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professione educatore, Dispense di Psicologia Dello Sviluppo E Dell'educazione

riflessioni per gli educatori sullo sviluppo infantile

Tipologia: Dispense

2019/2020

Caricato il 08/09/2020

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serena-greco-4 🇮🇹

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Storie e attività per sviluppare le autonomie personali SCOPRI DI PIU www.erickson.it ROBERTA CALDIN (A CURA DI) PERCORSI EDUCATIVI NELLA DISABILITÀ VISIVA Identità, famiglia e integrazione scolastica e sociale SCOPRI DI PIU www.erickson.it LUCIO COTTINI L'AUTODETERMINAZIONE NELLE PERSONE CON DISABILITÀ Percorsi educativi per svilupparla SCOPRI DI PIU www.erickson.it JACOPO MUROLO, MARTINA MARCHI E ROSSANA ROSSENA CONOSCO IL MONDO CON LA LIS Attività e schede per l’arricchimento lessicale nella Lingua dei Segni Italiana SCOPRI DI PIU www.erickson.it CHIARA BONFIGLIUOLI E MARINA PINELLI DISABILITÀ VISIVA Teoria e pratica nelleducazione per alunni non vedenti e ipovedenti SCOPRI DI PIU www.erickson.it Capitolo 3 Convenzione ONU, ICF e la persona con disabilità in ospedale Matilde Leonardi1 e Paolo Meucci2 Le nuove acquisizioni in ambito diagnostico e terapeutico hanno modificato la storia clinica di molte condizioni gravi e complesse, deter- minando una transizione epidemiologica che ha portato al netto miglio- ramento della sopravvivenza per diverse patologie. Questa evoluzione in campo sanitario è accompagnata dall’aumento di soggetti caratterizzati da speciale complessità funzionale. Infatti, l’aumentata attesa di vita di persone con patologie complesse e con grado severo di disabilità si accompagna di conseguenza a una crescen- te complessità clinico-assistenziale, spesso con problematiche di gestione per le quali il Sistema Sanitario Nazionale italiano, guidato da una logica orientata ai servizi e ancorato alla tipologia organizzativa di questi, non ha ancora sviluppato una strategia in grado di assicurare risposte appropriate ed efficienti in un’ottica «orientata alla persona». Questa transizione epide- miologica, accompagnata a una crescente complessità clinico-assistenziale, avviene in un contesto nel quale la capacità dell’ambiente (famiglia, scuola, contesti informali) nel prendersi cura della persona si è andata riducendo, sia per la diminuita disponibilità dei caregivers primari tradizionali, sia per la limitata compliance dei servizi dedicati. Queste poche righe sono sufficienti 1 Presidente dell’Osservatorio sulla disabilità, Direttrice UOS Dipartimentale Neurologia, Salute Pubblica, Disabilità, Istituto «C. Besta», Milano. 2 Dipartimentale Neurologia, Salute Pubblica, Disabilità, Istituto «C. Besta», Milano. 54 Persone con disabilità e ospedale al fine di comprendere la complessità della presa in carico sanitaria di una persona con disabilità. Complessità non riconducibile esclusivamente alla persona/paziente in condizione di salute non ottimale, bensì dovuta anche a un ambiente che difficilmente è pronto ad accogliere quadri di salute e di funzionamento non appiattiti su una diagnosi. Le soluzioni che dovranno essere elaborate devono allora partire da un modello concettuale di salute e funzionamento che permetta la lettura globale ed ecologica del soggetto e della sua interazione con l’ambiente. La Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute (ICF) offre questa possibilità di lettura. Chi sono le persone con disabilità alla luce della Classificazione ICF dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Nel maggio 2001 l’OMS ha pubblicato la Classificazione Internazio- nale del Funzionamento, della Salute e della Disabilità (ICF), riconosciuta da 191 Paesi come il nuovo strumento per descrivere la salute e la disabilità delle popolazioni. La Classificazione ICF permette, attraverso la definizione di un lin- guaggio comune, di far dialogare diverse professionalità nell’ambito della cura e della presa in carico e, nel caso specifico, di descrivere olisticamente la persona nella sua complessità. Tale quadro descrittivo rappresenta, unito alla diagnosi, il primo passo per la definizione di una possibile presa in carico e successiva definizione degli interventi possibili per sostenere un soggetto in difficoltà. Le caratteristiche della classificazione, il costrutto teorico che ne sta alla base e i suoi molteplici risvolti applicativi costituiscono le ragioni per cui l’ICF è in grado di racchiudere e organizzare, in un unico strumento e in maniera completa, le informazioni relative alla condizione di salute e di funzionamento globale di ciascun individuo. Il modello teorico della Classificazione ICF soddisfa innanzitutto la necessità di considerare la globalità delle dimensioni coinvolte nello svilup- po, proprio perché categorizza in maniera sistematica e completa una serie vastissima di informazioni che si possono raccogliere per descrivere le con- dizioni di salute di ciascun individuo. L’ICF considera e classifica le funzioni Convenzione ONU, ICF e la persona con disabilità in ospedale 55 e le strutture corporee, le attività e il grado di partecipazione dell’individuo nei contesti di vita quotidiana e, per la prima volta, introduce in maniera sistematica la descrizione dei fattori contestuali, relativi all’ambiente fisico e sociale con cui l’individuo entra in contatto. Pur non classificandoli per la loro estrema soggettività, l’ICF suggerisce e sottolinea inoltre la possibile influenza che le caratteristiche personali possono avere nella determinazione di una data condizione di salute. La Classificazione ICF e gli strumenti da essa derivati, come ad esempio la Checklist ICF (www.who.int/classification/icf ), forniscono una descrizio- ne molto ampia e specifica delle caratteristiche di salute e funzionamento dell’individuo, secondo le sue peculiari caratteristiche personali e contestuali. La raccolta di informazioni che si può ottenere tramite la Checklist ICF è, infatti, paragonabile a un’istantanea che coglie gli aspetti propri della condizione di salute attuale dell’individuo, mettendo in relazione non le caratteristiche generiche di una data patologia, bensì gli esiti e l’impatto che quella determinata condizione di salute può avere su ciascun individuo in relazione anche agli aspetti ambientali che caratterizzano la sua vita. Nella Classificazione ICF, infatti, i fattori ambientali vengono considerati per la prima volta come elementi determinanti nella condizione di salute di un individuo. Il modello concettuale di ICF propone un’ottica positiva che parla di salute e di funzionamento, un’ottica multidimensionale, complessa, sistemica e interconnessa, che pone attenzione ai vari fattori di contesto, ambientali e personali. Con ICF si ha a disposizione come un «meta- linguaggio», cioè un linguaggio comune, in grado di far comunicare e collaborare le diverse figure professionali coinvolte che mantengono, però, il proprio specifico gergo. Oltre alla Classificazione ICF per la classificazione e la descrizione del funzionamento e della disabilità delle popolazioni, la WHO-FIC (Orga- nizzazione Mondiale della Sanità – Family of International Classifications) ha elaborato l’ICD-10 (ossia la decima revisione della Classificazione In- ternazionale delle Malattie: International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems, www.who.int/classification), che fornisce un modello di riferimento eziologico e ha l’obiettivo di definire le caratteristiche delle patologie. L’ICD-10 classifica le malattie e quindi definisce l’eziologia da cui si origina una patologia che ha manifestazioni cliniche. 58 Persone con disabilità e ospedale gli aspetti e gli attributi di oggetti, strutture e organizzazioni, a disposizione dei servizi e delle agenzie presenti nell’ambiente fisico e sociale, nel quale le persone conducono la propria vita. Il problema è attitudinale o ideolo- gico e richiede cambiamenti sociali, cosa che a livello politico diventa un problema di diritti umani. Una lettura della disabilità, attraverso la lente dei diritti, ci obbliga a considerare la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità e, nello specifico, l’articolo 25 sulla Salute e l’articolo 26 sull’Abilitazione e Riabilitazione. Fig. 3.1 Interazioni tra le componenti dell’ICF. CONDIZIONI DI SALUTE PARTECIPAZIONEATTIVITÀ FUNZIONI STRUTTURE CORPOREE FATTORI AMBIENTALI FATTORI PERSONALI La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità e il Program- ma di Azione Biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità La ratifica italiana della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità dell’ONU (CRPD) ha aperto un nuovo scenario di riferimento giuridico, culturale e politico. Da quel momento le persone con disabilità non devono più chiedere il riconoscimento dei loro diritti, bensì devono sollecitare la loro applicazione e implementazione, sulla base del rispetto dei diritti umani. Le persone con disabilità divengono parte integrante della società umana, e lo Stato italiano deve garantire il godimento di tutti i diritti Convenzione ONU, ICF e la persona con disabilità in ospedale 59 contenuti nella Convenzione per sostenere «piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri» delle persone con disabilità.3 Nello specifico possiamo identificare, a partire dall’analisi dell’artico- lo 25 della CRPD, una serie di spunti per la riflessione sul tema Salute e Persone con disabilità. L’articolo 25 sulla Salute della CRPD recita come segue: Gli Stati Parti riconoscono che le persone con disabilità hanno il di- ritto di godere del migliore stato di salute possibile, senza discriminazioni fondate sulla disabilità. Gli Stati Parti adottano tutte le misure adeguate a garantire loro l’accesso a servizi sanitari che tengano conto delle specifiche differenze di genere, inclusi i servizi di riabilitazione. La ratifica da parte dell’Italia della CRPD, e di conseguenza anche dell’articolo 25, impone una rilettura del sistema di cura attraverso l’ottica della Convenzione. In Italia principi basilari del diritto alla salute sono espressi innanzi- tutto dall’art. 32 della Costituzione, che affida alla Repubblica il compito di tutelare la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività e di garantire cure gratuite agli indigenti. In Italia, l’assistenza sanitaria alle persone con disabilità rientra nelle prestazioni sociosanitarie a elevata integrazione sanitaria, così definite per- ché caratterizzate dall’integrazione di risorse sanitarie e sociali e quindi non attribuibili a un ambito di competenze esclusivamente sanitario o sociale. Le prestazioni sociosanitarie comprendono tutte le attività del sistema so- ciale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute. In linea con la filosofia delle prestazioni sociosanitarie a elevata integra- zione sanitaria si pone la Legge n. 328 dell’8 novembre 2000, Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali. La Legge n. 328/2000 dedica un’attenzione particolare ai soggetti in condizione di disabilità, prevedendo (art. 14) che i Comuni, d’intesa con le Aziende sanitarie locali, predispongano progetti individuali finalizzati al recupero e 3 Estratto dal Programma di Azione Biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità, in attuazione della legislazione nazionale e internazionale ai sensi dell’art. 5, comma 3, della Legge 3 marzo 2009, n. 18. 60 Persone con disabilità e ospedale all’integrazione sociale del soggetto, definendo anche gli eventuali sostegni per il nucleo familiare. A livello regionale è stata data applicazione alle norme relative all’integrazione sociosanitaria delle persone con disabilità. A oggi, le principali agevolazioni previste dall’ordinamento italiano per le persone con disabilità prevedono la gratuità delle prestazioni sanitarie per persone con disabilità (in linea con l’art. 25, lett. a, della Convenzione); per le malattie rare e invalidanti è prevista l’esenzione dai ticket. Nell’ambito dell’integrazione sociosanitaria, la programmazione sani- taria già da tempo rileva la necessità di definire una rete di servizi sanitari, sociosanitari e socio-assistenziali per rispondere ai bisogni delle persone con patologie a lungo termine o croniche. In questo ambito le Regioni stanno realizzando percorsi assistenziali integrati per le persone non autosufficienti e fragili, con il pieno coinvolgimento dei diversi servizi e professionisti sanitari e sociosanitari, al fine di garantire la continuità assistenziale. Talora vengono individuati modelli organizzativi innovativi, quali Sportelli unificati per la fragilità, o Punti Unici di Accesso ai servizi sociosanitari, o Porte di accesso unificate alla rete dei servizi. Questi modelli hanno l’obiettivo di facilitare l’accoglienza e la presa in carico dei cittadini, in particolare persone non autosufficienti, per superare la criticità di una frammentazione dei servizi, della scarsa conoscenza dei percorsi sanitari da parte dei cittadini, nonché della complessità dei percorsi amministrativi per l’erogazione dei presidi e altri servizi di supporto. Nell’ambito dell’accessibilità e fruibilità dei servizi sanitari è utile dare rilievo al «Progetto DAMA» (Disabled Advanced Medical Assistance), predi- sposto nel 2000 su iniziativa della LEDHA (Lega per i diritti delle persone con disabilità) e dell’Azienda Ospedialiera «San Paolo» di Milano. L’idea alla base del progetto consiste nel predisporre, attraverso la formazione dell’équipe medica, un’accoglienza medico-ospedaliera per le persone con disabilità che non consista meramente in una «corsia preferenziale» per avere la precedenza in caso di visite o esami diagnostici, ma dia l’opportunità alle persone con disabilità di essere messe a proprio agio e comprese nei loro bisogni. Risulta di fondamentale importanza anche l’analisi dell’articolo 26 sull’Abilitazione e Riabilitazione della CRPD, che riporta: Gli Stati Parti promuovono l’offerta, la conoscenza e l’utilizzo di tec- nologie e strumenti di sostegno, progettati e realizzati per le persone con disabilità, che ne facilitino l’abilitazione e la riabilitazione. Capitolo 10 Un geranio in ospedale Claudio Imprudente1 Ho dedicato del tempo alla lettura della Carta dei diritti delle per- sone con disabilità in ospedale e tra i vari punti ho preferito soffermarmi sull’articolo 12, per quanto concerne la presenza nelle strutture ospedaliere, accanto alla persona con disabilità di un familiare, cioè il diritto di ricevere un trattamento personalizzato che tenga conto di quelle che sono le abitudini della persona in questione. Ritengo che qualunque lavoro si svolga alla base ci debba essere un adeguato percorso di formazione, però nel caso specifico del personale me- dico, paramedico, infermieristico e quello OSS potrei sintetizzare il concetto di formazione con una delle mie frasi più classiche: «sporcarsi le mani». Riflettendoci potrebbe sembrare un controsenso, avere le mani sporche in un luogo che dovrebbe essere sempre per antonomasia sterilizzato, in cui è d’obbligo l’uso dei guanti! Questa frase, che è per me un Leitmotiv, si riferisce al fatto che molto spesso nella mia esperienza ho potuto appurare come persone «addette ai lavori» in realtà non abbiano mai «toccato con mano» persone con disabilità. Dicevo poc’anzi della mia esperienza, infatti vorrei raccontarvi breve- mente qualcosa circa gli interventi che ho subito in due periodi differenti, alcuni negli anni Novanta e un altro nel luglio del 2010. 1 Presidente Centro Documentazione Handicap, Bologna. 156 Persone con disabilità e ospedale La prima esperienza ospedaliera fu qualcosa di molto improvviso; fino a quel momento non mi ero mai recato in ospedale, né per delle visite, né per accertamenti; vivevo tranquillamente la mia vita e potevo definirmi in ottima salute. Il racconto del primo «soggiorno» in ospedale potrebbe partire da una mattina di maggio del Novanta, quando, per una forte fitta alla pancia, mi recai dal medico di base, che mi chiese: «Hai mangiato molta cioccolata?». Ammetto di non essere mai stato molto attento alla mia dieta alimentare, amavo e tutt’ora amo la buona cucina, quella volta però non era un normale mal di pancia, il dolore aumentava e nel giro di qualche ora era diventato insopportabile. Con i miei familiari decidemmo di recarci in Pronto Soccorso a fare delle lastre e provare a capirci qualcosa. La situazione precipitò nel giro di poche ore: le lastre non chiarivano la situazione e io faticavo a respirare. Fu chiesto un consulto chirurgico, ovviamente vista l’eccezionalità del caso venne coinvolto direttamente il primario di chirurgia, il quale mi spiegò quanto fosse necessario «aprire» il mio ventre… La preoccupazione da parte di mia madre e delle persone a me vicine iniziò a crescere, perché si trattava di un intervento invasivo che bisognava fare al più presto. Lo stesso chirurgo volle mettere mia madre a conoscenza della reale situazione: cioè a causa della poca chiarezza delle lastre occorreva intervenire ma non si poteva sapere a cosa si andava in- contro. Ammetto che quel primario non parlò con me direttamente, ma solo con i miei familiari, però fu permesso a mia madre di assistermi sia nei momenti molto concitati prima dell’intervento, che in quelli successivi della convalescenza. Durante la notte la mia situazione si aggravò e i medici decisero di intervenire. Non ricordo tutto nitidamente, in quanto ero semicosciente a causa dei forti dolori, però indubbiamente la presenza di mia madre fu importantissima. In quei momenti era lei il mio tramite per comunicare con infermieri e dottori, ma non solo: grazie alla sua presenza potevo muovermi e gestire il mio corpo. L’intervento durò sei ore; un tempo notevole, però non a causa del mio deficit, ma per l’operazione in sé, al termine della quale il chirurgo abbracciò mia madre. Davvero si era temuto il peggio per la mia salute! Tutt’ora io e i miei familiari siamo riconoscenti verso quel primario di chirurgia. Un geranio in ospedale 157 Purtroppo per quel volvolo intestinale dovetti tornare sotto i ferri altre due volte, tanto che tra i miei amici si era creata una certa battuta circa la mia cicatrice sulla pancia lunga quindici centimetri: si poteva paragonare a una cerniera lampo da aprire e chiudere all’occorrenza! Nonostante questo, posso dire che nel reparto, tra i miei familiari, infermieri e dottori si era creato un clima collaborativo, e anche nei due successivi ricoveri fu permesso a mia madre di starmi accanto. Il rovescio della medaglia negli altri due ricoveri fu il constatare che la tavoletta, il mio mezzo di comunicazione per eccellenza, non era più solo monopolio di mia madre, ma strumento di comunicazione con tutti. Ancora oggi, quando mi reco in ospedale per fare delle visite, in molti del personale medico e infermieristico ricordano quei momenti animati ma allo stesso tempo ricchi di formazione. Successivamente agli anni Novanta, dopo quegli episodi, la mia vita scorse regolarmente — va beh, solo qualche raffreddore qua e là — fino al Natale del 2009, quando uno strano malessere mi fece perdere un po’ delle mie energie. Non riuscendo a identificare bene il torpore dal quale mi sentivo av- volto, mi recai di nuovo dal mio medico di base e so che non ci crederete, ma mi ripropose la fatidica domanda di vent’anni prima… «Hai mangiato molta cioccolata?». Data la confidenza che in questi anni si è instaurata tra di noi, questa battuta me la aspettavo, però un po’ di paura prese il soprav- vento, poiché il mio medico non riusciva a fare una diagnosi. Feci una serie di visite per escludere le possibili cause di questo torpore che pervadeva il mio corpo. Senza dovermi necessariamente ricoverare, feci un elettrocardiogramma e altre analisi. Dovete sapere che, nonostante il timore che mi accompagnava in quelle visite, riuscivo sempre a instaurare un dialogo con i dottori, i quali, dopo le domande di routine, dimostravano sempre curiosità e interesse nei confronti del mio modo di comunicare e riuscivano a rivolgersi parlando direttamente a me. Quando il mio quadro clinico si rese più chiaro feci delle lastre ai reni. Devo dire che questo esame risultava essere arduo a causa della mia spasticità. Gli infermieri non sapevano come muoversi, impacciati nella loro paura non riuscivano a sollevarmi dalla carrozzina. Credo che questo sia stato uno dei pochi episodi mal gestiti della mia esperienza ospedaliera. Dopo vari mesi e molte visite, ma soprattutto grazie all’intuizione di un mio vecchio amico dottore e di una ottima specialista, si era riusciti 160 Persone con disabilità e ospedale Inoltre, proprio per permettere che la comunicazione fra me e loro non fosse mai interrotta, hanno permesso alla persona che mi aveva accompagnato fino a quel momento di essere presente in sala operatoria e di assistermi durante l’intervento; ciò ha permesso ai dottori di lavorare in tranquillità e a me di essere vigile sulla mia salute. Della mia esperienza personale, questo è ciò che ritenevo utile racconta- re in merito all’articolo 12 della Carta dei diritti delle persone con disabilità in ospedale, per quanto concerne la degenza in una struttura ospedaliera. Ribadisco quanto scritto all’inizio: «fondamentale sarà la presenza accanto alla persona con disabilità di un familiare, ma anche il diritto di ricevere un trattamento personalizzato che tenga conto di quelle che sono le abitudini della persona in questione». Questo per dire che le persone diversamente abili mettono in crisi le strutture dove vengono accolte, ma divengono fondamentali per la Forma- zione e la creazione di buone prassi in tutti i contesti. Michele Babini e Mauro Mario Coppa Interventi psicoeducativi nella disabilità grave Gestione di Servizi per persone adulte Capitolo secondo Il mio mondo, le mie regole Francesca Masotti1 Anamnesi personale/familiare Marta ha 40 anni, è affetta da insufficienza mentale grave, deficit del visus e comizialità attualmente silente. È stata inserita in residenzialità dal 2002 a causa di una difficile gestione a casa per importanti questioni comportamentali e vari episodi problematici avvenuti nel paese di origine. Marta ha grossi limiti di tipo cognitivo, fatica a orientarsi nel tempo e nello spazio, fatica a rispettare le regole, tende a sostituirsi all’operatore e spesso non accetta di finire le attività al momento giusto. Nel fine settimana mostra gelosia verso i compagni che vanno a casa. Sa copiare lo scritto in stampatello, riesce a scandire le lettere dell’alfabeto quando legge ma solo se la parola è breve riesce poi a dirla per intero. È in grado di imparare nuove attività o concetti semplici e di riappli- carli nel tempo. Non riesce a compiere semplici calcoli, ha molte difficoltà nel pensiero logico e nel risolvere eventuali nuovi problemi quotidiani anche piccoli. Conosce la sequenza dei numeri ma non il loro valore. È in grado di prendere decisioni ma queste sono spesso dettate dall’impulso. Una volta che ha preso una decisione è molto difficile farle cambiare idea, in tali casi è necessario aspettare un giusto lasso di tempo per evitare di essere aggrediti. Quando si sente molto triste piange e cerca di spiegare il suo malessere chie- dendo aiuto in modo infantile agli operatori di riferimento: «Non ce la faccio, non ce la faccio!». Nei momenti di crisi le piace essere abbracciata e coccolata. 1 Educatrice presso la Cooperativa Il Cerchio. 46 Interventi psicoeducativi nella disabilità grave Area Val Note su funzionamento e contesti (potenzialità, barriere e facilitatori) D470 Usare un mez- zo di trasporto 1 D475 Guidare 9 Area autonomia personale Va seguita dagli operatori nell’igiene e nella cura personale. Quando deve andare in bagno in genere lo comunica all’operatore, va sollecitata e spesso nega di dover andare in bagno, soprattutto se in ansia. Quando è in bagno va monitorata. Se sollecitata dall’operatore apprezza il prendersi cura di se stessa. Sa vestirsi e svestirsi autonomamente, pur in difficoltà a causa del peso, e scegliere i vestiti da mettere. Mangia e beve in autonomia. Collabora nella preparazione dei cibi durante l’attività di cucina, tende a fagocitare il cibo. Svolge vari lavori di cura della casa (apparecchiare, sparecchiare, spazzare, lavare, ecc.). Di notte in genere riposa se non agitata da fattori psichici, spesso al mattino fatica ad alzarsi. D510 Lavarsi 3 D530 Bisogni cor- porali 3 D540 Vestirsi 3 D550/560 Mangia- re e bere 2 D570 Prendersi cura della propria salute 3 D620 Procurarsi beni 1 D6300 Preparare pasti 1 D640 Fare i lavori di casa 1 B134 Funzioni del sonno 2 Area affettivo relazionale Tendenzialmente è molto espansiva sia con chi conosce che con gli estranei, dopo una qualche conoscenza. Nella relazione con alcuni operatori di riferimento apprezza il contatto fisico, con abbracci e baci. È molto legata ad alcuni familiari e ne ripete i discorsi. Manifesta in modo chiaro le sue preferenze sia nei confronti di operatori che di compagni. Necessita di contatto fisico e della rassicurazione da parte degli operatori. D710 Interagire con le persone in modo adeguato 3 D7105 Contatto fisi- co nelle relazioni 2 D710 Differenziazio- ne: persone familiari e non 1 D720 Gestire intera- zioni interpersonali complesse 3 D730 Entrare in re- lazione con estranei 2 D760 Relazioni fa- miliari 2 Area autonomia sociale Apprezza le uscite sul territorio e l’andare nei locali a mangiare e bere qualcosa. Non comprende il valore dei soldi. Non comprende la formalità nelle relazioni. Tende a sostituirsi agli operatori nei confronti dei compagni. D740 Relazioni for- mali 3 D750 Gestire relazio- ni sociali informali, con amici o compagni 2 D860 Transazioni economiche semplici 2 D910 Vita nella co- munità 2 D920 Ricreazione e tempo libero 2 * Si utilizza un estratto della Classificazione Internazionale del Funzionamento (ICF) proposta da OMS. Per le ulteriori informazioni consultare la cartella utente. In grassetto sono evidenziati gli item corrispondenti a quelli della scheda regionale sull’accreditamento. Il mio mondo, le mie regole 47 Assessment iniziale I comportamenti problema vengono costantemente monitorati a livello quantitativo nella struttura per tutti gli utenti inseriti attraverso la registrazione del numero di interventi educativi (si veda figura 2.1). Ven- gono considerati interventi educativi tutti quegli interventi di carattere relazionale e comportamentale tesi a diminuire l’intensità e la pericolosità dei comportamenti problema in atto. gennaio febbraio marzo aprile Interventi ducativi/ armacologici ducativi armacologici 150 130 99 120 31 18 33 32 Fig. 2.1 Numero interventi educativi e farmacologici durante la fase di assessment. Nel periodo di assessment è stata inoltre effettuata anche l’Analisi funzionale ABC per definire al meglio la relazione tra i suoi comportamenti oggetto di analisi, gli antecedenti e le conseguenze. In 31 giorni sono state compilate 26 analisi funzionali di cui 15 rela- tive a comportamenti di aggressività e 11 relative a gravi episodi in cui non termina il compito nei tempi prestabiliti o effettua compiti in momenti non previsti (si veda figura 2.2). Il numero delle Analisi ABC è sensibilmente minore rispetto al numero dei comportamenti problema monitorato grazie all’efficacia degli interventi educativi effettuati con il loro carattere «preventivo», tale da evitare lo scoppio di gravi CP (comportamenti problema). 48 Interventi psicoeducativi nella disabilità grave Analisi ABC di ssessment aggressioni non termina il compito nei tempi prestabiliti o effettua compiti in momenti n previsti Fig. 2.2 Analisi ABC effettuata durante la fase di assessment. Dall’Analisi ABC sono emersi i seguenti «antecedenti» che fungono da attivatori di entrambi i CP: 1. richiesta da parte degli operatori di terminare l’attività nei tempi presta- biliti; 2. richiesta da parte degli operatori di effettuare un compito o di evitare alcuni comportamenti (entrare in ufficio, fare «l’operatore», intervenire in discussioni altrui); 3. contatti con i familiari. Dall’Analisi ABC sono emersi i «conseguenti» che fungono da rin- forzatori dei CP: 1. ricevere attenzione sociale; 2. continuare a svolgere l’attività in corso. In questa fase è stata effettuata anche un’analisi dei rinforzatori e delle preferenze attraverso la compilazione di un modulo specifico per 10 giorni da parte degli operatori del Servizio (si vedano figure 2.3 e 2.4). In questi 10 giorni sono state messe in luce sia attività nuove speri- mentate sia attività preferite e rinforzatori già utilizzati o conosciuti dagli operatori. Una volta emersi i possibili rinforzatori all’interno dell’équipe di la- voro, l’utente è stata sottoposta a molteplici sessioni alle ore 9.00, alle ore 11.00 e alle ore 15.00 per definire il grado di gradimento dei rinforzatori stessi (si veda tabella 2.2). Il mio mondo, le mie regole 51 Obiettivi dell intervento educativo • Obiettivo 1: diminuire il comportamento problematico: «essere aggressiva con operatori». • Obiettivo 2: farle rispettare i tempi di realizzazione dei compiti, con una diminuzione dei comportamenti problema specifici misurati attraverso il numero delle Analisi ABC. Metodologia di intervento impiegata Fase 1 In questa fase si definisce in équipe l’istituzione di un’agenda giornaliera e settimanale per accrescere il suo orientamento temporale e per diminuire i suoi stati d’ansia. L’agenda viene compilata settimanalmente da M. in collaborazione con gli educatori ed è a sua disposizione in ogni momento della giornata dopo sua richiesta specifica. L’agenda è realizzata all’interno di un raccoglitore di buste traspa- renti ed è composta da 4 attività/routine per la mattinata e altrettante per il pomeriggio. Le carte oggetto sono state costruite insieme in modo da rendere l’agenda motivante e bella ai suoi occhi (si vedano figure 2.6 e 2.7). Figg. 2.6-2.7 Agenda giornaliera. 52 Interventi psicoeducativi nella disabilità grave Viene inoltre istituita una token economy (modello di rinforzo con- dizionale). Un rinforzatore condizionale è uno stimolo, originariamente non rin- forzante, che ha acquisito tale potere essendo stato adeguatamente abbinato ad altri rinforzatori. I rinforzatori condizionali, come il denaro, perdurano e possono essere accumulati fino a quando non vengono scambiati con altri rinforzatori come il cibo. I rinforzatori condizionali di questo tipo sono chiamati tokens (gettoni). Un programma in cui una o più persone, emettendo vari comporta- menti desiderabili, può guadagnare gettoni e scambiarli con altri rinforzatori è chiamato token economy. Principali stadi della token economy Come prima cosa è necessario selezionare tokens: da consegnare dopo l’emissione del comportamento desiderato essi hanno la funzione di colmare la distanza di tempo tra il comportamento emesso e l’accesso al rinforzatore di sostegno. È necessario affinché la token funzioni: • selezionare rinforzatori graditi specifici per determinati ambiti di lavoro; • impostare i valori dei tokens: decidere quanti tokens consegnare per l’e- missione di un comportamento desiderato; • costruire una banca: decidere quanti tokens «costa» un rinforzatore, dove mettere i tokens guadagnati, dove quelli da consegnare; • definire se istituire una multa (costo della risposta); • definire orari d’apertura per lo scambio: decidere in quali momenti si può effettuare lo scambio tra tokens e rinforzatore; • spiegare il programma; • porsi l’obiettivo di generalizzare. Modalità operativa All’interno dell’équipe si sono definite delle precise modalità esecutive: • orari d’apertura per lo scambio (decidere in quali momenti si può effettuare lo scambio tra tokens e rinforzatore): inizialmente dopo l’acquisizione di 6 carte a forma di cuore. Può ripetersi lo scambio al massimo 6 volte al giorno; Il mio mondo, le mie regole 53 • spiegare il programma: ogni attività corrisponde a un numero di carte a forma di cuore che vengono consegnate a M. se svolge correttamente l’attività. Al raggiungimento di 6 cuori verrà consegnato il rinforzatore da lei scelto precedentemente nel suo menu dei rinforzatori; • «multa»: non applicata; • selezionare tokens: costruzione con M. di cuori; • selezionare rinforzatore: cibo, rinforzi sociali, prodotti di bellezza; • deprivare del rinforzatore: non darle premi di nessun genere se non collegati alla token; • decidere quanti tokens «costa» un rinforzatore: 6 cuori; • costruire una banca: le carte token guadagnate vengono messe in un borsello che Marta indossa; • le carte token da consegnare vengono tenute dall’educatore referente nell’apposita borsa ma possono essere date a M. da tutti gli operatori (si vedano figure 2.8 e 2.9). Fig. 2.8 Carte token. Fig. 2.9 Token economy. Fase 2 Nell’intervallo temporale preso in esame si è provveduto a un progres- sivo innalzamento del «costo del token». Infatti mentre all’inizio le attività erano molto semplici (soprattutto attività domestiche) e molto rinforzate si è progressivamente passati ad attività più articolate e meno automotivanti con una minor emissione di cuori per ogni attività svolta. 56 Interventi psicoeducativi nella disabilità grave Inoltre, visto il positivo andamento, si decide che Marta avrà a dispo- sizione solo due scambi ogni giorno, uno da completarsi entro le 14.00 e uno da completarsi entro le 21.00 mentre in precedenza poteva effettuare lo scambio fino a 6 volte al giorno. Fig. 2.13 Token economy. Fase 3 Nella verifica (come evidenziano i grafici delle figure 2.14 e 2.15) emerge un assestamento del numero di comportamenti problema rilevati, nonostan- te la token di Marta fosse divenuta assai più complessa; i comportamenti problematici restano legati soprattutto a fattori esterni (in particolare alcuni contatti con i familiari). Il piano delle attività di Marta viene ulteriormente riempito di attività piacevoli e automotivanti in modo da farla lavorare anche sulla sua autostima e sul suo benessere individuale ma nonostante ciò almeno una volta al giorno si mantengono episodi di grave mancanza di rispetto delle regole che costringono gli operatori a notevoli interventi educativi e di consolazione. Infatti Marta dopo aver infranto le regole in genere cade in un pianto importante, in questi casi dopo un confronto in équipe si è deciso di non darle subito l’abbraccio che vuole ma di legare l’abbraccio stesso a una sua positiva risposta a un semplice quesito o attività. Migliora ulteriormente l’orientamento nella settimana con un aumento della disponibilità a svolgere compiti che le sono stati assegnati. Vi è una Il mio mondo, le mie regole 57 forte diminuzione della resistenza al cambiamento al suo rispondere alle richieste effettuatele. aprile maggio giugno luglio agosto settembre ottobre Interventi ducativi/ armacologici ducativi armacologici 120 80 57 46 61 34 29 32 20 19 15 16 7 3 Fig. 2.14 Numero interventi educativi e farmacologici durante la fase 3. 0 5 10 15 20 MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE Analisi ABC aggio bre aggressioni non termina il compito nei tempi prestabiliti o effettua compiti in momenti n previsti Fig. 2.15 Analisi ABC effettuata durante la fase 3. Visti i positivi risultati, si ipotizza di impostare dal mese successivo una token settimanale con un rinforzo intermedio giornaliero alla sera. Ogni giorno Marta deve scegliere un rinforzo dal menu dei rinforza- tori che raggiungerà nel caso raccolga durante la giornata 12 cuori (token). Inoltre, se alla fine della settimana avrà collezionato 7 grandi cuori (uno ogni sera) avrà accesso a un grande rinforzatore (andare dalla parrucchiera, andare al ristorante, ecc.) individuato attraverso un’intervista aperta tra gli operatori del Servizio. 58 Interventi psicoeducativi nella disabilità grave Fase 4 Nella verifica emergono alcune problematiche che non hanno permesso di implementare il progetto come preventivato, infatti pur mantenendosi basso il numero di comportamenti problematici Marta cerca in varie occa- sioni di imporsi e di non rispettare le regole. Dall’Analisi ABC e dall’analisi in équipe delle sue parole di «giusti- ficazione» emerge un nesso con l’avvicinarsi delle festività natalizie, con la conseguente aspettativa di recarsi a casa. Per non perdere il controllo educativo faticosamente instaurato si decide di mantenere i due scambi giornalieri e di modificare ulteriormente i rinforzatori. Questi accorgimenti riequilibrano immediatamente la situazione e permettono di continuare il processo abilitativo. Esiti dell’intervento Verifica dell’obiettivo 1 L’obiettivo era diminuire il comportamento problema «essere aggressiva con operatori». Come evidenziato nelle figure 2.16 e 2.17, l’obiettivo è raggiunto, avendo avuto una diminuzione dei comportamenti problema del 79% (tra aprile e dicembre). 0 50 100 150 200 Interventi ducativi/ armacologici ducativi armacologici Fig. 2.16 Andamento annuale degli interventi educativi e farmacologici. Il mio mondo, le mie regole 61 zione dei comportamenti problema rilevati ha portato a un suo maggior coinvolgimento in attività individuali e di gruppo con un suo benessere emotivo e cognitivo. Il percorso con Marta in questi mesi di lavoro ha dato al gruppo di lavoro molte soddisfazioni e ha prodotto nuove consapevolezze circa le sue possibilità; il percorso abilitativo è certamente tuttora molto complesso, ma la strada intrapresa a livello metodologico rende possibile definire chiari obiettivi di sviluppo e di lavoro. Fig. 2.19 Agenda giornaliera. Francesco Rovatti Sessualità e disabilità intellettiva Guida per caregiver, educatori e genitori La prospettiva dei genitori 43 Le emozioni che coinvolgevano maggiormente i genitori di figli maschi erano curiosità, preoccupazione, timore, speranza, disagio. Le emozioni che coinvolgevano maggiormente i genitori di figlie femmine, di contro, erano terrore, spavento, ansia, sconcerto, tristezza. Da queste due realtà così diverse si è cercato di comprendere quali fossero le preoccupazioni o i pensieri alla base di queste tonalità emotive. È emersa una visione molto riduttiva della sessua- lità. Se per i genitori di figli maschi il tema sessualità, pur spinoso, potrebbe, al più, rappresentare uno scomodo intralcio all’interno dei progetti di vita dei propri figli, con una tendenza a non pensarci sino a quando, eventualmente, il problema dovesse emergere, un atteggiamento molto differente lo si è avuto nei genitori di figlie donne. In questi casi il tema della sessualità è maggiormente presente nelle «menti» delle madri, e rappresenta una sorta di pericolo dal quale tenere lontane le proprie figlie. Sessualità dunque come concepimento, come comportamenti a rischio, come qualcosa che sfugge al controllo. Proprio il «controllo» che le stesse madri, di fronte alla nascita di una figlia disabile, avevano posto su di lei quale barriera protettiva dal resto del mondo. A questo punto, si è utilizzato un paradosso, chiedendo a ciascuno dei genitori coinvolti nel progetto che cosa avrebbe preferito per la propria vita se avesse vissuto nei corpi dei propri figli: un programma educativo che avrebbe insegnato loro ad allacciarsi correttamente le scarpe o a rifarsi correttamente il proprio letto, oppure un programma educativo che avrebbe insegnato loro a utilizzare il proprio corpo per scambiarsi messaggi di affetto, amore, desideri? La totalità dei partecipanti optò per il secondo programma, constatando, tut- tavia, come nei percorsi educativi dei propri figli mancasse totalmente questa seconda area. E sottolineando come le logiche educative non imponessero alcun bivio di scelta. Ottimi programmi educativi pensati ad hoc per acquisire questa o quella abilità, ma scarsi quelli volti a far sì che i propri figli potessero meglio conoscere, per poi utilizzare, il proprio corpo. E, per definizione, se non si conosce qualcosa, non si può che utilizzarla nei modi più impropri. Lo psicoterapeuta coinvolto nel progetto ha colto l’incongruenza tra queste dicotomie di pensiero; come è possibile pensare a un programma educativo, a carattere longitudinale, che sia volto alla crescita e alla maturazione del proprio figlio, senza considerare una dimensione, quella sessuale, che è parte fondante dell’intimità di ciascuno di noi? Si tratta cioè di istanze primarie e strutturanti la propria soggettività, che, tuttavia, vengono considerate accessorie privile- giando aree differenti ma che, per potersi esprimere, non possono che trovare complemento nella dimensione sessuale e nell’affettività. È come far nascere un albero pensando che possa crescere rigoglioso perché gli si annaffiano quotidianamente le fronde, disinteressandosi delle sue radici. 44 Sessualità e disabilità intellettiva Di fronte al senso di smarrimento che queste riflessioni hanno natural- mente generato, ci si è chiesti, al di là delle emozioni espresse, quali fossero le idee, i contenuti radicati, le convinzioni, che giustificassero ciò. Le mamme di ragazze disabili hanno espresso diverse paure, decisamente superiori a quelle espresse dai genitori di figli maschi; la paura di gravidanze non desiderate, la paura di esporre la propria figlia a contatti impropri, la paura di eventuali abusi, il nascere di atteggiamenti eccessivamente espliciti che avreb- bero portato a uno stigma sociale. Tuttavia solo una mamma ha detto: «Non si fa, è disabile». Questo dato lascia aperte nuove speranze e possibilità, se si considera che, evidentemente, dietro all’atteggiamento di decisa chiusura, non vi sono radicate convinzioni, ma muri di paure e stereotipi che, in quanto tali, potrebbero essere superati, seppur nessuno di quei genitori, prima di allora, avesse pensato a una tale possibilità, dato questo non certo positivo. Prima di entrare nel merito del tema «sessualità», ci si è pertanto concen- trati sui vissuti che il tema inevitabilmente evoca, dalle emozioni-percezioni, alle pulsioni-motivazioni, sino ad arrivare a concetti più semantici di motiva- zioni e valori. È emerso come tutti i genitori, di figli sia maschi sia femmine, quando entrano in contatto con la sessualità del proprio figlio (o per una via esplicita o altrimenti meno) cerchino di scindere la sessualità dal resto della persona, favorendo i suoi percorsi di crescita e maturazione attraverso tutti gli strumenti possibili, salvo quando si affronta il tema certo più ostico della sessualità. Dalle riflessioni emerse, alcuni genitori hanno mostrato un totale disorientamento sul «come» poter introdurre un tema tanto delicato, altri sarebbero stati pronti, ma ostacolati dalle possibili conseguenze in termini di gestione, come se la situazione «potesse sfuggire loro di mano». Altri genitori non hanno mai considerato il tema come un problema, dal momento che mai hanno colto tale bisogno nei propri figli. Ancora, un’ultima parte di genitori ha sostenuto che gli aspetti prioritari da acquisire afferiscono alle aree delle autonomie personali, per cui introdurre un tema così difficile porterebbe solo a ulteriore caos. È evidente come, in tutti i casi, seppur in forme diverse, siano emersi alcuni ostacoli, o se si preferisce, delle difese, che hanno tutelato i genitori dallo scomodo compito di occuparsi di un tema che non avrebbero avuto voglia di affrontare. Alla domanda: «Quanti di voi penserebbero che possa essere utile parlare di sessualità ai propri figli?», il 95% dei genitori ha dato risposta affermativa. Alla domanda: «Quanti di voi ne hanno parlato o pensano di parlarne?», solo il 2-3% dei genitori ha risposto affermativamente. Sono dati, questi, indicatori di forti difese soggettive. Quali possono essere queste difese? È stato un significativo tema di dibattito. Alcuni genitori hanno espresso dei pensieri che restituiscono una visione del figlio disabile quale au- La prospettiva dei genitori 45 toma che deve acquisire abilità e competenze in termini di autonomie di base o strumentali. È una lettura che, si è condiviso, in molti casi rappresenta una proiezione di ciò che i genitori sentono mancare dall’aver messo al mondo un figlio con problemi. E, in alcuni casi, li protegge dal senso di colpa che, nono- stante gli anni trascorsi, continua a incidere, implicitamente, su scelte e priorità. È emerso con estrema chiarezza come, sovente, desideri, speranze, bisogni e necessità dei propri figli passino in secondo piano, perché secondari rispetto a ciò che i genitori sanno essere il giusto cammino che devono compiere. In un certo senso, è una visione «onnipotente»: il figlio disabile «non può nulla senza di me genitore, e, di conseguenza, io devo sapere sempre cosa sia giusto o sbagliato per lui». Molti genitori, la quasi totalità, hanno espresso la possibilità di accettare di parlare di affettività, senza che questa, però, potesse trasformarsi in una sessualità agita. Alla base di ciò, come si è detto, paure, resistenze, pri- orità diverse, nonché, dato emerso dagli incontri, un pesante invischiamento relazionale col proprio figlio. Per definizione, è una dinamica antitetica a quel concetto di autonomia che invece rappresenta per tanti un punto di arrivo. Un ulteriore paradosso: l’essere coinvolti in una relazione simbiotica o comunque invischiante non può che rendere più complessa la possibilità di introdurre il tema della sessualità. Ma, al contempo, porta gli stessi disabili ad avere diffi- coltà nello sganciarsi dai propri caregiver, a riconoscersi una propria identità autonoma e differenziata, dunque, a percorrere il già difficile cammino delle autonomie che, invece, rappresenta il primo obiettivo per ogni genitore. Dagli incontri sono dunque emersi temi differenti che, partendo dalla sessualità, han- no portato a rimettere in discussione il generale percorso educativo e di vita dei propri figli, lasciando affiorare convinzioni implicite che, tuttavia, talvolta sono esplicitamente contrarie agli stessi obiettivi da cui i genitori sono soliti partire. Al termine del quarto incontro, poiché ci si è confrontati evidenziando di- fese individuali, paradossi educativi nonché bisogni non ancora adeguatamente letti, si è arrivati alla constatazione di come, per le persone disabili, manchino oggi dei reali percorsi di avvicinamento alla sessualità. In molti casi non se ne parla mai, in altri si preferisce che i propri figli se la cavino da sé, in altri si pensa ingenuamente di intercettare il problema solo qualora dovesse emergere. La sessualità dovrebbe invece essere pensata in modo normale, nonostante le possibili difficoltà che l’argomento suscita. In primo luogo attraverso una maggior chiarezza su cosa si intenda quando si parla di sessualità. Già questo primo ma fondamentale argomento può suscitare posizioni differenti. Sessualità è rapporto coitale; sessualità è masturbazione; sessualità è scambio di tene- rezze utilizzando il proprio corpo come veicolo. Non tutte queste molteplici possibilità devono essere raggiunte da tutti i disabili. Sarà necessario capire 48 Sessualità e disabilità intellettiva Rispetto ai rapporti sessuali, si è fatto un tentativo per svincolare il concetto di sessualità dalla sola esperienza coitale, dando ad essa una lettura più ampia. L’esperienza sessuale del resto rappresenta un momento di intimità speso con una persona significativa, e, in quanto tale, può comportare l’esperienza del coito anche se non necessariamente. Per meglio parlare di questo tema, in linea con quanto afferma Veglia, si è utilizzata la metafora della «carezza» per parlare di tutti i gesti che possono essere scambiati tra due persone per scambiarsi piacere. Quando una «carezza» può definirsi appropriata? Quando non lo è? Che significato dare alle carezze dei ragazzi? Solo avvicinandosi con discrezio- ne, ma senza censura, alle loro carezze potremmo realmente avvicinarci alla loro attribuzione di significato, eventualmente per aiutarli a meglio spendersi nella relazione con l’altro. Questo messaggio diventa centrale per svincolare l’esperienza della sessualità dalla sola genitalità; la sessualità dunque non è una sorta di scalata alla cui cima corrisponde l’esperienza del coito. Questo potrebbe essere controproducente per taluni, una necessità o un bisogno per altri. Ma solo avvicinandoci al loro corpo, alle loro carezze, al loro modo di stare insieme, sarà possibile costruire dei percorsi adeguati a bisogni e desideri individuali. Quanto questo primo, ma fondamentale passo, è invece difficile da percorrere, sia per i familiari sia spesso per gli stessi operatori dei servizi? Parlare della sessualità dell’altro certo vuol dire mettere in primo luogo in di- scussione la propria, in termini di significati valoriali e attribuzione di senso. Significa entrare nell’intimo di una persona altra da noi superando un naturale pudore. Spesso l’interpretazione che si dà dei bisogni dell’altro, al pari delle sue richieste, è dettata dal proprio punto di vista soggettivo. Si diventa allora «sostituti» e non «facilitatori» o mediatori — come invece si dovrebbe —, andando a sostituire i vissuti e le richieste dell’altro coi nostri schemi valoriali e coi significati che la sessualità assume per noi. Si raggiunge dunque una posi- zione fortemente asimmetrica in cui non ci si dispone ad accogliere il bisogno dell’altro, ma in cui si antepone il proprio, visto come prioritario. L’assistenza sessuale alle persone disabili L’Organizzazione mondiale della sanità definisce la sessualità come «mo- dalità globale di essere della personalità nell’intreccio delle sue relazioni con gli altri e con il mondo. Inizia con la vita stessa della persona e si modella ed evolve lungo il corso di sviluppo della medesima». L’educazione sessuale dovrebbe iniziare dai primi giorni di vita del bambino attraverso il calore dell’attenzione La prospettiva dei genitori 49 e delle prime cure che il bambino riceve; grazie a queste, inizierà a sviluppare sensazioni, emozioni che nel tempo si tradurranno nella capacità di amare. Il disegno legge 1442 del 2014 si è proposto di introdurre in Italia il diritto alla sessualità a favore delle persone disabili (Senato della Repubblica, 2014). Da qui prende sempre più sviluppo quanto in altri Paesi europei rappresenta già una realtà, l’assistenza sessuale alle persone disabili. È realtà già riconosciuta in Svizzera, Danimarca, Olanda e Germania, ma non in Italia. Chi è l’assistente sessuale per disabili? Si tratta di una persona che do- vrebbe aiutare la persona con disabilità sul piano fisico e sul piano emotivo ad affrontare l’esercizio della propria sessualità; una figura che, adeguatamente formata, dovrebbe offrire anche un sostegno emotivo, oltre che di natura fisica. L’obiettivo è quello di supportare le persone con disabilità nel vivere contatti interpersonali soddisfacenti. Gli incontri possono così prevedere l’esercizio di sessualità molto differenti, che possono contemplare massaggi, carezze, coccole, sperimentando più da vicino un’esperienza sensoriale. Al convegno del 2014 sugli autismi, promosso da Erickson a Rimini, si è parlato del tema forse per la prima volta in modo incisivo e progettuale; nello specifico, lo psicoterapeuta sessuologo Quattrini ha elencato tre canali formativi: la formazione rivolta ai sex worker; la formazione dedicata al personale sanitario che potrebbe suggerire l’assistenza sessuale ai disabili; la formazione specifica per diventare assistente sessuale. In questi mesi è popolare un interessante testo di Giorgia Wurth (2014), autrice del libro L’accarezzatrice, in cui viene descritta la professione dell’assi- stenza sessuale che in molti Paesi europei permette di fornire piacere sessuale alle persone che non sono in grado, in ragione della loro disabilità, di fare ciò da sole. Sul versante cinematografico, invece, sarà presto in proiezione The special need, diretto da Carlo Zoratti, che al Trieste Film Festival 2014 ha vinto il primo premio nella sezione documentari. Si tratta di un film-documentario girato in più Paesi europei in cui il protagonista, Enea, ragazzo autistico, parte per un viaggio che si propone l’obiettivo di soddisfare il bisogno del ragazzo: fare l’amore. Ora, senza entrare nel merito di possibili derive etiche e morali- stiche, mi permetto di sottolineare alcuni elementi che, pur nell’interessante prospettiva che si sta aprendo, non rappresentano un significativo passo in avanti nel cammino dell’autodeterminazione che le persone disabili e i loro genitori perseguono con fatica nella quotidianità della loro esistenza. Premetto che ciascuno ha il diritto di scegliere ciò che è più opportuno per se stesso, in relazione ai propri modelli educativi, ai propri sistemi di attribuzione di signi- ficato, al proprio sistema valoriale. Credo però che l’obiettivo di un progetto educativo non sia tanto quello di fornire risposte tecniche a un problema, ma 50 Sessualità e disabilità intellettiva di trovare le soluzioni ottimali, nella loro intrinseca complessità, per vivere al meglio le problematiche connesse a una condizione di disabilità. In alcuni casi la soluzione «assistente sessuale» può tradursi in una via percorribile e adeguata. Ma una tale risposta può essere comunque adeguata per coloro che desiderano avere una storia, trovare qualcuno che li possa amare, vivere l’esperienza dell’innamoramento e dell’amore? Non sono componenti im- prescindibili della sessualità? O si pensa di scorporarle da essa? Che risposta dare a chi vuole una storia, stare vicino a una persona che lo ami e a cui, a sua volta, sente di voler dare amore? In tutti questi casi si offre un palliativo che non prende in considerazione la sfera dei significati individuali, mentre questi, celati dietro alla parola «sessualità», possono essere molteplici o addirittura contraddittori. Se la sessualità assorbe una funzione corporea, comunicativa e affettiva, inevitabilmente il rischio è di rivolgersi solo a una parte di essa senza contemplarla nella sua globalità. Il rischio di generare frustrazione dove si sareb- be voluto creare benessere e appagamento è il prezzo che si rischia di pagare se manca la possibilità del darsi all’altro, del sentirsi desiderati, del sentirsi amati, aspetti che sono parte costitutiva di un rapporto sessuale. La stessa corporeità non può dunque prescindere dalla comunicazione dell’emozione. Ora, l’emozione è un vissuto spontaneo che nasce in ciascuno in ragione degli eventi che si vivono o è un imperativo vissuto ad hoc in re- lazione alla situazione che si vive? Immagino si convenga che la seconda via rappresenta un artifizio; è dunque opportuno parlare di accettazione, sincronia emotiva, empatia, comunione di intenti. Come far nascere tutto ciò, se non nella reciprocità? Quanto oggi sappiamo sui neuroni specchio dà importanti lezioni sui concetti di empatia, reciprocità e consonanza intenzionale. Se dunque sapessimo vincere le paure di avvicinare due persone con disabilità che cercano, tramite la sessualità, un’esperienza non solo fisica, ma di storia e affetto, tutto sarebbe più naturale e «neurobiologicamente» vero dell’ausilio di un assistente sessuale, che pur rappresenta una possibilità, seppur nella disabilità intellettiva questa opzione presenti non poche controindicazioni. Al di là delle disquisizioni teoriche, le note positive da rimarcare sono i passi in avanti che si stanno compiendo anche sulla sola sensibilizzazione del tema, sebbene talvolta, a mio avviso, il modo in cui lo si affronta sia pragmatico e semplicistico. Il che, molte volte, rischia di divenire controproducente, an- dando a implementare le difficoltà che inizialmente si volevano affrontare. Ma, purtroppo, la disabilità non ha per definizione risposte passe-partout o risolu- trici, e in quanto tale mina i nostri continui tentativi impliciti di onnipotenza. La prospettiva dei ragazzi disabili 53 adeguatamente accolti. Si entrerà poi meglio nel merito di come gli educatori siano soliti affrontare il tema. Alla proposta di introdurre delle tematiche afferenti alla sessualità, inizialmente tanto gli ospiti, quanto gli educatori, hanno mostrato un certo scetticismo. Tra gli educatori prevalevano emozioni di imbarazzo, vergogna, disagio, paura. Tra gli ospiti vi erano un forte sospetto e timore, come se fos- sero cresciuti da sempre con l’idea o la consapevolezza che di certe tematiche è sconveniente parlare. Oppure addirittura proibito, come evidenziò una delle ragazze, proveniente non dal contesto comunitario ma dal contesto familiare. Prima di entrare nel merito di quanto emerso dagli incontri, vorrei pro- porre una breve descrizione degli utenti coinvolti. I partecipanti provenienti dal contesto «famiglia» erano Fabio, Paolo ed Elisa. Fabio, 22 anni, affetto da sindrome di Down con un QI di 60. Paolo, 18 anni, affetto da sindrome di Williams con un QI di 55. Elisa, 24 anni, affetta da oligofrenia con un QI di 56. I partecipanti provenienti dalla comunità alloggio erano Giovanna, 30 anni, con un ritardo intellettivo di grado medio-lieve e Luigi, 28 anni, affetto da sindrome di Down con un QI di 65. Nonostante la provenienza differente dei partecipanti, tutti già da anni si conoscevano reciprocamente per la partecipazione ad attività educative e di socializzazione tra loro condivise. Sono stati condotti sei incontri, alcuni attraverso lo strumento della di- dattica frontale, alcuni attraverso lo strumento del cerchio per meglio favorire una discussione in gruppo. L’obiettivo iniziale è stato quello di creare un clima di apertura e di fiducia tra il conduttore sessuologo, gli educatori e i ragazzi, che, nonostante condividessero anni di conoscenza, mai avevano affrontato il tema della sessualità. Questo è un aspetto purtroppo negativo dal momento che il non trattare un tema può far nascere dei dubbi sulla liceità dello stesso rispetto alla sua possibilità di essere oggetto di discussione. Ne conseguono spesso reticenze, resistenze, paure molte volte infondate. I temi affrontati hanno riguardato in una prima fase l’anatomia degli organi genitali (quali sono, come funzionano, come si usano quando si è da soli, quando e come si possono utilizzare quando si è in due), il tema del contatto corporeo con l’altro, la masturbazione, i rapporti sessuali. In accordo con una proposta già sperimentata da Dixon (1988), è stato proposto un intervento finalizzato al «toccare ed essere toccati». L’interven- to ha previsto in un primo momento la possibilità di riconoscere i punti del corpo sui quali piace essere toccati; quali sensazioni ed emozioni si vivano, quali siano i pensieri associati, quali le modalità attraverso le quali è possibile 54 Sessualità e disabilità intellettiva l’incontro con l’altro (attraverso abbracci, carezze, massaggi, ecc.). Questo primo momento ha permesso di focalizzare l’attenzione su come i contatti corporei possano essere adeguati o meno, voluti o non voluti, accettati o vissuti in modo costrittivo. Si è giunti a condividere l’idea che non esistono di per sé contatti «giusti» o «sbagliati», ma che tale etichetta può essere applicata solo laddove l’esperienza del contatto venga vissuta in modo condiviso o sulla base di una propria esigenza, tuttavia non sperimentata dall’altro. Come imparare a toccare in modo adeguato l’altro? Come imparare a dire di no e rifiutare un contatto non voluto? Sono stati fatti molteplici esempi di vita reale, e sono stati meglio approfonditi alcuni «contatti» a volte nati da un bisogno condiviso dall’altro, altre volte nati da un bisogno esperito solo individualmente. Quali sono «contatti buoni»? Quali no? Un secondo argomento affrontato ha riguardato la nudità e l’autostimo- lazione corporea. I ragazzi hanno espresso come sin da piccoli i primi tentativi di autostimolazione, non necessariamente genitale, fossero stati sempre «ca- strati» dai genitori, col risultato che essi sono cresciuti con l’idea che il toccarsi equivalga a qualcosa di sbagliato o addirittura di «sporco». Le esperienze di autostimolazione nei disabili talvolta sono quantitativamente superiori rispet- to ai ragazzi normodotati, a volte messe in atto come una sorta di ansiolitico, oppure per riempire momenti di vuoto o di scarsa gratificazione, o, ancora, per ottenere, attraverso un mezzo non adeguato al fine, l’attenzione dell’altro. Ecco che diventa necessaria una corretta analisi funzionale per meglio comprendere il bisogno che si cela dietro a un comportamento apparentemente chiaro e manifesto che, tuttavia, può nascondere molteplici motivazioni. Sempre in accordo con l’approccio della Dixon, sono state utilizzate delle fotografie per meglio chiarire come esistano luoghi dove è possibile toccarsi e mostrare la propria nudità e, di contro, dei luoghi e situazioni in cui ciò è inopportuno. Rispetto all’esperienza masturbatoria si è effettivamente evinto come non sempre rappresenti una pratica direttamente connessa a una motivazione sessuale, ma come a volte risponda a bisogni differenti. Questo spunto deve essere ben chiaro a operatori e familiari per poter offrire al disabile gli stimoli necessari per evitare che l’esperienza masturbatoria diventi strumento per vincere frustrazioni, momenti di vuoto, o per ottenere l’attenzione dell’altro, in modo dissociato rispetto al piacere sessuale. Accanto all’autostimolazione del proprio corpo, la costruzione di una propria identità sessuale passa attraverso dei giochi sessuali in cui il proprio corpo diventa protagonista insieme a quello dell’altro. Master e Johnson (1986) evidenziano come i bambini tra i 4 e i 14 anni abbiano partecipato a giochi sessuali per il 35% delle femmine e per il 52% dei maschi. Spesso le reazioni La prospettiva dei ragazzi disabili 55 dei genitori a questi giochi dei propri figli sono differenti, con reazioni più forti e proibitive se svolti da figli di sesso femminile. Spesso il bisogno di contatto fisico e di esplorazione del proprio corpo e del corpo altrui è avvertito con maggior enfasi da una persona con disabilità, dove talvolta la comunicazione attraverso il canale verbale è resa difficile dai deficit cognitivi. Ecco che, come nel caso della masturbazione, il rischio da parte di familiari e operatori può essere quello di censurare preventivamente il contatto fisico perché vissuto in chiave sessualizzata quando in realtà risponde a bisogni differenti. Come nel caso dell’esperienza della masturbazione, anche in questo ambito è stato ap- profondito l’esame di tempi, luoghi e motivazioni in cui questa esperienza è più consona e può trovare il suo naturale spazio di realizzazione. Tutti i partecipanti hanno mostrato adeguate risorse nel discriminare quando un comportamento può essere considerato adeguato, quando non lo è, e in che tempi e spazi ciò può avvenire. Questo, anche in relazione a quanto già discusso coi ragazzi in merito all’esperienza masturbatoria, ha permesso di aprire spazi di riflessione sui propri comportamenti e sulle attribuzioni semantiche ad essi associate. La seconda fase ha riguardato tematiche più complesse che concernono l’implica- zione di abilità astrattive e logiche che non tutti i ragazzi, come è normale che sia, possono utilizzare con brillantezza: la gravidanza, le mestruazioni, il tema della contraccezione. L’ultima sessione è stata dedicata al tema dell’innamora- mento, argomento, a differenza degli altri, già conosciuto da tutti gli ospiti per diretta esperienza: cosa vuol dire essere innamorati, cosa succede quando si prova questo sentimento, la condivisione del sentimento in una storia d’amore. Gli argomenti sono stati trattati attraverso l’ausilio di strumenti differenti in chiave facilitante: video, immagini e diapositive adeguate al grado di utenza cui ci si rivolgeva. In relazione ai temi trattati, il conduttore ha infatti il compito di capire se sia preferibile utilizzare l’uno o l’altro strumento a disposizione e se lavorare attraverso gruppi monosessuali o con la contemporanea presenza di maschi e femmine. Nel presente caso, si è scelto di lavorare in gruppi mo- nosessuali, quando si è affrontato il tema della masturbazione, anche se la fase finale dell’incontro è stata collegiale in modo che i due gruppi condividessero quanto acquisito. In tutte le fasi delle sessioni è stato utilizzato un linguaggio molto semplice e familiare; spesso, quando si parla di sessualità, l’utilizzare termini e concetti troppo complessi permette di proteggersi da un normale imbarazzo iniziale ma, al contempo, soprattutto rivolgendosi a disabili, non consente un’adeguata comprensione. Al termine di ciascun incontro, si è chiesto agli educatori che già seguivano i ragazzi nel loro percorso quotidiano di creare delle occasioni incidentali in cui riprendere i temi trattati; in primo luogo per verificare quanto acquisito ed eventualmente rinforzare alcuni argomenti poco 58 Sessualità e disabilità intellettiva fecondazione e di riproduzione, oppure, di contro, era vissuto come quell’azione che, in automatico, avrebbe portato alla nascita di un bambino. Su queste basi si è lavorato per rimandare un’idea di gravidanza e di fecondazione più vicina alla realtà, aprendo lo spazio necessario per parlare di metodi contraccettivi, ovvero di quegli strumenti che «ti permettono di fare l’amore senza che questo ti porti a concepire un bambino». Esempi molto concreti, associati all’utilizzo di foto e di video esemplificativi, hanno comunque permesso di gettare le basi per una miglior conoscenza e comprensione di quanto trattato. È evidente che tale spiegazione strutturata dovrà poi essere affiancata da un percorso di educa- zione incidentale, per meglio far sedimentare quanto acquisito e per verificare che la sedimentazione di quanto trattato abbia effettiva corrispondenza con la realtà. Se il concetto di concepimento e di gravidanza è stato nel corso degli incontri acquisito, lo stesso non si può dire del concetto di fecondità. Il fatto che durante il periodo del ciclo mestruale esista un periodo di fecondità dove, se si hanno rapporti sessuali, il rischio di una gravidanza è molto alto, è stato un concetto di difficile acquisizione. Questo dato non deve scoraggiare, ma, in modo ancor più significativo e incisivo, dovrebbe invece spingere a poter parlare con maggior decisione dell’utilizzo di metodi contraccettivi, tematica sulla quale si è avuto modo di vedere una generale capacità di apprendimen- to, seppur i concetti di malattie sessualmente trasmissibili, proprio come nel caso della menopausa, forse perché molto lontani dall’esperienza concreta dei ragazzi, abbiano rappresentato un tema di difficile acquisizione; infatti sono messe in gioco le capacità di comprensione e di astrazione, verosimilmente eccessive rispetto alle loro effettive abilità. La prospettiva degli educatori L’approccio degli educatori alla sessualità dei propri assistiti Solitamente il tema della sessualità è caratterizzato, nella nostra società, da una significativa ambivalenza, in quanto è comune un’oscillazione tra due poli opposti, dalla censura e repressione a forme antitetiche di totale liberalizzazio- ne. Nella persona con una disabilità cognitiva, a queste difficoltà prettamente sociologiche, si aggiungono le difficoltà nel pensare alla persona come sana da un punto di vista fisico, seppur con una difficoltà di regolazione emotiva o di regolazione comportamentale. Queste difficoltà si traducono allora nei tentativi già evidenziati di negazione, di repressione o di evitamento di un’area, quella della sessualità, che invece, se adeguatamente coltivata, potrebbe garantire al disabile maggiori possibilità di autodeterminazione e, con essa, maggiori quote di benessere individuale. Da qui nascono sia i presupposti per un’azione educativa totalmente lontana da quanto si dovrebbe pensare, sia la profonda diversità con cui il tema della sessualità viene trattato dagli educatori rispetto 5 60 Sessualità e disabilità intellettiva ad altri ambiti di vita. Se in questi prevale infatti il tentativo di formare e far acquisire autonomie, abilità e competenze, anche in contesti laddove già in partenza si sa che il deficit cognitivo non porterà ad alcun risultato, quando si affronta il tema della sessualità prevale un’ottica di castrazione e di evitamento su temi relativamente ai quali, invece, esisterebbero ampi margini di interio- rizzazione. Tutto ciò si traduce in un’azione educativa che cerca di potenziare aree e abilità che già a priori si sa che non potrebbero portare a sufficienti risultati (e quindi porta ad alimentare aspettative deluse in genitori e nella stessa persona disabile), mentre non vengono adeguatamente coltivate tutte le altre aree afferenti alla sfera affettiva e sessuale che, di contro, potrebbero trovare un terreno fertile su cui fiorire e fornire le basi per migliori processi di autodeterminazione e crescita individuale. Ciò porta a penalizzare in modo severo la persona disabile, non permettendole di sviluppare ambiti nei quali potrebbe trovare buone potenzialità e capacità di espressione, favorendo, di contro, processi regressivi. Tanto il rifiuto, quanto la repressione o la negazione, infatti, seppur diversi nelle loro possibili modalità di attuazione, condividono l’obiettivo di reprimere l’espressione di un bisogno non solo pulsionale, ma relazionale e affettivo. Quando la persona disabile esprime dei bisogni più fisici, si è soliti vedere negli educatori atteggiamenti che da facilitatori e «formatori» diventano atteggiamenti di chiusura o di censura. Paradossalmente, questi atteggiamenti non favoriscono i processi di integrazione che il disabile, pur nelle difficoltà, cerca di perseguire negli svariati ambiti di vita che frequenta. È come se gli educatori (o i familiari), favorissero una scissione quando, nel corso degli anni e dei loro interventi, si propongono invece con funzioni inte- gratrici. Le tecniche restrittive sono fondamentali laddove il comportamento sessuale appare problematico nella sua espressione, ma devono essere messe in atto sempre tenendo presente che l’obiettivo primario non è quello della repressione, ma quello di co-costruire nuovi comportamenti e nuove abilità che rimandino al bisogno della persona. Tale bisogno ovviamente si diversifica da un individuo a un altro, e, in quanto tale, deve essere oggetto di attenta lettura e decodifica. Spesso l’assenza di benessere individuale e la castrazione di reali bisogni individuali rischiano di generare comportamenti problematici, poi letti come l’espressione di un’incapacità della persona disabile nel gestire una sessualità di cui nessuno gli ha tuttavia mai parlato. Non essendoci una corretta prassi educativa che metta in primo piano il bisogno, ma la sola manifestazio- ne comportamentale dello stesso, il rischio di una repressione e negazione è inevitabilmente alto. L’intervento educativo dovrebbe invece partire non dal manifesto, ma dall’invisibile, non dal comportamento espresso, ma dal bisogno che quel comportamento cerca di perseguire pur con gli strumenti deficitari che La prospettiva degli educatori 63 oggetto di lungo approfondimento con gli educatori, arrivando all’importante conclusione che per rinforzare o co-costruire delle nuove carezze è centrale conoscere il significato delle stesse, e i bisogni che sono in esse contenuti. Autonomia e sessualità L’obiettivo di un progetto educativo non dovrebbe limitarsi a far acquisire delle puntuali capacità o autonomie, ma dovrebbe porsi la sfida, certamente più ambiziosa, di perseguire un’autonomia relazionale che non porti, come sovente accade tra un disabile e i propri punti di riferimento, a rapporti di dipendenza sia strumentale sia affettiva e relazionale. Autonomia e dipendenza rappre- sentano due posizioni diametralmente opposte. In una relazione fondata sulla dipendenza è fondamentale la presenza dell’altro per garantire la gratificazione dei propri bisogni, siano questi materiali o affettivi. Di contro, una relazione fondata su delle basi di maggiore autonomia rappresenta un rapporto all’interno del quale vengono mossi differenti registri motivazionali, che esulano dal solo registro dell’attaccamento-accudimento come spesso si osserva tra persona disabile e il proprio caregiver. Quando prevale una prospettiva assistenziale e dunque vicariante, viene dato poco spazio all’esercizio di registri motivazionali differenti, quali quello cooperativo, oppure il registro agonistico o, appunto, quello sessuale. Tutte le dinamiche vengono spese all’interno dei binari di un approccio assistenziale che allontana la persona disabile dalla possibilità di co- struirsi un io autonomo svincolato dai propri punti di riferimento genitoriali o educativi. È una prospettiva, questa, che porta tanto i genitori, quanto gli stessi ragazzi con disabilità, a non poter adeguatamente affrontare il tema della ses- sualità, ovviamente argomento molto lontano dalla prospettiva assistenziale o dal registro attaccamento-accudimento su cui solitamente si fonda la relazione. Se dovessimo pensare alle relazioni educative tra persone disabili e i loro operatori, ma anche i loro familiari, osserveremmo come il registro maggior- mente attivo si rifaccia a dinamiche ed emozioni prototipiche di un sistema di attaccamento e accudimento, con un netto squilibrio di questo registro moti- vazionale rispetto all’attivazione di registri differenti. Il pietismo, l’assistenziali- smo, la costante cura divengono così i capisaldi della relazione interpersonale, allontanando la possibilità di costruire degli spazi di autodeterminazione e di autonomia. Proprio quell’«autonomia» che, paradossalmente, tanto si persegue all’interno di ogni progetto educativo in termini di singole abilità o competenze; in questo caso ci si dimentica come l’obiettivo ultimo non sia costruire un mansionario strumentale di competenze, ma formare una persona 64 Sessualità e disabilità intellettiva perché acquisisca le basi per sviluppare un’autonomia relazionale che, attraver- so degli spazi di autodeterminazione, gli consenta spazi soggettivi di maggior benessere e gratificazione. Del resto, pensare di essere abilitati attraverso dei programmi di intervento educativo, ma non poter poi spendere attivamente le autonomie acquisite poiché imbrigliati all’interno di dinamiche di dipenden- za, rappresenta una strada sicura verso vissuti di frustrazione. Ogni progetto educativo molto spesso mira ad abilitare nei termini di competenze e abilità che, tuttavia, all’interno delle relazioni che solitamente si costruiscono con le persone disabili, non possono poi essere spese, perché rappresenterebbero l’antitesi del rapporto fondato sulla dipendenza che caratterizza, spesso celato da un sistema di attaccamento-accudimento, la relazione tra disabile e caregiver. Paradossalmente, è lo stesso concetto di autonomia, tanto cercato dai ge- nitori, a creare ansia e apprensione, come se si volesse raggiungere un obiettivo ma, implicitamente, si sperasse che questo non venga mai raggiunto. Del resto, se in una relazione basata su dinamiche e tonalità emotive prototipiche di un sistema motivazionale attaccamento-accudimento ci si avvicina al disabile in modo ansioso e preoccupato, inevitabilmente anche la persona disabile non potrà che interiorizzare le stesse paure e le preoccupazioni vissute dal caregiver, in un circuito che si autoalimenta e che col tempo rafforzerà la stessa relazione disfunzionale, volgendo la relazione, da una modalità attaccamento-accudimen- to, a una di vera e propria dipendenza reciproca. Questo dato rappresenta un paradosso troppo poco problematizzato che, solitamente, inibisce la possibilità che ogni progetto educativo possa trovare piena realizzazione. Il pensare a una sessualità sostenibile nella disabilità inevitabilmente allenta questi presupposti relazionali basati su attaccamento-accudimento e dipendenza, a favore di processi di cooperazione in cui diminuiscano le quote di assistenzialismo. Come inserire la figura dell’assistente sessuale in una prospettiva così delineata? Personalmente non credo rappresenti, come già detto, una soluzione ottimale per un «problema», quello della disabilità, che inevitabilmente non può avere risposte tecniche e puntuali a una realtà che, per definizione, è esistenziale. Se la realtà problematica è esistenziale, la risposta al problema dovrebbe essere offerta non una tantum, al nascere di un bisogno, ma dovrebbe mirare all’obiettivo, più alto, di offrire al disabile gli strumenti necessari per poter cercare, dare e ricevere amore, affetto e intima vicinanza. Le difficoltà che la persona disabile vive sul versante sessuale, in- fatti, sono legate a problematiche educative e a costruzioni sociali che non gli consentono spazi di autodeterminazione e autonomia nel senso più ampio del termine. L’assistente sessuale in questo orizzonte è una risposta adeguata ma marginale, non certo sostanziale. La risposta più vera la si potrà trovare, certo La prospettiva degli educatori 65 con difficoltà maggiori, attraverso un processo complesso di presa di coscienza e di cambiamento sia nel processo educativo, sia nelle modalità attraverso cui vengono giocate le dinamiche relazionali con la persona disabile, processo in cui la parola autonomia possa diventare vero indicatore di senso di un cam- biamento individuale e sociale. Disabilità e educazione sessuale L’educazione sessuale rivolta a persone con disabilità intellettiva rappre- senta un ambito di conoscenza certamente difficile. Un terreno molto friabile in cui vanno a intersecarsi non soltanto discipline scientifiche, dalla pedagogia speciale, alla psicologia, alla medicina, ma anche gli aspetti valoriali individuali unitamente a contenuti etici e di matrice sociologica. Un concentrato di com- petenze e posizioni spesso difficilmente amalgamabili, in cui le divergenze appaiono spesso enormi e difficilmente sanabili. Rivolgendosi a un’utenza disabile, spesso l’educazione sessuale assume le sembianze di un «come se», andando ad affrontare tematiche di affettività senza che si entri nel cuore e nel vivo della materia, frenati dai deficit cognitivi dell’utenza cui ci si rivolge. Una buona educazione sessuale dovrebbe in primo luogo creare le condizioni di apertura e di disponibilità, onde potersi esprimere e parlare di alcune tematiche di cui spesso l’utenza disabile ignora completamente l’esistenza. Ciò è possibile solo attraverso un clima di vera disponibilità in cui si possa creare una solida attribuzione di senso e di significati sul sé, sul sé in relazione agli altri e sugli altri. L’obiettivo ultimo di ogni progetto educativo è tuttavia la possibilità di usufruire di quanto acquisito per potersi autodeterminare e vivere in modo più vero il senso della parola «autonomia». In questa direzione l’educazione sessuale dovrà allora preoccuparsi di far acquisire abilità e competenze che, attraverso un linguaggio chiaro e semplice, possano essere trasmesse — e vengano da essa acquisite — anche a un’utenza che presenta dei deficit di comprensione e astrazione. Talvolta in molti educatori si riscontra una forte resistenza quando si vuole toccare il tema della sessualità, come se venissero meno quelle barriere che pongono da una parte gli educatori, e dall’altra gli utenti con disabilità; pensare di vivere degli argomenti che accomunano en- trambi, con il loro carico emotivo, viene considerato da molti scelta ardua. Questo dato è ancora più forte quando il tema della sessualità apre conflitti o posizioni molto distanti tra gli educatori coinvolti nel processo educativo, come se esistessero posizioni corrette e altre sconvenienti. Infatti, dovrebbe essere chiaro che in un processo di educazione sessuale oltre a insegnare come si è Jacopo Murolo, Martina Marchi e Rossana Rossena CONOSCO IL MONDO CON LA LIS Attività e schede per l’arricchimento lessicale nella Lingua dei Segni Italiana Con il patrocinio di ENS I frutti del bosco Capitolo 5 54 © 2018, J. Murolo et al., Conosco il mondo con la LIS, Trento, Erickson I frutti del bosco LEGGO I frutti del bosco L’estate sta per fi nire, tra poco inizierà l’autunno. È il momento di raccogliere i piccoli frutti del bosco, maturati con il sole dell’estate. Una «caccia al tesoro» nascosto fra gli alberi, che diverte bambini e adulti. Nonno Leo, Ciro e il suo amico Marco camminano lungo il sentiero che conduce al bosco. I bambini conoscono bene quei luoghi, perché ci vengono fi n da quando erano molto piccoli. Ai lati del sentiero ci sono grandi cespugli di more, carichi di frutti scuri e lucidi, dalla polpa succosa e dolcissima. Ciro e Marco non possono fare a meno di assaggiarli, prima di iniziare a riempire i loro contenitori. La raccolta è soddisfacente, ma occorre fare molta attenzione ai rami spinosi. I lamponi crescono in un luogo più fresco, vicino a un ruscello. I loro frutti sono rosati e leggermente più aciduli delle more. Nonna Anna, la nonna di Ciro, ha raccomandato ai bambini di metterli in un contenitore separato, perché li userà per preparare un gelato e, se ce ne saranno a suffi cienza, per una crostata. Le piante dei mirtilli e le fragole preferiscono crescere nel bosco, tra ombra e sole. Le loro dimensioni sono più ridotte e bisogna chinarsi per raggiungere i piccoli frutti. «Guarda!» © 2018, J. Murolo et al., Conosco il mondo con la LIS, Trento, Erickson 57I frutti del bosco IMPARO Le stagioni nel bosco stagioni dentro bosco primavera neve sciogliere fi ori spuntare In primavera la neve si scioglie e spuntano i fi ori. estate frutti piccoli funghi avere In estate ci sono i piccoli frutti e i funghi. autunno legna raccogliere camino bruciare In autunno si raccoglie la legna per il camino. inverno uccellini aff amati mele portare In inverno si portano mele agli uccellini aff amati. 58 © 2018, J. Murolo et al., Conosco il mondo con la LIS, Trento, Erickson I frutti del bosco IMPARO Conversazione conversazione C-i-r-o ma segnare rami more spine dolcissime avere Le more sono dolcissime, ma hanno rami spinosi, segna Ciro. nonno funghi buoni velenosi distinguere Il nonno distingue funghi buoni e velenosi. noi preparare gelato domani mangiare Dopo prepariamo il gelato da mangiare domani. © 2018, J. Murolo et al., Conosco il mondo con la LIS, Trento, Erickson 59I frutti del bosco IMPARO Conversazione conversazione prima io gnomi paura Tra due settimane le castagne saranno pronte. Io avevo paura degli gnomi. prima due io settimane vipere sognare castagne piangere pronte Io sognavo le vipere e piangevo. marmellata noi provare gusto potere? Possiamo assaggiare la marmellata? Silvia Celentano e Alessandro Antonietti TRAINING METACOGNITIVO PER LA DISABILITÀ INTELLETTIVA Potenziare la comprensione e l’autoregolazione nei contesti quotidiani Bibliografia Albanese O., Doudin P.A. e Martin D. (2003), Metacognizione ed educazione: processi, apprendimenti, strumenti, Milano, FrancoAngeli. APA – American Psychiatric Association (1994), Diagnostic and statistical manual of mental disorders, 4th Edition, Washington (DC), American Psychiatric Publishing. 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Inserire le risposte nella tabella di raccolta dati. ❍ Ci vuole più tempo per fare i compiti o per cenare? ❍ È noioso fare i compiti dopo cena? ❍ Quante volte al giorno bisogna lavarsi i denti? ❍ Bisogna lavarsi i denti dopo aver fatto cosa? ❍ Per fare i compiti bisogna avere i denti puliti? 3C Dopo le domande, l’ordine cambia? «Ora che il tuo amico Detective ti ha aiutato a pensare, secondo te qual è l’ordine corretto delle scene?» Inserire la risposta nella tabella di raccolta dati. 3D Soluzione dell’indagine «Ecco l’ordine corretto delle scene!» Mostrare l’ordine corretto al bambino/ragazzo. Guida per l’operatore 45 4A Qual è la scena mancante? «Ora ti verranno mostrate la scena iniziale e quella finale di una storia. Osservale atten- tamente. Prova a indovinare cosa succede fra la prima e l’ultima scena.» Disporre la prima e la terza tavola dell’indagine sul tavolo. In mezzo disporre la tavola 2 coperta. Invitare il soggetto a descrivere la scena mancante e registrare la risposta nella tabella di raccolta dati. ? INDAGINE 4 SULL’AUTOBUS 2 1 ANNA ASPETTA L’AUTOBUS ED È CONTENTA, PERCHÉ STA ANDANDO A TROVARE LA SUA AMICA. INDAGINE 4 – Sull’autobus 76 L’autodeterminazione nelle persone con disabilità espressioni facciali, annotano il modo in cui fissa o seleziona gli oggetti e pongono attenzione alla quantità di tempo in cui rimane con un particolare oggetto in mano. Per effettuare questa osservazione hanno impiegato una scheda nella quale vengono distinti i comportamenti osservati dalle loro impressioni sugli stessi (si veda tabella 5.1). Dopo un certo tempo sono riusciti a delineare un quadro della situazione e, so- prattutto, a capire meglio alcuni messaggi significativi che, se adeguatamente educati e potenziati, potrebbero rappresentare degli strumenti comunicativi per aiutare Martina a prendere decisioni per giocare, mangiare, vestirsi e per le attività di igiene personale. Ecco un esempio di una valutazione effettuata dall’insegnante di sostegno. TABELLA 5.1 Scheda di valutazione delle preferenze. Comportamenti osservati, impressioni e considerazioni Allieva: Martina Osservatore: insegnante di sostegno Luogo dell’osservazione: aula di sostegno Attività: lavoro individualizzato di coordinazione oculo-manuale Durata dell’osservazione: 20 minuti Comportamenti osservati Impressioni e considerazioni Martina ha concluso un lavoro in classe e si è spostata con me nell’aula di sostegno. Le presento un gioco che prevede di inserire dei piccoli oggetti di forme diverse all’interno di specifiche fessure. Martina da sola non prende nessun oggetto; attendo un po’ di tempo, ma lei guarda fuori dalla finestra. Allora decido di sollecitarla porgendole un oggetto e stimolandola verbalmente. Mi guarda, ma non prende l’oggetto. Insisto con un altro di colore diverso. Accenna una smorfia con il viso e un vocalizzo. Le metto l’oggetto in mano e la aiuto a inserirlo nell’apposita fessura con un aiuto fisico. Guarda la sua mano, ma non mostra parti- colare reazione ai miei rinforzi verbali per essere riuscita nel compito. Cambio situazione e le fornisco una pallina da tennis chiedendo di lanciarla verso di me. Mi guarda e la lancia accennando a un sorriso e una vocalizzazione diversa da Non è interessata al gioco che le ho proposto. È infastidita dall’attività. È motivata da questo gioco. «Ascolto». Indagare gli interessi e le motivazioni personali 77 quella precedente. Dopo qualche scambio, mi metto vicino alla bambina e le mostro come lanciare la pallina cercando di colpire e abbattere un birillo (una clavetta). Anche in questo caso, dopo un paio di dimostrazioni, risponde alla sollecitazione prendendo la pallina e lan- ciandola, anche se la direzione del lancio è molto distante dal bersaglio. Decido di sospendere questa attività, anche se stava dando buoni riscontri, per passare a una proposta che sovente le viene presentata, relativa al colorare delle figure seguendo un modello. Manifesta subito, già dall’interruzione del gio- co precedente, dei vocalizzi simili al pianto e non appena le porgo i colori li scaraventa a terra. Insisto sollecitandola con voce calma e invece di tranquillizzarsi rompe il foglio con rabbia. Si tratta di una reazione inconsueta perché in altre occasioni il compito del colorare viene eseguito senza particolari comportamenti problematici. Quando un’attività le piace sospenderla per passare ad altro scatena reazioni irate. Osservazione sistematica delle preferenze Per indagare quanto certe situazioni e contesti siano graditi e motivanti per l’individuo possono essere predisposte anche forme di osservazione sistema- tica. Si tratta di una metodologia di valutazione molto conosciuta e applicata, anche con allievi affetti da disabilità intellettiva grave e autismo (Cottini, 2011; Cottini e Vivanti, 2013). Viene condotta attraverso schede di rilevazione nelle quali sono preselezionati i comportamenti che saranno oggetto di indagine, i quali vengono registrati sulla base di particolari parametri quantitativi: – la frequenza di comparsa di un determinato comportamento; – la latenza della risposta, che descrive il tempo che passa tra la comparsa dello stimolo e la risposta emessa dal soggetto; – la durata della risposta, che rappresenta il principale parametro temporale; – l’intensità della risposta (quando si dispone di strumenti per misurarla og- gettivamente); – la selezione della risposta, che illustra la scelta del soggetto quando sono offerte varie possibilità. La codifica della frequenza di emissione di certi comportamenti è sicura- mente il parametro al quale si fa più riferimento nell’osservazione sistematica, soprattutto in considerazione della sua facilità di rilevazione. Se paragonata all’osservazione descrittiva, questa modalità di analisi permette sicuramente una maggiore oggettività e un monitoraggio nel tempo 78 L’autodeterminazione nelle persone con disabilità dell’evoluzione degli atteggiamenti indagati. È anche alla base di progetti di ricerca sul soggetto singolo (Cottini, 2016), in quanto consente di effettuare misurazioni ripetute dei comportamenti oggetto di osservazione. Oltre ciò, le schede sono facilmente gestibili dagli educatori e possono essere utilizzate senza interferire con la conduzione dell’attività didattica prevista. Essendoci una preselezione dei comportamenti che saranno oggetto d’interesse, però, l’osservazione sistematica risulta meno naturale ed ecolo- gica dell’osservazione descrittiva, in quanto non consente di analizzare tutta la situazione che si presenta, ma soltanto quegli atteggiamenti dell’individuo definiti a priori. Nel box 5.2 viene presentata un’esemplificazione centrata sull’analisi dei comportamenti di motivazione e demotivazione associati alla frequenza di una serie di laboratori attivati in un centro socio-educativo. I grafici che seguono riportano l’esito della valutazione effettuata per sei osservazioni su ogni attività; in alto sono indicati i comportamenti che denotano la motivazione (comporta- menti A, B, C della tabella 5.2) e in basso quelli di demotivazione per l’attività (comportamenti D, E, F). Come si può notare, la cura degli animali è sicuramente l’attività che ri- scuote il gradimento superiore da parte dell’individuo, in quanto si associa al maggior numero di comportamenti di motivazione nelle sei osservazioni e a pochi di demotivazione. La situazione opposta si rileva per quanto concerne il giardinaggio (si vedano tabella 5.2 e figure 5.1 e 5.2 all’interno del box 5.2). Box 5.2 OSSERVAZIONE SISTEMATICA DELLA MOTIVAZIONE PER SPECIFICHE ATTIVITÀ Paolo è stato inserito da poco tempo in un centro socio-educativo per perso- ne adulte con disabilità. Ha 25 anni e presenta una diagnosi di autismo a bassa funzionalità con ritardo mentale medio-grave. L’équipe del servizio, per la predisposizione del progetto educativo, ha piani- ficato un assessment delle preferenze, oltre a una valutazione approfondita delle competenze e dei bisogni di sostegno. Le limitate capacità comunicative, con assenza del linguaggio verbale, e la tendenza alla ripetizione stereotipata di azioni motorie (saltellare battendo le mani di lato al viso) rendono difficile l’individuazione delle attività più gradite. L’assenza comunque di comportamenti aggressivi rilevanti — sia auto, che etero-diretti — ha reso possibile prevedere la frequenza di Paolo nei diversi la- boratori del centro, nei quali riesce a restare per un’ora circa. «Ascolto». Indagare gli interessi e le motivazioni personali 81 Assessment multistimolo Un’importante modalità di valutazione sistematica delle preferenze è rappresentata dall’assessment multistimolo (Cooper, Heron e Heward, 2007), attraverso il quale è possibile determinare una gerarchia di oggetti o situazioni che riscuotono apprezzamento da parte dell’individuo. In questo caso non vengono proposti uno stimolo o un’attività per appurare i comportamenti conseguenti della persona, ma si opta per la presentazione simultanea di due o più compiti e situazioni diversi, con il fine di verificare quelli che vengono scelti con maggior frequenza ed eseguiti per tempi superiori. Nell’appaiamento di una serie di stimoli a due a due (paired-task pre- ference assessment) si cerca di forzare la scelta della persona su un elemento della coppia. Con presentazioni successive ogni elemento viene accoppiato con tutti gli altri, in modo da appurare quello o quelli che vengono selezionati più fre- quentemente. Questa metodologia, utilizzata in vari studi (per una rassegna si veda Parsons, Reid e Green, 2001), ha dimostrato alcuni limiti connessi soprattutto al tempo necessario per arrivare a una definizione dei compiti maggiormente graditi, in considerazione delle numerose associazioni a due a due da prevedere (Hagopian et al., 2001). Un’evoluzione — utilizzata molto con i bambini nella selezione dei rinforzatori e giochi più graditi — è rappresentata da situazioni con un nu- mero superiore di stimoli, nelle quali si alternano tre o più oggetti oppure attività diverse fra le quali la persona può selezionare la preferita; in seguito si modifica la situazione in modo da presentare in successione abbinamenti di tutte le attività previste. Possono essere predisposte due diverse varianti: con e senza sostituzio- ne. Nella prima, quando l’individuo seleziona un elemento, tutti gli altri che sono stati presentati insieme vengono cambiati nella situazione successiva, come nell’esempio descritto nel box 5.3. Nella condizione senza sostituzione, invece, dopo la prima scelta ne ven- gono richieste altre fra gli elementi restanti, senza nuovi inserimenti di item. Le procedure di assessment multistimolo sono state utilizzate in varie esperienze riferite anche all’orientamento lavorativo, con soggetti affetti da disabilità intellettiva grave e autismo (Lattimore, Parsons e Reid, 2003), evi- denziando una buona capacità di mettere in evidenza i compiti professionali maggiormente motivanti e significativi per le persone. Nel box 5.3 è illustrata un’analisi riferita alle preferenze nei giochi di un bambino con autismo nella scuola dell’infanzia. 82 L’autodeterminazione nelle persone con disabilità Box 5.3 ASSESSMENT MULTISTIMOLO Federico è un bambino di 5 anni che frequenta la scuola dell’infanzia. Ha una diagnosi di autismo a basso livello di funzionalità. Non parla e se ne resta per quasi tutto il suo tempo appartato a ruotare degli oggetti davanti al viso, guardandoli di traverso. È molto complesso coinvolgerlo in attività didattiche, anche di tipo ludico, ad eccezione delle situazioni di insegnamento strutturato al tavolo, che svolge con il suo insegnante di sostegno. In questi momenti l’insegnante cerca di promuovere anche una valutazione delle preferenze, con la prospettiva, in seguito, di attivare interazioni con i com- pagni partendo dalle attività che risultano per lui più motivanti. Viene predisposto un assessment multistimolo considerando i giochi e le situazioni ludiche che solitamente vengono proposti. L’insegnante mette sul tavolo le bolle di sapone, un puzzle e una palla. Mostra al bambino come si gioca con i tre oggetti e impedisce, fino alla conclusione della dimostrazione, di prendere gli oggetti. Una volta completata la presentazione invita Federico a prendere un oggetto e lascia che lo manipoli per un breve tempo, al fine di appurare se la scelta è reale, oppure se il bambino cambia orientamento, senza esprimere una preferenza decisa. In seguito ripete la dimostrazione per altre due volte, invertendo la successione dei giochi, in modo da escludere la possibilità di scelte fatte in relazione alla posizione (ad esempio: sempre il primo o sempre l’ultimo). Il bambino in tutte le tre situazioni sceglie le bolle. A questo punto si passa a una seconda presentazione nella quale le bolle sono associate ad altri due giochi. Le immagini che seguono riportano l’organizzazione delle situazioni dell’asses- sment multistimolo. «Ascolto». Indagare gli interessi e le motivazioni personali 83 Dall’analisi delle scelte sviluppate in almeno due situazioni su tre di ogni presentazione, l’insegnante individua chiaramente le preferenze di Federico, che riguardano le attività legate alle costruzioni e alle bolle di sapone. Insieme ai colleghi programma delle situazioni con due bambini e con piccoli gruppi nei quali far interagire Federico, chiaramente con il suo stimolo e supporto. Valutazione interattiva Oltre alla predisposizione di situazioni con vari stimoli, è sicuramente utile e interessante ricorrere a modelli interattivi di valutazione. Operati- vamente si tratta di organizzare delle attività nel contesto naturale di vita
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