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"Profilo linguistico dei dialetti italiani" - Loporcaro, Sbobinature di Storia della lingua italiana

Riassunto del saggio "Profilo linguistico dei dialetti italiani" di Loporcaro

Tipologia: Sbobinature

2021/2022

Caricato il 14/11/2023

Marinauttaro
Marinauttaro 🇮🇹

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Scarica "Profilo linguistico dei dialetti italiani" - Loporcaro e più Sbobinature in PDF di Storia della lingua italiana solo su Docsity! Profilo linguistico dei dialetti italiani – Michele Loporcaro 1. La classificazione dei dialetti d’Italia Cenni di storia della questione La classificazione scientifica dei dialetti italiani inizia con l’articolo “L’Italia dialettale” di Ascoli (1882-85). Già Dante aveva dato una sua classificazione nel De vulgari, in cui divide la penisola in dodici aree “dialettali”, sei a destra e sei a sinistra degli Appennini. Ma si tratta di una divisione fondata su base geografica, non linguistica. Lo spartiacque appenninico resta l’asse portante della classificazione di Fernow, che propone alcuni tratti linguistici come caratterizzanti di piccole aree:  Ricorrenza di [ø y] per i dialetti del Nord-Ovest  Passaggio -nd- > [nn] per quelli meridionali. Alla dimensione geografica si aggiunge quella storica con Biondelli (1856), che suddivide i dialetti italiani in sei famiglie: carnica, veneta, gallo-italica, ligure, tosco-latina e sannitico-iapigia; ispirate ai popoli dell’Italia antica ma non sostanziate da riferimenti linguistici. La novità costituita da Ascoli sta nel fissare un modello per cui la classificazione tiene conto non solo di geografia e storia, ma anche di fenomeni linguistici. È con Ascoli che le isoglosse diventano l’architrave della classificazione. E poiché il metodo all’epoca era quello di linguistica storica, ovvero puntata ad osservare un mutamento nel tempo, ne consegue che le isoglosse, i fatti linguistici considerati, fossero tutti diacronici. Ma a questa prospettiva diacronica se ne aggiunge una sincronica. La distanza in diacronia dal latino degli altri sistemi è automaticamente anche una distanza sincronica dal toscano. Ascoli definisce i raggruppamenti dialettali con un procedimento centripeto:  Dialetti che dipendono da sistemi neo-latini non peculiari all’Italia (provenzale, franco-provenzale e ladino)  Dialetti che si distinguono dal sistema italiano vero e proprio, ma non rientrano in alcun sistema linguistico estraneo (gallo-italico e sardo)  Dialetti che possono formare un sistema di dialetti neo-latini assieme al toscano (veneziano, dialetti centro-meridionali, còrso)  Toscano. Le classificazioni successive mantengono tutte quante la centralità del toscano, ma divergono in tutto il resto. La collocazione del Veneto con il toscano, e non con i dialetti gallo-italici, non si è imposta. Il primo a rigettare l’idea fu Merlo, e sempre lui, vede il sardo come un ramo autonomo della famiglia romanza, non assimilabile al gallo italico perché strutturalmente diverso. Un altro problema è decidere quali, fra i dialetti parlati su suolo italiano, debbano essere considerati alloglotti. L’Ascoli include nella stessa categoria i dialetti gallo-romanzi e il ladino. Ma al ladino molti disconoscono il valore di unità classificatoria. Ai margini dell’Italo-Romània: le varietà alloglotte Le parlate alloglotte in Italia si possono considerare dialetti romanzi e non. Fra gli ultimi abbiamo i dialetti tedeschi parlati in Alto Adige/Sudtirol che rientrano nei dialetti tirolesi e sono in rapporto col tedesco standard come lingua tetto. Di provenienza bavarese sono le enclaves tedesche del Trentino e del Veneto. Sono di origine alemanna le colonie walser, frutto dell’immigrazione dall’Alto Vallese (Svizzera) fra i sec. XII e XIV, disposte tra la Valle d’Aosta e Piemonte. Dialetti carinziani si parlano in Carnia, provincia di Belluno, e in provincia di Udine. Ad est di quest’ultima località iniziano i dialetti sloveni, lungo il confine delle province di Udine, Gorizia, Trieste. Si parlano dialetti croati in Molise, pochi resti di un’area più ampia, frutto dell’immigrazione avvenuta fra XV e XVI sec. a causa della conquista ottomana. Dialetti greci persistono in due zone del Meridione: la Grecia salentina, a sud-est di Lecce; e quella calabrese, ristretta ad alcuni centri nell’Aspromonte. Merlo indica tra i 23.000 e 11.000 parlanti rispettivamente. Negli ultimi decenni del Novecento la situazione è cambiata: nella Grecia calabrese Martino stima un massimo del 10% di parlanti grecofoni. La consistenza demografica della Grecia salentina è maggiore. Abbiamo poi isole alloglotte albanesi, nell’area centro-meridionale dall’Abruzzo alla Sicilia. Si stimano circa centomila parlanti albanesofoni, con una complessiva riduzione per assorbimento. Varietà alloglotte gallo-romanze, franco-provenzali e provenzali, si parlano al confine nord-occidentale, in continuità territoriale con le aree corrispondenti in territorio francese e svizzero. L’area franco-provenzale riguarda la valle d’Aosta e la parte adiacente del Piemonte occidentale. Altra colonia romanza è Alghero, dove si parla catalano come prodotto della conquista aragonese dell’isola (conquistata nel 1354). C’è poi una serie di colonie gallo-italiche in Italia Meridionale, frutto di migrazioni in età normanna, la cui origine si può localizzare in area ligure-piemontese-alessandrina. La questione ladina Una volta escluse tutte queste varietà, i problemi di classificazione si riducono a questioni interne all’Italia, tranne uno. È il caso del ladino, cui viene attribuito uno statuto diverso nelle varie classificazioni. Ascoli definì un’unità ladina divisa in tre aree geografiche discontinue: ad est il friulano, al centro il ladino dolomitico, ad ovest il romancio. Due di queste tre aree oggi sono italiane in senso politico-amministrativo, ma solo il friulano ha un rapporto con l’italiano come lingua tetto. Le valli grigionesi sono orientate sull’area germanica, e anche il ladino altoatesino è in parte orientato culturalmente in senso tedesco. Questi motivi spingono Pellegrini a non riconoscere un’unità ladina, isolando il friulano come uno dei “cinque sistemi dell’italo-romanzo” da lui definiti e distinguendolo dal ladino centrale e dal romancio grigionese. A sostanziare l’unità ladina si adducono una serie di tratti strutturali:  Il mantenimento dei nessi latini di consonante + -L- friul. [klaːf] “chiave”, [floːr]. Garden. “fiore”, [flɔk] “fiocco”  Il mantenimento di -S finale nella flessione nominale e verbale Friul. [tu tu dwarmis] “tu dormi”, [maɳs] “mani”, [paris] “padri”; fass. [tu te pauses] “ti riposi”; garden. [kúəges] “cuochi”  Il mantenimento della forma nominativale dei pronomi di I e II persona ego e tu Friul. [jɔ tu]; fass. [ǧe/je tu] Chi accetta questa argomentazione colloca il ladino fra le aree alloglotte, al pari di occitano e provenzale. Da parte degli oppositori si fa valere il fatto che in nessun caso si tratta di innovazioni comuni che permettano di stabilire un’unità classificatoria distinta e indipendente dall’italo-romanzo: si è invece di fronte alla conservazione in aree periferiche di tratti che in fase medievale erano comuni anche ai dialetti Y e a ɛə iə fryttə reccə rettsə verdə jammə nɛəttə šorǧə oɲɲə ssiəɈɈə frutto orecchio rete verde gamba notte topo unghia lesina alcune vocali hanno esito diverso in sillaba aperta e in sillaba chiusa. Ma a ciò si aggiunge una serie di mutamenti che hanno labializzato le vocali alte e medio-basse anteriori: ī > [y]; ĕ > [ø]. E palatalizzato le posteriori: ū > [i], ŏ > [e]. tuttavia, al di sotto di questi mutamenti si riconosce anche uno sviluppo di tipo romanzo comune, data la confluenza in un identico esito di ĭ ed ē, ŭ e ō. La simmetria fra queste fusioni timbriche, nel ramo palatale e velare, non si riscontra nel rumeno, il cui sistema vocalico presuppone la confluenza in /e/ degli esiti di ĭ e ē ma non quella di ŭ e ō. Nel ramo velare si è avuta una confluenza di ō e ŏ in /o/ e di ū e ŭ in /u/. Fra i dialetti italiani, un sistema simile a quello rumeno si ritrova in un’area lucana a nord del fiume Agri, il dialetto di Castelmazzano (prov. Di Potenza): iː i eː e a o oː u uː I e a o U fiːlə seːtə seːra meːlə aːkə koːrə soːlə vuddə muːrə filo sete sera miele ago cuore sole bolle muro l’esistenza di un vocalismo simile a quello rumeno in quest’area è stata descritta per la prima volta da Lausberg, che osservò come a pochi chilometri di distanza si trovassero concentrati, nell’area di confine calabro-lucana, sistemi vocalici fondamentalmente diversi. Poco più a sud della zona che presenta vocalismo rumeno, in un’area tra la Lucania meridionale e la Calabria settentrionale, Lausberg constatò la presenza di un sistema vocalico di tipo sardo. Quanto alla rilevanza dei sistemi vocalici tonici per la classificazione dialettale, finora le distinzioni emerse sono quelle fra sistema sardo, rumeno, e resto dell’Italia continentale non suddivisa al suo interno, in quanto il sistema romanzo comune è alla base di ogni sviluppo ulteriore nei dialetti alto-italiani, toscani, mediani e alto-meridionali. Resta escluso il meridione estremo: a sud le due aree fra la Lucania e la Calabria, rumena e sarda, inizia in Calabria centro-settentrionale il territorio dei dialetti meridionali estremi, contraddistinto dal vocalismo tonico di tipo siciliano: iː i eː e a o oː u uː ɪ ɛ a ɔ ʊ fɪːlʊ nɪːvɪ tɪːla pɛːdɪ kaːsa kɔːrɪ vʊːčɪ nʊːčɪ mʊːrʊ filo neve tela piedi casa cuore voce noce muro questo sistema è ritenuto da alcuni uno sviluppo indipendente all’origine, sullo stesso piano di quello sardo e rumeno. Più probabilmente, come afferma Fanciullo, lo si deve considerare uno sviluppo ulteriore del sistema romanzo comune, incentivato nell’alto medioevo dal contatto col greco bizantino. Lo stesso sistema si trova nel Cilento meridionale. Una situazione ancora diversa si ha in una fascia di territorio intermedia, individuata sempre da Lausberg e da lui definita “marginale”, inizia da est abbracciando Brindisi e Ostuni, occupa il Salento settentrionale e prosegue in Lucania orientale e settentrionale: iː i eː e a o oː u uː I ɛ e a O ɔ U Il sistema marginale è frutto di riassestamenti relativamente recenti, le spiegazioni dei quali divergono: per Lausberg e Parlangèli si tratterebbe di un’area originariamente a vocalismo napoletano (quindi panromanzo) modificata per contatto col sistema siciliano; secondo Franceschi e Barbato doveva aversi in questa zona originariamente il vocalismo siciliano, sul quale il tipo napoletano avrebbe influito determinando un riaggiustamento parziale. Una stessa vicenda è stata ipotizzata per il sassarese e per i dialetti della Corsica sud-occidentale, il cui sistema è stato analizzato come risultato della sovrapposizione del dialetto toscano ad un sistema originariamente di tipo sardo. Anche qui si è avuta l’inversione delle vocali medie: iː I eː e a o oː u uː I ɛ e a o ʊ U amigu pɛlᵊ pezu pedi akkwa jogu nipotᵊ a grɔčᵊ ɈunɈᵊ amico pelo peso piedi acqua gioco nipote la croce giugno fra i mutamenti che hanno colpito le vocali toniche sono importanti l’allungamento di sillaba aperta accentata e la metafonia, ovvero l’alterazione di una vocale tonica per effetto d’una vocale seguente (spesso la finale). Entrambe si verificano prima come processi allofonici: l’allungamento di sillaba aperta (per cui si ha [kaːsa] accanto a [kassa] che mantiene la breve) rimane allofonico nel toscano, in varietà meridionali e nel sardo; nel tardo logudorese resta come processo allofonico la metafonia ([bɛndzɔ] “vengo” diverso da [béːnizi] “vieni”), che invece nei dialetti sia settentrionali che meridionali si morfologizza. Vocali atone finali Gli sviluppi delle vocali atone di sillaba finale costituiscono isoglosse cruciali per la suddivisione delle aree. Il tipo più conservativo è quello dell’area mediana e del sardo logudorese, in cui si conservano tutti e cinque i timbri vocalici originari. Il sistema toscano è caratterizzato dalla fusione di -u ed -o finali in -o e dal mantenimento della distinzione tra i e -e. I dialetti settentrionali hanno subito la cancellazione delle vocali finali non basse: fanno eccezione il ligure e il veneto centrale che mantengono quattro vocali finali distinte. Molto ridotto è il tipo meridionale, dove si registra una generale neutralizzazione di tutti i timbri vocalici in [ə], anche se ci sono alcune aree conservative che prendono un sistema atono finale a due o a quattro vocali. Il meridione estremo è contrassegnato dall’innalzamento di -o finale ed [u] mentre l’innalzamento parallelo di -e > [i] si riscontra ovunque tranne che nel Salento centrale e in area cosentina. Fuori da questa classificazione rimangono quelli che hanno portato all’instaurazione di sistemi secondari come quelli che hanno portato all’instaurazione di sistemi di armonia vocalica, che portano la vocale finale ad uniformarsi alla vocale tonica o ad un altro segmento precedente. Nell’italo-romanzo settentrionale, questi sviluppi, possono riguardare l’unica vocale conservata ovunque, ovvero -a. Dialetti toscani A sud della linea La Spezia-Rimini abbiamo il tipo dialettale toscano, suddiviso in: fiorentino, senese, toscano occidentale, aretino-chianaiolo, grossetano-amiatino (divisione di Pellegrini). Il toscano ha un posto centrale nella storia linguistica d’Italia per le ovvie ragioni storiche: oltre la sua posizione geograficamente intermedia, è anche per molti aspetti strutturalmente più conservativo rispetto agli altri dialetti. La non condivisione dei tratti innovativi dialettali portava Ascoli a definire il toscano principalmente per via negativa. Tratti caratteristici dei dialetti toscani sono:  Convergenza di -u e -o finali latine in -o Buono < bonum; lupo < lupum, dormo < dormo, quando < quando  La dittongazione di ĕ e ŏ toniche latine ( > [jɛ - wɔ]) in sillaba aperta accentata. Questa regola è passata allo standard quando il fiorentino nel Medioevo, la presentava sia per ĕ che per ŏ. Successivamente poi [wɔ] si è monottongato a Firenze e nel resto della Toscana: buono < bòno. Il dittongo [jɛ] invece è rimasto ed è esteso a Lazio, all’Umbria e alle Marche.  Lo sviluppo di -ri- in [j] Cuoio < corium; aia < arenam Anche questo fenomeno si estende all’intera Umbria, in contrasto con tutto il resto della penisola in cui da -ri- si ha -r-. In particolare, la dittongazione di ĕ e ŏ ha offerto vari spunti di riflessione. Il condizionamento metafonetico dimostrato dall’aretino antico è stato utilizzato da Schurr per sostenere che la dittongazione toscana non fosse in origine condizionata dalla sillaba aperta, bensì dalla vocale finale. Ne verrebbe che la dittongazione che il fiorentino, con la maggior parte del toscano, mostra sin dalle origini sarebbe il frutto di un riaggiustamento successivo, con estensione analogica dei dittonghi, mentre forme non flessive come “bene, nove” in cui il dittongo manca, sarebbero traccia dell’assetto originario. Castellani ha confutato l’ipotesi di Schurr. Quanto ai “bene, nove”, la mancata dittongazione sarebbe dovuta al loro ricorrere generalmente in posizione finale (protonia sintattica). Inoltre, “biene, nuove” sono comunque attestati nel Medioevo in alcune varietà. Secondo Castellani quindi ad Arezzo non si conserva uno stadio paleotoscano, ma semplicemente una varietà differente. Caratteristiche dialettali diffuse in Toscana e passate allo standard:  Doppia forma dell’articolo determinativo masch. Sing. “il cane/lo specchio”, con alternanza regolata dalla struttura sillabica (il davanti a consonante semplice e a nessi consonantici tautosillabici, “lo” altrove). Mentre i dialetti meridionali conoscono solo il tipo “lo” Ci sono inoltre alcune caratteristiche del fiorentino che lo distinguono dalle altre varietà toscane, e che sono passate all’italiano standard:  Passaggio di -ar- atono a [er] Laverà < lavare + hat; margherita < margaritam)  L’anafonesi: ovvero lo sviluppo in [i u] di [ĭ ŏ] davanti ad alcune consonanti o nessi consonantici. Si ha [i] davanti alle palatali [ɲɲ] < -ni-, [ʎʎ] < -li- (patrigno, tiglio); a [ŋ] + cons. (lingua, vincere); meno regolarmente davanti a [skj] (fischia). Si ha [u] davanti a -ng-: fungo, unghia.  Nella morfologia abbiamo la generalizzazione della desinenza di I plur. -iamo a tutte le coniugazioni, compiutasi fra due e trecento a Firenze, mentre nel resto della Toscana, almeno nei dialetti rustici, mantiene gli originari “cantamo, vedemo, sentimo”. Caratteristico dei dialetti toscani, tranne il lucchese e l’aretino, è:  Raddoppiamento fonosintattico causato da ogni vocale finale tonica. Nel resto dell’Italia a sud della linea La Spezia-Rimini e in Sardegna, il raddoppiamento fonosintattico è provocato soltanto da parole il cui etimo latino terminava in consonante. Ci sono numerose differenze tra il fiorentino e l’italiano comune. Per la maggior parte sono dovute a evoluzioni dialettali successive. È il caso dei clitici soggetto “te tu dici” con [te] pronome tonico e [tu] il clitico.  Assimilazione dei nessi -nd-, -mb- >[nn mm] Il fenomeno oggi tocca l’intero centro-meridione con l’esclusione della Calabria centra e meridionale e dell’angolo nord-est della Sicilia. L’area mediana dovette essere, in passato, interessata per intero dal fenomeno, ma oggi ne è esclusa l’Umbria settentrionale.  Sonorizzazione delle consonanti sorde dopo nasale: [kambə] “campo”, [sandə] “santo”. Fenomeno meno esteso; raggiunge a nord la linea Roma-Ancona, e a sud arriva al Tarantino e tocca i dialetti dell’estrema fascia settentrionale della Calabria.  Palatalizzazione di -mi- > [ɲɲ]: [venneɲɲa] “vendemmia”. Abbraccia tutto il Lazio e l’Umbria. Diffusi sono altri esiti dei nessi con -i-; in particolare -ri- > [r] (-arium > [-aro]). Altri più estesi sono - pi- > [čč] (saccia < sapiat)  Assenza del raddoppiamento fonosintattico condizionato dall’accento, ma ricorre il raddoppiamento fonosintattico prodotto dall’assimilazione d’una consonante originariamente finale.  Si conserva un sistema del dimostrativo a tre gradi, o comunque si hanno tracce di una conservazione. Alle forme eccu+illum (quello), ed eccu+istum (questo), si aggiungono eccu+ipsum. In tutto il Salento il sistema è diventato binario, e prevalgono generalmente le forme da istum.  Nella morfologia del nome è diffusa la presenza di plurali maschili in -a più largamente che nel toscano: [u muːru/i muːra] “il muro/i muri”.  Ricorre anche il plurale in -ora, scaturito dalla rianalisi tempr-a > temp-ora: sic. [jɔːkira] “i giochi”.  In ambito sintattico accomuna i dialetti il marcamento preposizionale dell’oggetto diretto: [sɔ vvisto essa] “ho visto lei”. Tratti meridionali  Convergenza degli esiti di -pl- e -cl- in [cc], che riguarda i dialetti dal Lazio meridionale e dall’Abbruzzo alla Sicilia. Napo. [caɲɲə] “piange”, [cavə] “chiave”  Nel Lazio meridionale fino alla Sicilia abbiamo la riaccentazione nelle sequenze di due enclitiche: [piʎʎatellə] “pigliatelo”  Nel paradigma verbale è assente in generale il futuro sintetico sostituito da perifrasi analitiche del tipo “ho a /da” + infinito. Il futuro però originariamente c’era, come è dimostrato dalla ricorrenza nei testi antichi.  Anche il congiuntivo è generalmente sparito, sostituito dal presente indicativo nelle dipendenti e dall’imperfetto congiuntivo nelle principali: [nuɱ vɔjo ke riːdi] “non voglio che tu rida”. Del paradigma del congiuntivo presente si hanno sparsi alcuni resti, generalmente nelle III persone.  Tratto sintattico diffuso nel Meridione è l’avanzamento dell’oggetto diretto clitico a oggetto diretto: napol. [čə/o dummannajə] “gli/lo chiese”  Sempre di tutto il meridione è la costruzione con “a” in dipendenza da nome di parentela usato predicativamente, oggi meridionale ma non mediana.  Dell’intero meridione è anche la collocazione dei clitici pronominali sul verbo modale e non sull’infinito Napol. [nunn o ppɔttsə fa] “non lo posso fare].  Così come c’è la proclisi all’infinito dove nello standard abbiamo un’enclisi: [aǧǧa rəčiːsə r o ffa] “ho deciso di farlo”. Caratteri mediani e alto-meridionali  Sistema vocalico originariamente a sette fonemi tonici che il Meridione estremo ha ridotto a pentavocalico. Si tratta però di una condizione di partenza su cui poi si sono innestati dei cambiamenti.  Metafonesi di ĕ e ŏ toniche, e si aggiunge ora la metafonesi /e o/ protoromanze, ricorrente in tutta l’area mediana e alto-meridionale  Apocope della desinenza dell’infinito. Non raggiunge il Salento e la Calabria centro-meridionale.  Nel consonantismo è regolare nell’area mediana l’assimilazione -ld- > [ll], parallela alle assimilazioni -nd-, -mb-, anche se geograficamente meno estesa  Nella morfologia è importante la presenza d’una distinzione maschile/neutro, realizzata in modi diversi. In area mediana viene realizzata con l’opposizione nel vocalismo finale tra [-u] ed [-o], che permette di distinguere fra sostantivi numerabili (maschili) e non numerabili (neutri): aquil. [ju kavallu/račču] “il cavallo/braccio” è diverso da [lo frišku/pa/raːnu] “il fresco/pane/grano”. Questa opposizione ha origine nel sistema dell’articolo. In diversi dialetti dell’area si è poi estesa all’aggettivo e al nome: macer. [lu škuːru/feːru] “l’oscurità/il ferro”. Quest’opposizione non si è mai verificata nell’alto meridione, dove le vocali finali sono neutralizzate in [ə]. Qui l’opposizione tra maschile e neutro si manifesta solo nell’articolo determinativo, che può avere forme distinte e provocare o meno il raddoppiamento fonosintattico. Nel neutro il raddoppiamento è causato dall’assimilazione della -c finale di illoc. Nel maschile illum invece la -m è scomparsa e basta.  Distinzione di tre gradi di vicinanza non solo nel dimostrativo ma anche nell’avverbio deittico di luogo e di modo.  Oscillazione di essere/avere come ausiliari nei tempi composti  Conservazione dell’accordo participiale al di là delle condizioni toscane, in particolare con l’oggetto diretto non clitico nei costrutti transitivi. Altre caratteristiche diffuse: molti tratti della sintassi si estendono a gran parte del Centro-Meridione ma senza coincidere con i confini delle tre sub-aree:  La posposizione del possessivo come ordine normale “l’amico mio”  Forme enclitiche del possessivo con i nomi di parentela [fratəmo] Area mediana L’area mediana in senso lato include l’Argentario e l’estremo lembo meridionale della provincia di Grosseto, per poi proseguire il confine tra Toscana e Umbria e di lì piegare a est, in territorio marchigiano. In un senso più restrittivo ha per confine nord-ovest il corso del Tevere, abbracciando le porzioni di Lazio e Umbria ad est di esso e poi, nelle Marche, il Maceratese e il nord della provincia di Ascoli Piceno fino all’Aso, con esclusione della provincia di Ancona. Questa definizione più restrittiva accetta il valore di confine linguistico alla linea Roma-Ancona. L’area mediana propriamente detta conserva:  La distinzione fra -u e -o finali latine  Sulla distinzione fonetica tra [-o] e [-u] si innesta l’opposizione di genere maschile/neutro  Per la morfologia si ha la forma di III plurale non epitetizzata [vinnu] “vendono”  Diversamente dall’area mediana propriamente detta, quella perimediana presenta confluenza di -o come in Toscana.  L’area perimediana si caratterizza anche per la grande quantità di esiti che si irradiano dalla Toscana: esito -ri- > [j], nell’Urbinate e nel Viterbese; e la ricorrenza dell’articolo determinativo maschile singolare di forma debole,, con alternanza come nel toscano  Nel vocalismo la palatalizzazione -a- > [ɛ] in sillaba aperta [kɛno] “cane”  Nel vocalismo atono, penetrano nell’Umbria settentrionale l’indebolimento e la caduta delle vocali protoniche: [katənaččo] “catenaccio”, [tlɛo] “telaio”  Tratto che penetra dal settentrione è la degeminazione, dove rimane soltanto [ss] [grɔssu] “grosso” di contro a [capɛːlo] “capello” Alto meridione Al confine orientale dell’area mediana inizia il territorio dei dialetti alto-meridionali, che ha per limite sull’Adriatico il corso dell’Ao e prosegue includendo l’Abbruzzo e il territorio laziale ad est e a sud di Frosinone. Il confine sud dell’area alto-medievale è la Calabria, mentre nel Salento il confine inizia subito a sud di Taranto sullo Ionio e raggiunge Ostuni sull’Adriatico. Inoltre, include per intero le regioni Molise, Campania e Basilicata. I principali fasci di isoglosse non seguono i confini regionali/provinciali. Importanti demarcazioni interne all’Alto-Meridione sono le linee Cassino-Gargano, ed Eboli-Lucera, che concorrono ad individuare un’area campana centrale imperniata sul napoletano. La prima linea segna il confine meridionale di alcuni fenomeni che dall’area mediana scendono attraverso l’Abbruzzo e Molise fino al Gargano:  -si- > [š] [kaːšə] “cacio” < caseum  -ni-/-vi- > [j] [raːjə] “rabbia” < rabiam  Palatalizzazione di [s] davanti a dentale [šta] “sta” Di contro agli esiti [kaːsə], [raǧǧə], [sta] a sud della linea La linea Eboli-Lucera marca invece il limite sud-orientale di peculiarità foniche campane, delimitandole rispetto al tipo lucano. A sud-est di tale linea si hanno dunque esiti come:  -ci- > [tts] [fattsə] “faccio” < facio  -ll- [dd] [kuddə] “quello”  Mantenimento della forma del clitico pronominale di I plur. [nə] “ci” < nos Sostituito più a nord dal tipo [nǧə] < hince Nel vocalismo tonico, l’intero territorio alto-meridionale è caratterizzato dalla metafonia, che in aprte dei dialetti di Marche, Abruzzo e Lazio è prodotta soltanto da -ī. Nel Gargano si incontrano anche numerose varietà in cui la metafonesi oscilla o è del tutto assente. Dopo la metafonia sono intervenute in molti dialetti numerose alterazioni della vocale tonica in sillaba aperta che hanno determinato una sistematica differenziazione degli esiti vocalici secondo il contesto sillabico:  Palatalizzazione di -à- in sillaba aperta, che interessa gran parte dei dialetti pugliesi e le zone adiacenti di Lucania e Molise. [kɛis] “casa”, [pɛin] “pane” Si tratta però di un complesso di fenomeni molto vario nelle manifestazioni:  Il sistema vocalico del dialetto abruzzese di Popoli distingue gli stessi sette fonemi dell’italiano /i e ɛ a ɔ o u/, ma presenta anche due serie di dittonghi metafonetici: [jɔ wɔ] in sillaba chiusa, [oi iu] in sillaba aperta.
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