credito pignorato è già scaduto, o scade entro 90gg, l'assegnazione è coattiva: cioè non è necessaria la richiesta dell’assegnatario. L'art. 553 c.p.c. afferma che l'assegnazione ha luogo salvo esazione; ciò significa che la cessione avviene pro solvendo. Quello che l'art. 553 c.p.c. esprime è previsto dall'art. 2928 c.c.: il dir dell’assegnatario verso il debitore che ha subito l’espropriazione non si estingue che con la riscossione del credito assegnato. Al momento dell’assegnazione non avviene l'estinzione del dir del creditore assegnatario verso il debitore esecutato, ma tutti e due i dir di credito rimangono coesistenti. Il creditore 41 assegnatario mantiene i due dir -uno verso il debitore esecutato e l’altro verso il terzo debitore assegnato- fino al momento del pagamento. Nel momento in cui il terzo debitore assegnato paga il suo debito al creditore assegnatario, automaticamente si estingue anche, per la quantità corrispondente, il credito che l'assegnatario vanta nei confronti del debitore esecutato. E se il terzo assegnato è insolvente, sul piano del dir sostanziale il creditore mantiene intatto il suo credito nei confronti del debitore originario. Più incerta è la disciplina dei crediti che scadono oltre i 90gg. L’art. 553, II c.p.c. dispone che i crediti che scadono oltre i 90gg possono essere o assegnati o venduti. Sono assegnati se i creditori ne fanno domanda; sono venduti se nessuno dei creditori ne chiede l’assegnazione. Se il credito è venduto, ciò significa che si trova un soggetto, il quale si rende cessionario del credito pagando una somma, inferiore al valore nominale del credito; e ciò perché l’acquirente del credito deve scontare il ritardo nella riscossione, e la solvibilità del terzo ceduto. In questo caso la cessione avviene pro saluto: l’acquirente del credito paga subito, e un domani che va a riscuotere può anche trovare che il terzo debitore è insolvente. Quindi la somma, per la quale è venduto il credito, è maggiore o minore a seconda di tutte le variabili sopra esposte. Il problema nasce se, invece della vendita del credito, i creditori ne chiedono l'assegnazione. Nel caso di crediti scaduti o che scadono entro 90gg, l’assegnazione è coattiva ed avviene pro solvendo; invece qui l’assegnazione ha luogo su domanda dei creditori. Essa è pro solvendo o pro soluto? Gli elementi per risolvere il problema sono: l'art. 553 c.p.c., il quale non riporta l'inciso «salvo esazione»; e la tradizione, ereditata dal vecchio cod, nel quale si distingueva fra le due vicende e si prevedeva che, mentre l’assegnazione coattiva dei crediti scaduti avveniva pro solvendo, l’assegnazione a domanda dei crediti da scadere avveniva pro soluto. Dall'altro lato l'art. 2928 c.c. stabilisce: se oggetto dell’assegnazione è un credito, sembrando ricomprendere in un’unica disciplina (l’assegnazione pro solvendo) tutte le ipotesi di assegnazione del credito. L’elemento che può aiutare a risolvere il problema è contenuto nell'art. 553 c.p.c., il quale equipara la vendita del credito all’assegnazione su domanda. Siccome la vendita avviene sicuramente pro soluto, si deve pensare che anche l’assegnazione ha luogo pro soluto. Se così fosse, è chiaro che il valore del credito per cui si procede all’assegnazione non è più il valore nominale, ma è un valore scontato, perché il creditore deve tener conto del fatto non solo che incasserà la somma dopo un certo periodo di tempo, ma anche che assume su di sé i rischi dell’inadempimento e dell’insolvenza del terzo debitore assegnato. Se il credito viene venduto, il terzo acquirente versa una somma di denaro, che poi è oggetto di distribuzione nei modi ordinari. Invece l’assegnazione del credito chiude il proc esecutivo, perché non c'è più niente da fare: come avviene nelle altre ipotesi di assegnazione satisfattiva, dove non c'è bisogno di passare alla terza fase del proc esecutivo, che è la distribuzione del ricavato. L’assegnatario si trova nella posizione di chi deve curare la riscossione del credito di cui è divenuto titolare. Nel caso di assegnazione pro solvendo curare la riscossione è un onere del creditore assegnatario, il quale non può rendersi inattivo, omettendo di compiere quanto necessario per riscuotere il credito dal terzo assegnato e pretendere poi di mantenere il suo credito nei confronti del debitore esecutato. Se vuol mantenere tale credito, deve fare tutto ciò che è necessario per riscuotere dall’assegnato. Nel caso di assegnazione pro soluto, come nel caso di vendita, il credito nei confronti del debitore esecutato si è già estinto nel momento dell’assegnazione, per la somma corrispondente al valore dell'assegnazione. È interesse dell'assegnatario procedere alla riscossione. Se il terzo debitore non paga, l’assegnatario deve provvedere alla tutela giurisdizionale del suo dir di credito: per poter procedere all'esecuzione forzata nei confronti del terzo debitore assegnato, l'assegnatario deve avere un tit esecutivo. Se il debitore esecutato era già munito di un tit esecutivo nei confronti del terzo debitore, l'assegnatario subentra nella possibilità di utilizzare tale tit esecutivo, in qualità di successore del creditore originario. Se il debitore esecutato non aveva un tit esecutivo nei confronti del terzo assegnato, può utilizzare come tit esecutivo l'ordinanza di assegnazione. Gli artt. 548 e 549 c.p.c. prevedono la possibilità di fondare l'esecuzione contro il terzo sull’ordinanza di assegnazione. L'ud in cui si stabiliscono le modalità per la vendita dell'immobile si svolge in modo analogo. Occorre premettere che all’istanza di vendita, che il creditore procedente (o altro creditore intervenuto, munito di tit esecutivo) deve depositare entro 90gg dal pignoramento, dev’essere allegata la documentazione prevista dall’art. 567 c.p.c. A seguito della presentazione dell'istanza, il giudice incarica un esperto della stima del bene, e fissa l’ud, nella quale dispone la vendita del bene, e ne fissa le modalità. Le modalità di liquidazione del bene sono la vendita senza incanto e la vendita con incanto. Dapprima si procede alla vendita senza incanto; se questa non dà risultato positivo, allora si passa alla vendita con incanto. In ogni caso alla vendita è data pubblicità, anche attraverso l’inserzione in appositi siti internet, nei quali è inserita anche la relazione di stima dell’esperto. La vendita senza incanto consiste in un invito a fare la propria offerta in cancelleria in busta chiusa, offerta che rimane sconosciuta fino a che non vengono aperte le buste. Possono partecipare tutti gli interessati (anche i creditori), tranne il debitore esecutato, perché non ha senso un acquisto da se stesso. Una forma particolare di modalità di offerta è quella fatta per persona da nominare, ad opera di un avv. Costui può offrire una certa somma senza indicare il soggetto interessato all'acquisto; avvenuta l'aggiudicazione a suo favore, entro 3gg deve depositare in cancelleria il nome del vero acquirente. Da tale momento la procedura prosegue con l’acquirente effettivo. Se non viene fatta la dich, l'aggiudicazione diviene definitiva a nome dell’avv. Si ricorre a questa forma di offerta quando non si vuole far sapere che si è interessati all'acquisto del bene. Col deposito in cancelleria dell’offerta in busta chiusa si deve versare, a tit di cauzione, una somma equivalente a 1/10 del prezzo offerto. Quando è scaduto il termine per il deposito in cancelleria delle buste, il giudice dell’esecuzione le apre e vede le offerte effettuate. Poi convoca tutte le parti del proc esecutivo e se l'offerta 42 maggiore è superiore di almeno il 20% al valore di stima, l'immobile è immediatamente aggiudicato all’offerente. Altrimenti, si passa alla vendita all'incanto se il creditore procedente lo chiede, o se il giudice lo ritiene opportuno. Qualora vi siano più offerte, il giudice dell'esecuzione invita i più offerenti ad una gara sull’offerta più alta. Quando il giudice ritiene di accogliere l’offerta, allora deve emettere due d. Col primo stabilisce le modalità di versamento del prezzo; se il versamento non è effettuato, il giudice provvede ad una rivendita all'incanto del bene e la cauzione che aveva versato l'acquirente viene incamerata nelle casse dell’esecuzione; e se, nella rivendita, il bene spunta un prezzo minore, per la differenza tra il prezzo offerto e non pagato e il prezzo minore ottenuto nella rivendita resta obbligato il soggetto offerente ed inadempiente. Se l’acquirente versa la somma con le modalità e nei termini previsti dal 1°d., allora il giudice emette un 2°d., il d. di trasferimento, che è l'atto terminale del proced di liquidazione, e che ha l'effetto di trasferire all’acquirente il dir pignorato al debitore. L'altra modalità di liquidazione è la vendita all’incanto. Essa inizia col bando di vendita, che ha la sua pubblicità. Il bando stabilisce il giorno e l'ora in cui, nell’ud pubblica, in presenza del giudice, si procederà alla vendita. I soggetti che possono partecipare sono gli stessi della vendita senza incanto ed anche qui vi è la possibilità di offerte per persona da nominare da parte di un procuratore legale; gli offerenti debbono prestare la stessa cauzione. All’ud (che eccezionalmente può tenersi anche se non è presente un creditore munito di tit esecutivo), il giudice procede alla vendita all’incanto. Ciascun soggetto, che si è legittimato a partecipare, fa oralmente la sua offerta. Trascorsi 3min dall’ultima offerta senza che ne siano fatte di maggiori, il bene viene aggiudicato all'ultimo offerente. Si sono individuati l’offerente e il prezzo di vendita. Le cose possono non finire qui, perché l'art. 584 c.p.c. stabilisce che, entro 10gg dall’incanto, possono essere fatte delle offerte in aumento di almeno 1/5 del prezzo raggiunto nell’aggiudicazione. Qui si innesta nella vendita all’incanto una specie di vendita senza incanto, cioè si passa alla vendita con le offerte in cancelleria. Uno o più offerenti in aumento depositano la propria offerta; il giudice convoca gli offerenti e l’aggiudicatario per la gara prevista dall’art. 573 c.p.c., dopodiché il giudice procede nel medesimo modo. L’offerente all’incanto, o il vincitore nella gara, deve versare il prezzo nel modo stabilito nel bando di vendita; se non versa il prezzo nel termine stabilito, si producono le stesse conseguenze viste il relazione alla vendita senza incanto. Se il versamento viene effettuato, il giudice pronuncia il d. di trasferimento ex art. 586 c.p.c. Questa norma consente al giudice di non pronunciare il d. di trasferimento, se ritiene che il prezzo di aggiudicazione sia notevolmente inferiore al valore effettivo del bene. Parte della dottrina sostiene che il trasferimento del bene avviene al momento dell'aggiudicazione. L’art. 586 c.p.c. sembra suggerire la soluzione contraria per tre motivi: perché stabilisce che il d. trasferisce il bene all'aggiudicatario; in secondo luogo, perché dichiara il d. di trasferimento tit per la trascrizione; ed infine perché la possibilità per il giudice di non pronunciare il d., quando ritiene che il prezzo di aggiudicazione non corrisponda al valore effettivo del bene, non sarebbe compatibile col trasferimento della proprietà. Quindi il trasferimento avviene col d., e non con l’aggiudicazione. La conclusione non è contraddetta dall’art. 187-bis disp. att. c.p.c., secondo il quale in ogni caso di estinzione o di chiusura anticipata del proc esecutivo avvenuta dopo l’aggiudicazione, anche provvisoria, o l'assegnazione, restano fermi nei confronti dei terzi aggiudicatari o assegnatari gli effetti di tali atti. Questa disp, introdotta dalla riforma del ‘06 a maggior tutela dell'affidamento dell'acquirente, applica la regola prevista nell’art. 632 c.p.c. anche alle aggiudicazioni o assegnazioni provvisorie: ciò non significa che il trasferimento del dir avvenga con tali atti, ma solo che -quando il proc esecutivo si estingue, o si chiude, senza che sia stato completato il sub-proced che porta al trasferimento del dir- il proc esecutivo prosegue limitatamente a tale sub- proced, nel quale si provvede al compimento degli atti che portano al definitivo trasferimento del dir. Col d. di trasferimento si dispone la cancellazione della trascrizione del pignoramento e delle iscrizioni ipotecarie. L’effetto purgativo della vendita forzata non è previsto dal c.c., ma si ricava dall'art. 586 c.p.c. La disp è poco opportuna, perché l'estinzione dell'ipoteca a garanzia di un credito a lungo termine costringe il creditore ipotecario a partecipare all’espropriazione del bene ed a riprendersi la somma che gli spetta anche prima del termine che egli aveva pattuito. Forse sarebbe più opportuno che fosse concessa al creditore ipotecario la possibilità di scegliere di soddisfarsi sul ricavato, con l'estinzione dell'ipoteca, o mantenere l’ipoteca con effetto nei confronti dell’aggiudicatario: ciò che è possibile solo sulla base di un accordo fra creditore ipotecario ed aggiudicatario. Un’importante novità, introdotta dalla riforma del ‘06, riguarda la possibilità che l'aggiudicatario finanzi il proprio acquisto mediante mutuo ipotecario. In questo caso, mutuante e mutuatario possono stabilire, a garanzia del mutuante, che le somme siano versate all'esecuzione contestualmente all'iscrizione dell'ipoteca. Se questo accade, la trascrizione del d. di trasferimento dev’essere contestuale all’iscrizione ipotecaria. Il d. di trasferimento costituisce tit esecutivo per il rilascio, cioè per ottenere la consegna del bene acquistato. La norma prevede che il d. contenga l'ingiunzione al debitore o al custode di rilasciare l’immobile venduto. Ma qui è necessaria una precisazione. Il pignoramento immobiliare è effettuato dall'ufficiale giudiziario sulla base delle indicazioni del creditore procedente, delle quali questi si assume la responsabilità, sottoscrivendo quella parte dell’atto di pignoramento che le contiene. Il possesso del bene immobile da parte dell’esecutato non costituisce requisito di validità del pignoramento. Il bene pignorato può essere come non essere nel possesso di colui che subisce l’espropriazione. Con la notificazione del pignoramento immobiliare l'esecutato vede trasformato il suo possesso in custodia, sempre che egli abbia il possesso del bene pignorato (se il bene fosse in possesso di un terzo, il debitore non potrebbe diventarne custode). Bisogna distinguere le ipotesi in cui il bene immobile pignorato è assoggettato alla custodia del debitore esecutato (oppure di un terzo a cui il giudice abbia affidato tale compito), dalle ipotesi 45 investito di un dir appartenente alla seconda categoria, l'art. 2812 c.c. stabilisce che si osservano le disp relative ai terzi acquirenti. Tale norma dà al creditore ipotecario il pot di espropriare il bene anche contro il terzo acquirente: il creditore ipotecario ha il pot di espropriare il bene non solo nei confronti di colui che gli ha concesso l’ipoteca, ma anche nei confronti di chi abbia acquistato sul bene un dir appartenente alla seconda categoria. L'ipoteca è un dir reale di garanzia perché il bene può essere perseguito dal creditore presso qualunque successivo acquirente. Quando sul bene ipotecato esiste la superficie, l’enfiteusi, la nuda o piena proprietà di un terzo, il proc di espropriazione assume alcune caratteristiche particolari, che danno luogo all’espropriazione contro il terzo proprietario. L’art. 2812 c.p.c., stabilisce che i dir appartenenti alla prima categoria non sono opponibili al creditore ipotecario, che può far vendere la cosa come libera. Quindi: il creditore ipotecario può e deve agire esecutivamente contro i terzi, titolari dei dir appartenenti alla seconda categoria. Al contrario, i terzi titolari dei dir appartenenti alla prima categoria non divengono soggetti espropriati, non assumono la qualità di esecutato. Se, dopo l'iscrizione dell'ipoteca, il proprietario ha costituito sul bene ipotecato, a favore di terzi, un dir di superficie, enfiteusi, piena o nuda proprietà, il creditore ipotecario può espropriare il bene, ma deve notificare il tit esecutivo e il precetto al terzo acquirente, deve effettuare il pignoramento contro il terzo, che assume il ruolo di esecutato; la vendita forzata viene fatta contro il terzo acquirente, e l’aggiudicatario acquista un tit contro il terzo acquirente. Rileggendo l’art. 2919 c.c., si vede che tale norma non stabilisce: trasferisce i dir che sulla cosa spettavano al debitore, ma stabilisce a colui che ha subito l'espropriazione; e colui che subisce l'espropriazione in questa ipotesi è il terzo acquirente, sul bene ipotecato, di un dir appartenente alla seconda categoria. Il passaggio del bene ipotecato in varie mani non pregiudica il creditore ipotecario, nel senso che questi lo può sempre colpire presso l’attuale proprietario o enfiteuta o superficiario o nudo proprietario che diventa il soggetto esecutato. Contro costui che si forma il tit dell’aggiudicazione, l'acquirente in vendita forzata acquista dal terzo proprietario e non dal debitore. Ciò è logico, perché sul piano del dir sostanziale la proprietà del bene è passata da colui che ha concesso l'ipoteca a un terzo, magari da questi ad un altro soggetto e così via, quindi -in presenza di una serie di passaggi sul piano del dir sostanziale- il creditore ipotecario agisce contro l'ultimo acquirente e contro questi si crea il tit di trasferimento a favore dell’aggiudicatario, che viene ad essere l’ultimo avente causa di tutta la catena di trasferimenti. Per i dir minori, appartenenti alla prima categoria, il meccanismo è diverso. Il dir acquistato da G non è opponibile ad H perché non è opponibile ad F. Resta da chiederci se l'aggiudicatario H acquista il bene con l’usufrutto e/o con la servitù. Si immagini che colui che ha effettuato il pignoramento sia il creditore A. L'art. 2812 c.c., stabilisce che al creditore ipotecario non sono opponibili di dir di servitù, usufrutto, uso e abitazione, il cui tit sia stato trascritto dopo l’iscrizione dell’ipoteca: il creditore ipotecario può far vendere il bene come libero. A compie il pignoramento contro B, e non contro gli aventi causa C ed E (come, invece, avverrebbe nel caso in cui C ed E fossero divenuti titolari di dir appartenenti alla seconda categoria). Il bene viene venduto libero dai dir di servitù e di usufrutto, che non sono opponibili ad A perché sorti da un atto trascritto successivamente all’iscrizione dell’ipoteca. Quindi se il creditore pignorante è lo stesso creditore ipotecario A, l'aggiudicatario H acquista il bene pulito come era nel momento in cui è stata iscritta l'ipoteca. Si può dire che gli effetti della vendita forzata non solo retroagiscono al momento del pignoramento, ma addirittura retroagiscono al momento dell'iscrizione dell’ipoteca. Se il creditore pignorante è F, cioè un creditore diverso dall’ipotecario A, quest'ultimo, obbligatoriamente avvertito della pendenza dell’espropriazione, può intervenirvi; se interviene, si porta dietro la sua situazione di inopponibilità di tutti i dir minori appartenenti alla prima categoria, il cui tit sia stato trascritto dopo l’iscrizione dell'ipoteca. È chiaro che il creditore ipotecario conserva il dir di far vendere il bene come libero tanto quando assume il ruolo di procedente, tanto quando interviene nel proc esecutivo iniziato da altri. Non avrebbe senso che quanto prevede a suo favore l’art. 2812 c.c., valesse nella prima e non nella seconda ipotesi, perché -vuoi che sia creditore procedente, vuoi che sia creditore intervenuto- in ogni caso egli ha sempre dir di soddisfarsi sul bene facendolo vendere libero, senza i dir dei terzi. Non è detto che l’espropriazione iniziata da F necessariamente porti ad una vendita forzata che investa l’aggiudicatario H del bene libero dalla servitù di C e dall’usufrutto di E: occorre vedere se il creditore A interviene o no; se interviene, il dir di servitù di C e il dir di usufrutto di E non sono opponibili neppure all'aggiudicatario; se non interviene, la servitù di C e l’usufrutto di E, che sono opponibili al creditore pignorante F, perché il loro atto costitutivo è stato trascritto anteriormente alla trascrizione del pignoramento, restano opponibili anche all’acquirente in vendita forzata. Se, avvertiti i due creditori ipotecari A e D, interviene solo il secondo e non il primo, cosa acquista l’aggiudicatario H? Al creditore D è inopponibile l’usufrutto ma è opponibile la servitù, perché il tit costitutivo dell’usufrutto è stato trascritto dopo l'iscrizione dell’ipoteca di D, ed il tit costitutivo della servitù è stato trascritto prima dell'iscrizione all’ipoteca di D. L'aggiudicatario H, se interviene solo D e non interviene A, acquista il bene senza l’usufrutto ma con la servitù. Se non interviene nessuno, l'aggiudicatario acquista il bene con l'usufrutto e con la servitù; se interviene il creditore D, l’aggiudicatario acquista il bene senza l'usufrutto ma con la servitù; se interviene il creditore A, l’aggiudicatario acquista il bene libero, senza usufrutto e servitù. Perché il legislatore, per i dir di cui alla seconda categoria prevede che l'espropriazione si faccia contro i titolari dei medesimi, e per i dir di cui alla prima categoria che l'espropriazione si faccia ignorando i titolari di questi dir? Nel c.c. francese, da cui è derivato il ns art. 2812 c.c., la ripartizione era diversa. Per noi la ripartizione corre tra usufrutto, uso, abitazione e servitù da un lato; enfiteusi, superficie, nuda e piena proprietà dall’altro. Nel c.c. francese la ripartizione correva tra usufrutto, superficie, enfiteusi, nuda e piena proprietà da un lato, ed 46 uso, abitazione e servitù dall’altro. L’usufrutto, che per noi sta nel gruppo dei dir minori, nel c.c. francese stava nel gruppo dei dir maggiori. La ragione è: l’espropriazione contro il titolare dei dir di uso, abitazione e servitù non è possibile, mentre è possibile procedere contro il titolare dei dir di usufrutto, enfiteusi, superficie, nuda e piena proprietà, perché i dir di uso, abitazione e servitù non sono trasferibili sul piano del dir sostanziale: quindi non si può formare il tit di trasferimento tra l'acquirente in vendita forzata e il titolare di questi dir minori. Far subire l'espropriazione, es, al titolare del dir di abitazione non ha senso, perché tale dir non è trasferibile sul piano del dir sostanziale, e l'aggiudicatario non può acquistarlo; assoggettati ad esecuzione possono diventare solo i titolari di dir trasferibili, perché solo contro di loro può ottenersi un trasferimento forzato. Nell’originaria versione della norma la distinzione aveva un senso: esecutato era il titolare di un dir suscettibile di essere trasferito; non diveniva parte esecutata il titolare del dir insuscettibile di essere trasferito. Il dir intrasferibile non può trasferirsi all’aggiudicatario, ma può solo estinguersi. Il pasticcio nasce quando il legislatore italiano inserisce anche l’usufrutto -dir trasferibile- nella categoria di quelli intrasferibili. E così, se ci si limita a leggere l’art. 2812 c.c., non si capisce la ratio della distinzione. I titolari dei dir indicati nell'art. 2812 c.c. non divengono esecutati, perché -tranne l'usufruttuario- non sono titolari di un dir suscettibile di essere trasferito; il loro dir, con la vendita forzata, si estingue per incompatibilità, e si trasforma in una somma di denaro che è l’equivalente del dir estinto. Tale credito può essere fatto valere nell’espropriazione con preferenza rispetto alle ipoteche iscritte successivamente alla data di trascrizione dell’atto costitutivo del dir e rispetto al creditore pignorante che non sia il creditore ipotecario. I titolari dei dir, che si estinguono con l’espropriazione, diventano creditori privilegiati iscritti: privilegiati, perché hanno preferenza sui creditori ipotecari posteriori e sui creditori chirografari; iscritti, perché il loro credito deriva dalla trasformazione di un dir che trae origine da un atto trascritto. Essendo la loro posizione destinata a trasformarsi in un dir di credito avente ragione di prelazione, risultante dai pubblici registri, essi rientrano nella previsione dell’art. 498 c.p.c., e debbono essere avvertiti della pendenza del proc esecutivo. Essi possono intervenire nel proc esecutivo come creditori potenziali per effetto della vendita, e far valere le loro ragioni sul ricavato. Se, poi, hanno motivi di difesa nel merito, cioè ritengono di non dover subire l'effetto estintivo -es, perché l’ipoteca è nulla, prescritta, o estinta- possono far valere le loro ragioni con l'opposizione di terzo. Se l’ipoteca è valida ed efficace, il loro dir si trasforma in un credito avente ad oggetto una somma di denaro. L'inciso contenuto nell’art. 2919 c.c., «salvi gli effetti del possesso di buona fede» si trova anche nell’art. 2913 c.c., il quale, disciplinando gli effetti conservativi del pignoramento, stabilisce che gli atti di disp del dir pignorato non hanno effetto in pregiudizio del creditore procedente e dei creditori intervenuti, salvi gli effetti del possesso di buona fede per i beni mobili non iscritti in pubblici registri. I beni mobili registrati non sono infatti assoggettati alla forma di circolazione disciplinata dagli artt. 1153 e 1155 c.c. La fattispecie dell'art. 2913 c.c. fa riferimento a un atto di disp che compia il debitore esecutato o il custode del bene mobile pignorato, il quale -creando un tit astrattamente idoneo al trasferimento del dir e consegnando il bene mobile di cui egli ha la materiale disponibilità all'acquirente, purché quest'ultimo sia in buona fede (e non sappia che il bene è pignorato) al momento della consegna- fa realizzare un acquisto a tit originario a favore dell’acquirente, tit che è prevalente rispetto a quello del creditore procedente, e idoneo a sottrarre il bene dall’espropriazione. Ove l’alienazione provenga dall’esecutato, la portata dell'art. 1153 c.c. non è quella di sanare un difetto di titolarità. Partendo dal presupposto che il bene pignorato sia di proprietà dell'esecutato, che compie l’atto di disp, l'art. 1153 c.c. serve a sanare un difetto di pot dispositivo, a superare il vincolo di indisponibilità creato dal pignoramento. Se l'acquisto disciplinato dall'art. 1153 c.c. è idoneo a sanare la carenza di titolarità del dir, evidentemente può anche sanare la carenza del pot di disporre o superare un’inefficacia relativa dell'atto di disp. Nell’art. 2919 c.c. acquirente di buona fede non è il terzo al quale il custode aliena il bene mobile pignorato (quindi un acquirente sulla base di un atto di dir sostanziale, con la sola peculiarità che egli acquista, ignaro, un bene pignorato anziché libero), ma è l’aggiudicatario, il quale fonderà il suo acquisto sul tit astrattamente idoneo costituito dalla vendita o assegnazione forzata, sulla consegna del bene mobile (che nella vendita forzata dei mobili avviene immediatamente), e sulla buona fede, consistente nella mancata conoscenza che il bene non appartiene a colui che ha subito l’espropriazione. La buona fede consiste nel fatto che l'acquirente in vendita forzata non sa che il bene è di proprietà di un terzo. Se lo sapesse, mancherebbe la buona fede idonea a completare la fattispecie acquisitiva dell'art. 1153 c.c. Nel caso dell'art. 2913 c.c. la buona fede consiste nel non sapere che il bene è pignorato; qui nel non sapere che il bene non appartiene all'esecutato. La buona fede va vista volta per volta con riferimento all'elemento carente che impedisce l'acquisto a domino: tale elemento può essere la mancanza di proprietà, o l’esistenza di un limite al pot dispositivo del dir. Nel momento in cui nasce il dir acquistato a tit originario dall’acquirente in vendita forzata, si viene a creare una situazione di incompatibilità con quella del terzo proprietario del bene. La nascita di un dir incompatibile in capo all’aggiudicatario produce l’estinzione del dir del terzo proprietario. Nell’ipotesi in cui l’esecutato non fosse titolare del dir pignorato e trasferito, il conflitto fra il terzo, proprietario del bene, e l'acquirente in vendita forzata si risolve normalmente (perché la vendita forzata dà luogo ad un acquisto a tit derivativo) a favore del terzo ed eccezionalmente (quando la vendita forzata dà luogo ad un acquisto a tit originario) a favore dell'aggiudicatario. Quanto alla tutela di colui che, nel conflitto ipotizzato, rimane soccombente, la disciplina è data dagli artt. 2920 c.c. per la vendita, e 2926 c.c. per l’assegnazione. Ex art. 2920 c.c., se oggetto della vendita forzata è una cosa mobile, coloro che avevano la proprietà o altri dir reali su di essa ma non hanno fatto valere le loro ragioni sulla somma ricavata dall’espropriazione, non possono farle valere nei confronti 47 dell'acquirente di buona fede né possono ripetere dai creditori la somma loro distribuita. Il terzo può soddisfarsi sulla somma ricavata dalla vendita finché non sia stata distribuita, finché cioè essa è nelle Casse dell’esecuzione. Se il terzo (ex) proprietario non ha fatto valere le sue ragioni sulla somma, egli non può ripetere la somma dai creditori ai quali è stata distribuita. È ovvio che il terzo (ex) proprietario non può far valere le proprie ragioni nei confronti dell’aggiudicatario di buona fede, il cui acquisto, perché a tit originario, è inattaccabile quantunque il bene non appartenesse a colui che ha subito l’espropriazione. Questa è la regola che si applica in generale all'acquisto ex art. 1153 c.c. Si supponga che Tizio presti a Caio un bene, e Caio lo venda a Sempronio, che realizza un acquisto ex art. 1153 c.c. È chiaro che l’acquirente di buona fede diventa proprietario del bene; Tizio che lo ha dato in prestito non può avanzare dir nei confronti di Sempronio: acquirente di buona fede. Potrà avanzare dir nei confronti di Caio, che ha venduto un bene non suo, chiedendo il risarc dei danni. L’acquisto a tit originario ex art. 1153 c.c. presuppone: un tit astrattamente idoneo (in questo caso la vendita forzata); la consegna del bene (accertabile facilmente se ci sia stata o no); la buona fede (che in questo caso consiste sulla mancata conoscenza che l’esecutato non era proprietario del bene pignorato; la buona fede è presunta e ciò che rileva è la malafede, che non si può provare in via diretta, ma solo in via indiziaria). Il terzo proprietario del bene mobile pignorato, una volta che sia avvenuta la vendita forzata e la consegna del bene all’aggiudicatario, deve valutare se è in grado o no di dimostrare che l’acquirente sapeva che il bene non apparteneva all'esecutato. Se il terzo ritiene di avere in mano prove sufficienti per dimostrare la mala fede dell’acquirente in vendita forzata (es, perché si trattava di un bene raro o individuabile, di un quadro di cui l'acquirente in vendita forzata conosceva il vero proprietario, etc), può non far valere il suo dir sul ricavato ed agire in rivendicazione nei confronti dell’acquirente in vendita forzata. Egli deve dimostrare di essere il proprietario del bene mobile e che l'aggiudicatario sapeva che il bene non era dell’esecutato. Una volta dimostrato che, a causa della carenza di buona fede, non si è completata la fattispecie dell’art. 1153 c.c., l’acquisto in vendita forzata è qualificabile come acquisto a tit derivativo anziché come acquisto a tit originario, e torna applicabile la regola generale dell’art. 2919 c.c. in virtù della quale l’acquirente in vendita forzata acquista solo i dir che sulla cosa spettavano a colui che ha subito l'espropriazione. Il terzo può così ottenere la restituzione del bene dall’aggiudicatario. Non è detto che la vendita forzata mobiliare spogli sicuramente il terzo del suo dir di proprietà, anche se ciò è molto probabile, perché normalmente sarà difficile dimostrare che l’acquirente in vendita forzata sapeva che il bene non apparteneva all'esecutato; ci possono essere dei casi in cui è possibile la dimostrazione della mala fede. Rimangono, oltre al dir sulla somma ricavata, altre due possibilità a favore del terzo che ha perso il proprio dir perché si è realizzato un acquisto a tit originario a favore dell’aggiudicatario. Una prima possibilità, prevista dall’art. 2920 c.c., presuppone la prova della mala fede del creditore procedente, il quale ha proseguito l'esecuzione nonostante sapesse che il bene pignorato non apparteneva all'esecutato. Prova difficile da dare; se tuttavia il terzo ex proprietario riesce a dimostrare la mala fede del creditore procedente, può ottenere il risarc dei danni. Anche in questa ipotesi vi è una divergenza fra la legittimità processuale e la liceità sostanziale. Dal punto di vista processuale, se il pignoramento si è perfezionato nel rispetto degli artt. 513 ss. c.p.c., esso è secundum ius; e pienamente legittima dal punto di vista processuale è la vendita forzata. Tuttavia, il creditore procedente, che chiede la vendita di un bene che egli sa non essere dell’esecutato, tiene un comportamento che è lecito sul piano processuale, ma illecito sul piano sostanziale. Egli ha l’obbligo sostanziale di non far uso del suo pot processuale di chiedere la vendita del bene, che egli sa essere altrui. Una seconda possibilità, derivante dai princ, è l'arricchimento senza causa nei confronti del debitore esecutato (con scarsa soddisfazione pratica, se l'esecutato non ha altri beni sui quali il terzo ex proprietario possa soddisfare il suo credito). L'arricchimento senza causa si fonda sulla considerazione che il debitore ha pagato debiti suoi con beni di altri. Il terzo proprietario non può ripetere dai creditori la somma distribuita: i creditori si tengono la somma, con la quale viene estinto il credito che avevano nei confronti dell’esecutato per la parte corrispondente alla somma ricevuta. E l'esecutato si arricchisce a spese del terzo ex proprietario, perché si libera dei propri debiti a spese altrui. Nell’ipotesi in cui il bene è assegnato, invece che venduto, la soluzione non cambia, perché anche il provv di assegnazione costituisce un tit astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà. L’art. 2926 c.c. contiene una disp particolare: i terzi che avevano la proprietà del bene mobile assegnato possono, entro il termine di 60gg dall'assegnazione, rivolgersi all'assegnatario che ha ricevuto in buona fede il possesso del bene per farsi dare da costui la somma che egli si è trattenuto a soddisfazione totale o parziale del suo credito. Il terzo ex proprietario non può chiedere all’assegnatario la restituzione del bene, perché a favore dell’assegnatario si è creato un tit di acquisto a tit originario; però può chiedere che l’assegnatario gli paghi la somma corrispondente al credito soddisfatto con l’assegnazione. L’art. 2926 c.c. stabilisce che il terzo ex proprietario può rivolgersi all’assegnatario e dire: il bene ormai è tuo, perché l’hai acquistato ex art. 1153 c.c.; però devi versare nelle casse dell’esecuzione la somma che ti sei trattenuto a soddisfazione del tuo credito. Si capisce che il terzo ex proprietario non può -oltre a perdere la proprietà del bene- essere ulteriormente pregiudicato da un fattore del casuale (e cioè che si sia avuta un’assegnazione totalmente o parzialmente satisfattiva) e del tutto estraneo alla logica dell’acquisto in buona fede. L’ult. Co. art. 2926 c.c. stabilisce che, versando la somma in questione, l’assegnatario torna creditore del debitore perché il suo credito non è più soddisfatto. L’art. 2926 c.c. presuppone che si sia avuta un'assegnazione satisfattiva, perché, se l’assegnatario ha dovuto versare l'intero valore del bene, il problema non si pone in quanto il terzo ex proprietario trova nelle casse dell’esecuzione la somma corrispondente al valore pieno del bene. In caso di assegnazione satisfattiva invece, quando 50 purché, in questo caso, abbia tempestivamente proposto la domanda volta ad ottenere un tit esecutivo. Il giudice prepara un piano di riparto, lo sottopone alle parti che possono approvarlo, e allora non c’è nessun problema; se qualcuno lo contesta, si procede ai sensi dell’art. 512 c.p.c. per risolvere le contestazioni. Nell’espropriazione immobiliare le modalità di formazione del riparto sono diverse, perché il giudice procede d'uff, senza bisogno dell'istanza di parte, o di un piano concordato. Il giudice prepara un piano di distribuzione, lo deposita in cancelleria e fissa un’ud; il cancelliere avvisa i creditori intervenuti e il debitore dell'avvenuto deposito e dell’ud fissata; le parti hanno 10gg per consultare il piano di riparto. Se all'ud non compaiono o comparendo non si oppongono, il piano di riparto è approvato. O è possibile che in ud si trovino d'accordo tra di loro per modificarlo e anche qui il giudice deve prendere atto che c'è un accordo tra le parti e deve modificare il piano di riparto adeguandolo all’accordo che si è formato tra i creditori e il debitore. Se il piano di riparto è contestato e sulle contestazioni non si raggiunge un accordo, allora occorre procedere ai sensi dell'art. 512 c.p.c. La questione più delicata riguarda la posizione del creditore, il cui credito sia stato contestato dal debitore, e che abbia in corso il proc di cognizione volto ad ottenere la formazione del tit esecutivo. La posizione degli altri creditori non pone problemi: se hanno un tit esecutivo (anche formatosi successivamente al pignoramento) o non sono stati contestati dal debitore, essi partecipano immediatamente alla distribuzione del ricavato. Se il loro credito è stato contestato dal debitore, ed essi non hanno tempestivamente instaurato il proc di cognizione volto ad ottenere un tit esecutivo, il loro intervento ha perso effetti. A favore dei creditori contestati, e che abbiano tempestivamente proposto la domanda volta ad ottenere un tit esecutivo, l'art. 510 c.p.c. prevede che il giudice dell'esecuzione disponga l'accantonamento delle somme ad essi eventualmente spettanti. Il piano di riparto viene predisposto tenendo conto anche di questi creditori, dopo di che le somme che, in base al piano, ad essi spetterebbero, sono accantonate per il tempo necessario affinché i creditori possano munirsi di un tit esecutivo e, in ogni caso, per un periodo di tempo non superiore a 3anni. L’accantonamento, presuppone l’utile collocazione nel piano di riparto. La somma accantonata è distribuita una volta decorso il termine fissato dal giudice, su istanza di parte o anche di uff. La distribuzione può avvenire anche prima del termine fissato, quando tutti i creditori, che ne avevano bisogno, si sono muniti di tit esecutivo. In ogni caso, decorsi al massimo 3anni, la somma accantonata è distribuita: se il creditore non ha fatto in tempo a munirsi di tit esecutivo, la somma accantonata è assegnata al creditore successivo. La disp presenta profili di incost. Se il princ, in virtù del quale la durata del proc non dev’essere fonte di pregiudizio per la parte che ha ragione, costituisce espressione irrinunciabile del dir di az di cui all'art. 24 Cost, è contrario ai princ cost che rimanga insoddisfatto il creditore privilegiato, il quale sta ancora attendendo la sentenza quando scade il triennio; e che, al posto suo, sia soddisfatto chi, secondo le scelte del legislatore sostanziale, ha una posizione postergata rispetto alla sua, ma che il legislatore processuale ha favorito, consentendo a lui e non all’altro di partecipare alla distribuzione del ricavato. Come si evince dall’es, una scelta del legislatore processuale ha posto nel nulla la volontà del legislatore sostanziale, che voleva Tizio pagato prima di Mevio e della banca. È forse colpa di Tizio se il proc di cognizione, che egli è stato costretto ad instaurare perché il legislatore processuale gli ha imposto di munirsi di un tit esecutivo, dura troppo a lungo? Con la conseguenza che Tizio -oltre a vedere leso il suo dir cost alla ragionevole durata del proc: art. 111 Cost- resta anche insoddisfatto. L’art. 2741 c.c. contiene una disp che non può essere disattesa sul piano processuale, dal momento che il legislatore processuale non può predisporre regole, che portino a soddisfare creditori che, per il legislatore sostanziale, debbono essere soddisfatti dopo altri, e lasciare questi ultimi insoddisfatti. Approvato il piano di riparto o risolte le contestazioni, il proc esecutivo si chiude con l’emissione dei mandati di pagamento da parte del cancelliere. L’art. 511 c.p.c. disciplina la domanda di sostituzione nel proc esecutivo. I creditori di un creditore, avente dir alla distribuzione, possono chiedere di essere a lui sostituiti proponendo domanda a norma dell’art. 499 c.p.c. La vicenda è: Tizio è intervenuto per chiedere la soddisfazione del suo credito; Caio, creditore di Tizio, a sua volta interviene nel proc per chiedere che gli sia consegnata la somma che spetta al suo debitore. Si tratta di un istituto che si inquadra nella stessa logica nell’az surrogatoria; si ritiene che la domanda di sostituzione possa essere avanzata non solo nei confronti di un creditore intervenuto, ma addirittura il creditore sostituente possa effettuare lui stesso la domanda di intervento per il suo debitore, proponendo intervento in nome e per conto del suo debitore, creditore dell’esecutato. La domanda di sostituzione si effettua nelle forme della domanda di intervento ex art. 499 c.p.c., ma non è una domanda di intervento. La domanda di intervento o è stata già proposta dal sostituito o la propone il sostituente per il sostituito; ma allora deve avere tutte le caratteristiche dell’intervento contro l’esecutato. L'art. 511 c.p.c., quando dice proponendo domanda a norma dell’art. 499, si riferisce alla domanda di sostituzione, a quella tra sostituente e sostituito. Al momento della distribuzione del ricavato il giudice provvede ad assegnare al sostituente le somme che spettano al sostituito, ma, prevede l'art. 511 c.p.c., le contestazioni sorte fra costoro non possono ritardare la distribuzione agli altri concorrenti. Se sostituente e sostituito controvertono tra di loro, prima si effettua il riparto nel modo ordinario e con questo si stabilisce la somma che spetta al sostituito; successivamente, fra sostituente e sostituito si stabilisce a chi deve andare quella somma. Quanto agli effetti della distribuzione del ricavato, il giudice predispone un piano di riparto, il quale è espressamente o tacitamente approvato; il cancelliere emette i mandati di pagamento ai creditori e il residuo va al debitore. Sul piano sostanziale quale effetto hanno l'approvazione del piano di riparto e la distribuzione del ricavato? Una volta riscossi i mandati di pagamento, che margini ci sono per discutere la conformità al dir sostanziale di ciò che è stato distribuito ai vari creditori? Il provv con cui il giudice distribuisce il ricavato è un atto del proc 51 esecutivo e come tale ha la stabilità degli atti del proc esecutivo. La nullità di tali atti dev’essere fatta valere con l’opposizione agli atti esecutivi, da utilizzare nei modi e termini previsti dalle norme processuali. Ma supponendo che gli atti del proc esecutivo siano regolari: che possibilità ha il debitore, che ha subito l’espropriazione, di contestare, conclusosi il proc esecutivo, la sussistenza di un credito in tutto o in parte soddisfatto e agire per la ripetizione dell'indebito? Il fatto che la somma sia stata percepita dal creditore in sede di distribuzione nel proc esecutivo forma una qualche preclusione alla possibilità, per il debitore, di affermare che in realtà il credito era inesistente (o inferiore)? Il problema è quello di stabilire se ci sono ostacoli alla ripetizione dell’indebito, se cioè dalla distribuzione nasce una qualche forma di stabilità sostanziale che, analogamente alla cosa giudicata, si può indicare come cosa eseguita. L’eventuale effetto stabilizzante della distribuzione, ostativo alla ripetizione dell'indebito, non dev’essere confuso con altri e diversi fenomeni preclusivi, apparentemente derivanti dall’espropriazione forzata, ma prodotti da atti esterni all’esecuzione stessa: in primis, dall’atto che sia stato utilizzato come tit esecutivo. Si deve evitare l'illusione di riferire alla distribuzione del ricavato un’efficacia preclusiva, che è propria di un atto esterno all’esecuzione. Il problema va posto nei suoi esatti termini, e cioè: la distribuzione del ricavato ha un’efficacia preclusiva che non ha il pagamento spontaneo? Gli ostacoli alla ripetizione dell’indebito sono minori quando il debitore ha spontaneamente adempiuto, rispetto a quando vi è stata la distribuzione del ricavato? La risposta dev’essere negativa in virtù dell'impostazione generale dei rapp tra dir sostanziale e attività giurisdizionale. L’espropriazione forzata ha la funz di soddisfare crediti, attraverso la surrogazione processuale dell’inattività sostanziale di colui che è obbligato a pagare una somma di denaro. Di fronte all’inattività di colui che è obbligato, secondo il tit esecutivo, ad adempiere, c’è l’attività giurisdizionale sostitutiva; non sussiste alcun motivo, in virtù del quale tale attività sostitutiva produca effetti ulteriori rispetto a quelli propri della sua funz, che consiste nel sostituire un adempimento; l'accertamento che l’adempimento è dovuto sul piano del dir sostanziale costituisce un quid pluris estraneo ed esterno alla funz dell’esecuzione forzata; è un problema del proc di cognizione. Quindi dare alla distribuzione del ricavato una stabilità sostanziale preclusiva, che non ha il pagamento spontaneo, significa dare all'esecuzione forzata un effetto eccedente la sua funz. Tutte le varie forme di distribuzione presuppongono il silenzio dell’esecutato perché il piano concordato fra i creditori o quello predisposto dal giudice possono essere contestati dal debitore. Qualcuno ha visto, nel silenzio serbato dal debitore, la formazione di accordo sul piano sostanziale, una sorta di negozio, cioè una manifestazione di volontà idonea ad integrare un effetto preclusivo sul piano del dir sostanziale. Ma si potrebbe replicare che, in questa logica, anche il pagamento spontaneamente effettuato su richiesta del creditore potrebbe essere inteso come il raggiungimento di un accordo di natura negoziale col creditore, ostativo alla ripetizione dell'indebito. All'inattività dell'esecutato, che non ha contestato il piano di riparto, non può essere attribuita un'efficacia maggiore di quella che ha l’attività spontanea con cui lo stesso esecutato, fuori dell’esecuzione e sul piano del dir sostanziale, adempie il suo obbligo. Se si vuol vedere, nel silenzio serbato dal debitore, la volontà di accettare i risultati del piano di riparto, tale volontà andrebbe vista anche nel pagamento spontaneo. Ma è pacifico che il pagamento di per sé non impedisce la ripetizione dell’indebito: anzi, ne costituisce un presupposto necessario. Se l'attività spontanea del debitore, che adempie sul terreno del dir sostanziale, non può essere intesa come una manifestazione di volontà che porta al riconoscimento dell’esistenza del dir, non può essere intesa come manifestazione di volontà che porta al riconoscimento del dir l’inattività del debitore in sede di esecuzione forzata, cioè la mancata contestazione, da parte del debitore, del piano di riparto. La distribuzione del ricavato non può avere un’efficacia stabilizzante della distribuzione stessa, perché tale efficacia costituirebbe un effetto eccedente rispetto alla sua funz; non può essere vista nell’inattività del debitore una forma di accettazione tacita del piano di riparto, perché l'adempimento spontaneo non ha alcun effetto preclusivo della ripetizione dell’indebito; e se tale effetto non consegue ad un comportamento attivo, quale quello dell’adempimento spontaneo, tanto meno può conseguire ad un comportamento omissivo, quale quello della mancata contestazione del piano di riparto. L'esecutato, terminata la distribuzione, può metterne in discussione il risultato, assumendo e dimostrando che l’effetto prodotto dal proc esecutivo non è conforme al dir sostanziale. Anche nei rapp fra i creditori può accadere la stessa cosa? Può un creditore contestare, al di fuori del proc esecutivo, l'ordine nel quale è stata effettuata la distribuzione del ricavato? La risposta è negativa, ma non perché ciò sia il prodotto di un qualche effetto stabilizzatore prodotto dalla distribuzione del ricavato. La ragione si fonda sul dir sostanziale. Mentre il dir sostanziale dà rilevanza ai rapp fra creditore e debitore anche dopo l’adempimento, al contrario fra creditori dello stesso debitore, sul piano sostanziale, non vi è alcuna relazione diretta giuridicamente rilevante. Il rango dei rispettivi crediti diviene rilevante solo al momento della distribuzione del ricavato. Una volta che il credito sia stato pagato, non vi è alcuna giuridica possibilità che un altro creditore, munito di prelazione poziore, possa rivolgersi al creditore soddisfatto per far valere la preferenza, che l'ord accorda alla sua posizione. L'art. 2901 c.c. esclude che possa ottenersi la revoca dell’adempimento di un debito esistente: ciò è possibile solo nelle procedure concorsuali. L'unica possibilità, che ha un creditore di agire contro un altro creditore, consiste nel far valere, in via surrogatoria, le ragioni che il comune debitore ha, e che trascura di utilizzare: es, può agire in ripetizione dell'indebito, se non lo fa il debitore. E poiché il debitore non ha mai la possibilità di far valere questioni che attengono al rango dei creditori -il debitore deve adempiere nei confronti di tutti i creditori: per lui i creditori sono tutti uguali- per questa ragione, al di fuori della distribuzione del ricavato, non vi è la possibilità per un creditore di far valere, nei confronti di un altro creditore, ragioni 52 che attengono al rango del proprio credito. Il motivo che impedisce ad un creditore, al di fuori del proc esecutivo, di contestare, nei confronti di un altro creditore, la propria collocazione nel riparto in riferimento alle rispettive prelazioni, sta nel dir sostanziale, e non ha a che vedere con una pretesa efficacia stabilizzatrice della distribuzione del ricavato: e la riprova sta nel fatto che, sotto questo profilo, non vi è alcuna differenza fra adempimento spontaneo ed adempimento coattivo. Sia nell'uno che nell’altro caso la soddisfazione di un credito esistente non può essere contestata da un altro creditore assumendo quest'ultimo che il proprio credito è munito di prelazione pozione rispetto a quello soddisfatto. La distribuzione del ricavato può essere l'occasione perché nascano delle controversie che riguardano il piano di riparto. Prima della riforma del ‘06, se sorgeva una controversia tra creditori o tra creditori e debitore o terzo assoggettato all’espropriazione circa la sussistenza o l'ammontare di uno o più crediti o circa la sussistenza di ragioni di prelazione, tale controversia era risolta attraverso un ordinario proc di cognizione, incidentale al proc esecutivo. In conseguenza di ciò, la sentenza che decideva la controversia formava giudicato ad ogni effetto in ordine all'esistenza ed ammontare del credito. L’accertamento dell'esistenza del credito aveva l’effetto di stabilizzare il risultato della distribuzione, ed era ostativo ad un’eventuale ripetizione dell’indebito: esso costituiva uno di quegli elementi extra-esecutivi. Se la soddisfazione era solo parziale, l'accertamento si formava anche in relazione al credito residuo non soddisfatto. Ora il meccanismo è mutato: il nuovo testo dell’art. 512 c.p.c. stabilisce che, sorta la controversia, il giudice dell’esecuzione, sentite le parti e compiuti necessari accertamenti, provvede con ordinanza, la quale è impugnabile con l'opposizione agli atti esecutivi. A seconda dell’oggetto che si ritiene di assegnare all’opposizione agli atti esecutivi avverso l'ordinanza, si giunge a conseguenze diversificate. Le controversie in sede di distribuzione sono istruite e risolte in sede di proc esecutivo: l’attività del giudice dell'esecuzione costituisce esercizio di giurisdizione esecutiva, e fa capo ad un provv che non può avere efficacia dichiarativa. Il legislatore ha previsto che le controversie in sede di distribuzione non diano più necessariamente luogo ad un proc di cognizione incidentale, ma possano restare confinate all’interno del proc esecutivo, con effetti limitati a quest’ultimo. L’attività che svolge il giudice dell’esecuzione non è finalizzata ad accertare se esiste o meno il credito (anche se la sua cognizione riguarda il credito), ma solo a distribuire il ricavato. Si noti che, quando si afferma che la risoluzione della controversia distributiva ha effetti limitati al proc esecutivo non si deve intendere che l'ordinanza del giudice dell’esecuzione accerta l'esistenza del credito limitatamente alla parte soddisfatta: quasi che la differenza fra la disciplina previgente e quella attuale stia in ciò, che prima il giudicato riguardava l'intero credito, ed ora invece riguarda solo la frazione soddisfatta. Un accertamento -sia pur limitato all’entità del credito soddisfatto- postula l’esercizio di una giurisdizione dichiarativa, che è carente nella nuova disciplina dell'art. 512 c.p.c. L’espressione effetti limitati al proc esecutivo significa che gli effetti della risoluzione della controversia distributiva sono quelli propri dell’esecuzione forzata: produrre la soddisfazione del dir, e non anche accertare che tale soddisfazione è secundum ius. Da ciò seguono alcune conseguenze. In primo luogo, non si pone più il dilemma a proposito del concorso fra l'opposizione all’esecuzione (quando il debitore contesta l’esistenza del dir sostanziale che il creditore procedente vuole vedere soddisfatto) e la controversia in sede di riparto, proposta dal debitore per contestare l'esistenza del credito del creditore procedente. Poiché i due strumenti hanno effetti diversi (sentenza decide l'opposizione all'esecuzione produce un giudicato pieno a tutti gli effetti; ordinanza del giudice dell’esecuzione risolve la controversia distributiva, invece, ha effetti solo interni al proc esecutivo), il debitore può scegliere di utilizzare l'uno l’altro, a seconda del tipo di tutela che vuole. In secondo luogo, poiché l’ordinanza, con la quale il giudice dell’esecuzione risolve la controversia, non ha effetti dichiarativi, essa non produce alcun effetto di accertamento al di fuori del proc esecutivo. Conseguentemente, le possibili reazioni avverso la distribuzione, esperibili a proc esecutivo concluso, sono identiche vuoi che la distribuzione avvenga senza che sorgano contestazioni, vuoi che tali contestazioni si siano avute ed il giudice le abbia risolte con l'ordinanza. Il debitore esecutato potrà agire in ripetizione dell'indebito vuoi che abbia vuoi che non abbia sollevato contestazioni avverso il piano di riparto. Ciò può sembrare strano, ma solo apparentemente, poiché è stata una scelta del legislatore della riforma quella di confinare le contestazioni all'interno del proc esecutivo, e di risolverle con strumenti esecutivi. In precedenza il debitore poteva scegliere: o tacere, facendo così soddisfare il creditore, ed agire poi in ripetizione dell’indebito; o cercare di impedire la soddisfazione del creditore: ma per ottenere ciò occorreva dar luogo ad un proc dichiarativo. Se la sua contestazione era rigettata, si formava il giudicato sull'esistenza del credito, e ciò gli impediva di agire successivamente in ripetizione dell’indebito. Ora la contestazione in sede distributiva ha come scopo quello di impedire la soddisfazione del creditore. Sicché, avendo l’accoglimento della contestazione l’unico risultato di non far avere il denaro al creditore, il suo rigetto ha come unico risultato quello di vedere il creditore soddisfatto. Quando ci si pone all'esterno del proc esecutivo, non fa alcuna differenza che il creditore sia stato soddisfatto perché il debitore non ha contestato il piano di distribuzione, o perché la sua contestazione è stata respinta. Queste sono le conseguenze che, nei rapp fra debitore e creditore, produce l’aver confinato in sede esecutiva le controversie distributive. Nei confronti dei creditori la riforma ha prodotto una sostanziale de-giuridicizzazione dei loro rapp. Al di fuori del proc esecutivo il dir sostanziale non dà rilevanza all'ordine di soddisfazione dei creditori: il creditore insoddisfatto, avente prelazione poziore, non può pretendere alcunché da un altro creditore soddisfatto, ma con prelazione inferiore. Il rango dei rispettivi crediti può formare oggetto di una controversia solo al momento della distribuzione: tant'è che a proc esecutivo concluso un creditore non può, nei confronti di un altro creditore, contestare il risultato della distribuzione. Nel sistema previgente tale controversia era risolta attraverso 55 che il proc di cognizione sia non antecedente e necessario, ma posteriore ed eventuale. In tale direzione l'opposizione agli atti esecutivi può svolgere la funz di ospitare la risoluzione delle eventuali controversie che dovessero sorgere in relazione all’ordinanza, con la quale il giudice dell’esecuzione ha risolto le contestazioni relative al piano di riparto. Si raggiunge così il risultato voluto dal legislatore senza negare la dovuta tutela giurisdizionale dichiarativa a chi non resti soddisfatto dell’ordinanza esecutiva. Ciò consente di concludere il discorso relativo all’espropriazione presso terzi, lasciato aperto in quella sede. Anche in quella sede, l’opposizione agli atti esecutivi avverso l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione risolve la controversia fra creditore procedente e terzo esecutato relativa al credito pignorato, può riguardare non solo i profili di rito dell’ordinanza stessa, ma anche le questioni di merito da essa affrontate e risolte. CAP. 18 – Espropriazione dei beni indivisi (pp. 198 – 203) In due ipotesi lo svolgimento del proc esecutivo è in parte modificato in conseguenza delle particolarità del caso concreto: l'espropriazione dei beni indivisi e l'espropriazione contro il terzo proprietario. Nell’espropriazione dei beni indivisi, il problema nasce dal fatto che, fra gli elementi attivi del patrimonio, con cui il debitore risponde delle obbligazioni ex art. 2740 c.p.c., esiste la contitolarità di un dir reale espropriabile: proprietà, nuda proprietà, enfiteusi, superficie, usufrutto. La peculiarità si verifica quando non tutti i contitolari del dir sono assoggettabili all'espropriazione, cioè quando non esiste un tit esecutivo nei confronti di tutti i contitolari di quel dir. Se esiste un tit esecutivo contro tutti i contitolari, il proc di espropriazione si svolge nei modi ordinari, con la sola particolarità di avere una pluralità di soggetti esecutati, anziché uno. Un proc esecutivo unitario è possibile anche quando non vi è un unico tit esecutivo, ma l’assoggettabilità all'espropriazione di tutti i contitolari del dir sul bene proviene da tit esecutivi diversi, magari anche a favore di creditori diversi: ciò non impedisce la unicità del proc di espropriazione. Va ricordato che l'oggetto dell'espropriazione è il dir pignorato. L'art. 599 c.p.c. non è del tutto preciso quando afferma: possono essere pignorati i beni indivisi anche quando non tutti i comproprietari sono obbligati verso il creditore. Bisogna intendere: anche quando non tutti i comproprietari sono sottoponibili ad esecuzione forzata. Se intesa alla lettera, la norma sembrerebbe dire: se tutti sono debitori, ma il tit esecutivo esiste nei confronti di uno solo, si può procedere all’espropriazione delI'intero bene. Invece ciò che conta è che tutti i contitolari possano essere esecutivamente aggrediti. Il problema nasce quando i contitolari non sono tutti assoggettabili ad espropriazione, vuoi perché non tutti sono debitori, vuoi perché, pur essendo tutti debitori, manca un tit esecutivo contro alcuno di essi. Sia nell'uno che nell’altro caso, la quota del soggetto nei cui confronti sussiste il tit esecutivo può essere sottoposta ad espropriazione, perché anche una quota garantisce i creditori ex art. 2740; ma bisogna tenere conto del fatto che ci sono anche gli altri contitolari non assoggettabili ad espropriazione e si deve adattare il proc esecutivo alla particolarità consistente in ciò, che oggetto del pignoramento e della vendita non è un dir esclusivo su un bene, ma la contitolarità di un dir sul bene stesso. In questo caso tit esecutivo e precetto si notificano al solo debitore contitolare del dir assoggettabile all'espropriazione. Si effettua poi il pignoramento nelle forme ordinarie nei confronti del debitore esecutato: il creditore pignorante deve però dare avviso, agli altri contitolari, dell’avvenuto pignoramento. L’avviso ha lo scopo di avvertire gli altri contitolari del fatto che è stata pignorata la quota del loro contitolare, ed ha l’effetto di far divenire i contitolari parti del proc esecutivo. Parti del proc esecutivo sono non solo il creditore procedente e il debitore esecutato, ma anche i creditori intervenuti, l’acquirente in vendita forzata, il custode, etc, quindi una pluralità di soggetti diversi dal procedente e dall'esecutato. Parti non esecutate sono anche i contitolari, ed in quanto tali sono titolari di pot e doveri processuali, e possono compiere atti all'interno del proc esecutivo. Con tale avviso i comproprietari, che siano anche possessori del bene, sono costituiti custodi, quindi non possono consentire che il contitolare esecutato si porti via la sua parte di beni e non possono procedere alla divisione del bene in modo efficace nei confronti del creditore. Il pignoramento e l’avviso bloccano la situazione di fatto e di dir della contitolarità così com'è nel momento in cui i contitolari ricevono l'avviso. I contitolari, divenuti parti del proc esecutivo, sono convocati dal giudice insieme al creditore e al debitore. Ex art. 600 c.p.c., il giudice provvede, se i creditori o i contitolari la richiedono e quando è possibile, alla separazione in natura della quota, spettante al debitore. La separazione costituisce una particolare forma di divisione, che ha luogo quando oggetto della contitolarità sono beni fungibili; dal punto di vista del dir sostanziale, i beni fungibili si caratterizzano per il fatto che sono determinati a numero, peso e misura, e ciascuna unità ha valore equivalente alle altre. Una somma di denaro, es., è il bene fungibile per eccellenza, perché ogni biglietto di banca è equivalente ad un altro dello stesso valore. Si opera la separazione, in base all'unità di misurazione dei rispettivi beni, secondo la quota che spetta ai singoli soggetti. Quando un bene è fungibile, diviene possibile la divisione dello stesso attraverso operazioni materiali, che vengono compiute all'interno del proc esecutivo. Dopo la separazione in natura ciascun comproprietario si prende la parte che gli spetta, e la parte dell'esecutato viene liquidata. Se la separazione in natura non è possibile, perché la contitolarità non ha ad oggetto una quantità di beni fungibili, o nessuno la chiede, al giudice si impone una scelta. Il giudice deve disporre che si proceda alla divisione del bene, tranne che ritenga più fruttuosa la vendita della quota indivisa. Se il giudice dispone la vendita della quota indivisa, nelle varie forme previste a seconda che si tratti di mobili o immobili, l’aggiudicatario subentra al posto dell’esecutato nella contitolarità del dir. Se il giudice ritiene che la vendita della quota può non dare un esito soddisfacente, magari per ragioni di mercato o per la tipologia del bene, dispone che si proceda alla divisione giudiziale del bene, in relazione 56 alla quale l’art. 181 disp. att. c.p.c. stabilisce che è competente per materia lo stesso giudice dell'esecuzione. La divisione giudiziale si opera con un proc di cognizione, nel litisconsorzio necessario di tutti i condividenti e del creditore pignorante. Il proc divisionale può essere sostituito da un accordo negoziale, al quale deve partecipare anche il creditore pignorante. È divisibile il bene che, quando è separato in quote reali, non perde la funz alla quale è destinato. L’art. 1114 c.c. stabilisce che la divisione si opera preferibilmente in natura: ciascuno dei contitolari ha dir, se possibile, ad avere una parte del bene in proprietà esclusiva. Ciò presuppone che il bene sia divisibile. Occorre tener distinta la separazione in natura dalla divisione in natura. La separazione in natura è tipica dei beni fungibili, ed indica quella modalità di realizzazione della divisione, consistente in operazioni di misurazione e di separazione materiale del bene in tante parti corrispondenti alle quote. La divisione in natura è invece una divisione che avviene attraverso operazioni non materiali, ma giuridiche: individuazione e stima dei beni, formazione dei lotti che debbono essere omogenei. Se il bene è indivisibile, e un condividente ne chiede l’assegnazione, il bene assegnato a chi l’ha richiesto. Se più ne chiedono l’assegnazione, si procede all'estrazione a sorte di colui al quale sarà attribuito l'intero bene. In ogni caso, l’assegnatario paga agli altri condividenti il controvalore delle loro quote. Se nessuno ne chiede l'assegnazione, il bene è venduto all’asta, ed il ricavato è diviso secondo le rispettive quote. Con tali modalità, la divisione è sciolta, e la quota pignorata viene trasformata nella proprietà esclusiva di una parte del bene, se questo è divisibile; o in una somma di denaro corrispondente alla quota del debitore, se questo è indivisibile. Nel primo caso, il proc esecutivo prosegue con la liquidazione della parte di bene assegnata al debitore; nel secondo caso, non vi è necessità della fase liquidativa, e si passa direttamente alla distribuzione della somma. Mentre si sta svolgendo il proc di divisione del bene, il proc esecutivo è sospeso automaticamente dal momento in cui viene proposta la domanda di divisione, fino al momento in cui non sia intervenuto un accordo fra le parti o venga emessa una sentenza di 1ºgrado passata in giudicato, o una sentenza di appello. Nonostante l’assonanza terminologica, all’espropriazione forzata dei beni appartenenti ad una comunione legale fra coniugi non si applicano gli artt. 599 ss. c.p.c. La comunione legale è una comunione senza quote. I coniugi sono solidalmente titolari di tutti gli elementi attivi della comunione. Nessun estraneo è ammesso a partecipare alla comunione. Nessun problema pone l’espropriazione forzata di un bene appartenente alla comunione se il credito da tutelare rientra fra quelli previsti dall'art. 186 c.c.: se del credito rispondono i beni della comunione, evidentemente potrà essere espropriata l’intera proprietà di ciascun bene. Se il credito è personale di uno dei coniugi, e -in applicazione dell’art.189 c.c.- i beni della comunione rispondono sussidiariamente (in mancanza di beni personali dei coniugi) fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato, il creditore potrà espropriare la piena proprietà di ciascun bene. L'altro coniuge assume la qualità di esecutato, tranne che si tratti di espropriazione di beni mobili, perché di questi ciascun coniuge può disporre solitariamente. L’altro coniuge potrà opporre che il valore del bene pignorato supera la metà del valore della comunione. In tal caso, il ricavato della vendita che eccede la metà del valore della comunione legale sarà consegnato all’altro coniuge. CAP. 19 – Espropriazione contro il terzo proprietario (pp. 204 – 214) L'espropriazione contro il terzo proprietario è prevista dall’art. 602 c.p.c. per due ipotesi: quando il bene è gravato da pegno o ipoteca per un debito altrui, e quando si tratta di un bene, la cui alienazione da parte del debitore è stata revocata per frode. La norma dà attuazione processuale a quanto è previsto nell'art. 2910 c.c., il quale, stabilisce che possono essere espropriati anche i beni di un terzo, quando sono vincolati a garanzia del credito o quando sono oggetto di un atto che è stato revocato perché compiuto in pregiudizio del creditore. C’è corrispondenza tra l'art. 602 c.p.c. e l'art. 2910 c.c.: ambedue forniscono i presupposti, in presenza dei quali è possibile l’espropriazione di beni che non appartengono al patrimonio del debitore; nel qual caso si ha una scissione tra il debito e la respons. L’ipotesi di bene gravato da pegno o ipoteca per un debito altrui può verificarsi per due fattispecie diverse, descritte nell’art. 2808, I e II c.c. L’art. 2808, I c.c. prevede che l’ipoteca attribuisce al creditore il dir di espropriazione anche nei confronti del terzo che acquista i beni vincolati a garanzia del suo credito; l’ipoteca dà il dir di sequela: il creditore ipotecario può espropriare il bene non solo finché si trova nel patrimonio del debitore, ma anche se si trova nel patrimonio di un terzo, non obbligato sul piano del dir sostanziale. L’art. 2808, I c.c. fa riferimento al seguente fenomeno: il debitore concede ipoteca o pegno su un bene che fa parte del suo patrimonio, e successivamente lo aliena ad un terzo (o investe un terzo della nuda proprietà, dell'enfiteusi o della superficie). Il proprietario del bene ipotecato investe il terzo di un dir trasferibile (ad eccezione dell’usufrutto). Il terzo diventa terzo acquirente del bene ipotecato; l'ipoteca permane nonostante il bene sia uscito dal patrimonio del debitore. Lo stesso fenomeno si può avere anche nell’ipotesi del terzo datore di pegno o di ipoteca, prevista dall’art. 2808, II c.c. L’ipoteca può essere concessa da un terzo a garanzia di un debito altrui. In relazione al rapp di credito fra Tizio e Caio, Sempronio, proprietario di un bene, non obbligato sul piano del dir sostanziale, con una propria manifestazione di volontà concede a Tizio l'iscrizione di ipoteca su un proprio bene a garanzia del credito che Tizio ha verso Caio; l’ipoteca segue il bene presso ciascun successivo acquirente, nei cui confronti il creditore ipotecario può ugualmente procedere ad espropriazione. Nella prima ipotesi, inizialmente non c’è scissione tra debito e responsabilità (l’atto di concessione dell'ipoteca proviene dal debitore e ha il solo effetto di fornire al creditore un dir di prelazione rispetto agli altri creditori); solo in un momento successivo, con l’alienazione del bene, si viene a creare la scissione. Nella seconda ipotesi, la scissione sussiste fin dall’inizio, essendo fin dall’inizio il terzo datore un soggetto 57 che, sul piano sostanziale, non è obbligato. In entrambe le ipotesi, o fin dall’inizio o in virtù di un evento successivo, si realizza una scissione fra il debito e la respons. Tale scissione presuppone, per non sovrapporsi alla respons patrimoniale generale di cui all'art. 2740 c.c., che la respons sia limitata ad alcuni individuati elementi del patrimonio del responsabile. La scissione tra debito e respons ha senso solo quando il terzo non debitore risponde dell’adempimento dell'altrui obbligazione non con tutti i suoi beni, ma con alcuni beni individuati; se il terzo garantisce l'adempimento dell’obbligo altrui con tutti i suoi beni, si è sul terreno di un'altra forma di garanzia del debito altrui e cioè la garanzia personale che si può estrinsecare nella fideiussione (o nell’avallo per i tit cambiari). Nella garanzia personale il garante risponde come debitore, sia pure accessorio, con tutto il suo patrimonio ex art. 2740 c.c. Il terzo datore di pegno o di ipoteca, o il terzo acquirente del bene ipotecato o oggetto di pegno, non sono personalmente obbligati; non sono tenuti ad adempiere, ma semplicemente a sopportare che l’espropriazione si svolga sul loro bene. È ovvio che il terzo proprietario del bene gravato da garanzia reale per debito altrui può avere un interesse di fatto a pagare il debito perché, estinguendosi questo, si estingue anche il pot espropriativo del creditore, e la sua soggezione a tale pot; ma l’eventuale adempimento che il terzo faccia per sottrarre il suo bene al pot espropriativo del creditore è l’adempimento di un obbligo altrui; con l'ulteriore conseguenza che l’eventuale perimento del bene dato in pegno o ipoteca fa estinguere la garanzia per il debito altrui e il proprietario del bene, se non è responsabile della sua distruzione, è liberato dalla respons e non è tenuto a reintegrare la garanzia con un bene diverso. Il fideiussore e l'avallante rimangono sempre personalmente obbligati e, anche nel caso in cui vadano perduti alcuni elementi del loro patrimonio, continuano ad essere obbligati con gli altri beni. Quando vi è scissione fra debito e respons, il creditore non può procedere all'espropriazione nei confronti del debitore, che non è titolare del dir sul bene, ma deve procedere ad espropriazione nei confronti del terzo, che vanta sul bene ipotecato un dir di piena proprietà, di nuda proprietà, di superficie o enfiteusi. La necessità di far partecipare al proc di espropriazione il titolare del dir sul bene, di fargli assumere la qualità di soggetto esecutato, discende dagli effetti della vendita forzata: la vendita fa nascere un tit a favore dell'acquirente in vendita forzata contro colui che ha subito l’espropriazione. Quindi il terzo proprietario deve partecipare al proc di espropriazione nella qualità di esecutato, in quanto è contro di lui che si deve formare il tit di trasferimento nella vendita forzata. Quanto la seconda ipotesi di espropriazione contro il terzo proprietario, riguarda i casi in cui il creditore ha ottenuto una sentenza che dichiara inefficaci gli atti di alienazione del debitore, in quanto compiuti in suo pregiudizio. Il riferimento è all’az revocatoria di cui agli art. 2901 e ss. c.c. e a tutte le altre ipotesi consimili in cui sono dichiarati inefficaci, rispetto al creditore, gli atti di disposizione compiuti dal debitore (es, revocatoria fallimentare, l'ipotesi in cui i creditori impugnano la rinuncia all'eredità fatta dal loro debitore, ecc). In questi casi si verifica una situazione simile a quella che si ha in seguito all’alienazione del bene oggetto di pegno o ipoteca. Sulla base dell’art. 2812 c.c., gli atti di disp del proprietario del bene ipotecato non sono opponibili al creditore ipotecario. Non opponibili significa che non hanno effetto in pregiudizio del creditore ipotecario. Tale inopponibilità si sviluppa in maniera diversa a seconda che si tratti dei dir individuati nel co.1 o 3 art. 2812 c.c. Nel primo caso (uso, usufrutto, abitazione e servitù) l'inopponibilità si attua sul piano degli effetti della vendita forzata, nel senso che quest'ultima ha effetti estintivi dei dir di usufrutto, uso, abitazione e servitù. Nel secondo caso (superficie, enfiteusi, piena e nuda proprietà) l’inopponibilità si sviluppa consentendo al creditore ipotecario di espropriare il bene anche se ormai è uscito dal patrimonio del debitore. Lo stesso problema si pone in riferimento all’az revocatoria ex art. 2901 c.c.; l’accoglimento della domanda di revoca degli atti di disp porta alla dich di inefficacia degli stessi nei confronti del creditore-attore. Inefficacia significa che tali atti non possono pregiudicare il creditore. Supponendo che il creditore riesca a dimostrare la sussistenza dei presupposti variamente previsti dai diversi istituti e che il giudice dichiari inefficace l’atto del debitore, che cosa accade dell’elemento patrimoniale attivo che è stato oggetto dell’atto di disposizione revocato? Le soluzioni astrattamente ipotizzabili sono due: la prima, che il bene si debba considerare, nei confronti del creditore vittorioso, come non uscito dal patrimonio del debitore. Sulla base di tale soluzione, all'accoglimento della domanda segue la possibilità per il creditore di espropriare il bene come se si trovasse ancora nel patrimonio del suo debitore. Mentre per tutti gli altri soggetti dell'ord il bene è nel patrimonio dell'acquirente, per il creditore, vittorioso con l'az revocatoria, il bene sarebbe ancora nel patrimonio del debitore e si potrebbe procedere all’espropriazione contro il debitore. Il legislatore non accoglie tale soluzione. Vuoi nell’art. 2902 c.c. vuoi nell’art. 2910 c.c. vuoi nell’art. 602 c.p.c. si stabilisce che il creditore, ottenuta la dich di inefficacia, può promuovere nei confronti del terzo acquirente le az esecutive sui beni che formano oggetto dell'atto impugnato. Ciò significa che l’accoglimento dell'az revocatoria produce non un rientro del bene nel patrimonio del debitore alienante di tal che il creditore possa procedere all'esecuzione contro quest’ultimo in relazione a quel bene, ma la possibilità per il creditore di procedere all’espropriazione contro il terzo acquirente, nonostante che costui non sia debitore. Tra le due alternative astrattamente possibili, il legislatore ha scelto la seconda strada: invece di dare al creditore un'arma che colpisce solo il patrimonio del debitore e prevedere il rientro del bene in quel patrimonio, il legislatore ha fornito il creditore di un’arma che colpisce anche il patrimonio del terzo: ha dato un pot di espropriazione nei confronti del terzo non debitore. Come il legislatore, nell’ipotesi di alienazione del bene ipotecato, non ha previsto che il creditore ipotecario possa espropriare il bene come se fosse ancora nel patrimonio di chi ha concesso l’ipoteca (quindi ignorando l'atto di vendita) ma gli ha dato il pot di espropriare il bene nel patrimonio del terzo, così nell'az revocatoria ha fornito il creditore del pot di aggredire esecutivamente il terzo, realizzando la stessa situazione 60 problema di esclusivo rilievo di dir sostanziale. Posto un illecito, che lede un interesse protetto, bisogna chiedersi se tale illecito porta -sul piano del dir sostanziale- all’estinzione del dir leso e alla nascita, in sua sostituzione, di un credito avente ad oggetto il risarc del danno subito (tutela per equivalente); o se l'illecito non estingue il dir leso, ma lo fa permanere integro e fa sorgere obblighi strumentali diretti a eliminare la lesione (tutela in forma specifica), ripristinando il dir leso nello stato quo ante. La scelta fra tutela in forma specifica e tutela per equivalente spetta al legislatore sostanziale. Talvolta si tratta di scelta obbligata: ciò accade tutte le volte in cui il bene della vita, garantito dalla situazione sostanziale protetta, è distrutto o compresso. In questi casi la tutela in forma specifica non è possibile, perché non c’è più l’interesse sostanziale da tutelare. È questa la situazione che si realizza nel primo es: se il bene è distrutto, la proprietà è definitivamente persa, e non avrebbe senso continuare a riconoscere a Caio la proprietà di un niente. Altre volte il legislatore sceglie l'una o l’altra forma di tutela sulla base di valutazioni di opportunità, nel rispetto delle norme cost. La distinzione fra tutela per equivalente e tutela in forma specifica appartiene al dir sostanziale, ed è recepita dal proc: al proc spetta non stabilire se si ha l’una o l'altra forma di tutela, ma attuare la scelta effettuata dalla normativa sostanziale. Nel proc esecutivo è indifferente che il credito ad una prestazione pecuniaria (pagamento di tot €) sia la fisiologica conseguenza di un rapp contrattuale (es, pagamento di canone di locazione, o della retribuzione di un dipendente), o consista in un credito, nel quale si è convertito, a seguito della lesione subita, un dir che garantiva un diverso bene della vita (es, somma dovuta per illecito licenziamento, o per l’edificazione di un edificio più alto di quanto consentito dal regolamento comunale). Questi sono problemi esclusivamente di dir sostanziale. Al momento della tutela esecutiva, ciò che conta è il tipo di obbligo inadempiuto, ed è irrilevante che il credito inadempiuto abbia natura risarcitoria o meno. Bisogna vedere che differenza c'è fra l’espropriazione e l'esecuzione in forma specifica. Nell’esecuzione per espropriazione i dir in gioco sono due: il dir di credito, di cui si chiede la tutela esecutiva, e che è potenzialmente destinato ad essere soddisfatto con la distribuzione del ricavato; e il dir patrimoniale del debitore, che è oggetto del pignoramento e poi della vendita. Il fondamento dell’espropriazione sta in ciò, che il credito prevale sulla proprietà del debitore. Nell’esecuzione in forma specifica il dir in gioco è uno solo: quello, individuato nel tit esecutivo, e del quale si chiede la tutela giurisdizionale esecutiva. La differenza fra espropriazione e esecuzione in forma specifica sta nell’unicità o duplicità delle situazioni sostanziali coinvolte nell’esecuzione. Un ulteriore problema riguarda l’individuazione dei dir sostanziali tutelabili attraverso l’esecuzione in forma specifica. Secondo parte della dottrina, sono surrogabili nel loro inadempimento dall'uff esecutivo, attraverso l’esecuzione in forma specifica, non tutti gli obblighi, ma solo quelli correlati a dir assoluti. Le obbligazioni in senso tecnico restano escluse: per esse vale l'art. 1218 c.c., che prevede che il debitore, che non esegue esattamente la prestazione dovuta, è tenuto al risarc del danno se non prova che l’inadempimento è stato determinato da un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. Secondo tale dottrina, i dir relativi, avendo natura obbligatoria, danno luogo, in caso di inadempimento delle obbligazioni loro contrapposte, al risarc del danno e non possono fondare un'esecuzione in forma specifica. Tale dottrina opera una contrapposizione fra situazioni strumentali e situazioni finali: situazione finale è il dir, il cui titolare è soddisfatto attraverso l'esercizio dei pot che l'ord gli attribuisce; a fronte di tali pot sta, per la collettività, il dovere di astenersi dal turbare l'attività del titolare del dir. La situazione finale è utile fintantoché esiste; quando la situazione finale si estingue, viene meno l’utilità concreta che l'ord garantisce. Al contrario, situazione strumentale è il dir, il cui titolare è soddisfatto quando gli obblighi correlati a tale situazione vengono adempiuti dal soggetto obbligato. Ciò che è utile al titolare della situazione strumentale è l'adempimento dell'obbligato, adempimento che estingue la situazione strumentale. Il problema si pone non in relazione ai dir che hanno per oggetto il pagamento di una somma di denaro (per i quali l'unica forma di tutela possibile è l’espropriazione), ma in relazione ai dir, relativi a un bene determinato, che non hanno natura reale, ma obbligatoria (locazione, comodato, etc). Per orientarsi sulla questione, occorre tenere conto che determinante, per stabilire il tipo di tutela esecutiva, è la struttura dell'obbligo che rimane inadempiuto, e non la struttura del dir a tale obbligo contrapposto. Poiché l'uff esecutivo deve sostituire col proprio comportamento l’inattività dell’obbligato, è il contenuto dell’obbligo (pagare, consegnare un bene, etc), e non il contenuto del dir ad esso correlato, che determina il diverso tipo di tutela esecutiva. Una differenziazione basata sul tipo di dir è irrilevante. La struttura del dir potrebbe essere rilevante sotto il profilo pregiudiziale della tutela in forma specifica, e nell'ottica del dir sostanziale. Per sostenere che solo i dir finali hanno l’accesso alla tutela esecutiva in forma specifica, bisognerebbe immaginare che, sul piano del dir sostanziale, l’art. 1218 c.c. risolva tutti gli inadempimenti delle obbligazioni (cioè correlati alle situazioni strumentali) nel dir al risarc del danno e che escluda la tutela in forma specifica per tutte le situazioni sostanziali che abbiano natura obbligatoria. Ma così non è. Il creditore ha dir all’adempimento dell'obbligazione avente ad oggetto un bene diverso dal denaro. L'elemento che distingue i dir assoluti da quelli relativi non è la struttura degli stessi, ma le vicende costitutive e estintive di tali dir, e l’opponibilità di essi ai terzi. Nella servitù negativa e nell’obbligo di non fare, dal punto di vista strutturale, è identico il tipo di comportamento che devono tenere, rispettivamente, il proprietario del fondo servente e il soggetto che si è obbligato. La differenza si coglie in ciò, che la servitù negativa è opponibile non solo all’attuale proprietario del fondo servente, ma anche a tutti i successivi proprietari; l’obbligo di non fare non è opponibile ai successivi proprietari del bene a cui l’obbligo inerisce, salvo che anch'essi non assumano personalmente lo stesso obbligo. Essendo identica la struttura, sono diverse le condizioni di esistenza e di persistenza dei dir assoluti e dei dir relativi. Ma, fin tanto che il dir esiste, non c’è alcuna 61 differenza di struttura fra le due situazioni sostanziali, che consenta di distinguerle per ciò che attiene alla tutelabilità. Anche i dir relativi che hanno ad oggetto beni individuati debbono essere qualificati come situazioni finali, avendo la stessa struttura dei dir assoluti. L’art. 1218 c.c., nel prevedere il risarc del danno per l’inadempimento, non stabilisce che la tutela delle situazioni strumentali sia solo risarcitoria. L’inadempimento non trasforma tutte le situazioni strumentali in crediti pecuniari. Tutti gli obblighi aventi per oggetto una cosa determinata sono suscettibili di tutela esecutiva in forma specifica, qualunque sia la situazione sostanziale di cui tali obblighi fanno parte. La differenza fra le varie situazioni sostanziali (reali o obbligatorie) può essere rilevante per stabilire se il dir esiste; ma, una volta stabilito che il dir esiste, non ne può essere esclusa una tutela in forma specifica per ragioni strutturali. Altro problema è quello degli obblighi relativi a quantità di cose indeterminate: sono suscettibili di tutela con l’esecuzione in forma specifica i dir che abbiano ad oggetto un genus? Una quantità di cose può diventare oggetto di un contratto (in relazione al quale l’art. 1376 c.c. adotta il princ consensualistico) in due modi diversi. Se oggetto del contratto è una quantità di cose fungibili individuate si applica l'art. 1377 c.c. Non rileva che queste cose debbano essere misurate, ad es, perché il prezzo dipende dalla loro misurazione; il trasferimento della proprietà avviene al momento del consenso. Se il contratto ha ad oggetto il trasferimento di cose determinate solo nel genere, si applica l’art. 1378 c.c. Poiché il bene non è identificato, il trasferimento della proprietà avviene non al momento del consenso, ma con la specificazione, quando si separa dalla massa del genus la parte oggetto del contratto. Si Immagini che ci sia un contratto (che ricade nella previsione dell’art. 1377 c.c.), con cui si acquista tutto il petrolio caricato su una petroliera. Allo scambio del consenso l’acquirente diviene proprietario del petrolio e all'inadempimento del venditore può ottenere una sentenza di condanna alla consegna di un bene che è determinato. L'esecuzione in forma specifica è giuridicamente possibile in relazione all’obbligo di consegna che nasce da un contratto inquadrabile nella previsione all'art. 1377 c.c. I beni di cui l’acquirente ottiene la consegna sono già di sua proprietà, appartengono già al suo patrimonio e l’obbligato ne ha solo la detenzione materiale, con la consegna non subisce alcun depauperamento del suo patrimonio. La tutela esecutiva serve per sottrargli la materiale disponibilità e non per ottenere la proprietà del bene, proprietà che egli ha già perso (e la controparte ha acquistato) al momento dello scambio del consenso, secondo quanto prevede l'art. 1377 c.c. Se si tratta di fattispecie alla quale si applica l'art. 1378 c.c., attraverso l’esecuzione in forma specifica si ottiene il trasferimento della proprietà del bene, perché solo al momento dell’attività esecutiva si ha l’individuazione del bene e, con tale individuazione, il trasferimento della proprietà. L’ostacolo che impedisce l’esecuzione in forma specifica relativa ad obblighi di genere è l'art. 2741 c.c., cioè il princ della par condicio creditorum. L’art. 2741 c.c. impedisce a un creditore di soddisfarsi in natura, per intero, senza tener conto che il bene fa parte della garanzia patrimoniale che spetta a tutti i creditori. Se tale soddisfazione in natura fosse possibile, anche il creditore di una somma potrebbe procedere ad esecuzione in forma specifica sul contante esistente nel patrimonio del debitore, escludendo il concorso di tutti gli altri creditori, i quali hanno il dir di soddisfare i loro crediti su tutto il patrimonio del debitore, compreso il contante. Altro problema, relativo all'esecuzione in forma specifica, riguarda la necessità di ricorrere alla tutela esecutiva per la soddisfazione del dir. L'obbligo inadempiuto, che fonda l'esecuzione in forma specifica, può essere correlato al dir, di cui si chiede la tutela attraverso l’esecuzione, in due modi diversi. Talvolta l’avente dir può esercitare, sul piano del dir sostanziale, pot che sono funzionalmente idonei a sostituire l’inadempimento dell'obbligato ed a procurargli per altra via quella soddisfazione, che gli sarebbe dovuta provenire dall'attività dell'obbligato inadempiente. L’avente dir può sostituire all’attività dell’obbligato inadempiente l’attività di un altro soggetto, senza incontrare difficoltà in quanto tale sostituzione avviene attraverso l'esercizio di pot di natura sostanziale, di cui è titolare l'avente dir. Da ciò consegue che l’ambito di applicazione dell'esecuzione per obblighi di fare si riduce del 95 %, perché di solito, a fronte di obblighi altrui inadempiuti, è possibile fare a meno dell’uff esecutivo, sostituendo l’intervento dell’obbligato inadempiente con l'intervento di altri soggetti. Quindi, in applicazione del princ dell’interesse ad agire (inteso come interesse al mezzo) l'intervento giurisdizionale non è possibile, perché non è necessario. L'esecuzione forzata diventa necessaria solo quando il titolare del dir non può autonomamente procurarsi, attraverso l’esercizio dei propri pot sostanziali, l’utilità che doveva procurargli l’obbligato inadempiente. E ciò perché l'esercizio di tali pot urta contro la sfera giuridica protetta dell'obbligato, sfera giuridica che può essere superata solo dall’uff esecutivo. Finché l'avente dir opera in casa propria, non vi è bisogno della tutela esecutiva; quando deve operare in casa altrui, è necessario l'intervento dell’uff esecutivo. Questa esposta è una scelta di dir positivo. Nel previgente c.c., la tutela dei dir correlati ad obblighi di fare inadempiuti si realizzava attraverso l’attività di dir sostanziale dell’avente dir, autorizzata dal giudice attraverso un provv dichiarativo, e eventualmente sorretta dall’intervento della forza pubblica in caso di resistenza dell’obbligato. Non vi era un’esecuzione forzata in forma specifica, ma un’autotutela dell'avente dir, previamente autorizzato dalla sentenza e con l'eventuale intervento della forza pubblica, nel caso che l’obbligato si opponesse materialmente. Accanto all'esecuzione diretta esiste la figura dell’esecuzione indiretta, in cui si cerca di ottenere l'adempimento dall'obbligato, attraverso l'irrogazione di sanzioni. Nell’esecuzione forzata diretta, o esecuzione in senso stretto, l’inattività dell’obbligato viene ad essere sostituita dall'attività dell’uff esecutivo che tiene, in luogo dell'obbligato, quei comportamenti che questi non ha tenuto. La natura sostitutiva dell'esecuzione diretta postula che l’attività, che l’uff esecutivo deve compiere, sia strutturalmente omogenea rispetto all’attività omessa dell'obbligato, e trova un limite nella surrogabilità del comportamento dell'obbligato, che dev’essere sostituibile in modo tale che l’avente dir riceva, 62 dall’attività l'uff esecutivo, la stessa utilità che avrebbe ricevuto dall’adempimento spontaneo. Si tratta di un limite naturale, che si impone al legislatore, e che non è il frutto di una scelta di dir positivo. Se il comportamento dell'obbligato è infungibile, si esce ontologicamente dall’esecuzione in senso stretto e si rende necessario uno strumento coercitivo. L’infungibilità può derivare da due cause: perché l'obbligo è assunto intuitu personae, cioè l’avente dir voleva la prestazione personale da quel certo soggetto; o perché l'obbligato si trova in una situazione di monopolio, di fatto o di dir, e la prestazione potrebbe essere fornita da chiunque, ma, in concreto, la soddisfazione può essere data solo da un certo soggetto: es, la fornitura di energia elettrica. Occorre tener conto del fatto che l’obbligo di astensione è sempre infungibile, poiché il comportamento consistente nel non fare dev’essere tenuto esclusivamente dal soggetto obbligato, e non può essere surrogato da alcun altro soggetto. Nel dir sostanziale è previsto talora l'obbligo di sopportare che l'avente dir compia una certa attività nella sfera giuridica dell’obbligato. Si tratta di un comportamento di tolleranza o di pati. L'obbligo di pati si differenzia dall'obbligo di non fare perché comporta lo svolgimento dell’attività protetta nella sfera giuridica dell’obbligato. L’obbligo di non fare vieta all'obbligato di tenere un certo comportamento, ma non dà al titolare dell’interesse protetto il pot di invadere la sfera giuridica dell'obbligato. Se la violazione dell'obbligo di non fare conduce alla realizzazione di un opus materiale, essa fa sorgere l'obbligo di disfare, a proprie spese, quanto compiuto in violazione del divieto di astensione imposto dall'ord. Se l’obbligato a disfare rimane inerte, si ha l’esecuzione per obblighi di fare, le cui spese sono a carico dell’obbligato. L’obbligo di pati, al contrario, è correlato ad un dir altrui di invadere la sfera giuridica dell’obbligato, il quale deve sopportare tale invasione. Nell'obbligo di pati, l'invasione della sfera giuridica altrui è fisiologica; nell’obbligo di non fare, l’invasione della sfera giuridica altrui è patologica, perché consegue alla violazione dell’obbligo di non fare, ed ha lo scopo di disfare quanto illecitamente fatto. Nell’obbligo di pati, l’attività è dell'avente dir; nell’obbligo di disfare, l'attività è dell'obbligato, perché è la conseguenza della violazione di un preesistente obbligo di non fare. Bisogna distinguere gli obblighi di sopportare in relazione alla diversa struttura del dir, cui tali obblighi sono collegati. In primo luogo vi sono gli obblighi di sopportare, correlati a un dir il cui interesse sta nel risultato dell’attività che si deve compiere, nella sfera giuridica altrui, a proprie spese. Qui il dir è soddisfatto dal risultato dell'attività, alla quale è contrapposto un obbligo di sopportare che l’avente dir operi nella sfera giuridica dell’obbligato. Può accadere che, correlato all’obbligo di sopportare, vi sia un interesse dell'avente dir non al risultato dell’attività, ma allo svolgimento dell'attività stessa. Es, con riferimento al dir di cacciare sul fondo altrui, l'interesse protetto è lo svolgimento dell’attività, l’andare a caccia e non il risultato di essa (selvaggina catturata). In questo caso si è fuori dall’esecuzione diretta. Se il proprietario del fondo si oppone, si rende necessaria un'esecuzione indiretta. Se l'interesse dell'attività è correlato al risultato, la tutela esecutiva diretta può operare perché, una volta ottenuto il risultato, non c’è più bisogno che l’obbligato collabori. La tutela ha luogo nelle forme dell’esecuzione per consegna o rilascio, secondo il princ per il quale l’esecuzione forzata è sostitutiva di ciò che doveva compiere l'obbligato secondo il dir sostanziale. Non è possibile utilizzare l’esecuzione per obblighi di fare, perché ciò significherebbe andare oltre l’inadempimento dell'obbligato. Un’esecuzione per obblighi di fare presuppone che l’opera debba essere effettuata dall’obbligato, che, se inerte, viene sostituito in tale sua attività dall’uff esecutivo. Nell'esecuzione per gli obblighi di pati, è sufficiente che il bene entri nella provvisoria disponibilità dell’avente dir il quale, una volta superate le resistenze provenienti dall’obbligato a sopportare, esercita i suoi pot sostanziali e fa da solo sul bene ciò che ha dir di fare. Se si utilizza l’esecuzione per obblighi di fare anche per quelli di pati, l'uff esecutivo finisce per sostituire l’attività dell’avente dir, anziché quella dell’obbligato: che non ha senso. CAP. 21 – Esecuzione per consegna e rilascio (pp. 228 – 235) Ex art. 2930 c.c., l'esecuzione per consegna o rilascio ha lo scopo di trasferire il pot di fatto sul bene, identificato nel tit esecutivo, da colui che esercita attualmente tale pot di fatto a colui che ha dir ad esercitarlo. Si ha il trasferimento della detenzione corpore del bene da colui che ha lo ius possessionis a colui che, secondo il tit, ha lo ius possidendi. Tale trasferimento non opera alcuna modificazione della situazione sostanziale, che ha come oggetto il bene rispetto al quale si opera il trasferimento. È modificato solo il pot di fatto sul bene, che prima dell’esecuzione era esercitato da Tizio, e dopo l’esecuzione da Caio, avente dir alla consegna o rilascio. Ma nulla è mutato circa l’assetto della titolarità dei dir che spettano alle due parti sul bene. Anche la situazione possessoria che acquisisce l'avente dir non dipende dalle modalità esecutive (che sono sempre le stesse), ma dal tit. La qualificazione in termini possessori della situazione, che si viene a creare attraverso l'acquisizione del pot di fatto sul bene, non dipende dall’esecuzione forzata, ma dalla situazione sostanziale a tutela della quale è stato svolto il proc esecutivo. L’avente dir acquista il possesso se sul bene gli è stata riconosciuta l’esistenza di un dir reale; acquista la detenzione, se sul bene gli è stata riconosciuta l'esistenza di un dir personale di godimento. Il possesso sarà uti dominus se è riconosciuta la proprietà, uti usufructus se è riconosciuto l’usufrutto, ecc. Quindi anche la situazione possessoria che si viene a creare in capo all’avente dir, che riceve il bene, si differenzia in base al tipo di dir a tutela del quale si è avuta l’esecuzione, e non con riferimento alle modalità dell'esecuzione. L'obbligo di consegna o rilascio viene attuato con le forme degli artt. 605 e ss. c.p.c. in modo sempre uguale, qualunque sia il dir riconosciuto, qualunque sia il tit esecutivo, qualunque sia la situazione possessoria che si viene a creare in capo all'avente dir a seguito dell'esecuzione. I tit esecutivi che fondano l'esecuzione sono quelli previsti dai numeri 1 e 3 dell’art. 474 c.p.c. Le scritture private autenticate ed i tit di credito che abbiano per oggetto beni individuati (tit rappresentativi) non costituiscono tit esecutivi idonei ad un’esecuzione per 65 come tit esecutivo per l’esecuzione degli obblighi di fare. Il problema si pone per i verbali di conciliazione giudiziale. La soluzione negativa è da respingere, perché è assurdo pretendere, di fronte ad un accordo delle parti, che il giudice debba emettere ugualmente una sentenza -che costituirebbe la trascrizione fedele dell'accordo delle parti- solo perché il verbale di conciliazione non avrebbe efficacia esecutiva. Quindi si deve ritenere che anche i verbali di conciliazione giudiziale sono tit esecutivi idonei all'esecuzione per obblighi di fare. Questa soluzione trova conferma nella nuova dizione dell'art. 474, laddove -accanto alle sentenze ed ai provv- si parla di altri atti giudiziali, e quindi anche della conciliazione giudiziale. Vi sono norme speciali nelle quali si prevede che tit esecutivi stragiudiziali siano idonei a fondare un'esecuzione in forma specifica, e anche un'esecuzione per obblighi di fare. L'esecutato viene individuato sulla base degli effetti concreti che produrrà l’esecuzione: tit esecutivo e precetto debbono essere notificati a chi esercita sul bene il potere di fatto, e al proprietario, se questi è soggetto diverso dal procedente o dall'esecutato. La costruzione o demolizione dell’opera incide, oltre che nella sfera giuridica del detentore corpore, anche nella sfera giuridica del proprietario. Decorsi 10gg dalla notifica del precetto, il creditore ricorre al giudice dell'esecuzione perché determini le modalità dell'esecuzione. Il giudice convoca l'esecutato, stabilisce con ordinanza le modalità dell’esecuzione, nomina l'ufficiale giudiziario che deve sovrintendere e chi materialmente deve compiere l’opera. Gli incaricati svolgono le loro attività come previsto. Sui rapp fra tit esecutivo e ordinanza di determinazione delle modalità di esecuzione non c'è ancora un orientamento giurisprudenziale consolidato. Di solito il tit esecutivo individua il risultato che si deve raggiungere con l’esecuzione e l’ordinanza stabilisce come si deve raggiungere questo risultato. Può essere non facile determinare i confini fra risultato e modalità. Le modalità dell’esecuzione sono stabilite nell’interesse dell’esecutato, poiché l'interesse del creditore è teso al risultato e è concentrato nel tit esecutivo. Le spese dell’esecuzione sono a carico dell’esecutato; il giudice deve scegliere le modalità di esecuzione che garantiscano il risultato ma che non siano onerose più del necessario per l'esecutato. In sede di esecuzione per obblighi di fare, può darsi che l’opera da costruire necessiti del rilascio di concessioni, autorizzazioni e simili da parte della PA. Il tit esecutivo dà all'uff esecutivo la possibilità di usare tutti gli strumenti giuridici che il debitore ha nel suo patrimonio. L’uff esecutivo, in virtù del tit esecutivo, può richiedere tutte quelle autorizzazioni e concessioni che l’esecutato poteva e doveva chiedere e non ha richiesto. Se l’esecutato le aveva richieste e gli erano state rifiutate, l'uff esecutivo, che si sostituisce all’obbligato, può proporre le impugnative possibili ed opportune in sede di contenzioso ammin. Se poi la PA rifiuta definitivamente e legittimamente i necessari permessi, il dir del procedente si trasforma in risarc del danno. CAP. 23 – Esecuzione indiretta (pp. 239 – 250) L’esecuzione indiretta è strumento necessario per tutelare in via esecutiva dir correlati ad obblighi infungibili. Per lungo tempo il ns ord è stato lacunoso in questo settore, in quanto singole fattispecie di esecuzione indiretta erano previste qua e là in l. speciali, ma mancava una previsione generale per tutte le ipotesi di obblighi infungibili. Il legislatore non aveva mai fatto una scelta precisa, ma a seconda dei casi aveva previsto o sanzioni civili, nelle quali il beneficiario della sanzione pecuniaria è l'avente dir; o sanzioni civili, nelle quali il beneficiario della sanzione pecuniaria è la PA; o sanzioni pen. Il giudice può fissare una somma dovuta alla controparte per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata. Questa lacuna è stata colmata con la riforma del ‘09, che ha introdotto, nel libro3° c.p.c., l'art. 614-bis, il quale adotta la tecnica della sanzione civile di cui è beneficiario l'avente dir. Stabilisce la norma -rubricata come attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare- che il giudice, con la sentenza di condanna fissa la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva o per ogni ritardo nell'esecuzione del provv. Il primo problema da affrontare deriva da un dato testuale: mentre la rubrica dell’art. 614-bis c.p.c. parla di obblighi di fare infungibile (gli obblighi di astensione sono sempre infungibili), tale limitazione non è ripetuta nel testo della norma. Taluno, invocando la regola in virtù della quale rubrica non est lex, ha ipotizzato l’utilizzabilità dell’esecuzione indiretta anche in materia di obblighi fungibili. Ma si tratta di conclusione non convincente. In primo luogo, è ancora da dimostrare la fondatezza della regola, sebbene essa talvolta sia invocata finanche in pronunce giurisdizionali. In secondo luogo, la collocazione della norma a chiusura del tit IV, dedicato all’esecuzione forzata di obblighi di fare e di non fare, dimostra che il legislatore abbia voluto completare la tutela esecutiva del libro3° del c.p.c. con il tassello mancante: l’attuazione degli obblighi infungibili. Sicché non vi è ragione per duplicare le forme di tutela esecutiva laddove siano utilizzabili le fattispecie di esecuzione diretta. Per questa ragione non è convincente il tentativo di estendere l'esecuzione indiretta anche alle fattispecie disciplinate dall’art. 2932 c.c. La nuova norma è collocata nel libro3° c.p.c., nel tit IV dedicato all'esecuzione forzata di obblighi di fare e di non fare: essa affida la concessione della tutela esecutiva al giudice della cognizione. Il legislatore è caduto nell’errore di vedere come oggetto dell'esecuzione non il dir, ma il provv: come è reso palese dalla terminologia utilizzata, in cui si parla di esecuzione del provv. La conseguenza di un tale errore non è da poco, in quanto pone problemi di coordinamento, e taglia fuori dalla tutela esecutiva indiretta tutti i tit esecutivi diversi dai provv di condanna, e i tit esecutivi stragiudiziali. Un corretto inquadramento sistematico avrebbe consentito di affidare il compito di determinare la sanzione pecuniaria al giudice dell’esecuzione, come accade per l'esecuzione degli obblighi di fare: dopo aver notificato tit esecutivo e precetto, in analogia a quanto prevede l’art. 612 c.p.c., il creditore avrebbe potuto proporre ricorso al giudice dell'esecuzione. Questi, convocate le parti, avrebbe determinato la misura della sanzione 66 pecuniaria dovuta. Invece, avendo il legislatore ritenuto che è compito del giudice della cognizione concedere la misura esecutiva, l’avente dir -beneficiario di un tit esecutivo stragiudiziale per un obbligo infungibile- sarà costretto a proporre una domanda di condanna in sede dichiarativa per ottenere la determinazione della sanzione pecuniaria. Il compito di concedere la misura esecutiva è attribuito al giudice della cognizione competente per la domanda di condanna: quindi il GDP potrà determinare la sanzione esecutiva anche in misura eccedente la sua competenza per valore. Per quanto riguarda i provv dichiarativi mediante i quali può essere concessa la misura esecutiva, l’art. 614-bis c.p.c. parla di provv di condanna, qualunque sia la forma che esso assume. Es, anche con l'ordinanza pronunciata nel proced sommario si può determinare la sanzione esecutiva. Ciò acquisito, occorre chiarire se il provv, con cui è disposta la misura coercitiva, ha contenuto sostanziale o processuale. Si tratta di un provv di merito o di rito? Per cercare una risposta, occorre stabilire se oggetto del provv sia una situazione giuridica soggettiva sostanziale; se la somma di denaro per l’eventuale violazione della prestazione principale sia, al pari di quest’ultima, oggetto di un dir soggettivo sostanziale. O se si è in presenza di un effetto che trova la sua radice nel proc, in quanto non è configurabile un dir sostanziale ad ottenere la misura coercitiva. La seconda alternativa è quella corretta. La misura esecutiva, ancorché impartita dal giudice del proc dichiarativo, conserva le sue caratteristiche fondamentali. Essa è e rimane un provv a contenuto processuale, e non diviene una pronuncia di merito per il solo fatto di essere contenuta nello stesso provv, nel quale è contenuta una pronuncia di merito. Il punto è fondamentale. Un provv è di merito quando impartisce una disciplina che attiene al dir sostanziale, e dà regole di condotta che si sovrappongono (o si sostituiscono) a norme sostanziali. È evidente che la regola di condotta contenuta nella misura esecutiva non ha niente di sostanziale. Né si dica che, in virtù di essa, si possono produrre conseguenze pecuniarie a favore di una parte nei confronti dell'altra. La portata economica del provv non è rilevante. Basti pensare alle spese ed ai danni processuali, o alle varie sanzioni pecuniarie qua e là previste nel c.p.c.: nessuno potrà pensare che la sanzione pecuniaria al testimone riottoso è una misura di merito, perché comporta il pagamento di una somma di denaro. Quella parte della sentenza con la quale si determina la misura esecutiva è un provv di rito, non diverso da quelli disciplinati nelle altre norme di cui al libro3° c.p.c., e non un provv di merito. Niente impedisce, da un punto di vista logico, che una misura esecutiva sia impartita attraverso il proc dichiarativo: quando ciò accade, si verifica un fenomeno analogo a quello che si ha nei rapp fra sentenza costitutiva e dir potestativo stragiudiziale. Se è il giudice dell’esecuzione ad impartire la misura coercitiva, le eventuali contestazioni circa la conformità al dir processuale della stessa troverebbero la sede della loro risoluzione nei proc dichiarativi incidentali al proc esecutivo. Il controllo di legalità è effettuato ex post. Affidando al giudice della cognizione il compito di pronunciare la misura esecutiva, la verifica circa la conformità al dir della stessa è antecedente alla produzione dell'effetto. Analogamente, se un certo effetto è prodotto dall'esercizio di un dir potestativo stragiudiziale, il controllo sulla conformità a dir dell'effetto prodotto è operato ex post; mentre, se lo stesso effetto è prodotto da una sentenza costitutiva, prima si verifica che vi siano i presupposti per la produzione dell'effetto, e poi l’effetto stesso viene prodotto. Dal contenuto processuale della misura esecutiva discendono conseguenze. Trattandosi di misura processuale, la necessaria istanza della parte non costituisce una vera domanda che si aggiunge alla domanda di condanna, ed il provv con cui il giudice fissa la sanzione pecuniaria non è un provv di merito che si cumula a quello che decide della domanda principale. Al contrario l’istanza di parte non individua un ulteriore e separato oggetto del proc, e la pronuncia del giudice ha una portata processuale: essa costituisce un provv di rito. L’istanza può essere proposta in qualunque momento del proc, e non va incontro alle preclusioni che attengono alle nuove domande. Le somme che l'avente dir percepirà, ove si verifichino le violazioni indicate nel provv del giudice, si cumulano, e non si sostituiscono al risarc dei danni, che spetta all’avente dir in virtù della normativa sostanziale, e la cui entità prescinde da quanto gli perverrà in virtù della comminatoria. La portata processuale e non sostanziale della misura coercitiva, e la qualificazione del provv che la irroga come di rito e non di merito, fa sì che le parti non siano in grado di realizzare negozialmente gli stessi effetti che produce la misura giurisdizionale. Né vale invocare la clausola pen di cui agli artt. 13 82 ss. c.c., poiché questa ha una funz risarcitoria che è estranea all'art. 614-bis c.p.c. Ma se l'espressione col provv di condanna non lascia dubbi a proposito della sede in cui la sanzione esecutiva è determinata, le certezze finiscono qui. Fermo che ogni provv, che costituisce esercizio di giurisdizione dichiarativa e che ha efficacia di tit esecutivo è idoneo a supportare la misura esecutiva, resta da chiedersi se questa può essere disposta: a) dal giudice in sede di conciliazione giudiziale; b) dall’arbitro; c) dal giudice in sede di tutela cautelare. La risposta è negativa per quanto riguarda i due primi quesiti, e positiva rispetto al terzo. Con riferimento alla conciliazione giudiziale, è vero che sia la Corte cost sia la riforma del ‘06 hanno ritenuto la conciliazione giudiziale tit esecutivo idoneo a sorreggere ogni forma di esecuzione forzata, anche l'esecuzione per obblighi di fare. Però è altrettanto vero che la scelta del legislatore del ‘09, è netta: il provv, pur avendo fondamento e funz esecutiva, è concesso attraverso l’esercizio della giurisdizione dichiarativa. E nessun esercizio di giurisdizione dichiarativa vi è nella conciliazione giudiziale. Per quanto riguarda il lodo, l’arbitro non può concedere la misura esecutiva, perché questa ha funz esecutiva, e gli arbitri non hanno pot in materia. Né si può ipotizzare che le parti, con la convenzione di arbitrato o successivamente, possano consensualmente attribuire agli arbitri pot che le parti stesse non hanno: non è possibile produrre sul piano sostanziale gli effetti propri della misura coercitiva. Le parti non possono consensualmente attribuire agli arbitri la produzione di effetti che le parti stesse non possono negozialmente realizzare. E neppure si può pensare che la misura coercitiva sia concessa dal trib in sede di exequatur del 67 lodo, perché, in via assorbente ed a prescindere da altre possibili obiezioni, in quella sede il trib non esercita una giurisdizione dichiarativa. Per queste ragioni, il giudice competente alla concessione dell’exequatur alla sentenza straniera non può disporre la misura coercitiva: è pacifico che l’attribuzione dell’efficacia di tit esecutivo alla sentenza straniera di condanna non costituisce esercizio di giurisdizione dichiarativa. Diversa la soluzione per la tutela cautelare. È vero che in quella sede non si ha un provv di condanna nel senso previsto dall'art. 614-bis c.p.c. Però è anche vero che il provv cautelare può anticipare tutti gli effetti esecutivi della pronuncia di merito, e anche quelli previsti dall’art. 614-bis c.p.c. Una diversa soluzione si esporrebbe a fondate censure di incost. Se è criticabile, per ragioni di opportunità, l'aver affidato al giudice della cognizione il pot di pronunciare una misura esecutiva, sarebbe contrario ai princ cost negare alla tutela cautelare uno strumento indispensabile per realizzare quell’effettività, che le spetta. La determinazione della somma avviene per ogni violazione o inosservanza successiva, o per ogni ritardo nell’esecuzione del provv. Per intendere l’espressione del legislatore, occorre distinguere gli obblighi di fare da quelli di non fare. In relazione agli obblighi di fare, la sanzione è parametrata ad ogni frazione di tempo in cui si verifica il ritardo nell’adempimento. In relazione agli obblighi di non fare, la sanzione è parametrata ad ogni successivo episodio di violazione dell'obbligo di astensione. L’art. 614-bis c.p.c. contiene una disp elastica, per non dire vuota, nella quale rientra tutto e il contrario di tutto (valore della controversia, natura della prestazione, danno quantificato o prevedibile, ogni altra circostanza utile). Viene rimesso, più che alla discrezionalità, all'arbitrio del giudice determinare la somma dovuta. E poiché la determinazione avviene in sede dichiarativa, le contestazioni circa la congruità della somma determinata sono rimesse al giudice dell'impugnazione. Sorge il dubbio che si tratti di disp incos: poiché si è in presenza di una sanzione, diviene necessario che la l. determini i parametri per la quantificazione della stessa, o alternativamente ponga i limiti minimi e massimi della stessa. I criteri che indica il legislatore sono troppo evanescenti per soddisfare il princ di legalità. Poiché la sanzione pecuniaria, ancorché affidata al giudice della cognizione, costituisce una misura processuale esecutiva e non una pronuncia di merito, il sindacato in sede di impugnazione è quello delle pronunce di rito e non di merito. La Cass ha cognizione piena relativamente alla sanzione determinata dal giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. La richiesta, una volta avanzata, non può non essere accolta, salve alcune eccezioni. Il giudice deve verificare che la condanna abbia ad oggetto un’astensione o un facere infungibile. Se per la prima alternativa non possono sorgere dubbi, più complessa è la seconda: la fungibilità/infungibilità dev’essere valutata secondo criteri oggettivi e non secondo quanto afferma l'avente dir, sicché il giudice deve rifiutare di determinare la sanzione quando ritiene fungibile il facere. In secondo luogo, la dec del giudice della cognizione, quando sia negativa in quanto qualifica il facere come fungibile, è vincolante per il giudice dell’esecuzione, al quale sia presentato il ricorso: egli non potrà rifiutare la determinazione delle modalità di esecuzione, allegando che il facere è infungibile. Aver attribuito al giudice della cognizione il compito di concedere la misura sanzionatoria non ne immuta la natura, ma fa sì che il controllo circa la conformità al dir della stessa è antecedente alla produzione dell’effetto. Potrà così accadere che, se il giudice della cognizione sbaglia, il giudice dell’esecuzione si trovi in difficoltà. Si tratta di un inconveniente che è minore rispetto alla libertà del giudice dell'esecuzione di dissentire dal suo collega che ha pronunciato la sentenza di condanna. Le ipotesi in cui l'esecuzione indiretta è esclusa, pur trattandosi di un fare infungibile o di un non fare, sono due: la prima è prevista dall’art. 614-bis c.p.c., laddove si esclude che l’esecuzione indiretta sia utilizzabile in materia di lavoro subordinato e parasubordinato. Si tratta di un’esclusione poco comprensibile, e probabilmente incost. Negare l’esecuzione indiretta in blocco ed indiscriminatamente per tutta una serie di rapp significa negare a questi rapp la tutela giurisdizionale garantita costituzionalmente dall'art. 24 Cost: anche la tutela esecutiva rientra a pieno tit nel dir di az (inteso come dir ad una tutela effettiva) garantito dalla Cost. La seconda è prevista dall’art. 614-bis c.p.c., laddove si esclude la determinazione della misura esecutiva, ove ciò sia manifestamente iniquo. Si è in presenza di una norma vuota, che rischia di alterare i rapp fra dir sostanziale e proc, laddove nega la tutela esecutiva nei confronti di un obbligo inadempiuto, come tale previsto dal dir sostanziale. La misura esecutiva è frutto dell'esercizio di un pot giurisdizionale dichiarativo, sicché il controllo sui suoi presupposti è preventivo rispetto alla concessione della stessa. Ne consegue che le eventuali censure avverso il provv con cui si concede o si nega la misura coercitiva debbono essere fatte valere attraverso i mezzi di impugnazione. Una diversa soluzione -specie la possibilità di sottoporre a controllo giurisdizionale dichiarativo la misura coercitiva attraverso l'opposizione all’esecuzione- presuppone che tale misura possa essere concessa anche al di fuori di un proc di cognizione. È chiaro che, ove si dovesse accedere a questa soluzione, l’utilizzabilità delle opposizioni esecutive non potrebbe essere esclusa. Ma se solo attraverso il proc dichiarativo si può ottenere una misura coercitiva, allora i mezzi di impugnazione costituiscono l’unico strumento di controllo. Il problema si pone nell’ipotesi in cui la misura coercitiva sia concessa dal giudice del cautelare. In tal caso sono utilizzabili i rimedi propri dei provv cautelari: reclamo e revoca/modifica. Tale possibilità non è esauriente, poiché reclamo e revoca/modifica sono rimedi che partecipano della funz non dichiarativa del proced cautelare, e non possono sostituire il controllo dichiarativo. Nei rapp fra cautela e merito si realizza una situazione analoga a quella che si ha fra sentenza e mezzi di impugnazione: nel senso che le contestazioni avverso i provv cautelari sono riservate al giudizio di merito, sicché tali contestazioni non possono essere proposte incidentalmente in altra sede. Uno spunto in tal senso può ricavarsi dall'art. 669-duodecies c.p.c. che contrappone le questioni proponibili in sede di attuazione del provv cautelare a ogni altra questione, che va proposta nel giudizio di merito. Se così è, allora è in sede di merito che si 70 fosse utilizzato dal creditore come prova dell'esistenza del suo dir in un ordinario proc di cognizione. Ipotizzando che ci sia un ordinario proc di cognizione, in cui attore sia il creditore procedente e convenuto sia l’esecutato, il cui oggetto sia lo stesso dir di cui si chiede la tutela esecutiva, ed in cui il creditore produca, come prova dell’esistenza del dir fatto valere, lo stesso atto che in sede esecutiva sta usando come tit. Le difese che il convenuto può spendere in sede di opposizione all’esecuzione sono le stesse che può usare in sede di cognizione contro quell’atto. Nel caso in cui, con l'opposizione all'esecuzione, si contesti l’esistenza del dir sostanziale oggetto di tutela, l’opposizione all'esecuzione non è altro che un proc di cognizione che inizia in modo anomalo, ma che ha lo stesso oggetto, lo stesso svolgimento e produce gli stessi effetti di un ordinario proc di cognizione avente ad oggetto quel dir. Se il creditore procedente è il primo prenditore della cambiale, gli si possono opporre tutte le eccezioni cartolari ed anche quelle relative al rapporto sottostante; se egli è un giratario, gli si possono opporre solo le eccezioni cartolari, e quelle derivanti ad un eventuale rapporto sottostante fra giratario e debitore (es., una compensazione). Lo stesso accade anche in sede di opposizione all’esecuzione. L’ambito oggettivo dell’efficacia preclusiva dell’atto-tit esecutivo è identica vuoi nell’opposizione all’esecuzione vuoi in un ordinario proc di cognizione, in cui l’atto sia utilizzato come prova dell'esistenza del dir. Per i tit giudiziali, il discorso è analogo. Si debbono applicare i limiti temporali di efficacia della sentenza. È spendibile, in sede di opposizione all’esecuzione, ciò che non è precluso dai detti limiti temporali che hanno come referente l'ud di precisazione delle conclusioni per le sopravvenienze in fatto, e la pubblicazione della sentenza per le sopravvenienze in dir. Il convenuto, che adempie dopo la precisazione delle conclusioni in 1°grado, può far valere l'estinzione del suo debito in sede di opposizione all'esecuzione. Se propone appello, egli deve dedurre nel proc di appello il fatto dell’avvenuto pagamento, perché il giudice d’appello possa tenerne conto e rigettare la domanda per avvenuto adempimento, qualora dovesse accertare che il convenuto era davvero tenuto ad adempiere; se in appello si accerta l’inesistenza originaria dell'obbligo di adempimento, egli può chiedere e ottenere dal giudice di appello la condanna della controparte alla restituzione di quanto pagato a causa della sentenza esecutiva. Con l’opposizione all'esecuzione si fa valere anche l’impignorabilità dei beni. Se la parte esecutata contesta che sussiste il presupposto della impignorabilità dei beni, deve proporre opposizione all'esecuzione. Lo strumento è quello dell’opposizione all’esecuzione, e non quello dell’opposizione agli atti esecutivi, perché il bene impignorabile non fa parte della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.p.c., e fuoriesce dal dir di procedere ad esecuzione forzata. Si tratta di un profilo di insussistenza del dir di procedere ad esecuzione forzata che non riguarda il dir da tutelare, né il dir alla tutela esecutiva, ma l’oggetto del proc di espropriazione come situazione sostanziale. Nell’opposizione all'esecuzione si discute il se, l’an dell’esecuzione. Ciò vale a distinguerla dall’altro strumento, che è l'opposizione agli atti esecutivi, con la quale si contesta la conformità del proc esecutivo alle norme processuali, e che riguarda il come, il quomodo dell'esecuzione. Mentre l'opposizione agli atti è uno strumento che spetta a tutte le parti del proc esecutivo, l’opposizione all’esecuzione spetta solo a colui o coloro che subiscono l’esecuzione, perché solo questi soggetti hanno la legittimazione a fare accertare se l'esecuzione deve o no essere compiuta. Si dice che l’opposizione agli atti esecutivi è di rito, mentre l’opposizione all’esecuzione è di merito. Con l’opposizione all’esecuzione si contesta il dir a procedere ad esecuzione in quello e in ogni altro proc esecutivo, si contesta un quid esterno al proc in corso. Al contrario, con l'opposizione agli atti si contesta che quel proc sia viziato, ma non che tutti i possibili proc siano viziati. Proc di opposizione all’esecuzione: bisogna stabilire se l’esecuzione forzata è iniziata o meno. Ex art. 491 c.p.c., l’espropriazione inizia col pignoramento; ex art. 608 c.p.c. l'esecuzione per rilascio inizia con la notifica del preavviso di rilascio. Non vi sono norme che individuino l’inizio dell'esecuzione per consegna e dell’esecuzione per gli obblighi di fare. Si deve applicare in via analogica l'art. 491 c.p.c., e qualificare come inizio dell’esecuzione in forma specifica il compimento del primo atto dell'uff esecutivo successivo al precetto. Nell’esecuzione per consegna il primo atto è l’accesso dell'ufficiale giudiziario; nell'esecuzione per obblighi di fare è il provv, col quale -a seguito dell’istanza del creditore procedente- il giudice fissa l'ud per determinare le modalità dell'esecuzione stessa. L'opposizione proposta prima dell’inizio dell'esecuzione (opposizione a precetto) si propone con un ordinario atto di citazione (o con ricorso, se è prescritto un rito speciale per il dir che si vuole tutelare esecutivamente) di fronte al giudice competente per materia o valore con riferimento al dir sostanziale del quale si richiede la tutela esecutiva. L'art. 615 c.p.c. rinvia, per la determinazione della competenza per territorio, all’art. 27 c.p.c.: è competente il giudice del luogo dove si svolge l’esecuzione. Ma se l’esecuzione non è ancora iniziata, vi è solo il precetto. Allora occorre far riferimento all'art. 480 c.p.c., che disciplina il precetto. In base a tale art., nel precetto il creditore procedente deve dichiarare la residenza o eleggere il domicilio nel comune in cui ha sede il giudice (che sarà) competente per l'esecuzione. Con la dich di residenza o l’elezione di domicilio il debitore esecutato è in grado, sulla base del precetto, di individuare il giudice di fronte al quale si svolgerà l'esecuzione. Se il creditore non ha dichiarato la residenza né eletto il domicilio, le opposizioni si propongono al giudice del luogo in cui è stato notificato il precetto. Se l’esecuzione ha già avuto inizio, ex art. 615 c.p.c., l'opposizione è proposta con ricorso che si deposita nella cancelleria del giudice dell’esecuzione, e che successivamente è portato a conoscenza delle altre parti interessate, insieme al decreto con il quale il giudice dell'esecuzione fissa l'ud di comparizione innanzi a sé. L’ud di comparizione dinanzi al giudice dell’esecuzione realizza il raccordo fra proc esecutivo e proc dichiarativo. Le opposizioni esecutive sono costituite da proc di cognizione incidentali al proc esecutivo: la domanda di opposizione è proposta in sede esecutiva col ricorso al giudice dell’esecuzione, e deve rendersi autonoma. Il ricorso in opposizione contiene un atto di un proc dichiarativo (domanda), che trova provvisoria ospitalità nel proc esecutivo. Per quanto attiene all’ud di comparizione dinanzi al giudice dell’esecuzione, l’art. 185 disp. att. c.p.c. rende applicabile ad essa il rito camerale. Occorre sottolineare che è solo l'ud di comparizione dinanzi al giudice dell'esecuzione che segue il tiro camerale, non anche il proc di cognizione, che è stato instaurato col ricorso, e che a quell'ud trasmigra in sede cognitiva dinanzi allo stesso uff, o è riassunto 71 dinanzi ad altro uff. Ciò è confermato dal fatto che l’art. 616 c.p.c. parla di introduzione del giudizio di merito secondo le modalità previste in ragione della materia e del rito: il richiamo ad un rito applicabile esclude ogni possibilità di ritenere soggetta al proc camerale anche la fase successiva all'ud innanzi al giudice dell’esecuzione. Le due attività principali, che deve svolgere il giudice dell’esecuzione in questa sede, sono costituite dalla risposta all’eventuale domanda di sospensione, che l’opponente abbia avanzato, e dall’individuazione del giudice competente a decidere nel merito della domanda di opposizione. Con riferimento alla competenza verticale, essa dev’essere valutata con riferimento al dir, di cui è chiesta la tutela. Può darsi che la competenza spetti al GDP, e non al trib. La competenza territoriale, ex art. 27 c.p.c., spetta al giudice del luogo in cui si svolge l'esecuzione. Lo spostamento di competenza avviene solo in senso verticale e non anche in senso orizzontale. Se l’uff giudiziario al quale appartiene il giudice dell'esecuzione non è competente, il giudice dell’esecuzione assegna un termine perentorio per la riassunzione della causa. La riassunzione è un atto di impulso processale e può essere compiuto da qualunque parte. Se l’uff giudiziario al quale appartiene il giudice dell'esecuzione è competente, il giudice dell'esecuzione assegna un termine perentorio per l’introduzione del giudizio di merito. Il termine «introduzione» non dev’essere inteso come «proposizione». La domanda è già stata proposta col ricorso: come è dimostrato dal fatto che, ove l'uff giudiziario al quale appartiene il giudice dell’esecuzione non sia competente, si ha la riassunzione e non la proposizione della causa dinanzi al giudice competente. Come avviene il distacco della causa di opposizione dal proc esecutivo, nel quale è nata? Per capire il meccanismo previsto dall’art. 616 c.p.c., occorre tener conto di qual era la situazione antecedente alla riforma del ‘06. In precedenza, l'art. 616 c.p.c. si limitava a stabilire che, se la causa di opposizione era di competenza dell'uff giudiziario al quale apparteneva il giudice dell’esecuzione, questi provvede all'istruzione a norma degli artt. 175 e ss. Questa disp da un lato istituiva una sorta di competenza funzionale del giudice dell'esecuzione: era il giudice dell'esecuzione in quanto tale a svolgere il ruolo di giudice istruttore della causa di opposizione. Dall'altro lato, il richiamo agli artt. 175 e ss. c.p.c. aveva fatto sorgere incertezze sul coordinamento fra la fase introduttiva della controversia -che si svolge: ricorso; fissazione di un'ud con d.; notificazione del ricorso e d. al creditore procedente; ud, e con modalità diverse da quelle previste dagli artt. 163 ss. c.p.c.- e la fase di trattazione. Poiché, ai sensi del previgente art. 185 disp. att. c.p.c., all'ud di comparizione dinanzi al giudice dell’esecuzione si applicava l'art. 183 c.p.c., ci si chiedeva, es, in quali termini e modalità l’opposto potesse proporre domande riconvenzionali e chiamare in causa terzi; se l’opponente potesse proporre ulteriori domande, oltre a quella già proposta col ricorso; etc. Con riferimento al primo profilo, la competenza funzionale del giudice dell’esecuzione è venuta meno: a seguito dell’iscrizione a ruolo della causa, il pres del trib nomina un magistrato appartenente a quello stesso uff, magistrato che non necessariamente è il giudice dell’esecuzione. Ciò assume una particolare importanza soprattutto riguardo all’opposizione agli atti esecutivi. Con riferimento al secondo profilo il passaggio dalla fase introduttiva alla fase di trattazione avviene attraverso la fissazione di un termine perentorio, entro il quale la parte interessata deve iscrivere la causa a ruolo e poi compiere un atto secondo le modalità previste in ragione della materia e del rito: deve porre in essere l’atto introduttivo del rito processuale, applicabile alla causa di merito. Si tratterà di una citazione o di un ricorso, a seconda che il rito processuale, applicabile al merito, sia il rito ordinario o un rito speciale: se si tratta di citazione e di rito ordinario, dovranno essere rispettati i termini a comparire di cui all'art. 163-bis c.p.c., ridotti alla metà; se si tratta di citazione, ma per la causa sono previsti termini diversi, si dovranno rispettare questi termini, ma dimezzati. Se si tratta di ricorso, sarà il giudice a fissare l’ud, a seguito del deposito dello stesso. L'atto introduttivo del giudizio non dovrà necessariamente contenere una domanda ma potrà contenerne di ulteriori. E l’atto difensivo della controparte potrà avere il contenuto e sarà soggetto alle preclusioni previste per il rito applicabile. Il legislatore, nonostante una domanda sia già stata necessariamente proposta, non ha voluto che la fase introduttiva speciale producesse per le parti alcun tipo di preclusione. E il passaggio dalla fase introduttiva a quella di trattazione dà alle parti la possibilità di compiere tutte le attività, che si possono normalmente compiere quando si propone una domanda. La legittimazione a proporre l'opposizione all’esecuzione spetta sempre all’esecutato, e cioè al debitore e al terzo proprietario. L'opposizione può essere proposta anche in via surrogatoria ex art. 2900 c.c. da un creditore dell’esecutato nell'inerzia di quest’ultimo. Nell’espropriazione, esecutato è colui che è individuato come tale dal creditore procedente; nell'esecuzione in forma specifica c’è un’inversione: prima si individua chi è colui, nella cui sfera giuridica si produrranno gli effetti delle misure esecutive; costui deve assumere la posizione di esecutato. Quindi nell'espropriazione il debitore esecutato è colui al quale il creditore ha notificato il tit esecutivo e precetto; nell’esecuzione in forma specifica è colui che, se l’esecuzione viene condotta a termine, subisce gli effetti tipici dell’esecuzione. Costui, anche se non è formalmente individuato dal creditore procedente come esecutato, ha ugualmente la possibilità di proporre opposizione all'esecuzione, perché nella sostanza il vero esecutato è lui. Il creditore procedente è la controparte dell’opposizione all'esecuzione: l'opponente contesta il dir a procedere ad esecuzione forzata del creditore procedente. I creditori, già intervenuti quando viene proposta l'opposizione, sono litisconsorti necessari solo se sono muniti di tit esecutivo. La rinuncia del creditore procedente è efficace incondizionatamente nei confronti del creditore sprovvisto di tit esecutivo, mentre tale rinuncia dev’essere accettata dal creditore munito di tit: il creditore intervenuto, munito di tit esecutivo può portare avanti l’esecuzione da solo, nonostante la rinuncia del creditore procedente. Il creditore procedente non può, con un proprio atto di volontà (rinunciando all'esecuzione), pregiudicare la posizione dell’intervenuto munito di tit esecutivo, in quanto è necessaria l'accettazione di costui per far venir meno il proc esecutivo. Se il creditore procedente non può pregiudicare unilateralmente, con una propria manifestazione di volontà, la posizione dell’intervenuto, non può pregiudicarla nemmeno rimanendo soccombente nel proc di opposizione all’esecuzione, il cui esito è quello di far venir meno l’esecuzione, così come la travolge una rinuncia agli atti. Il creditore intervenuto, che ha il tit esecutivo, è litisconsorte del creditore procedente 72 nell’opposizione all’esecuzione, perché una sentenza che accogliesse l’opposizione nei soli confronti del creditore procedente non sarebbe idonea a fermare l'esecuzione, che potrebbe andare avanti su impulso del creditore intervenuto, munito di tit esecutivo. Se viene accolta un’opposizione all’esecuzione, questa travolge anche gli interventi dei creditori che, sebbene fossero muniti di tit esecutivo, non hanno effettuato un pignoramento autonomo sul bene. Si ha allora la chiusura del proc esecutivo anche verso e in pregiudizio del creditore intervenuto, il quale, pur essendo munito di tit esecutivo, non ha preso la precauzione di porre in essere un secondo pignoramento sullo stesso bene. Il creditore intervenuto con tit esecutivo è litisconsorte necessario del creditore procedente nel proc di opposizione all'esecuzione. Al contrario, il creditore che interviene senza tit esecutivo, finché non c'è distribuzione del ricavato, non ha pot da spendere. Per arrivare alla vendita c'è bisogno di atti di impulso processuale da parte di un creditore con tit esecutivo. Il creditore senza tit esecutivo fa solo una prenotazione sulla distribuzione del ricavato. È spettatore passivo, perché non ha pot né dir che quell’espropriazione prosegua. Se il creditore procedente (o quelli intervenuti con tit esecutivo) non compiono gli atti necessari per arrivare alla vendita, il creditore senza tit esecutivo non può pretendere la liquidazione del dir pignorato. L’eventuale accoglimento dell’opposizione all'esecuzione pregiudica anche i creditori intervenuti, perché opera la chiusura del proc espropriativo anche nei loro confronti. I creditori intervenuti col tit esecutivo sono parti necessarie del proc di opposizione all’esecuzione, perché l’accoglimento dell’opposizione ha nei loro confronti effetti che il creditore procedente non può produrre con un proprio atto di volontà, e deve loro essere garantito l’esercizio del dir di difesa. I creditori intervenuti senza tit esecutivo possono partecipare al proc di opposizione in via d’intervento volontario (adesivo-dipendente), ma non c’è ragione perché debbano essere chiamati necessariamente a partecipare al proc d’opposizione, in quanto dall’accoglimento dell'opposizione ricevono un pregiudizio non diverso da quello che loro deriva da un atto di volontà del creditore procedente. Il proc di opposizione all’esecuzione è un ordinario proc di cognizione in cui si realizza un'inversione dell’iniziativa processuale. Mentre l'iniziativa processuale parte da chi afferma l'esistenza del dir e ne chiede la tutela, nell’opposizione l'iniziativa processuale è di colui che nega l'esistenza del dir. L’inversione dell’iniziativa processuale implica che colui, che afferma l’esistenza del dir a procedere a esecuzione forzata, è il creditore opposto; mentre chi nega l’esistenza di tale dir è il debitore esecutato opponente. L’art. 2697 c.c., che disciplina l'onere della prova, è applicato in base alla posizione sostanziale delle parti, e non all’iniziativa processuale. È il creditore procedente, convenuto opposto, a dover dimostrare i fatti costitutivi del dir ed è il debitore esecutato, attore opponente, a dover dimostrare i fatti impeditivi, modificativi, estintivi del dir del creditore. Se si contesta il dir a procedere a esecuzione forzata, perché si nega l’esistenza del dir sostanziale da tutelare, l’atto, che ha efficacia di tit esecutivo, ha anche una qualche efficacia di accertamento dell’esistenza del dir. Sotto questo profilo spetta al debitore dimostrare l'esistenza dei fatti impeditivi, modificativi ed estintivi, che allega per superare l’efficacia preclusiva che discende dall'atto-tit esecutivo. Talvolta ciò può non accadere: la contestazione, da parte dell'esecutato, della esistenza del dir del creditore procedente può imporre a costui l’onere della prova già in prima battuta. Il creditore opposto può proporre una domanda riconvenzionale avente ad oggetto lo stesso dir, o un dir connesso con quello di cui era stata chiesta la tutela esecutiva. Ciò accade spesso coi tit esecutivi stragiudiziali. L'accoglimento dell'opposizione, accompagnato dall'eventuale accoglimento della domanda riconvenzionale, non fa salva l'esecuzione. Il creditore procedente, soccombente nella domanda di opposizione, e vittorioso nella domanda riconvenzionale, può tutelarsi esecutivamente, ma deve iniziare da capo l’esecuzione, perché il tit esecutivo deve sussistere dall’inizio alla fine dell’esecuzione; e qui il nuovo tit esecutivo si forma solo al momento dell’accoglimento della domanda riconvenzionale. L'esecuzione in corso è caducata. La sentenza, che rigetta l'opposizione, afferma l'esistenza del dir a procedere a esecuzione forzata; in coerenza con l'inversione dell'iniziativa processuale, tale sentenza equivale a quello che normalmente è l’accoglimento della domanda. Al contrario, la sentenza che accoglie l’opposizione nega l’esistenza del dir a procedere ad esecuzione forzata, ed equivale a quello che normalmente è il rigetto della domanda. L’accoglimento dell’opposizione ha un effetto costante: impedisce la prosecuzione del proc esecutivo e caduca gli effetti degli atti già compiuti. Essa equivale, sotto questo profilo, ad una rinuncia agli atti. Si deve applicare l'art. 632 c.p.c.: se l’opposizione è accolta prima della vendita, tutti gli atti compiuti perdono effetti; se l'opposizione è accolta dopo la vendita, quest'ultima resta efficace, ed il ricavato è consegnato all'esecutato vittorioso. L’accoglimento dell’opposizione ha anche un effetto preclusivo, di accertamento, in relazione al quale è determinante il motivo per cui l'opposizione è stata accolta, perché la portata precettiva della pronuncia varia a seconda del motivo di accoglimento. Se è dichiarata l’impignorabilità del bene, la pronuncia libera il bene dal vincolo del pignoramento, ma non impedisce di proseguire il proc di espropriazione per gli altri beni, eventualmente sottoposti a esecuzione. Se è dichiarata l’inefficacia del tit esecutivo, l'esecuzione è caducata, ma il creditore potrà instaurare un nuovo proc esecutivo, a tutela dello stesso dir sostanziale. Se è dichiarata inesistente la situazione sostanziale, a tutela della quale si è richiesta la tutela esecutiva, la sentenza ha l’efficacia preclusiva di una normale pronuncia di merito. Per l’efficacia della sentenza di rigetto della opposizione il discorso è analogo. La dich di pignorabilità del bene e di efficacia del tit esecutivo impediscono di risollevare, nello stesso proc esecutivo, la medesima questione (salve le sopravvenienze in fatto ed in dir). La dich di esistenza del dir, per il quale è stata richiesta la tutela esecutiva, ha l'efficacia preclusiva di una normale pronuncia di merito. CAP. 25 – Opposizione agli atti esecutivi (pp. 269 – 279) L'opposizione agli atti esecutivi è lo strumento col quale si risolvono le controversie relative alla conformità degli atti del proc esecutivo alle prescrizioni normative che li disciplinano. Comunemente la distinzione fra opposizione all’esecuzione e opposizione agli atti esecutivi è intesa come distinzione fra l’an e il quomodo. Con l'opposizione agli atti non si contesta che 75 esecutivo, il giudice non ha deciso della validità dell’atto emesso: la funz decisoria è peculiare all’opposizione agli atti, che è un proc di cognizione. Tuttavia è ugualmente chiara l’opportunità che la dec dell’opposizione agli atti esecutivi sia affidata ad un giudice-persona fisica diversa: l’identità fra controllato e controllore va evitata. Si aggiunga che le controversie sull’opposizione agli atti non sono soggette a riserva di collegialità, ma vengono decise dallo stesso giudice dell’esecuzione in funz di giudice unico. La sentenza che decide l’opposizione agli atti esecutivi è dichiarata non impugnabile dall’art. 618 c.p.c. Ma l’art. 111 Cost garantisce il ricorso per cass avverso i provv decisori che non siano suscettibili di altri mezzi di impugnazione. In conseguenza, la sentenza di cui all’art. 618 c.p.c. è impugnabile con il ricorso per Cass, anche se nessuna pronuncia della Corte cost ha mai dichiarato incost l’art. 618 c.p.c. nella parte in cui non ammette il ricorso in Cass. Si è ritenuto parzialmente modificato l’art. 618 c.p.c. dall’art. 111 Cost, in quanto è ammissibile l’abrogazione di una norma ordinaria precedente da parte di una norma cost successiva, se quest’ultima ha la specificità necessaria per l’abrogazione della prima. Si pone il problema relativo all’elemento rilevante ai fini dell’individuazione del regime di impugnazione della sentenza che decide dell’opposizione, essendo appellabile quella che decide un'opposizione all’esecuzione e ricorribile per Cass quella che decideva un'opposizione agli atti. Rilevante è la qualificazione che dell’opposizione abbia dato il giudice che la decide: se egli la qualifica come opposizione agli atti esecutivi, la sentenza è ricorribile per Cass; se la qualifica opposizione all’esecuzione, la sentenza è appellabile. L’opposizione agli atti trova la sua occasione in una contestazione relativa alla nullità di un atto esecutivo, ma il suo oggetto non è la sola validità dell’atto ma la risoluzione della controversia, e l’accertamento della situazione processuale che ha determinato la nullità o la validità dell’atto. La sentenza di rigetto dell’opposizione accerta la validità dell’atto esecutivo e ne produce la stabilità; ma, nelle ipotesi di nullità extra-formali, la sentenza forma giudicato anche sul motivo posto a fondamento della nullità dell’atto e che è stato ritenuto insussistente da parte del giudice dell’opposizione. La sentenza di accoglimento dichiara l’invalidità dell’atto opposto, e accerta la sussistenza del motivo dell’invalidità di tale atto. Se il motivo di invalidità dell’atto è tale che riguarda anche tutti gli atti successivi e osta alla prosecuzione del proc esecutivo, l’accoglimento dell’opposizione determina la chiusura del proc esecutivo. Se il vizio riguarda solo quel singolo atto, l’accoglimento comporta la caducazione di tutti i successivi atti che ne siano dipendenti. Nella seconda ipotesi niente impedisce che l’atto sia rinnovato e che il proc esecutivo riprenda dal punto in cui si è verificato l’atto viziato. Le nullità del proc esecutivo non possono essere fatte valere al di fuori del proc stesso. Proprio perché esiste l’opposizione agli atti, che è un istituto generale idoneo a controllare tutte le nullità del proc, non è possibile che tali nullità siano fatte valere al di fuori del proc esecutivo, salva l’eccezione dell’art. 2929 c.c., che è l’equivalente di un’impugnazione straordinaria. Occorre segnalare che la giurisprudenza è incerta sull’ambito di applicazione dell’art. 2929 c.c. Esclusa l’applicazione della norma alle nullità che si verificano nel proced di vendita ed a quelle successive, in quanto l’acquirente è parte del relativo sub-proced, e l’eventuale nullità dev’essere fatta valere con l’opposizione agli atti esecutivi proposta anche nei suoi confronti, la Cass talvolta ritiene che integri la fattispecie dell’art. 2929 c.c. anche l’ingiustizia dell’esecuzione -mancanza di un dir sostanziale da soddisfare- altre volte lo esclude. La soluzione preferibile è quest’ultima. Pe rimediare all’ingiustizia dell’esecuzione non c'è necessità di uno strumento specifico: bastano gli ordinari mezzi previsti dal dir sostanziale. Resta salva l’applicazione della teoria dell’inesistenza agli atti esecutivi che hanno effetti extraprocessuali. Resta salva la possibilità di far valere, a esecuzione conclusa, le nullità ex art. 327 c.p.c., proponendo senza limiti di tempo l’opposizione agli atti esecutivi. CAP. 26 – Opposizione di terzo (pp. 280 – 298) L’opposizione di terzo (artt. 619-622 c.p.c.) trova applicazione quando il bene è legittimamente acquisito al proc esecutivo, ma gli effetti sostanziali non possono operare in relazione al bene pignorato, perché colui che subisce l’esecuzione non ha sul bene alcun dir alienabile ex art. 2919 c.c. La funz specifica dell’opposizione di terzo è quella di far valere eventuali, possibili discrasie fra la situazione a rilevanza processuale (appartenenza) che fonda l’oggetto del proc esecutivo, e la realtà sostanziale (titolarità del dir pignorato), che fonda l’oggetto dell’esecuzione. Nell’espropriazione, terzo è colui, al quale il creditore non ha fatto assumere il ruolo di esecutato, rilevante ai sensi dell’art. 2919 c.c. Quindi terzo è colui che non è esecutato, e come tale non risente degli effetti dell’espropriazione forzata, che si producono nei confronti di colui che il creditore individua come esecutato (salvo che la vendita forzata non abbia natura di acquisto a tit originario). Il dir del terzo, per essere opponibile al creditore procedente, può trovare la sua fattispecie costitutiva o in tit d’acquisto originario (es, usucapione, efficace erga omnes); o in un tit d'acquisto derivato da un soggetto diverso dal debitore. Se il terzo è avente causa del debitore esecutato, il suo dir dev’essere opponibile al creditore procedente sulla base degli artt. 2913-2915 c.c. Gli effetti del pignoramento rendono inefficaci, sul piano processuale, gli atti di disp dell’esecutato; i dir acquisiti nella base tali atti non possono fondare una vittoriosa opposizione di terzo da parte dell’avente causa. Le due direzioni, in cui si sviluppa l’inopponibilità che consegue al pignoramento consistono, da un lato, nel rendere infondata l’opposizione di terzo, proposta facendo valere il dir che al terzo è stato trasferito dal debitore con un atto di disp inopponibile al creditore procedente; e, dall’altro, dopo la vendita forzata, nel munire l’aggiudicatario dello stesso regime di inopponibilità che aveva il creditore procedente. Sulla base dell’art. 2919 c.c., i dir dei terzi, inopponibili al creditore procedente ed ai creditori intervenuti, sono inopponibili anche all’aggiudicatario. Quando viene proposta l’opposizione di terzo, bisogna tener conto degli effetti del pignoramento, perché 76 l’opposizione non può essere fondata, con prospettive di successo, su dir derivanti da atti inopponibili al creditore procedente. C’è coincidenza fra l’art. 2919 c.c. e l’art. 619 c.p.c.: il dir del terzo, se è opponibile al creditore, può fondare una vittoriosa opposizione di terzo e, a vendita avvenuta, è opponibile anche all’aggiudicatario (esclusa l’ipotesi che la vendita forzata costituisca un acquisto a tit originario). All’opposizione di terzo bisogna ricondurre anche le ipotesi, regolate dall’art. 2915 c.c., di conflitto tra la trascrizione di una domanda giudiziale e la trascrizione di un pignoramento. L’art. 2915 c.c. costituisce applicazione del princ dell’equiparazione del creditore pignorante, nel conflitto con gli altri soggetti, ad un avente causa del debitore esecutato. Se è trascritta preventivamente la domanda, il creditore pignorante assume il ruolo di successore nel dir controverso ex art. 111 c.p.c. e può intervenire nel proc, ed in ogni caso la sentenza sarà per lui (e per l’aggiudicatario) vincolante. Se la trascrizione del pignoramento è precedente rispetto alla trascrizione della domanda, il creditore pignorante e l’aggiudicatario non sono vincolati agli effetti della sentenza, e l’attore non ha tutela piena, perché è costretto a instaurare un secondo proc contro l’acquirente in vendita forzata, senza poter utilizzare la sentenza che gli ha dato ragione nel contraddittorio del solo esecutato. L’attore, che voglia vedere riconosciuto il suo dir non solo nei confronti del convenuto, debitore esecutato, ma anche nei confronti del creditore (e dell’acquirente in vendita forzata), deve proporre la sua domanda nelle forme dell’opposizione di terzo. È questo l’unico modo, attraverso il quale l’attore può instaurare il contraddittorio nei confronti dell’esecuzione: e l’instaurazione del contraddittorio è indispensabile per ottenere un sentenza efficace verso il creditore e verso l’aggiudicatario. Ciò attiene agli effetti processuali della trascrizione della domanda, che influiscono sulla litispendenza e sull’efficacia della sentenza nei confronti degli aventi causa. La trascrizione della domanda ha anche effetti sostanziali, che influiscono sulla risoluzione del conflitto fra attore ed aventi causa del convenuto. Il creditore procedente, che abbia trascritto il pignoramento prima della trascrizione della domanda contro il debitore esecutato, fa salvo il suo dir sul piano sostanziale alle stesse condizioni, in presenza della quali lo farebbe salvo un acquirente dal convenuto; esaminando le varie ipotesi di domande soggette a trascrizione enunciate dagli artt. 2652 e 2653 c.c., si è visto che al verificarsi di certi presupposti, uno dei quali è la priorità della trascrizione del tit dell’avente causa rispetto alla trascrizione della domanda, e aggiungendosi eventualmente il decorso del tempo, la buona fede e il tit oneroso, si produce un’autonomizzazione della posizione dell’avente causa dalle vicende che attengono al tit del suo dante causa; in altri termini, al completarsi della fattispecie di salvezza, non si applica più il princ resoluto iure dantis, resolvitur et ius accipientis o -se si tratta di una domanda che porta ad una sentenza di accertamento- del princ nemo plus iuris in alium transferre potest: cioè si svincola la posizione dell’avente causa dalle vicende che attengono al tit del dante causa. Se anche il dante causa ha acquistato in base ad un tit nullo, annullabile, rescindibile, risolubile, il verificarsi di una fattispecie di salvezza fornisce il sub-acquirente di un tit preferenziale rispetto al primo dante causa, sì che costui non può riavere indietro il bene in pregiudizio del sub-acquirente, ma deve accontentarsi del risarc dei danni nei confronti del primo acquirente. Il rischio dell’insolvenza del primo acquirente, nelle ipotesi in cui si verifica la salvezza del sub-acquirente, è a carico del primo alienante. Alle stesse condizioni, in presenza delle quali l’avente causa dal convenuto in una domanda di risoluzione, rescissione, nullità, revocazione, etc, svincola il suo acquisto dalle vicende relative al tit del suo dante causa, il creditore pignorante, che abbia trascritto il pignoramento prima della trascrizione della domanda, fa salvo il suo pignoramento. In questi casi l’attore non può recuperare il bene contro l’esecuzione (rimane soccombente nell’opposizione di terzo da lui proposta), e deve accontentarsi del risarc dei danni nei confronti del debitore esecutato (cioè dell’acquirente nel contratto che viene dichiarato nullo, annullato, risolto, etc). L’attore, quando si accorge che è stato trascritto un pignoramento, per superare il princ dei limiti soggettivi di efficacia della sentenza, deve estendere il contraddittorio al creditore procedente, in modo da ottenere una pronuncia che faccia stato anche nei suoi confronti, in quanto parte del proc e non più terzo. Senonché, nei confronti di un avente causa per atto di dir sostanziale, l’estensione del contraddittorio è semplice: basta realizzare un litisconsorzio facoltativo passivo, o chiamare in causa il sub- acquirente. Ma se l’avente causa è un creditore pignorante, l’estensione del contraddittorio con le tecniche consuete non è possibile, perché l’esecuzione non è un soggetto di dir, e non esiste chi possa stare in giudizio in nome e per conto dell’esecuzione, come invece accade nel fallimento: la stessa vicenda, trasferita in sede fallimentare, vede l’attore proporre la domanda nei confronti del curatore, ed ottenere così una sentenza opponibile al fallimento ed all’acquirente nella vendita fallimentare. Qui occorre creare il contraddittorio all’interno del proc esecutivo; si utilizza l’opposizione di terzo e si propone la domanda non con una citazione notificata al debitore, ma con un ricorso al giudice dell’esecuzione: si mantiene identico il contenuto e si cambia solo la forma dell’atto. In tal modo, la sentenza ottenuta dall’attore fa stato nei confronti dell’esecutato, nei confronti del creditore procedente, e nei confronti degli acquirenti in vendita forzata. Con la domanda di rivendicazione prevista dall’art. 2653 c.c. il proprietario fa valere il suo dir nei confronti del possessore; se il bene è pignorato, la proprietà si fa valere con l’opposizione di terzo all’interno del proc esecutivo. Talvolta l’opponente non fa valere il dir di proprietà, ma propone una impugnativa negoziale. L’art. 619 c.p.c. prevede che il terzo deve fondare la propria opposizione sulla proprietà o su un altro dir reale. Il problema che si pone è: il terzo deve in ogni caso dimostrare di essere titolare di un dir reale, o in certi casi è sufficiente anche fondare l’opposizione su un dir diverso? Il riferimento è ai dir di restituzione che trovano la loro origine in due fattispecie diverse: una fattispecie fisiologica e una patologica. Alcuni contratti sono fisiologicamente restitutori perché il godimento del bene, che in adempimento di un obbligo contrattuale una delle parti ha trasferito all’altra, è destinato 77 a cessare. Ad es., il contratto di locazione è un tipico contratto restitutorio, perché il godimento del bene locato ha un termine, venuto a scadenza il quale il conduttore è obbligato a restituire il bene al locatore. Accanto a questi -che sono obblighi di restituzione fisiologici- vi sono altri obblighi di restituzione che si innestano in una vicenda patologica che vede il tit, in virtù del quale era stato consegnato il bene, tit in sé non restitutorio, divenire tale a causa di una vicenda patologica. I dir di restituzione sorgono sulla base della fattispecie: la controparte ha avuto il bene in attuazione di un rapp; il rapp è venuto meno per una causa fisiologica o patologica. Venuto meno il tit che ha fondato l’attribuzione del godimento del bene, nasce l’obbligo speculare di restituzione. Il vantaggio dei dir di restituzione consiste nell’esonerare l’attore dall’onus probandi della proprietà; questa è una probatio diabolica, perché occorre dimostrare che, a favore dell’attore o dei suoi danti causa, si è verificato un acquisto a tit originario. Nei dir di restituzione è sufficiente dimostrare i fatti che integrano la fattispecie; né la controparte può pretendere che l’attore in restituzione dimostri di essere proprietario del bene. Le az di restituzione sono az personali, cioè si possono far valere solo nei confronti di soggetti che sono legati al vincolo contrattuale. Pertanto, finché il bene è posseduto da colui che è obbligato alla restituzione (o dai suoi eredi), è possibile ottenerne la restituzione semplicemente dimostrando che il bene è stato consegnato in attuazione di quel rapp e che, esaurito il rapp stesso, il bene dev’essere restituito. Quando il possesso del bene è passato ad un terzo, bisogna ricorrere alla domanda di rivendicazione, accollandosi il relativo onere della prova: ciò perché il terzo, acquisendo il possesso o la materiale disponibilità del bene, non diviene successore nell’obbligo di restituzione. Immaginando che il debitore esecutato sia colui che è obbligato alla restituzione, e che l’opponente di terzo ex art. 619 c.p.c. sia colui che ha consegnato il bene in attuazione del rapp, bisogna chiedersi se è possibile per l’opponente limitarsi a dimostrare i presupposti dell’az di restituzione (es, che ha consegnato il bene all’esecutato in virtù di un tit nullo); o se l’opponente deve dimostrare anche che era proprietario del bene quando lo ha consegnato al debitore. Il punto decisivo è: l’esecuzione forzata si può considerare un terzo possessore o no? Se si equipara l’esecuzione forzata ad un terzo che possiede il bene pignorato, l’art. 619 c.p.c. dev’essere interpretato alla lettera, e l’opponente deve sempre dimostrare di essere proprietario del bene, anche quando abbia a suo favore, nei confronti dell’esecutato, un dir di restituzione di natura personale (e ciò perché il terzo divenuto possessore del bene non succede negli obblighi di restituzione, che sono personali e vincolano solo le parti del contratto, ed i loro eredi); se si ritiene che l’esecuzione forzata non sia equiparabile ad un terzo che possiede il bene pignorato, l’opponente, quando abbia un dir di restituzione nei confronti dell’esecutato, può farlo valere anche nei confronti del creditore procedente e dell’esecuzione forzata. Per risolvere il problema dobbiamo rilevano gli effetti del pignoramento sul possesso del bene: è vero che l’esecutato perde il possesso del bene pignorato, però è anche vero che il creditore procedente non acquista un possesso rilevante sul piano del dir sostanziale; il possesso come tale rimane congelato, in quanto il creditore non ha un dir reale, e non può instaurare col bene una relazione di fatto che sia corrispondente all’esercizio di un dir reale, come prevede l’art. 1140 c.c. Di tale situazione di possesso congelato si trova conferma nell’art. 2914 n. 4 c.c., cioè la norma che regola il conflitto tra il creditore procedente e colui che abbia acquistato dall’esecutato dei beni mobili. Ciò significa che l’esecuzione non ha un possesso idoneo ad escludere l’esperibilità dell’az di restituzione, perché non è un terzo divenuto possessore del bene, nei cui confronti non si può far valere un dir di restituzione; l’esecuzione conserva il possesso del bene così come si trovava in capo all’esecutato: se l’opponente ha un’az di restituzione nei confronti dell’esecutato, può farla valere anche nei confronti del creditore procedente e dell’esecuzione. Ma non può farla valere nei confronti dell’aggiudicatario, poiché questi è a tutti gli effetti un terzo che è divenuto possessore del bene, e nei suoi confronti si rende necessaria la rivendicazione (con l’onere della prova della proprietà). L’art. 619 c.p.c. non va interpretato alla lettera, come se solo la proprietà o altro dir reale fossero idonei a fondare l’opposizione di terzo. Al contrario, è sufficiente far valere anche un dir di restituzione, poiché dal punto di vista sostanziale tale dir non si trova in contrasto con gli effetti del pignoramento, in quanto il possesso del bene è sì tolto all’esecutato, ma è conservato dall’esecuzione e non è acquisito da alcuno che possa opporre ciò che può opporre il terzo che possiede il bene nei confronti di un’az di restituzione. Ciò è confermato dalla norma parallela in materia di fallimento (art. 103 L.F.), la quale menziona non solo l’az di rivendicazione ma anche l’az di restituzione: prevede la possibilità di agire per la riconsegna del bene con un’az personale di restituzione, oltre che con l’az reale di rivendicazione; e dal momento che non ci sono differenze sotto questo profilo tra esecuzione concorsuale e singolare, l’art. 103 L.F. fornisce un ulteriore argomento per dimostrare che basta l’az personale di restituzione per fondare un'opposizione di terzo. Nonostante l’art. 619 c.p.c. non lo preveda espressamente, l’opposizione di terzo deve anche presentare un'ulteriore caratteristica: il dir, sul quale il terzo fonda la sua opposizione, dev’essere incompatibile col dir oggetto del pignoramento. Incompatibili sono i dir che non possono coesistere nello stesso momento; si ha incompatibilità tutte le volte in cui, se esiste il dir su cui il terzo fonda la sua opposizione, allora non può esistere il dir che è stato fatto oggetto dell’esecuzione da parte del creditore procedente. Viceversa il dir fatto valere dal terzo è compatibile tutte le volte in cui, se anche esso esiste, ciò non comporta l’inesistenza del dir oggetto dell’espropriazione; se, es, è pignorata la nuda proprietà di un bene, il terzo, il quale si affermi usufruttuario del bene stesso, fa valere un dir che non è incompatibile con la nuda proprietà; così anche nel caso inverso. Nel caso di compatibilità manca l’interesse a proporre l’opposizione di terzo, perché per il terzo è indifferente che il dir pignorato appartenga all’esecutato o ad un altro: il terzo non fa valere alcun dir che impedisce la vendita, perché la sua posizione sostanziale va d'accordo con la 80 Ma egli può anche utilizzare congiuntamente ambedue le possibilità che il sistema gli offre. Negli altri casi, diversi dall’espropriazione mobiliare, l’opposizione non è proponibile una volta avvenuta la vendita forzata. Però, se l’opposizione di terzo è proposta tempestivamente e la vendita ha ugualmente luogo perché il giudice non sospende l’esecuzione, il proc di opposizione prosegue con effetti anche verso l’aggiudicatario: si applica l’art. 111 c.p.c. Nell’espropriazione mobiliare sono diversi il proc in cui si fa valere il dir alla consegna del ricavato (opposizione di terzo) e il proc con cui si tenta di recuperare il bene presso l’aggiudicatario, dimostrandone la malafede, che è un proc autonomo e esterno all’esecuzione forzata. La ragione di tale differenza deriva dalla diversa natura della vendita forzata: normalmente a tit originario per i mobili, sempre a tit derivativo per gli altri beni. L’acquisto a tit derivativo non è innovativo, e sulla dec dell’opposizione di terzo, già proposta, non influisce la vendita: se l’opponente era proprietario del bene prima della vendita, tale resta anche dopo. Al contrario, l’acquisto a tit originario è innovativo: se anche l’opponente è (era) proprietario del bene, una volta avvenuta la vendita non lo è più. Una volta avvenuta la vendita forzata del bene mobile, per poter recuperare il bene non è più sufficiente accertare che l’opponente era proprietario del bene; occorre anche accertare la mala fede dell’acquirente in vendita forzata. Al contrario, per avere il ricavato della vendita, è sufficiente che l’opponente dimostri che è proprietario del bene mobile. Quanto al problema dell’onere della prova, bisogna distinguere l’espropriazione mobiliare dall’espropriazione immobiliare. Per i beni immobili, ove l’opponente faccia valere un dir reale sugli stessi, si applicano le regole ordinarie delle az di rivendicazione e di mero accertamento della proprietà, e delle az restitutorie. Se possessore del bene immobile pignorato è l’esecutato, l’onere del terzo è quello della rivendicazione: egli deve dimostrare di essere proprietario, secondo la probatio diabolica della rivendicazione. Se possessore del bene immobile è l’opponente, diviene sufficiente la prova di possedere secondo un tit valido, come nel mero accertamento della proprietà. Nel caso che l’opponente fondi la sua domanda su un dir personale di restituzione, e l’esecutato sia la controparte contrattuale obbligata alla restituzione, l’opponente deve dimostrare che il bene pignorato è stato trasferito all’esecutato in virtù di un tit inefficace fin dall’origine (nullità, simulazione) o venuto meno successivamente (annullabilità, risoluzione, rescissione, etc). Per i beni mobili, se il bene è stato pignorato, in base all’art. 513 c.p.c., nei luoghi appartenenti al debitore, l’onere di dimostrare la proprietà spetta all’opponente, che non ne è possessore. Se il bene è stato pignorato illegittimamente al di fuori dei luoghi di cui all’art. 513 c.p.c., una volta che il terzo ha dimostrato che il bene si trovava nel possesso suo e non in quello del debitore esecutato, spetta al creditore procedente dimostrare che il bene mobile -che non era in possesso dell’esecutato- è di proprietà dell’esecutato. Quando i beni sono stati pignorati in luoghi appartenenti non al debitore, ma all’opponente, l’opposizione del terzo assume una configurazione particolare. Con l’opposizione di terzo, si fa valere la non coincidenza fra oggetto del proc esecutivo ed oggetto dell’esecuzione. Ciò presuppone che il pignoramento sia processualmente legittimo. Quando si fa valere l’illegittimità processuale del pignoramento (in quanto i beni sono stati pignorati in luoghi diversi da quelli previsti dall’art. 513 c.p.c.), l’opposizione di terzo assume il contenuto di un’opposizione agli atti esecutivi proposta da un terzo. L’art. 621 c.p.c. limita l’uso della prova testimoniale: il terzo opponente, quando il bene mobile sia stato pignorato nella casa o azienda del debitore ex art. 513 c.p.c., deve dimostrare la titolarità del suo dir sul bene, e deve fornire quella che la giurisprudenza chiama la prova dell’affidamento. Il terzo deve dimostrare a quale tit i suoi beni si trovavano presso il debitore. La prova dell’affidamento può essere data con ogni mezzo (anche testimoni) quando l’affidamento è reso verosimile dalla professione o commercio esercitati dal terzo o dal debitore. In tutti gli altri casi la prova dell’affidamento non può essere data attraverso testimoni, ma con gli altri mezzi di prova previsti dall’ord. L’art. 622 c.p.c. è stato cancellato dalla Corte cost con una discutibile sentenza. La norma poneva limiti all’opposizione di terzo della moglie convivente del debitore, e la Corte ha colto una violazione dell’art. 29 della Cost. C’è da chiedersi perché la Corte non abbia esteso i limiti anche al marito, anziché eliminarli per la moglie. Gli effetti e l’ambito oggettivo dell’efficacia della dec si determinano secondo i seguenti criteri. La sentenza che decide l’opposizione di terzo non fa stato nei rapp interni fra debitore esecutato e terzo opponente, perché si deve tenere conto delle limitazioni dell’opponibilità di certi atti al creditore procedente. La sentenza che nega al terzo il dir sul bene non è vincolante nei rapp interni fra terzo e debitore esecutato, ma lo è solo nei rapp fra terzo opponente e creditore procedente. Oggetto della pronuncia non è l’effettiva titolarità della proprietà in capo al debitore o al terzo, ma è la titolarità del dir sul bene con riferimento al creditore procedente. I limiti alla prova ex art. 621 c.p.c. possono essere giustificati solo in un proc che ha ad oggetto la sussistenza del dir sul bene con riferimento alla posizione del creditore procedente; non hanno ragione di essere nel proc che ha ad oggetto i rapp terzo opponente-esecutato. Per questa ragione non è condivisibile l’opinione giurisprudenziale, secondo la quale l’esecutato sarebbe litisconsorte necessario. La sentenza non ha effetti nei suoi confronti: non si giustifica la necessità della sua partecipazione al proc. CAP. 27 – Sospensione del processo esecutivo (pp. 299 – 306) Col termine sospensione si indica un periodo in cui non si compiono atti, e il proc si trova in una situazione di stasi. Momenti di stasi nel proc esecutivo si hanno anche in conseguenza della previsione di termini dilatori all’interno del proc esecutivo. Talvolta, prima di compiere un atto del proc esecutivo, deve passare un determinato periodo di tempo. La sospensione costituisce una stasi caratterizzata dall’interferenza fra un proc di cognizione e il proc esecutivo. Essa è un meccanismo che 81 consente di coordinare il proc esecutivo con l’apertura di un proc di cognizione che incide sul proc esecutivo. Dal punto di vista terminale, la sospensione si caratterizza per il fatto che il proc, che si trova in fase di stasi, dev’essere riattivato con un atto particolare: la riassunzione ex art. 627 c.p.c. Ex art. 623 c.p.c. la sospensione può essere disposta dalla l., o da un provv del giudice davanti a cui è impugnato il tit esecutivo, o da un provv del giudice dell’esecuzione. Si ha la sospensione disposta dalla l. quando il proc di cognizione incidentale riguarda l’oggetto del proc esecutivo (e non l’oggetto dell’esecuzione forzata): si tratta del caso previsto dall’ art. 601 c.p.c. Quando è pignorato un bene indiviso, la scelta prioritaria del legislatore è la divisione del bene. In tal caso il proc esecutivo resta sospeso in attesa della conclusione del proc di cognizione. La sospensione del proc esecutivo è prevista ed ha luogo a favore del creditore procedente, perché nel proc di cognizione si deve formare l’oggetto del proc esecutivo. Dopodiché il proc esecutivo va avanti con l’oggetto così plasmato dal proc di cognizione. Quando il proc di cognizione incide sulla determinazione dell’oggetto del proc esecutivo la sospensione è necessaria e automatica: necessaria perché non è dato al giudice dell’esecuzione alcun pot di valutare l’opportunità della sospensione; automatica perché la sospensione consegue al verificarsi della fattispecie, senza bisogno di un provv da parte del giudice che la disponga. E ciò perché la sospensione opera nell’interesse del creditore: finché l’oggetto del proc esecutivo non è plasmato nel proc di cognizione incidentale, il proc esecutivo non può andare avanti. L’altra ipotesi di sospensione, prevista dall’art. 623 c.p.c., è quella che è disposta dal giudice davanti al quale è impugnato il tit esecutivo. Questi è il giudice che sospende l’efficacia esecutiva della pronuncia-tit esecutivo, che sia impugnata. La sospensione può essere disposta anche dal giudice dell’opposizione a precetto: si tratta di una novità introdotta dalla riforma del ‘06, che ha generalizzato una disp già presente negli artt. 64 r.d. 1669/33 sulla cambiale e 56 r.d. 1736/33 sull’assegno (i quali prevedono che il giudice dell’opposizione a precetto possa sospendere l’efficacia esecutiva del tit se vi è disconoscimento della sottoscrizione o vi sono gravi e fondati motivi). La novità è apprezzabile, in quanto non era giustificato lasciare il debitore esecutato senza strumenti di tutela, che impediscano il compimento di un atto pregiudizievole, come il pignoramento. La norma richiama, come presupposto della sospensione, i gravi motivi. È la dizione utilizzata dall’art. 624 c.p.c., che in questa sede assume un diverso significato, in quanto il bilanciamento delle rispettive esigenze del creditore e del debitore è diverso laddove sia presente o meno un atto conservativo come il pignoramento. In mancanza di pignoramento, il rischio che corre il creditore a seguito della sospensione si innalza, e di altrettanto deve elevarsi il fumus boni iuris relativo alla proposta opposizione. Non possono essere richiamati in questa sede i parametri, che sono utilizzati per la sospensione ex art. 624 c.p.c. Poiché l’opposizione a precetto si propone al giudice competente per materia o valore, essa può risultare di competenza del GDP. In tal caso, sarà questi a disporre la sospensione dell’efficacia esecutiva del tit. Né si argomenti dalla funz cautelare della sospensione, per escludere la competenza del GDP: perché essa ha funz cautelare, ma non può essere qualificata come un provv cautelare. Vi sono, poi, le ipotesi di sospensione disposta dal giudice dell’esecuzione, a seguito della proposizione di un’opposizione all’esecuzione o di un'opposizione di terzo. In questi casi -come nel caso dell’opposizione a precetto- il proc di cognizione incidentale riguarda il dir a procedere ad esecuzione forzata (in caso di opposizione all’esecuzione) o l’oggetto dell’esecuzione e non del proc esecutivo (in caso di opposizione di terzo). Mentre nella sospensione disposta dalla l. il proc di cognizione deve plasmare l’oggetto del proc esecutivo, qui il proc di cognizione riguarda l’oggetto dell’esecuzione. L’oggetto del proc esecutivo è determinato col pignoramento e non ha bisogno di plasmarsi in sede cognitiva. Qui la sospensione va contro l’interesse del creditore procedente: il proc esecutivo ha tutti i requisiti necessari per produrre i suoi effetti. Ma il legislatore ha introdotto un meccanismo di tutela per il debitore esecutato o per il terzo, prevedendo che a certe condizioni il proc esecutivo sia sospeso in attesa dell’esito del proc di cognizione. La sospensione passa attraverso la valutazione di opportunità del giudice dell’esecuzione perché, nella sospensione conseguente all’opposizione all’esecuzione o all’opposizione di terzo, il proc esecutivo non è nullo ma, se l’opposizione è fondata, è ingiusto. Quando la sospensione è correlata alla pendenza di un proc di opposizione all’esecuzione o di opposizione di terzo, essa non è necessaria né automatica: vi dev’essere un provv del giudice, che valuti la sussistenza di gravi motivi e l’opportunità di sospendere l’esecuzione. La sospensione risponde a esigenze analoghe a quelle dei provv cautelari: la durata del proc di cognizione non deve andare a danno della parte vittoriosa. I gravi motivi sono la sintesi di due elementi che il giudice deve considerare: da un lato vi è la fondatezza dell’opposizione. Se l’opposizione fosse infondata, il pregiudizio che riceve l’opponente sarebbe giusto e il giudice non avrebbe nessun motivo di sospendere l’esecuzione. Dall’altro lato, vi è la comparazione del danno che riceve il creditore procedente nell’attendere l’esito del proc di cognizione e del danno che riceve l’opponente se il proc esecutivo va avanti. La sospensione è possibile anche in caso di opposizione agli atti esecutivi. Anche in questo caso, vi è un proc di cognizione incidentale al proc esecutivo; ma -al contrario di ciò che accade per l’opposizione all’esecuzione e per l’opposizione di terzo- qui la sospensione va ricollegata al fatto che nel proc di cognizione incidentale si fa valere l’invalidità (e non l’ingiustizia) dell’esecuzione. Sull’istanza di sospensione il giudice provvede con ordinanza. L’art. 624 c.p.c. introduce il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. come un rimedio generalizzato per tutti i provv, coi quali il giudice dell’esecuzione decide su una istanza di sospensione del proc esecutivo. Le fattispecie richiamate sono quelle degli artt. 615, 619 e 512 c.p.c.: la sospensione richiesta è concessa o negata in sede di opposizione all’esecuzione, di opposizione di terzo e di controversie sulla distribuzione della somma ricavata. A proposito di quest’ultima ipotesi di sospensione, la riforma del ‘06 ha previsto che le contestazioni in sede di distribuzione 82 vanno risolte all’interno del proc esecutivo, e non più mediante un proc di cognizione incidentale. Resta incomprensibile il permanere di una fattispecie di sospensione che non ha più ragione d’essere, perché il proc esecutivo non si arresta, ma prosegue risolvendo le contestazioni relative al piano di riparto. Poiché l’art. 624 c.p.c. non si riferisce più all’opposizione a norma dell’art. 615 c.p.c., ma all’opposizione a norma dell’art. 615 c.p.c., è indubitabile che anche il provv del giudice dell’opposizione a precetto, col quale si provvede sull’istanza di sospensione, è sottoponibile a reclamo. Se sull’istanza si pronuncia il GDP, il reclamo sarà proposto al trib. Anche l’ordinanza che provvede sull’istanza di sospensione, pronunciata in sede di opposizione a precetto cambiario, è sottoponibile a reclamo, essendo anch'essa emessa in sede di opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. Poiché l’art. 618 c.p.c. prevede la possibilità che il giudice dell’esecuzione disponga la sospensione del proc esecutivo anche a seguito della proposizione dell’opposizione agli atti esecutivi, anche il provv che provvede sull’istanza di sospensione è sottoponibile al reclamo. L’art. 624, c.p.c. introduce un raccordo fra la sospensione del proc esecutivo ed il proc di merito instaurato con le opposizioni, secondo la logica propria del cautelare anticipatorio. Una volta ottenuta la sospensione del proc esecutivo, l’opponente può accontentarsi di tale risultato, e non coltivare il giudizio di merito, se non ha interesse ad ottenere -oltre all’arresto del proc- anche l’accertamento che tale arresto è secundum ius. Rimane fermo il dir delle altre parti, specie del creditore procedente, a proseguire il proc di merito; o a rinunciare allo stesso, e magari iniziare un’altra esecuzione forzata: a ciò non è di ostacolo il provv di sospensione il quale, non costituendo esercizio di giurisdizione dichiarativa, non può fare stato in alcun modo. La logica sottesa alla disp è chiara: l’attuazione della stessa può comportare qualche difficoltà. In primo luogo, occorre coordinare l’iniziativa dell’opponente con quella degli altri soggetti interessati all’instaurazione del giudizio di merito. Esaminando l’art. 616 c.p.c. si vede che tale instaurazione non consiste nella proposizione della domanda di opposizione, che è già stata proposta col ricorso: ma, alternativamente, nel passaggio del proc alla fase di trattazione, mediante il compimento dell’atto introduttivo previsto nel rito applicabile alla causa (citazione o ricorso) e l’iscrizione della causa a ruolo; o, in caso di incompetenza dell’uff giudiziario al quale appartiene il giudice dell’esecuzione, nella riassunzione della stessa. L’opponente può non far niente di tutto ciò. Scaduto il termine perentorio assegnato dal giudice, se nessuna delle altre parti ha compiuto l’attività necessaria alla instaurazione del giudizio di merito, il giudice pronuncia, anche d’uff, l’estinzione. Il problema nasce quando la sospensione sia data o confermata in sede di reclamo: perché in tal caso il termine perentorio potrebbe essere già decorso quando viene emesso il provv in sede di reclamo. L’unica soluzione è che il giudice dell’esecuzione faccia decorrere il termine perentorio per l’instaurazione del giudizio di merito o per la riassunzione dall’inutile scadenza del termine per proporre il reclamo o, qualora questo sia proposto, dalla comunicazione dell’ordinanza che decide sul reclamo. L’art. 624-bis c.p.c. introduce anche nel proc esecutivo la sospensione concordata, che prima era prevista solo per il proc di cognizione. Il co.1 si occupa dei presupposti e degli effetti della sospensione, con specifico riferimento all’espropriazione immobiliare; il co.2 della revoca; il co.3 della ripresa del proc esecutivo; ed il co.4 detta regole specifiche per l’espropriazione mobiliare presso il debitore e per l’espropriazione presso terzi. La sospensione dev’essere richiesta, prima della vendita, da tutti i creditori muniti di tit esecutivo: il debitore dev’essere sentito, ma il suo consenso non rileva. Può essere richiesta una volta sola nel corso del proc esecutivo, ed ha una durata massima di 2anni. Il termine ultimo è 20gg prima della scadenza del termine per la presentazione delle offerte di acquisto nella vendita senza incanto e 15gg prima dell’incanto. Se l’istanza è accolta, e si tratta di espropriazione immobiliare o di beni mobili registrati, essa è comunicata al custode, e ne è data notizia sul sito internet, nel quale sono reperibili le notizie relative all’espropriazione. Per sospendere il proc esecutivo è necessario il consenso di tutti i creditori muniti di tit esecutivo; per revocare la sospensione è sufficiente l’istanza anche di uno solo di essi. Sebbene l’art. 624-bis c.p.c. non precisi alcunché in proposito, è naturale che la revoca può essere chiesta solo da un creditore munito di tit esecutivo, perché solo il creditore munito di tit esecutivo può porre in essere atti di impulso processuale. Se la sospensione non è revocata, il proc esecutivo dev’essere riattivato, entro 10gg dalla scadenza del periodo di sospensione, da parte di qualunque creditore munito di tit esecutivo, con istanza volta a far fissare l’ud di prosecuzione del proc. Nell’espropriazione mobiliare presso il debitore, il termine ultimo per presentare la richiesta di sospensione è costituito dalla fissazione della data di asporto dei beni; se la vendita dev’essere espletata nei luoghi in cui i beni sono custoditi, il termine ultimo è di 10gg prima della data della vendita; in ogni caso l’istanza dev’essere proposta prima dell’effettuazione della pubblicità commerciale. Nell’espropriazione mobiliare presso il terzo, il termine ultimo è costituito dalla dich del terzo. Nonostante l’art. 624-bis c.p.c. sia scritto con l’occhio rivolto all’espropriazione, esso può essere esteso anche all’esecuzione in forma specifica, con gli opportuni adattamenti: è ovvio che non vi saranno creditori intervenuti; e, nell’esecuzione per consegna e rilascio, non essendo prevista un’ud in cui il proc deve proseguire, l’atto da compiere sarà la richiesta di accesso all’ufficiale giudiziario nel caso dell’esecuzione per consegna, e la richiesta di notificazione del preavviso nell’esecuzione per rilascio. Gli effetti della sospensione, ex art. 626 c.p.c., consistono nell’impossibilità di compiere atti nel proc esecutivo. Le eccezioni sono gli atti conservativi, che possono essere autorizzati dal giudice dell’esecuzione. La sospensione cessa nel termine perentorio fissato dal giudice dell’esecuzione, o non più tardi di 6mesi dal passaggio in giudicato della sentenza di 1°grado o dalla comunicazione della sentenza di appello che rigetta l’opposizione. L’art. 627 c.p.c. non stabilisce cosa accade, quando si estingue (o quando è definito in rito) il proc di cognizione incidentale, la cui esistenza ha causato la sospensione. Se la sospensione è automatica, e ha luogo nell’interesse del creditore
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