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Programma 5 anno italiano, Appunti di Italiano

documento dettagliato di tutti gli autori del quinto anno di scuola superiore

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 22/01/2022

alice.corvaglia
alice.corvaglia 🇮🇹

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Scarica Programma 5 anno italiano e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! LA SCAPIGLIATURA Dopo la morte di Leopardi le sue poesie vengono apprezzate ed imitate, ma non viene apprezzato pienamente, i poeti prendono solo alcune delle scene che egli descrive, si ha quindi, nel secondo Ottocento, una poesia banalizzata. È considerata una poesia musicale, basata sulle sensazioni; essa non deve insegnare qualcosa, non vi è più la figura del poeta ‘vate’, egli non ha più qualcosa da insegnare. Nel secondo ottocento italiano vennero meno in poesia l’ideologia e la sensibilità romantiche, scadute ormai, almeno in Italia, in un sentimentalismo estenuato. Contro questa tendenza sorse il movimento della Scapigliatura, influenzato dai bohemien, artisti parigini che facevano della ribellione il loro stile di vita; il movimento fu attivo tra il 1860 e il 1890, soprattutto a Milano e a Torino. Gli scapigliati vollero qualcosa di nuovo, non la poesia retorica. Presero di mira la società borghese e vollero smascherare i Borghesi, secondo loro falsi e sfruttatori. La scapigliatura piemontese si distinse dalla Bohème milanese per la ricerca di modalità espressive nuove, talora violente. Gli scapigliati costituivano un gruppo di artisti spesso accomunati da atteggiamenti trasgressivi e provocatori. Gli scapigliati espressero un netto rifiuto del Romanticismo italiano; i motivi di questa scelta sono da ricercarsi nelle condizioni storico-politiche della penisola italiana. L'Italia scontava una notevole arretratezza economica e sociale e una mancanza di unità territoriale e politica, fattori che avevano favorito l'affermarsi di motivi romantici quali l'amor di patria e la libertà. Dopo l'unità, tuttavia, furono gli scapigliati a dar voce alla delusione seguita al disagio verso le forme della modernità. Sul piano letterario, il movimento riconosceva come maestri scrittori stranieri Hoffman e Baudelaire. Allo stesso tempo gli scapigliati, però, individuarono un modello negativo in Manzoni, da loro ritenuto il principale responsabile di una letteratura convenzionale. Gli scapigliati milanesi non condividevano ideologie e modi di vita Borghesi e ricorrevano a contenuti anticonformisti e scandalosi. Tuttavia, la loro protesta non ebbe la portata culturale rivoluzionaria che si ebbe in Francia. Nonostante ciò, essi svolsero un importante ruolo culturale, diffondendo la conoscenza di autori stranieri e introducendo nelle proprie opere temi come il macabro, l'umorismo nero, il sogno e l'incubo. Il senso di rifiuto che gli scapigliati nutrivano verso i valori espressi dalla classe dominante si risolse in un rapporto conflittuale fra l'aspirazione a una più alta idealità (fondata su valori quali bello è la virtù) e il reale, il vero; fra i due poli non era possibile conciliazione alcuna. Era questa la contrapposizione insanabile che essi definirono dualismo. I principali caratteri con cui si manifestò la scapigliatura furono le esperienze quotidiane, l'anticonformismo e la ribellione contro la società, la negazione del bello e la predilezione per il macabro e l'orrido e, in generale, per gli aspetti più inquietanti della società, il dualismo tra il bene e il male, la bellezza e la corruzione, l'ideale e il reale, e la fusione di tutte le arti: l'eccentricità culturale dei giovani scapigliati si tradusse anche nella teorizzazione dell'interscambiabilità di linguaggi artistici come la poesia, la pittura e la musica. Quanto allo stile, gli scapigliati non riuscirono a dare alla loro lingua quella perfezione formale che altri seppero raggiungere. La loro poesia e la loro prosa si risolsero spesso in un'elaborata ricerca di effetti musicali e di un linguaggio anticonvenzionale e nell'uso del dialetto. Preludio di Emilio Praga La lirica ha lo scopo di illustrare al lettore lo spirito che anima la raccolta Penombre. Dapprima Praga presenta sé stesso come parte di un gruppo, quello della scapigliatura, e poi come rappresentante di un'intera generazione che si trova a vivere in una società in cambiamento. Nei versi 5-20 il poeta mette in evidenza la mancanza della fede religiosa, apportatrice di certezza e salvezza. Secondo il poeta, non esistono più speranze di salvezza, tanto che la Vergine stessa stenta ad aggrapparsi al «Sudario». Praga afferma che Dio è morto ed è giunta l'ora degli anticristi, cioè di coloro -gli scapigliati- che non hanno fedi o certezze e che, quindi, vivono senza illusioni, sopraffatti dall'incertezza. Nell'apostrofe al lettore, definito in un primo momento «nemico», si rintraccia uno spunto polemico nei confronti del lettore Borghese, che non vuole vedere quella realtà. Nelle ultime tre strofe, in cui Praga sostiene una poesia basata non su false certezze, mascherate da verità, il tono polemico si trasforma in una dichiarazione di intenti poetici. Il lettore, ora chiamato «fratello», è avvisato sul contenuto della raccolta: potrà trovare forse anche sgradevole il «vero», ma almeno l'opera non è "truccata". I versi 30-32 sono la dichiarazione poetica di Praga: gli scapigliati intendono presentare nei loro versi il «vero», cioè la desolazione della vita moderna condannata alla «Noja», ovvero lo spleen di Baudelaire. Proprio per questo Praga rifiuta la figura di Manzoni e la sua poesia ricca di ideali e di contenuti religiosi. Tuttavia le contrapposizioni e il tono ironico vengono interpretati da alcuni critici come un'esigenza non confessata di nuovi valori e di quella Fede che è stata patrimonio spirituale proprio di Manzoni. Allo stesso tempo gli scapigliati, però, individuarono un modello negativo in Manzoni, da loro ritenuto il principale responsabile di una letteratura convenzionale. Manzoni è antico perché parla della religione, mentre loro sono gli anticristi in un mondo in cui non c’è più speranza e religione. Devono rappresentare il vero. VERGA Presupposti ideologici Nelle opere di Verga è possibile cogliere una precisa concezione dell'uomo e della storia, influenzata: dal Positivismo, secondo il quale la realtà può essere descritta solo con un approccio scientifico; dal Materialismo, che assimila il comportamento umano a quello delle altre specie animali e ne individua l'origine nei suoi bisogni materiali primari; dal Determinismo, basato sulla convinzione che l'uomo subisce l'influenza del periodo storico, dell'ambiente circostante e dl condizionamento ereditario che si ripercuotono sui suoi comportamenti: dalle teorie di Darwin sull'evoluzione della specie. Pessimismo Verghiano Il pessimismo verghiano si manifesta nell'accettazione fatalistica di una realtà immutabile, alla quale nessuno può sottrarsi. Contrariamente a quanto affermavano Zola e i naturalisti francesi, che sostenevano la funzione sociale dell'arte, per Verga l'arte non è in grado di intervenire per cambiare la società e non contribuisce a risolvere i problemi. Fantasticheria In Fantasticheria Verga annuncia di voler rappresentare il mondo dei poveri pescatori di Aci Trezza e di voler indagare le cause che spingono questa gente a sopravvivere in un ambiente duro e ostile, cercando di osservare le cose dal loro punto di vista. Delinea il concerto di "religione della famiglia", che spinge la povera gente a voler rimanere il più possibile attaccata al proprio luogo natale e al proprio nucleo familiare e teorizza "l'ideale dell'ostrica" ovvero l'attaccamento dei poveri al loro mondo. Stile Nella lettera-prefazione all'Amante di Gramigna Verga afferma che il racconto deve avere la artistica di un fatto realmente accaduto, che l'autore si accinge a ripetere; la ricostruzione dei processi psicologici La pagina è poetica e drammatica insieme. Vi predominano sentimenti elementari e profondi che rivelano il culto della famiglia e delle tradizioni. È la rappresentazione di un mondo statico, in cui chiunque infranga le regole imposte da millenarie consuetudini è destinato all'esclusione. 'Ntoni lo sa e per lui andarsene è necessario. Il suo ritorno è un atto di struggente nostalgia, ma è soltanto un momento: il tempo di mangiare una minestra e di imprimere nella memoria rumori, voci, colori di quei luoghi. E poi l'addio, quasi un atto di espiazione, compito con consapevole determinazione da chi non ha saputo rivestire il ruolo di capofamiglia. In una società che non ammette possibilità di riscatto per gli umili, ogni tentativo di ribellione, suscitata dalla "brama di meglio", è vani. All'individuo non resta che rimanere fedele alle tradizioni che costituiscono i valori di riferimento, come l'ostrica resta attaccata allo scoglio; allontanarsene significa essere travolti dalla "fiumana" del progresso che distrugge e porta allo sradicamento. Si parla dunque di "ideale dell'ostrica". La conclusione della vicenda non può essere letta come la celebrazione del ritorno al passato. La famiglia Malavoglia infatti è ormai definitivamente disgregata e i personaggi che restano ad Aci Trezza dimostrano la nostalgia di un passato perduto, la coscienza che nulla è come prima, che lo spazio chiuso della famiglia e del paese appartiene a un mondo arcaico lontano. Alcuni critici considerano 'Ntoni il vero eroe della famiglia Malavoglia, perché è l'unico che osa, anche se con il cuore gonfio di nostalgia, affrontare il mondo della modernità. Da sottolineare nel testo l’uso dei tempi verbali. Quando essi si riferiscono a ‘Ntoni, simbolo del progresso e della modernità, essi sono al passato remoto; invece quando si rapportano ad Alessi o ai suoi familiari, che hanno rispettato la tradizione, viene adoperato l’imperfetto: in questo caso, si tratta di azioni ripetute nel tempo senza mai subire modifiche e che si collocano al di fuori delle tentazioni del progresso e del mondo moderno. PASCOLI Umanitarismo e Nazionalismo Pascoli reagì al dolore recuperando il valore etico della sofferenza, che riscatta gli umili. La sua ideologia, piena di un profondo umanitarismo, lo convinse a tradurre i suoi ideali socialisti in aspirazione alla concordia fra gli uomini e alla solidarietà fra le classi sociali, in una prospettiva universale di pace. L'ideale nazionalistico prese forma nel pensiero di Pascoli dal tragico fenomeno dell'emigrazione, il cui devastante effetto era quello della disgregazione del "nido" familiare. L'Italia, secondo il poeta, aveva il dovere di procurare ai suoi cittadini meno abbienti terre e lavoro. Poetica del Fanciullino Ne "Il Fanciullino", l'autore espone le linee principali della propria poetica. Secondo Pascoli, in ciascuno di noi è nascosto un fanciullino, ma solo il poeta riesce a dargli voce, a vedere il mondo con i suoi occhi ingenui: è così che nasce la poesia dello stupore. Questa visione delle cose, spontanea nell'infanzia, si perde nell'età adulta, ma può essere recuperata penetrando nelle zone più profonde della coscienza. Il fanciullino è in grado di dotare di senso la realtà con il suo sguardo incantato e con la sua capacità di stupirsi che non appartengono all'uomo comune. Ecco allora che alto e basso, umile e sublime coesistono. È questa la realtà vera, cui può attingere la poesia intuitiva e spontanea, espressione del fanciullino che non conosce la violenza e proprio per questo può conseguire «effetti di suprema utilità morale e sociale». Poetica Simbolista Nonostante la formazione positivista, Pascoli maturò una crescente sfiducia nei confronti della scienza, poiché incapace di spiegare il mistero e l'ignoto che si celano nel cosmo. Solo la poesia diventa strumento di conoscenza del mondo e mezzo attraverso il quale è possibile sondare gli aspetti più misteriosi delle cose ed esplorate l'ignoto. Anche la poetica del fanciullino può essere interpretata alla luce della cultura decadente: la regressione all'infanzia e lo sguardo stupito del poeta di fronte al mondo sono una forma di evasione da una realtà che non riconosce. Ma la più decisa adesione al Simbolismo francese si traduce in Pascoli in una costante ricerca di un ritmo e di un linguaggio capaci di suscitare sensazioni attraverso vibrazioni sonore, significati allusivi e simbolici. La poesia viene recuperata nel suo valore assoluto. Il simbolismo pascoliano trova la sua prima affermazione in Myricæ, dove si configura come una consapevole ricerca di significati nascosti delle cose, come una fitta trama di analogie tra fenomeni naturali e stati d'animo. Nei Canti di Castelvecchio, trova maggiore spazio la poetica del fanciullino; la percezione di una natura intima e segreta delle cose si fa più evidente. Gli elementi del paesaggio naturale diventano la chiave per interpretare una realtà misteriosa. Poetica Impressionista Nella raffigurazione dei fenomeni naturali, la capacità pittorica di Pascoli si esprime attraverso rapidi tocchi cromatici, fini a concretizzarsi in effetti impressionistici. Gli elementi naturali sono colti in brevi pennellate, dove trionfano colore e suono, dove le impressioni e le suggestioni visive e foniche hanno intento evocativo e non descrittivo. Temi: IL NIDO Il richiamo al "nido" e agli effetti familiari è uno dei temi principali delle opere di Pascoli. Al "nido" si riallaccia l'idea di un'infanzia serena, perduta dopo la morte del padre, che il poeta fa rivivere nella memoria. Il "nido" diventa simbolo di un mondo chiuso, esso consente di instaurare un parallelismo fra la natura e l'uomo. Neanche la natura è immune alla violenza che turba l'esistenza degli uomini. Essa non può costituire un pieno risarcimento al dolore degli uomini; il poeta può soltanto regredire in un sogno infantile, in una dimensione temporale che ancora non ha provato il trauma della perdita e della morte. MYRICAE La storia editoriale di Myricæ è molto complessa. La raccolta ebbe nove edizioni: la prima (1891) comprendeva solo 22 componimenti, scritti a partire al 1877; la seconda composta da 72 testi e la terza da 116. La quarta raggiunse il numero di 152 liriche e la quinta 156. La raccolta, aperta dalla dedica al padre e da una "Prefazione", è costituita di 15 sezioni, inframezzate da testi sparsi. Il titolo della raccolta è ispirato a un verso della IV Egloga di Virgilio che preannuncia gli argomenti umili e semplici dell'opera. Al centro di essa, si trovano temi campestri, legati alla terra: il lavoro dei campi, gli uccelli, le attività domestiche, le piccole cose di tutti i giorni, filtrate attraverso lo sguardo ingenui del fanciullino. Ma sullo sfondo della quotidianità è possibile individuare un nucleo tematico più oscuro, quelli del passaggio all'alba della vita al tramonto della morte, evocato attraverso le immagini dei «cari defunti». Il mondo della campagna diventa lo specchio dell'interiorità del poeta, un ambiente naturale in cui egli trasfonde in forma simbolica e allusiva i suoi sentimenti. L'orizzonte tematico della raccolta è dominato alle immagini dell'infanzia e dal motivo del "nido" familiare distrutto, che si fa simbolo di un'infanzia perduta. Vi sono un continuo sperimentalismo e un assiduo lavoro di correzione da parte di Pascoli, il quale in brevi componimenti ritrae la vita dei campi con un gusto impressionistico. La visione pascoliana della realtà non risponde ai canoni realistici, ma si carica di significati simbolici, che permettono di penetrare negli aspetti più misteriosi e nascosti. Per questo motivo Pascoli utilizza un linguaggio analogico che dà risalto all'aspetto fonico, con un uso frequente di onomatopee, allitterazioni, fonosimbolismi. Alla ricerca linguistica si accompagnano il rigore scientifico dei nomi di animali, piante e fiori e il ricorso a termini tecnici del gergo contadino. Vi è una sintassi franta: le frasi sono spesso molto brevi. Lavandare È autunno: un velo di nebbia avvolge il paesaggio, triste e spoglio. Un aratro è abbandonato in mezzo a un campo arato a metà; le lavandaie sciacquano i panni e cantano; è un canto di nostalgica tristezza, perché accenna a qualcuno che se ne è andato, lasciando chi è rimasto nella solitudine. Fa parte di Myricæ. La prima terzina è descrittiva: un aratro lasciato in abbandono in un campo arato a metà (mezzo grigio e mezzo nero: è una nota cromatica che preannuncia tristezza). Dal punto di vista fonico c'è da sottolineare il timbro ricorrente della a: «aratro... dimenticato... cadenzato...» Nella seconda terzina prevale l'aspetto fonico. Nella quartina l'immagine del vento che soffia comunica tristezza e indica simbolicamente il senso di solitudine e di vuoto della fanciulla che attende il ritorno dell'amato. Nella lirica dominano la solitudine e un senso di abbandono e di mestizia. Il componimento è impostato su una rete di corrispondenze, sullo sfondo di un paesaggio autunnale: l'aratro abbandonato e il solitario canto delle lavandaie, sono immagini che si accordano con quella conclusiva della fanciulla abbandonata e sola. Una lirica che si configura come un quadretto impressionistico. L’aratro, sembra un semplice oggetto, ma ha un significato profondo, ovvero la solitudine. La donna rappresenta pascoli, che aspetta il padre. X Agosto Nella notte di San Lorenzo una strana pioggia cade dal cielo: una pioggia di stelle. Il poeta ne conosce il motivo e afferma con sicurezza: «io lo so perché»; ma prima di rivelarlo racconta di una rondine uccisa mentre tornava al suo nido. Lo stesso accade al padre del poeta, atteso invano dai suoi familiari. Fa parte di Myricæ. Il motivo centrale della lirica è la malvagità umana di cui sono vittime un uomo e una rondine. Queste due creature innocenti diventano simbolo dell'ingiustizia e del Male che regnano sulla Terra, «atomo opaco» nell'immensità dell'universo. La rondine ritornava al «tetto», un uomo al suo «nido»: il poeta scambia i due termini per rendere più evidente l'analogia fra la rondine e l'uomo. È presente il tema centrale della poetica pascoliana, il "nido", simbolo di legami affettivi profondi, di sicuro rifugio dal male. La tragica morte del padre assume una dimensione universale e cosmica: anche il Cielo lontano partecipa con il suo pianto al dolore di coloro che soffrono. Il testo è strutturato secondo una disposizione parallela e simmetrica dei contenuti. Il parallelismo è evidente tra la seconda e la quarta strofa, ma si manifesta ancora più stretto nella terza e nella quinta; è un accorgimento stilistico per dare maggiore drammaticità all'ingiustizia e alla malvagità umane che colpiscono due innocenti creature. X Agosto è uno dei testi che meglio rappresenta il tema del "nido" familiare distrutto e la conseguente infelicità che ne deriva. L'uccisione del padre Ruggero è l'evento traumatico rievocato in questa lirica. Il poeta vi proietta la propria tragedia in una dimensione universale, con un evidente parallelismo allegorico tra la morte del padre innocente e quella di Cristo, cui alludono sia l'immagine della rondine «come in croce», sia le parole pronunciate da Ruggero morente: «Perdono». all'amore, avvertito con disagio. Questa sovrapposizione di temi (la morte e l'amore) è l'esito del rapporto complesso del poeta con l'esperienza erotica, vissuta come sofferenza. La lirica è condotta su uno stretto rapporto analogico tra esterno e interno, tra un fervore di vita notturna, che culmina nell'impollinazione del gelsomino notturno. Nella prima strofa l'io poetico è solo accennato nel momento della sera, quando pensa ai suoi «cari» esistenti e l'idea di morte è evocata attraverso il riferimento alle farfalle «crepuscolari». Nella seconda strofa l'allusione al bisbiglio evoca l'immagine della confidenza nell'approccio amoroso tra i due sposi, e il poeta osserva da lontano. Nella terza strofa, dominata dalla sinestesia (odore-vista) delle fragole rosse, il tema dell'amore si unisce a quello della morte attraverso l'idea di una nuova vita («nasce l'erba») che nasce sulle tombe («fosse»). Dalla quarta strofa in poi tale ambivalenza prosegue con una serie di simboli che rivelano i turbamenti del poeta: la metafora sinestetica del «pigolio di stelle» rimanda all'immagine della Chioccetta con i piccoli (VV. 15-16), con un accenno al tema del "nido" e a una sorta di regressione infantile. Strettamente connessa è l'immagine dell'ape, simbolo di fecondità, con un'allusione autobiografica all'impossibilità del poeta di vivere l'amore. Analoga funzione evocativa acquisisce la reticenza espressa dai puntini di sospensione «s'è spento...». Vi è un senso di estraneità del poeta di fronte alle gioie dell'amore e al dono della riproduzione. Frequenti sono i giochi fonici, le sinestesie e le immagini analogiche che contribuiscono a creare un'atmosfera evocativa e volutamente simbolica. LA GRANDE PROLETARIA SI è MOSSA In questo discorso Pascoli manifesta il suo appassionato sostegno all'impresa coloniale in Libia. Agli occhi del poeta essa è giustificata dalla povertà economica dell'Italia: con la colonizzazione anche la parte più povera della società italiana potrà avere terra da lavorare. Sempre vedendo in alto… il nostro tricolore Il Discorso, pronunciato nel 1911, è un'appassionata difesa della politica imperialistica e delle ragioni del colonialismo. Il Discorso definisce l'ideologia nazionalista di Pascoli, costituendo l'approdo di un pensiero le cui premesse sono identificabili nel socialismo umanitario degli anni bolognesi. È difficile comprendere come il poeta, che celebra la fraterna solidarietà fra gli uomini, possa pronunciare parole tanto veementi in difesa della politica imperialista. Il concetto di lotta di classe matrice marxista viene trasferito all'ambito internazionale: nell'ottica pascoliana è giusto che le nazioni più povere impugnino le armi per conquistare nuovi sbocchi. La nazione italiana, umiliata da secoli di emigrazione, può ora ottenere un riscatto. Pascoli si faceva nel suo discorso promotore di un'idea di nazione fondata sull'esercito come palestra e vera scuola in cui si forgiano «l'esercizio del diritto» e l'«eroico adempimento del dovere». L'ideale di società propugnato, in realtà risentiva della formazione classicista, configurandosi come un'utopia nostalgica e regressiva difficilmente attuabile. Pascoli piegò alle ragioni del nazionalismo tematiche e concetti che apparivano sostanzialmente estranei alla politica imperialista, promossa in quegli anni. Le ragioni, con cui Pascoli sostiene la necessità di impugnare le armi a garanzia della pace, sembrano aprire una via di fuga dell'attualità esprimendo piuttosto una regressione nel passato della storia collettiva e individuale. L'uso di interrogative retoriche («Che dico sforzo?») e di proposizioni esclamative («Quale e quanta trasformazione!»), di antitesi e di un tono esortativo contribuiscono ad accentuare il pathos declamatorio del discorso. La prosa esprime l'orgoglio di un ideale panoramico nel quale, superate le differenze sociali e geografiche, tutti impugnino le armi combattendo per lo stesso fine. D’ANNUNZIO Produzione poetica Il Poema Paradisiaco (1893) è una raccolta di 54 liriche in cui gli eccessi del passato, i temi erotici e trasgressivi sembrano lasciar posto al desiderio di purificazione, alla ricerca di un mondo di affetti familiari, di innocenza; lo stile si caratterizza per l'adozione di forme colloquiali e per toni malinconici e nostalgici. L’estetismo decadente La forte componente estetizzante, spinse D'Annunzio ad avvicinarsi all'Estetismo europeo, che poneva il culto della bellezza come bene supremo. Influenzato alla cultura francese, incarnò l'eroe decadente raffinato, amante del bello e, allo stesso tempo, in preda all'esaltazione di un'esistenza vissuta come eroica e grandiosa. Il modello letterario, che contribuì a creare il mito di "vivere inimitabile", della vita intesa come opera d'arte, in un'estenuante ricerca del piacere dei sensi, era Jean Des Essaintes, protagonista di A Ritroso di Huysmans, prototipo dell'eroe decadente. D'Annunzio ne trovò incarnazione in Andrea Sperelli del Piacere e in altri protagonisti dei suoi romanzi. Tuttavia il nido dell'esteta presentava i suoi limiti: l'esteta, nella sua aspirazione a distinguersi dalla meschinità della società borghese, era un perdente. Il disprezzo per la società lo portava a un isolamento sterile e privo di sensi. E D'Annunzio non mancò di smascherare le contraddizioni e la fragilità di Andrea Sperelli, il suo alter ego letterario. Simbolismo e Prosa Lirica Con la figura del superuomo, il poeta promuove la rinascita di un'umanità eroica, portatrice della vitalità propria del mito antico; per farlo, si serve di una parola poetica profondamente evocativa, che diventa strumento della lezione di Baudelaire. Ma in D'Annunzio si percepisce anche l'influsso di Mallarmé e di Verlaine, la cui parola è sorretta da una musicalità che suscita sensazioni indefinite. Dal punto di vista stilistico, il richiamo ai modelli del Decadentismo europeo è ravvisabile dunque nella scelta di un linguaggio rarefatto, suggestivo e attento al tessuto fonico e ritmico. L'ultima fase della produzione dannunziana, detta "notturna", inaugura una prosa intimista e autobiografica: il poeta registra sensazioni intime e presta particolare attenzione ai propri sentimenti e ricordi. La parola si accompagna alla forma del frammento e della prosa lirica. La ‘Bontà’ Sul finire del secolo D'Annunzio si interessò alla produzione dei romanzieri russi, in particolare Tolstoj, da cui mutuò il tema dell'aspirazione alla purezza e alla rigenerazione morale, e Dostoevskij, che suscitò in lui l'interesse per l'indagine psicologica di anime dilaniate fino ai limiti della patologia. Nacque in questo periodo un desiderio di ripiegamento inferiore. D'Annunzio si allontanò dalla ricerca della conquista, per seguire piuttosto le sensazioni più raffinate. Questa fase fu definita della "bontà", proprio per sottolineare quel senso di autocompiacimento languido, presente nei romanzi. Abbandona le esperienze sessuali e torna all’amore in particolare per la famiglia. Nietzsche Fu l'incontro con l'opera del filosofo Nietzsche a segnare una svolta nella produzione dell'autore. Per Nietzsche il superuomo è l'individuo capace di esprimere una nuova libertà creativa, una volta constatata la "morte di Dio", ovvero il tramonto di tutti i valori. D'Annunzio sovrappose l'idea del superuomo nietzschiano a quella del poeta creatore, quale uomo superiore capace di rappresentare un mondo migliore. Superuomo La figura del superuomo unisce all'eccezionalità dell'esteta le doti positive dell'energia e del vitalismo repressi dalla meschinità della morale perbenistica, che gli consentono di affermare il proprio dominio sulla massa. Sposandosi con l'ideologia nazionalistica, l'ideale superomistico riconosceva il diritto di affermare sé stessi per cancellare la meschinità del mondo e legittimava il ricorso a una politica aggressiva. Ma anche il superuomo è fragile, ostacolato dalla presenza del nemico, di solito una donna, la sua vicenda si conclude spesso tragicamente. Panismo Dannunziano Strettamente connessa al mito del superuomo, considerato come superamento dei limiti umani, è l'opposizione tra lo stato "dionisiaco", inteso come la piena esaltazione dei momenti orgiastici dei sensi che portano l'uomo a fondersi con la natura, e lo stato "apollineo", contraddistinto da equilibrio e da razionalità. In D'Annunzio la componente dionisiaca si traduce in una compenetrazione gioiosa fra uomo e natura, in un rapporto fondato su una totale fusione tra stato umano e stato vegetale e viceversa. La natura subisce un processo di personificazione in divinità. Da qui la definizione di "panismo". In questo senso le Laudi possono essere lette come traduzione poetica del mito del superuomo, perché nel panismo è espressa l'ideale aspirazione all'assoluto, da parte di individui d'eccezione. IL PIACERE La vicenda è ambientata in una lussuosa Roma di fine secolo. Andrea Sperelli è un giovane che vive esclusivamente per l'amore, l'arte e la cultura. Conduce un'esistenza estetizzante. Quando la sua amante, Elena Muti, l'abbandona senza alcun motivo, Andrea cerca conforto in numerose avventure, finché incappa nella vendetta di un amante tradito che lo ferisce in un duello. Si rifugia nella villa in campagna di una sua cugina e ha l'occasione di rigenerarsi e di incontrare una giovane donna, Maria Ferres, di spiritualità elevatissima. Finita la convalescenza, Andrea si trasferisce a Roma e ha frequenti incontri con Elena, decisa però a respingerlo, e inizia a sedurre la Ferres. La duplice relazione con Elena e con Maria finisce per ossessionarlo e spingerlo al gioco del possesso di Elena attraverso Maria. Ma, quando riesce a ottenere da Maria il dono di una notte d'amore, si tradisce: Andrea si lascia sfuggire il nome di Elena e Maria fugge abbandonandolo nella disperazione dell'amore perduto. Andrea Sperelli è un eroe decadente. Egli ricerca l'eleganza, la bellezza e il piacere e regola la sua condotta sul principio che la vita deve essere modellata come un'opera d'arte. Le sue azioni oscillano tra slanci appassionati e momenti di malinconia, fra improvvise prese di coscienza e rifiuto di riconoscere la realtà. La sua è la storia di un fallimento esistenziale che lo rende quasi un antesignano di molti personaggi del successivo romanzo della crisi. Oltre alla rappresentazione di un mondo raffinato e decadente, portante del Piacere è il tema dell'amore, delineato attraverso le due donne del romanzo, Elena e Maria, che incarnano due tipologie femminili contrapposte: la femme fatale sensuale, capace di asservire gli uomini ai propri desideri (Elena), e la donna pura e spirituale, simbolo di innocenza (Maria). Anche l'amore che il protagonista prova per loro assume il carattere di amore "profano", carnale ed erotico, e quello di amore "sacro", platonico e sentimentale. Sul piano dei contenuti, la componente psicologica nel Piacere non è rilevante: lo scavo psicologico si dissolve in un'indagine estenuante degli stati d'animo del protagonista in rapporto alle sue esperienze erotiche. Il Piacere è un romanzo a sfondo realistico, che risponde tuttavia a esigenze anti realistiche, quali l'egotismo, le suggestioni magiche, il godimento della parola perfetta. I virtuosismi lessicali sono un tutt'uno con quelli del personaggio. Non c'è quasi differenza tra l'autore e la sua creatura: essi vivono in uno stato di perfetta sintonia. Per quanto riguarda le tecniche narrative, anche Il Piacere, come il romanzo di Huysmans, tende a superare la vicenda e l'intreccio tradizionali, sostituendoli con il ritratto interiore di un solo personaggio. Tuttavia, D'Annunzio introduce alcune varianti sia nel tempo il terzo libro delle Laudi, nacque dall'esperienza di una vacanza del poeta con la compagna Eleonora Duse in Versilia. La raccolta, divisa in 5 sezioni, comprende 88 liriche composte fra il 1899 e il 1903. Alcyone si apre con un proemio, La tregua, e si chiude con Il commiato. Ciascuna delle 5 sezioni è separata da un Ditirambo, una poesia lirica corale in onore di Dioniso, preceduto da una lirica in latino. I Ditirambi conferiscono organicità all'opera e segnano il momento dionisiaco, dell'ebbrezza, in opposizione al momento apollineo, che porta equilibrio e meditazione. Il superuomo, abbandonando il suo eroismo, esercita la sua volontà di potenza nell'ambito naturale. La prima sezione presenta liriche ambientate nel mese di giugno (rappresenta la giovinezza), la seconda sezione si riferisce a luglio e celebrala stagione estiva; la terza e la quarta, relative ad agosto, esaltano i miti legati a metamorfosi; la quinta, ambientata nel mese di settembre, segna la fine dell'estate e sancisce il fallimento del sogno superumano rappresentato dal tragico volo di Icaro. L'opera è una sorta di diario intimo del poeta- superuomo. L'estate viene vissuta come un'entità divina e il contatto con la natura diventa un modo per scandagliare l'animo umano. È chiara la lezione del Simbolismo francese che si esprime in un nuovo rapporto con la natura, da cui il poeta trae l'ispirazione. Il tema della compenetrazione tra umano e naturale, si realizza mediante la rinuncia ai contenuti razionali e morali e l'acuirsi delle capacità sensoriali. È un dissolversi dell'Io nella natura, un'esperienza che presuppone l'eccezionalità del superuomo, in un'armonia che coinvolge tutti i sensi; nella parola poetica, si traduce in perfetto equilibrio tra musicalità e silenzio. La parabola, delineata dall'Alcyone, si snoda su 3 livelli: stagionale, esistenziale e mitico. Al vitalismo trionfante dell'esordio dell'estate, corrisponde, sul piano esistenziale, al passaggio dalla giovinezza alla maturità; parallelamente si fa strada la consapevolezza di fare rivivere il mito della moderna società di massa. Il superuomo ha una sorta di tregua, si lascia spazio al panismo. Dal punto di vista stilistico, predomina una straordinaria raffinatezza formale, ricca di soluzioni nuove anche sul piano metrico: abbandonati sia i metri tradizionali, D'Annunzio adotta il verso libero, di varia misura. Prevale la scelta di una versificazione in versi imparisillabi novenari ma anche ternari, quinari e settenari. È chiaro il riferimento a Virgilio, ma anche al Simbolismo francese in particolar modo a Verlaine che esaltava l'impair, perché capace di produrre una musicalità evanescente ed evocativa. Al libero fluire del verso corrisponde la cura estrema della musicalità, del valore fonico della parola. Parola potenziata da una vasta gamma di modulazioni espressive: le sinestesie, le allitterazioni e la ricercatezza lessicale. La Sera fiesolana La poesia La sera fiesolana, la prima di Alcyone ad essere stata composta, rappresenta una sorta di rilettura laica e dionisiaca del Laudes creaturarum di San Francesco d’Assisi: il misticismo francescano viene riproposto in modo esteriore, con espressioni come “laudata sii”, “fratelli ulivi”; “pura morte”, inserite però in un contesto totalmente diverso. La sera è il momento della fusione panica con la natura e rappresenta l’attesa del rapporto d’amore con la propria donna: dopo la sera ci sarà una notte d’amore, ma il poeta preferisce descriverne l’attesa. Vuole evocare più che descrivere razionalmente le scene. Si tratta di una sera di giugno dopo la pioggia al crepuscolo, un momento di passaggio e di metamorfosi, fatto di trasformazioni quasi impercettibili, un momento carico di attesa e di suggestione. Come la sera ‘muore’ spegnendosi lentamente nella notte (v.49), così la primavera muore trascolorando nell’estate. In tutta la poesia, D’Annunzio si rivolge ad un “tu” indeterminato, una figura femminile di cui non viene esplicitato il nome, ma ogni strofa costituisce sostanzialmente un nucleo a sé stante. A fungere da collegamento stanno i tre ritornelli in cui è lodata la sera, che assume sembianze umane, di una donna amata, celebrata per il viso perlaceo, le vesti profumate e la cintura indossata. Vi è un chiaro riferimento al modello femminile cantato dai poeti dello Stilnovo: il ‘viso di perla’ è un ricordo dantesco della Vita Nova (‘color di perle ha quasi’) e i ‘grandi occhi’ sono un attributo tradizionale della donna stilnovista. La lauda francescana aveva fuori di sé il suo centro di ispirazione ed il suo linguaggio era duro, realistico, ben lontano dalle fantasie musicali che caratterizzano il linguaggio dannunziano. In questa lirica D’Annunzio fa sfoggio di tutta la sua capacità di rendere musica la parola e di trasfigurarla melodicamente. La natura non vi è rappresentata realisticamente, è evidente l’atmosfera rarefatta e sensuale prodotta da certe parole che sono usate per provocare la sensibilità e l’orecchio del lettore. Nella prima strofa, il tema centrale è il sorgere della luna: essa è tutta costruita su una serie d’immagini che si richiamano l’una con l’altra per analogia: il suono delle parole “fresche” richiama il “fruscio” delle foglie del gelso e queste corrispondenze assumono un valore allusivo quasi magico. Questi versi introducono la nascita della luna, una scena che solo le parole del poeta-vate sono in grado di descrivere; ma non è descritto il sorgere vero e proprio della luna, bensì il momento, magico e sospeso, che lo precede. Nella seconda strofa, si presta ancora più attenzione al suono delle parole, che sono scelte innanzitutto per la loro musicalità e per la trama fonica che formano. Si insiste su momenti ambigui di passaggio, in particolare tra la primavera e l’estate, col grano non maturo, ma non più verde e il fieno tagliato che sta lentamente ingiallendo. Nella terza strofa, giunge al massimo l’esaltazione irrazionale dell’innamoramento: si crea una dimensione favolosa in cui le parole servono non a denotare ma ad evocare. Si giunge ad una sensualità panica, ad una forza erotica che pervade la natura e cui anche l’uomo partecipa: nell’atmosfera magica e misteriosa dei “reami d’amor”, persino le colline si trasformano in sensualissime labbra. La pioggia nel pineto La prima strofa si apre con l'invito del poeta, rivolto alla sua donna a cogliere parole «più nuove», pronunciate da «gocciole e foglie» del bosco. L'attenzione è rivolta a distinguere i suoni prodotti dalla pioggia sulla vegetazione. L'aggettivo «silvani», riferito ai volti, sottolinea l'inizio della metamorfosi panica. La musicalità è ottenuta mediante gli enjambement e le numerose iterazioni lessicali, che sembrano riprodurre il ritmo e il ticchettio delle gocce che cadono. Sul finire della strofa viene introdotto uno dei temi centrali della lirica, la «favola bella» che ieri ha illuso la donna e oggi illude il poeta. Essa rappresenta l'illusione dell'amore, ma, in realtà, D'Annunzio vuole riferirsi all'arte, sottolineandone, da un lato il carattere totalizzante, dall'altro la sua natura effimera. La seconda strofa introduce il canto delle cicale che si unisce a quello dell'orchestra di alberi suonati dalle «dita» della pioggia. Subentra poi la ripresa del motivo panico con una vera e propria metamorfosi del poeta e di Ermione in creature silvestri. I due esseri umani sono partecipi della vita degli alberi e il poeta ne coglie i segni nel volto di lei che è come una foglia. Nella terza strofa le voci della natura si mescolano in un'ampia trama melodica: il coro delle cicale si attutisce, subentra quello delle rane e poi si spegne del tutto. Nel silenzio si sente solo il suono della pioggia. La strofa si chiude con una ripresa, appena accennata, della metamorfosi "vegetale": la pioggia scende sulle ciglia di Ermione, le quali corrispondono alle varie foglie su cui scroscia la pioggia. L'ultima strofa segna il trionfo del motivo panico con la totale assimilazione del poeta e della sua donna alla vegetazione circostante: la donna ha gli occhi come sorgenti d'acqua e i denti come mandorle acerbe. I due innamorati si immergono nel folto della vegetazione, bagnati dalla pioggia che li ha rigenerati in nuove creature. Attraverso la percezione sensoriale, avviene il superamento dei propri limiti e la piena comunione con il tutto. L'orchestrazione fonica della lirica è potenziata dalla ripetizione di vocali e di parole, sia a inizio verso (anafora: «piove»), sia a fine verso (epifora: «si spegne»). Il succedersi delle rime e di numerose assonanze e l'uso dell'enjambement concorrono a creare una fitta trama sonora. La caratteristica predominante della lirica è la musicalità del linguaggio. D'Annunzio cerca di riprodurre il linguaggio segreto della natura che è la voce della pioggia, la musica che essa produce cadendo sugli alberi del bosco. Evidente è l'influsso di Verlaine. NOTTURNO D'Annunzio, reso cieco all'occhio destro in seguito a un incidente, fu costretto a rimanere bendato per settimane. In questo periodo scrisse quest'opera in circa diecimila striscioline di carta, che la figlia Renata decifrò e trascrisse. Ella lo sostiene in questo periodo, D'Annunzio la chiama "Sirenetta". Il materiale fu pubblicato con il titolo di Notturno, una sorta di diario che comprende meditazioni e ricordi affiorati alla mente del poeta convalescente. Il titolo dell'opera vuol essere un richiamo alla situazione di cecità, di buio. L'opera è suddivisa in tre parti denominate Offerte, a queste segue un'Annotazione finale, in cui D'Annunzio chiarisce ai lettori le circostanze di composizione e i temi dell'opera. D'Annunzio riuscì a rendere al massimo nonostante le sue condizioni fisiche. Vi è un atteggiamento quasi mistico che privilegia i temi della memoria, dei ricordi, dello scalo introspettivo e dell'autoanalisi. D'Annunzio spiega che ebbe dentro l'occhio una fucina di sogno e che il nervo ottico attingeva a tutti gli strati della sua vita anteriore, proiettando nella sua visione figure innumerevoli con molta rapidità. Il passato diveniva presente. Lo stile dell'opera riflette l'idea di una realtà conoscibile per via simbolica sotto forma di trasfigurazione della vita inconscia; alla descrizione sono preferiti suggestione e richiamo allusivo e ispirazione mistica. Le pagine sono composte in alta prosa lirica, fatta di periodi brevi e spezzati; questi frammenti rendono lo stile impressionistico, ricco di suggestioni appena accennate. La continuità è data solo dalla libera associazione di immagini che mescolano presente e passato. Sensazioni e allucinazioni Il poeta enuncia le allucinazioni causate dai dolori atroci. Una delle caratteristiche del romanzo del 1900 sarà prestare attenzione e registrare le sensazioni presenti all’interno dello scrittore e nello stesso istante, non nel prolungarsi del tempo. D’Annunzio vede nel fondo dell’occhio una figura che sembra un fiore “il giacinto violetto”, poi avverte un dolore fortissimo che causa un “grido folle”, sente il liquido colare dalla compressa di garza sull’occhio, vede ancora nero in fondo all’occhio, in seguito rispunta il dolore e infine dichiara di non avere più l’immagine del fiore nell’occhio. Il poeta descrive le immagini di un delirio onirico, figure create nel fondo dell’occhio dalla malattia. Queste figure si alternano liberamente, caoticamente, sono le fantasie, le allucinazioni e i ricordi che rappresentano il “flusso di coscienza”. La natura è impazzita, quasi fuori controllo. Vi è appunto una forte simbologia, ad esempio "giacinto nero" e un forte parallelismo tra la natura e l'autore. Più che parallelismo, si tratta del vero e proprio panismo, come quando immagina che il fiore cresca nel suo cervello attraverso la figura del pus sull'occhio. Il panismo è "rovesciato", poiché vi è una fusione tra corpo e natura quasi prepotente da parte della natura, D'annunzio resta passivo e la natura è quasi malefica. Da qui anche il gusto del macabro e la distorsione della realtà. Lo stile non è retorico, ma sintetico e lapidario. Non si trova la prosa aulica, sontuosa, composta da periodi ampi e complessi tipici di D’Annunzio, ma sono presenti periodi molto brevi, rapidi e incalzanti. La scrittura è allusiva e seducente. Rientra il campo semantico della musica. Possiamo dire che lo stile è impressionistico, forse ispirato al futurismo. La scrittura è frammentaria: anche nella sofferenza raggiunge il massimo sul piano artistico. In questo testo si ha un D'Annunzio nuovo, anche se queste “novità” potrebbero non essere del tutto nuove, poiché non si riesce a capire fino a che punto il poeta abbia operato per la sua intimità oppure quanto ha assorbito da esperienze antecedenti a lui. Infatti, una prosa simile era stata utilizzata dai vociani e dai futuristi. PIRANDELLO Luigi Pirandello nacque nel 1867 ad Agrigento nella tenuta di famiglia, denominata "Caos". La vita familiare non era serena, soprattutto a causa della personalità del padre, e da allora si insinuò in Luigi l'idea della famiglia come trappola, come luogo soffocante. Dopo la laurea strinse amicizia con alcuni letterati tra cui Capuana, che lo invitò a partecipare a sedute medianiche; nacque così in Pirandello l'interesse per lo spiritismo e per la dottrina teosofica. Sposò Belluca sembra improvvisamente impazzito e ora è ricoverato in un manicomio. Ma il narratore, che poi dirà di essere un vicino di casa, è sicuro di poter affermare che quanto è successo è un fatto normalissimo, se si considerano le insopportabili condizioni di vita del poveretto. Il narratore rappresenta il saggio, la maschera nuda, egli conosce benissimo il meccanismo pirandelliano, guarda da lontano, con distacco, ma con grande consapevolezza. Mentre i colleghi si fermano all'apparenza, giudicando Belluca come un pazzo; il narratore, invece, comprende il meccanismo e lo spiega. Successivamente, è lo stesso Belluca a spiegare che cosa abbia significato per lui sentire il fischio del treno nella notte. La vita si è ribellata alla forma; il fischio del treno è un richiamo alla vita; Belluca, soffocato dalla forma e dalle maschere, sente finalmente il richiamo alla vita, può uscire dagli schemi e dare spazio al suo io. La condizione esistenziale di Belluca è quella soffocante della trappola: la sua famiglia si compone di tre vecchie cieche, che volevano essere servite, due figlie vedove e sette nipoti: tutte bocche da sfamare. La situazione è rappresentata attraverso una deformazione grottesca che induce al riso. Ma da questo primo "avvertimento del contrario", proprio dei colleghi di Belluca, che non considerano la sua situazione familiare e vedono in lui solo un motivo di comicità, l'autore ci porta al « sentimento del contrario» attraverso la riflessione. Veniamo a conoscere così l'esistenza dolorosa di Belluca, comprendiamo la sua frustrazione e la sua esasperazione, e poi l'euforia che lo prende all'annuncio di libertà rappresentato dal fischio del treno. Belluca non è impazzito, ma ha riscoperto, quello che aveva dimenticato, cioè che esiste una vita diversa dalla sua nel vasto mondo che il treno attraversa. Egli si accontenta di qualche breve incursione in quel mondo sulle ali dell'immaginazione per tornare poi alla solita "gabbia" in cui vive e in cui continuerà a restare prigioniero per sempre. Per Belluca la scoperta della verità non rappresenta una totale liberazione, ma una momentanea fuga. Belluca ha sentito irrompere la vita autentica nella trappola del vivere quotidiano, ma è incapace di un'autentica ribellione. «Una boccata d'aria del mondo» è la sua richiesta per il rientro nella normalità, nel soffocante mondo delle forme e delle trappole. Pur di attenersi alla forma, Belluca si era dimenticato di vivere. Belluca non dà una svolta definitiva alla sua vita, ma capisce di aver bisogno, qualche volta, di dare spazio alla sua interiorità. La struttura della novella non segue l'ordine cronologico degli eventi. Il testo si apre presentando lo stato di presunta follia del protagonista; successivamente, la sua esistenza viene ricostruita con continui passaggi dal presente al passato (analessi), fino alla conclusione della novella, quando il lettore coglie il messaggio pirandelliano: non esiste una verità assoluta, perché la verità è inconoscibile e relativa. IL FU MATTIA PASCAL Mattia Pascal vive in un piccolo paese in Liguria in una situazione opprimente. Dopo aver trascorso la sua giovinezza agiata, ha scoperto che Batta Malagna, l'amministratore nominato dalla madre, lo ha ridotto in rovina; costui, per giunta, è anche diventato marito della ragazza di cui Mattia era innamorato. Mattia sposa dunque un'altra donna, Romilda Pescatore. Prigioniero di una vita familiare insostenibile, decide di fuggire all'estero. Si ferma a Montecarlo e, con dei colpi di fortuna, riesce a vincere una grossa somma di denaro. Mentre sta tornando a casa in treno, legge sul giornale che è stato ritrovato il cadavere di un suicida, identificato proprio in Mattia Pascal. Egli natura la decisione di farsi credere morto e di cominciare una nuova vita. Prende il nome di Adriano Meis e inizia a viaggiare, ma presto avverte il vuoto di una vita senza radici. Decide di stabilirsi a Roma e affitta una camera nella casa di Anselmo Paleari. Qui si innamora, ricambiato, della figlia Adriana, attirandosi per questo l'ostilità del cognato, Terenzio Paliano. Egli ruba una parte del denaro di Adriano Meis e l'accaduto innescando protagonista una serie di riflessioni: privo di una vera identità, egli non può denunciare il ladro, e non può neanche sposare Adriana. Decide allora di tornare al suo paese e riassumere la sua vecchia identità; inscena così il finto suicidio di Adriano Meis, lasciando gli abiti e un messaggio su un ponte. Ma Mattia Pascal si trova di fronte a una realtà orma mutata: la moglie si è risposata e il io posto di bibliotecario è stato dato a un'altra persona. Mattia decide allora di scrivere le sue memorie, ormai rassegnati a restare «fuori dalla vita» e a essere «il fu Mattia Pascal». Pirandello scrisse Il fu Mattia Pascal dopo la grave crisi che portò alla perdita dei capitali investiti nella solfara paterna e alla conseguente malattia mentale della moglie. Il romanzo fu pubblicato a puntate sulla rivista "Nuova Antologia" e pochi mesi più tardi in volume. In seguito Pirandello ripubblicò il testo con lievi modifiche, aggiungendo un'Avvertenza sugli scrupoli della fantasia. Il fu Mattia Pascal è composto di 18 capitoli, che possono essere suddivisi in quattro parti:  la prima parte è costituita dai capitoli I-II, nei quali il protagonista racconta la trasformazione da Mattia nel «fu Mattia»; commenta l'accaduto quando i fatti sono ormai avvenuti. Questi capitoli formano una sorta di cornice e possono essere avvicinati al genere dell'antiromanzo (non vi è infatti nessuna azione narrativa e anche il tempo della storia è fermo);  la seconda parte corrisponde ai capitoli III-VI; vi si racconta la giovinezza di Mattia Pascal all'interno di uno scenario idillico, con una parabola discendente che lo conduce a sposare una donna di cui non è innamorato;  il capitolo VII funge da snodo tra la seconda e la terza parte, in quanto vi sono narrate la fuga e la vincita al casinò che permettono a Mattia di cambiare identità;  la terza parte occupa i capitoli VIII-XVI e ricalca il genere del romanzo di formazione: Mattia Pascal diventa Adriano Meis e cerca i costruirsi una nuova vita, ma è costretto a tornare a Mirano e la sua si configura alla fine come una formazione alla rovescia;  la quarta parte occupa i capitoli XVII-XVIII, che riportano la storia al punto di partenza in modo circolare: viene spiegato come Mattia Pascal sia diventato il «fu Mattia Pascal» e come abbia rinunciato alla vita. Litigio con vedova pescatora Sembra una scena scritta per il teatro. L’arte (umoristica) deve far capire che la vita è un’enorme rappresentazione. Non tutto quello che vediamo deve essere giudicato per quello che è, ma bisogna andare oltre le apparenze. L’arte umoristica ha il compito di farci capire com’è la realtà, ma anche come potrebbe essere. Il riso per Pirandello significa liberazione, esso permette a Mattia di prendere consapevolezza della drammaticità della sua vita, matura di conseguenza il desiderio di cambiarla. La situazione a casa di Mattia Pascal è critica. Romilda è inquieta, Mattia non trova lavoro, la mamma del giovane è chiusa in sé stessa e si teme che possa essere maltrattata da Romilda e dalla vedova Pescatore. La situazione si evolve quando una zia porta via da casa la mamma di Mattia, dopo una violenta lite fra Mattia e la suocera, la vedova Pescatore. A quel punto Mattia esce di casa e incontra Pomino che gli offre un posto di lavoro come bibliotecario, il lavoro però è noioso e così, vedendo molti topi in biblioteca, il giovane decide di scrivere un’istanza al Comune per avere dei gatti che possano fare strage di topi. Dopo aver visto realizzata la sua richiesta, decide di iniziare a leggere libri di filosofia. Quando legge va al mare e sente su di sé il peso dell’immobilità della sua vita. Dopo qualche tempo, Mattia diventa padre di due gemelle: la prima muore subito, la seconda invece morirà dopo un anno, in contemporanea con la mamma di Mattia. Questo doppio lutto stravolge il ragazzo che, quando riceve 500 lire dal fratello per il funerale, decide di partire innescando la serie di eventi che darà origine alla sua prima morte. L’ombra di Adriano Meis Il furto subito costringe Adriano Meis a una penosa riflessione. Dopo aver tentato invano di rimanere estraneo alla vita, egli si accorge infatti che, anche se volesse ricominciare a vivere, non potrebbe farlo: per l’anagrafe non esiste, e dunque non ha doveri, ma neanche diritti. Chiunque può calpestarlo, insultarlo, derubarlo, persino ucciderlo, senza temere alcunché, dal momento che nelle vesti di Mattia Pascal è morto e in quelle di Adriano Meis non esiste. Di conseguenza non può denunciare Papiano, né tantomeno arrivare a uno scontro aperto con lui; parimenti, non può nutrire aspirazioni serie nei confronti di Adriana, in quanto legalmente già sposato con un’altra donna. La possibilità intravista all’inizio della sua straordinaria avventura (ripartire da zero, rifarsi una vita senza il fardello del passato da sostenere) si rivela così miseramente fallimentare: Adriano Meis ha scoperto che al di fuori delle relazioni e del coinvolgimento non c’è vita, e che per avere legami di qualsiasi tipo c’è bisogno di un’identità sociale ufficialmente riconosciuta. La condizione che all’inizio gli aveva suscitato tanta euforia gli appare ora come un vero e proprio «supplizio di Tantalo» (r. 55): egli è costretto a osservare la vita senza poterne godere, così come Tantalo è condannato ad avere perennemente fame e sete per quanto collocato in mezzo al cibo e alle bevande. In preda a questi tristi pensieri Adriano Meis esce di casa e comincia a girovagare senza meta, fin quando quasi per caso nota la sua ombra disegnata per terra. In questo caso l’ombra ha la funzione di un doppio perturbante: Adriano Meis vede rispecchiata nell’ombra la sua inconsistenza, perché anche lui si aggira come un’ombra nella vita e anche lui è condannato a essere alla mercé di chiunque, senza potersi difendere in alcun modo. Se in un primo momento l’ombra gli provoca uno scatto di rabbia (egli vorrebbe straziare l’ombra così come vorrebbe straziare se stesso, e gode nel vederla calpestata e offesa), subito dopo prevale invece un moto di compassione, per l’ombra ma anche, ovviamente, per se stesso, dato che l’ombra non è che il suo doppio, la sua immagine speculare. Cosicché egli fa salire l’ombra sul tram (ultimo accenno ironico all’ombra-doppio: di fatto è lui a salire sul tram), deciso a trovare un rimedio per uscire dalla situazione incresciosa in cui si è ficcato: di lì a poco infatti inscenerà il finto suicidio, in modo da eliminare dalla scena Adriano Meis e porre fine alle sue sofferenze. L’UMORISMO Il saggio L'umorismo fu pubblicato nel 1908, come testo da presentare per un concorso universitario. Nacque come una dissertazione accademica e ne conserva in parte la struttura. Si compone di due parti: nella prima l'autore passa in rassegna i testi da lui considerati umoristici, mentre nella seconda propone la sua definizione di umorismo, analizza i processi psicologici che creano la situazione umoristica. La seconda parte del saggio si configura come una dichiarazione programmatica di poetica, nella quale, grazie a esempi antichi e contemporanei, vengono fornite le chiavi interpretative per analizzare la produzione letteraria di Pirandello. Nel saggio Pirandello introduce una distinzione tra due concetti apparentemente vicini, ma in realtà diversi, il "comico" e l'"umoristico": il comico viene definito l'«avvertimento del contrario», ovvero come la percezione del contrario di quello che dovrebbe essere e che induce al riso; l'umoristico, invece, è il «sentimento del contrario», poiché consiste nella riflessione su fatti apparentemente comici che, tuttavia, osservati in maniera più approfondita, danno origine a un sentimento di compassione. Il «contrario» è generato dalla consapevolezza dell'oltre, che contrasta con l'apparenza e svela una realtà altrimenti inconoscibile. Lo scrittore umorista vede nella realtà una costruzione finta del sentimento e con arguta analisi la smonta e la scompone, portando alla luce le contraddizioni e l assurdità della vita. Il sentimento del contrario Alla distinzione tra l'opera d'arte in generale e l'opera umoristica, segue la definizione dell'umorismo come «sentimento del contrario». complessità dell’esistenza umana, di cui l’immobile occhio sullo sfondo è disincantato e muto testimone . Sei personaggi in cerca d’autore L'opera è la prima della trilogia del "teatro nel teatro" che, oltre a Sei Personaggi (1921), comprende Ciascuno a modo suo (1924) e Questa sera si recita a soggetto (1930). Il titolo richiama il tema caro a Pirandello dell'autonomia dei personaggi dall'autore. Il dramma fu scritto e portato sulla scena nel 1921 e divise drasticamente il pubblico, ma, cinque mesi dopo, fu invece apprezzato in modo unanime. Seguirono rintocchi e varianti; l'edizione definitiva è del 1924 e contiene, oltre a una Prefazione, alcune modifiche soprattutto nel finale. Con i Sei personaggi Pirandello supera il teatro borghese ottocentesco, basato sulla rappresentazione realistica di problematiche di natura sociale: porta alla scena il conflitto fra attori e personaggi e l'incapacità dell'arte a cogliere la vita; la scena rimane sempre aperta, priva di finzioni. Non c'è più la suddivisione netta in atti. La tecnica del teatro nel teatro consiste nel far recitare sulla scena, durante la rappresentazione di un dramma, un altro dramma, che si configura come discussione sul dramma stesso: nel caso dei Sei personaggi, sull'impossibilità del teatro di riconoscere la vita, di darle un senso universale di riprodurla. A questa nuova concezione del teatro si affianca una rivoluzione della scena. L'effetto della "commedia da fare" è ottenuto presentando la scena senza sipario. Il capocomico dà le sue indicazioni, il suggeritore è sotto gli occhi di tutti col copione aperto; il teatro viene "denudato". Ai sei personaggi, Pirandello non assegna un nome proprio, limitandosi a chiamarlo in modo generico. Lo spettatore si rende conto che i personaggi non sono creature "teatrali", ma vengono da un'altra dimensione, e ne prova sorpresa e disagio. Sul palcoscenico j sei personaggi provano a interpretare una scena che rappresenta un episodio da loro vissuto, ma entrano in conflitto con gli attori, mostrando reciproca insofferenza e perseguitandosi a vicenda. È l'espressione più completa dell'impossibilità di rappresentare in modo univoco e oggettivo la realtà: ogni personaggio presenta la propria "verità" e gli attori non riescono a calarsi completamente nel dramma dei personaggi, poiché lo vivono solo dall'estero. Vi è il contrasto tra vita e forma: i personaggi rappresentano la vita che rompe gli argini che vogliono imbrogliarla; gli attori rappresentano la forma che cristallizza la vita e la falsifica. Una compagnia teatrale sta facendo le prove de Il gioco delle parti, quando dal fondo della sala entrano sei personaggi: il Padre, la Madre, la Figliastra, il Figlio, la Bambina e il Giovinetto. Essi cercano un autore che sappia far rivivere la loro storia. Il capocomico e gli attori non riescono però a fare entrare questi personaggi negli schemi dell'arte e a rappresentare sulla scena il loro dramma. Solo questi ultimi possono fare rivivere la loro realtà e, recitando, ricostruirla secondo i limiti dell'arte. La struttura dell'opera è piuttosto complessa, specchio della relatività ella verità e della concezione dell'arte. Nella vicenda possono essere individuati quattro piani: 1. I fatti accaduti: la storia di una famiglia borghese con un matrimoni fallito 2. Il rapporto fra personaggi e autore, che li ha creati senza definire la loro parte, cosicché essi sono come fantasmi vaganti alla ricerca di una forma che sia loro consistenza; 3. Le interpretazioni dei personaggi stessi, ciascuno ha il proprio dramma e le proprie verità 4. Il conflitto fra personaggi e attori: i primi non accettano le interpretazioni dei secondi perché la vita non può essere rappresentata dall'arte, che la deforma e la rende inautentica. Questi piani s'intersecano creando quella perplessità che dichiaratamente l'autore intendeva comunicare. Nella "commedia da fare" si trovano i semi dell'incesto, della famiglia come trappola; ma a questo temi se ne sovrappone un altro più importante: «i travagli del mio spirito». Questi tormenti sono i principali motivi ispiratori: l'inganno fondato sulla guida astrazione delle parole; la molteplice personalità d'ognuno; il tragico conflitto immanente tra la agita che di continuo si muove e cambia, e la forma che la fissa, immutabilmente.  La condizione di personaggi Una compagnia teatrale sta provando una commedia di Pirandello. Tutti sono colti nella fase di allestimento e lo spettatore avverte il clima nervoso che si respira nell'imminenza di un debutto. A un tratto di presentano sulla scena i sei personaggi: non dalle quinte, ma da una delle due scalette che collegano la platea al palcoscenico. Essi non appartengono al mondo degli attori, né a quello degli spettatori. L'autore li chiama realtà "create", cioè scaturire dalla fantasia di un autore che li ha evocato da una misteriosa dimensione, rifiutando poi di scriverne la storia. Essi vengono a chiedere al capocomico di fare ciò che non ha fatto l'autore: farli vivere nel mondo dell'arte con il loro dramma doloroso. Nel colloquio del Padre con il Capocomico si trattano problemi inerenti al mestiere teatrale, mestiere da pazzi, perché vuole rappresentare storie verosimili, mentre ci sono al mondo tane storie vere e dolorose. I sei personaggi sono venuti a chiedere di avere, grazie al teatro, vita immortale. Essi hanno bisogno di vivere il loro dramma, perché, attraverso la rappresentazione artistica, sperano di liberarsi dalla forma in cui sono imprigionati, che li costringe a rivivere continuamente la loro storia dolorosa. L'autore, dopo averli concepiti, non ha scritto il loro dramma e quindi non c'è copione: ma il dramma esiste e forniranno loro stessi il copione. Con quest'opera Pirandello induce lo spettatore a osservare come si fa il teatro. Nello spazio della scena si rappresenta una situazione in cui si chiede allo spettatore di immedesimarsi, di "credere" all'azione scenica, dimenticando di essere a teatro. L'ideale quarta parete è sfondata: tra spettatori e storia c'è continuità, non separazione. Allo spettatore si chiede di ascoltare criticamente il teatro che discute dei problemi teatrali. SVEVO Italo Svevo nacque a Trieste nel 1861 da una agiata famiglia borghese ebraica. La famiglia paterna era di origine austriaca, mentre quella materna era italiana, il che favorì una formazione legata a entrambe le tradizioni culturali. Svevo ricevette un'istruzione primaria bilingue. Il padre lo mandò a studiare in un istituto commerciale a Baviera. Qui svevo ebbe la possibilità di approfondire la conoscenza della cultura tedesca. Rientrato a Trieste, frequentò l'istituto superiore per il commercio. Egli trovò impiego nella filiale triestina della Banca Union di Vienna. Nello stesso periodo iniziò una collaborazione con il giornale "L'indipendente", scrivendo, sito lo pseudonimo di E. Samigli, recensioni teatrali e articoli di argomenti letterario e filosofico. Nel 1892 fu pubblicato il suo primo romanzo, Una vita che non fu considerato dalla critica. Svevo sposò la cugina Libia Veneziani e fu un'unione felice e contribuì a migliorare la condizione economica e sociale di Svevo che si trovò introdotto nell'ambiente dell'alta borghesia triestina. Dopo la nascita della figlia Letizia, divento direttore della fabbrica del suocero. L'impegno richiesto dalla nuova attività lo portò ad abbandonare le pubblicazioni, anche se continuò a scrivere. A spingere Svevo verso questa scelta era stata la delusione derivata da un ulteriore insuccesso letterario: aveva pubblicato Senilità, anche questo completamente ignorato dalla critica. Costretto a frequenti spostamenti all'estero per motivi di lavoro, Svevo imparò l'inglese e si rivolse a James Joyce. Tra i due nacque una sincera amicizia; Joyce dopo aver letto i suoi romanzi, lo invitò a riprendere l'attività letteraria. Con lo scoppio della prima guerra mondiale, Svevo ebbe l'opportunità di dedicarsi all'approfondimento della psicoanalisi. Alla fine della guerra egli segui il consiglio di Joyce e nel 1919 riprese a scrivere un nuovo romanzo, La coscienza di Zeno. La nuova opera si impose all'attenzione del pubblico grazie a Eugenio Montale che ne era rimasto entusiasta. Il successo dell’opera fu decretato anche a livello europeo. I riconoscimenti pubblici che seguirono furono numerosi. L'attività letteraria del scrittore proseguì con racconti, commedie, saggi e un nuovo romanzo, ma, mentre lavorava alla sua stesura, Svevo morì per le lesioni riportate in seguito a un incidente stradale nel 1928. Pensiero e poetica L'attenzione di svevo all'interiorità dei personaggi e al complesso intreccio delle motivazioni che spingono l'individuo ad agire deriva dal pensiero di Schopenhauer, che aveva individuato i meccanismi di autoillusione per i quali l'individuo crede di possedere libertà di scelta e aveva svelato la vanità delle aspirazioni umane. Di Schopenhauer Svevo fece sua la teoria secondo cui nel genere umano esistono due categorie: quella del "lottatore", che si impegna nella vita ed è vincente, e quella del "contemplatore", destinato alla sconfitta perché incapace di assumere un ruolo nella società. Anche le teorie darwiniane costituirono per Svevo un fondamentale punto di riferimento nell'interpretazione dei rapporti tra individuo e società. Maestro di Svevo fu anche Dostoevskij con la sua idea dell'impossibilità di rapportarsi con il reale e di agire. La visione pessimistica fu rafforzata anche dall'incontro con il pensiero di Nietzsche, letto da svevo in tutti i suoi aspetti di critica alla cultura e alla società. Un ruolo determinante nella vita culturale di Svevo ebbe il rapporto con Joyce, il cui influsso è da rintracciarsi nell'umorismo e nell'ironia, usati per tratteggiare i comportamenti più strani e imprevedibili dei suoi protagonisti. Grazie a Joyce, Svevo conobbe anche la Ricerca di Proust, da cui ricavò l'idea del recupero della memoria come mezzo per analizzare il passato e interpretare il presente. Svevo si avvicinò alle teorie di Freud, nei cui confronti si pose in atteggiamenti di autonomia critica. Svevo non fece mai mistero della sua sfiducia nell'efficacia della psicoanalisi come terapia, ma se ne servì come strumento di analisi del labirinto della psiche umana. La psicoanalisi portò Svevo ad adottare una straordinaria strategia narrativa che permette di mettere in scena un narratore bugiardo, che dissemina il suo racconto di incongruenze e compie continui lapsus. Nel primo romanzo, Una Vita, è evidente l'influsso del Realismo e del Naturalismo per la concezione della letteratura come strumento di indagine e la minuziosa caratterizzazione di personaggi e ambienti. Al centro dell'opera sono gli atteggiamenti di ribellione di Alfonso Nitti, figura di sognatore destinato alla sconfitta, un inetto incapace di agire, di affrontare la realtà. Senilità, il secondo romanzo, è la storia della rinuncia alla vita da parte di Emilio Brentani, anche lui un inetto, condannato alla passività e all'autoesclusione. Accanto alla figura del protagonista, compaiono tre coprotagonisti con un ruolo di primo piano nella vicenda. L'ambiente sociale in cui si muovono non riveste particolare interesse. Svevo si allontana sempre più dal romanzo naturalista e si concentra sull'indagine psicologica. Nella Coscienza di Zeno, il lettore si trova di fronte a un diario che il protagonista scrive per il dottor S, il quale intente sottoporlo a una cura psicoanalitica, ma Zeno non ha nessuna intenzione di mostrarsi per quello che è, e, pur seguendo il consiglio e costruendo una specie di autobiografia, traccia un profilo accennato e soprattutto incompleto di sé; ma sono proprio quelle dissonanze e mancanze che costituiscono per i lettori utili indizi per comprendere come sia impossibile stabilire un confine netto tra ciò che realmente è accaduto e ciò che viene raccontato da Zeno. Tuttavia, il lettore non può credere neppure al dottor S, che dichiara di volersi vendicare del paziente. Svevo approfondisce lo scandaglio della psiche umana, scelta che si traduce nell'adozione di nuove tecniche narrative. La narrazione è volta a indagare il percorso psicologico del protagonista: ne derivano una continua oscillazione tra passato e presente e una sfasatura tra l'io narrante e l'io narrato. La sintassi è complessa. Questi elementi rinnovarono profondamente la narrativa italiana. Salute e Malattia Zeno un forte senso di colpa. Egli scopre di amare il padre durante la malattia che lo condurrà alla morte. Il dottor Coprosich, pur sapendo che non c'è speranza per il padre di Zeno, tenta il tutto per tutto; Zeno è preso da un sentimento di rancore per il medico, per se stesso e, alla fine, anche per il padre. Il dottor Coprosich rappresenta per Zeno il sostituto della figura paterna. Egli lo odia perché teme che scopra gli impulsi aggressivi che nutre nei confronti del padre. L'ultimo gesto del padre morente, lo schiaffo, pone Zeno un interrogativo angoscioso: era consapevole di quello che faceva? In realtà, il padre era privo di coscienza, e il suo gesto non poteva essere interpretato come una punizione. Il padre rappresenta un modello di vita fondato su certezze e principi morali propri della classe borghese e, contemporaneamente, appare come una figura da eliminare a livello inconscio. Cancellata l'immagine minacciosa del padre, egli ne costruisce dentro di sé una diversa, quella consolante di un uomo debole e buono con il quale è possibile andare d'accordo. Zeno ha vissuto lunghi anni accanto al padre, odiandolo inconsciamente per quelle qualità di comune borghese che rifiutava. Ma, con la morte del padre, Zeno comprende di essere rimasto senza punti di riferimento e di non avere più una persona su cui far ricadere la propria incapacità di operare delle scelte. Egli ha desiderato in cuor suo la morte di suo padre perché gli fosse abbreviata la sofferenza dell'agonia, ma soprattutto per togliersi dagli occhi quello spettacolo e abbandonarsi a un pianto di autocommiserazione pieno di sensi di colpa che non potrà più riscattare. In questo capitolo è presente il primo dei nove sogni che Zeno riferisce nel corso delle sue memorie. Il sogno è la via maestra attraverso cui si giunge a esplorare l'inconscio. L'io cosciente rimuove alcuni desideri perché li sente vergognosi; essi sono soddisfatti nel sogno, quando il controllo dell'io è attenuato ma non assente. Zeno non ha affatto superato il trauma di quegli eventi, come invece afferma. Il tema della malattia, è affrontato da Svevo alla luce del pensiero filosofico e scientifico dell'epoca. Non è tuttavia un tema nuovo: esso affonda le sue radici nella letteratura ottocentesca. E proprio intorno agli anni Sessanta dell'Ottocento, infatti, che gli scrittori scapigliati espressero la volontà di ritrarre la vita umana nei suoi aspetti più tetri, degradati e oscuri, come il vizio e la malattia. Una catastrofe inaudita Nelle ultime pagine del romanzo, Zeno appare trasformato: afferma a tutti di possedere una salute perfetta e invidiabile, acquisita mediante il successo negli affari. Riflettendo però più in generale sulla vita, sull’uomo e sugli ordini che questi ha inventato, non riesce a vedere, intorno a sé, altro che segnali di morte e distruzione. Per risolvere i mali da cui, dice, la vita attuale è inquinata alle radici, occorrerebbe forse un’apocalittica rigenerazione. La chiusura del romanzo può essere divisa in tre momenti. All'inizio, simmetricamente con la pagina d’apertura dell’opera, ritorna il personaggio del dottor S. e viene riproposta la situazione che dà vita al romanzo, cioè il contrasto tra paziente e analista. Esso porta all’interruzione della terapia e quindi alla situazione conclusiva; inoltre giustifica la pubblicazione delle memorie da parte del medico, che vuole in tal modo vendicarsi del proprio paziente Quindi Zeno si congeda dal lettore lasciando non confessioni di malattia e debolezza da parte di un inetto, ma la descrizione di una salute solida, perfetta. Chiarisce di essere stato guarito non dalla psico- analisi, ma dal commercio (l’attività che suo padre aborriva), favorito dalla nuova situazione creata dalla guerra: vincendo l’inerzia che attanagliava tutti, Zeno ha infatti cominciato a comprare merci di ogni tipo, aspettando il momento propizio per rivenderle ad acquirenti bisognosi di tutto. Ha saputo adeguare il proprio comportamento alla situazione, con le modalità proprie degli speculatori, e ha così ottenuto il successo. Nella conclusione, le note di fiducia e felicità si dissolvono di fronte alla sconsolata osservazione che la vita attuale è inquinata alle radici. L’unico modo in cui l’umanità può guarire, forse, è scomparire, mediante una catastrofe inaudita che distrugga ogni forma di vita sul pianeta. Proprio sul finire del libro, Zeno comunica la conquista della propria guarigione. Ha superato l’inettitudine, ha vinto. Con enfasi l'io narrante sottolinea il proprio stato attuale di benessere e di salute: Io sono guarito! Io sono sano, assolutamente. Ma non possiamo appagarci di questa conclusione: il testo è infatti cosparso di ambiguità, come sempre avviene nella Coscienza di Zeno. Sono due gli elementi più emblematici di tale ambiguità. Zeno sta scrivendo al proprio ennesimo rivale, il dottor S., e quindi è plausibile il sospetto che voglia ingigantire ai suoi occhi la portata della propria guarigione, irridendo la terapia psicoanalitica. D'altra parte il rifiuto della terapia psicoanalitica (e quindi della verità che essa ha dimostrato, cioè che Zeno è malato di nevrosi) era un esito già previsto, studiato ed esemplificato dallo stesso Freud: in tal senso, perfino questo distanziarsi di Zeno dalla psicoanalisi potrebbe costituire una paradossale conferma della dottrina freudiana. Inoltre Zeno afferma di essere guarito solo per quel poco che è possibile guarire da quella particolare malattia che è la vita: A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Nessuno sforzo (né commercio né psicoanalisi né altro) può davvero guarire la vita: essa va presa così com'è. E' questo forse, il vero messaggio del romanzo. Se Zeno è (almeno dal suo punto di vista) guarito, sono però malati tutti gli altri. Per denunciare il fallimento dell'intera umanità, il testo ricorre a concetti darwiniani: il progresso è sicuro solo per gli animali, le bestie, che si adattano all'ambiente ed evolvono in modo naturale; non lo è per la civiltà umana. In essa infatti gli ordigni che si vendono e si rubano, e sono sempre più efficaci, prendono il posto delle risorse naturali dell'organismo, che perciò si corrompe e si atrofizza. L'uomo diviene perciò sempre più furbo e sempre più debole, sempre più ammalato e irresponsabile. La guerra mondiale è giunta appunto a smascherare l'enorme potenziale di violenza che si annida nella storia e nella società. In fondo neppure lo stesso Zeno si salva da questa logica di sopraffazione: è guarito, a suo dire, in uno dei modi più ripugnanti, mediante le speculazioni di guerra, cioè a danno dei più deboli. E se per guarire un individuo deve fare violenza agli altri, ciò significa, conclude Svevo, che la società è malata senza speranza di vera guarigione. Scaturisce da qui la conclusione paradossale, e di fatto totalmente negativa, nichilista, di Svevo: l'unica speranza di rinnovamento, dice Zeno, risiede... nell'annichilimento universale! Solo un'esplosione enorme, solo una catastrofe inaudita e senza rimedio potrà cancellare la malattia: cancellando per sempre la vita che l'ha prodotta. E' l'ultimo scatto di (inquietante) ironia, l'ultimo geniale paradosso del libro. UNGARETTI Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d'Egitto nel 1888. A soli due anni perse il padre, morto in un incidente sul lavoro durante la costruzione del canale di Suez. Grazie all'impegno della madre poté frequentare la scuola superiore ad Alessandria, dove si appassionò alla poesia di Leopardi, Carducci, Pascoli, D'Annunzio Baudelaire e Mallarmé. Nel 1912, diretto a Parigi, si fermò in Italia, dove conobbe gli intellettuali che lavoravano alla rivista, in particolare Pietro Jahier e Giuseppe Prezzolini, che ne era il direttore. A Parigi, seguì i corsi universitari al Collège de France e alla Sorbona, frequentando le lezioni del filosofo Henri Bergson. In quel periodo approfondì lo studio della poesia simbolista e decadente. Collaborò alla rivista "Lacerba", sulla quale nel 1915 pubblicò le sue prime poesie. Allo scoppio della prima guerra mondiale (1914), Ungaretti si trasferì a Viareggio e poi a Milano. Egli vedeva nella guerra un mezzo per affermare ideali patriottici e nazionalistici. Per Ungaretti, la guerra poteva rappresentare un'occasione per rafforzare il legame con l'Italia conquistando la propria identità nazionale attraverso la partecipazione e la condivisione di un ideale comune. Per queste ragioni, si arruolò volontario come soldato semplice, e combatté sull'altopiano del Carso. Il quotidiano confronto con la morte rivelò al poeta la crudeltà della guerra e lo portò a prendere coscienza della sua assurdità. Finita la guerra, si stabili a Parigi e cominciò a lavorare come corrispondente per il "Popolo d'Italia", il giornale fondato da Benito Mussolini, Nel 1921 Ungaretti tornò in Italia con la moglie, Jeanne Dupoix, e si stabili a Roma. Si aprì per lui un periodo molto importante, caratterizzato dall'adesione al fascismo, in cui vedeva realizzarsi la possibilità di una coesione nazionale. Dopo le tragiche esperienze di guerra, per Ungaretti era giunto il momento di cercare, nella vita privata, un rinnovato rapporto tra uomo e Dio, come conforto alla drammaticità dell'esistenza e risposta alla sua ansia di assoluto. Nel 1936 Ungaretti si trasferì in Brasile, A segnare dolorosamente il periodo della sua permanenza in Sud America fu la morte del suo unico fratello e del figlio Antonietto, di soli nove anni. Rientrato in Italia, rimase vedovo, ma continuò la sua attività di poeta e traduttore. Morì a Milano nel 1970. Opere L'ALLEGRIA La raccolta Il porto sepolto fu trasformata nella prima sezione della seconda raccolta, Allegria di naufragi (1919), a sua volta ampliata e modificata con il titolo L'Allegria (1931). Le liriche di questa raccolta, che appartengono alla prima fase della sua produzione, si distinguono per una forte componente autobiografica: rievocano gli anni della giovinezza trascorsa in Egitto e la cruda esperienza della guerra vissuta come soldato al fronte. SENTIMENTO DEL TEMPO Sentimento del tempo (1933) è la raccolta che coincide con la seconda fase della produzione poetica ungarettiana. I contenuti testimoniano il recupero di una dimensione religiosa, che porta a frequenti riflessioni su temi elevati e profondi, come il tempo e la morte. La forma è caratterizzata dal recupero di moduli espressivi tradizionali. IL DOLORE Il dolore (1947) segna il passaggio alla terza fase della poesia di Ungaretti, in cui emergono la sensazione di vuoto di fronte al dolore per la perdita dei propri cari (il fratello e il figlioletto) e la sofferenza per le atrocità della guerra. Qui i ricordi del passato affiorano sotto lo sguardo triste e disincantato del poeta, nel tentativo di lenire proprio quel vuoto attraverso la poesia. ALLEGRIA La raccolta Il porto sepolto comprende le poesie scritte in trincea a partire dal 1914. Il titolo rimanda all'adolescenza egiziana del poeta e all'antichissimo porto sommerso di Alessandria d'Egitto, di cui allora si favoleggiava. Il «porto sepolto intende rappresentare ciò che di segreto rimane in noi indecifrabile. Nel 1919 la raccolta fu inserita in una più ampia, Allegria di Naufragi, il cui titolo ossimorico intende alludere allo sprofondare nell'abisso, ma nel contempo anche alla volontà di reagire alla sconfitta, di riprendere il viaggio dopo il naufragio. È questa l'allegria, lo spirito vitale che nasce anche in mezzo ai naufragi. Nel 1931. Il porto sepolto e Allegria di Naufragi, confluirono nella raccolta con il nuovo e definitivo titolo L'Allegria. L'Allegria non è solo una riedizione di testi già noti, ma è un'opera che prende forma dopo un complesso lavoro di correzione e di sistemazione durato più di vent'anni, durante i quali il poeta rielaborò i suoi testi con risultati a volte molto diversi da quelli originari. Eliminando il riferimento ai «naufragi», il poeta scelse di valorizzare soltanto l'elemento positivo, quasi a voler sottolineare l'approdo a una nuova concezione dell'esistenza cui la poesia era giunta. La parola “fratelli “, che compare isolata nel secondo e nell’ultimo verso, ulteriormente evidenziato dallo spazio bianco che lo separa della strofa vicina, è centrale nella lirica e ad essa si riferiscono le immagini “parola tremante“ e “foglia appena nata“. Esse sottolineano da un lato il timido incerto rivelarsi del sentimento di fratellanza, dall’altro il suo forte significato di contrapposizione a uno stato di precarietà che appartiene alla guerra, ma che è proprio anche dell’uomo in quanto tale. SENTIMENTO DEL TEMPO In linea con il clima culturale instauratosi in Italia con il fascismo, la raccolta Sentimento del tempo significò un ritorno all’ordine, alla tradizione italiana che si tradusse nella ricerca di forme nuove, più composte di quelle dell’Allegria. Vi fu il recupero del linguaggio letterario, della punteggiatura e dei metri tradizionali. Al centro di questa produzione sta “l’uomo di pena“, sperduto di fronte al mistero dell’esistenza. Il poeta abbandona la dimensione autobiografica per avventurarsi in riflessioni profonde di carattere universale, ispirate alla ricerca del senso dell’esistenza e rese attraverso la riproposizione di miti classici. Egli rappresenta l’uomo in lotta contro i propri limiti, sostenuto dalla fede, delineando un cammino verso Dio non privo di difficoltà. Vi è un tono sofferto in molte liriche, che testimoniano il travaglio interiore del poeta, diviso tra l’aspirazione all’eternità e la coscienza del limite umano. Dal punto di vista tematico subentrano, oltre al sentimento religioso, temi legati alla sensibilità barocca, come la morte e la meditazione sullo scorrere del tempo. Anche il paesaggio è nuovo: vi sono visioni della Roma barocca e il recupero dei miti, delle divinità mitologiche. Alle immagini di Roma, si accompagnano impressioni limpide delle campagne romane e laziali, immagini violente e implacabili dell’estate. Vi è una nuova complessità della sintassi. Predominano periodi ampi e articolati, scanditi dalla punteggiatura. Al linguaggio aulico si accompagnano analogie complicate e un più sistematico ricorso alle figure retoriche dell’iperbole e della metafora. La Madre Caduto il muro d'ombra che gli impedisce di vedere la luce dell'aldilà (cioè dopo la morte), il poeta immagina di ritrovarsi di nuovo con l'anziana madre, che nell'oltretomba lo attende per condurlo dinanzi a Dio, Giudice eterno, per fargli ottenere l'assoluzione, gettandosi in ginocchio, pregando risoluta e invocando il perdono per lui. A questo punto, nel momento supremo, il poeta si ritrova come una volta, come un bambino, quando fiducioso si affidava alla mano della mamma. Di lei ha ancora bisogno per essere condotto davanti al giudizio e al perdono di Dio. E solo quando Dio glielo avrà accordato, guarderà in volto il proprio figlio. Nei versi di questa poesia viene espresso, con un’ammirevole sobrietà di toni il dramma intimo e sofferto di una madre che aspetta il figlio alle soglie dell’eternità per vederlo redento con la sua preghiera. Protagonista dell'azione è la madre, come mediatrice di grazia e di misericordia (le qualità tradizionalmente attribuite alla Madonna). Notiamo due fasi nel suo atteggiamento:  in un primo momento ella si comporta con tratti rigidi e severi, come una sacerdotessa che segue un preciso rituale liturgico (dà la mano, vv. 3-4; sta in ginocchio , vv. 5-6; alza le braccia, v.9);  solo dopo che la purezza e l'innocenza spirituale del figlio sono state riconosciute dall'assenso divino (v.12), la madre riacquista dolcezza e affettuosità (guarda e sospira , vv. 13-15). L’ERMETISMO La principale corrente poetica italiana del periodo tra le due guerre fu l’Ermetismo, che raccolse attorno a sé un gruppo di poeti, appartenenti soprattutto all’area della cultura fiorentina. I principali animatori si mossero nell’ambito della cultura cattolica e si mantennero sostanzialmente estranei al fascismo. Gli ermetici intendevano riproporre una poesia ispirata all’esperienza del Simbolismo e alla concezione “sacrale” della parola. L’origine del termine “ermetico” si deve a Francesco Flora, che pubblicò un saggio intitolato La poesia ermetica, nel quale polemizzava contro la poesia italiana dell’epoca, da lui giudicata oscura, di difficile comprensione; così il termine ermetico venne utilizzato per indicare delle accessioni di “misterioso”. Al giudizio negativo di Flora si contrappose quello che può essere considerato il manifesto teorico dell’Ermetismo, il saggio Letterature come vita di Carlo Bo. No rovescia la visione dannunziana della “vita come opera d’arte” in nome di una letteratura lontana dalla storia. Una letteratura considerata non come “professione”, ma come “condizione esistenziale”; può essere identificata con la vita ed è l’unico “movimento di verità” grazie al quale è possibile riscattare il grigiore dell’esistenza quotidiana. Affinché ciò possa avvenire, la poesia deve essere riservata a una cerchia ristretta. Ne deriva la ricerca di un’esasperata perfezione formale, di un linguaggio simbolico, di forme non esplicite ma suggestive. La cultura era sempre più prigioniera del regime fascista, all’intellettuale non restava che chiudersi in una sorta di isolamento. Non è un caso che i temi ricorrenti dell’Ermetismo fossero proprio volontà di comunicare il dolore intimo, la difficoltà del vivere e la solitudine. L’Ermetismo affonda le sue radici nella poesia simbolista. Ma, dal punto di vista stilistico e formale, gli emetici guardarono con attenzione anche all’opera di Ungaretti, alla sua ricerca di essenzialità e alla sua capacità di collegare immagini e idee lontane tra loro. I caratteri della scrittura ermetica furono: -descrizione di luoghi e paesaggi statici, privi di connotazioni precise ma carichi di significati e di evocazioni. I monti, le vie, il mare sono emblemi, spazi mitici di una geografia mentale, che esprimono intime emozioni e stati d’animo; -contenuti privati e introspettivi: il poeta esprime sé stesso in un monologo lirico che esclude il confronto con il contesto storico; -preferenza per il nesso ritmico-musicale rispetto a quello logico-sintattico; -l’uso di un linguaggio in cui la parola poetica deve essere evocativa e allusiva; -il ricorso a un duplice registro linguistico: da un lato vocaboli comuni, dall’altro termini ricercati e preziosi; -una sintassi rarefatta e frammentata; -il recupero dei metri classici. Letteratura come vita, Carlo Bo Letteratura come vita è un saggio pubblicato da Carlo Bo e apparso nel settembre 1938 sulla rivista «Il Frontespizio» (poi ristampato nel volume Otto studi, Vallecchi, Firenze 1939). Il saggio è fondamentale per comprendere le motivazioni profonde dell'Ermetismo. Bo rifiuta l'idea di una letteratura vista come pratica abitudinaria o come esercizio professionale nel tempo libero, e la definisce come la strada più completa per la conoscenza di noi stessi e per dare vita alla nostra coscienza. Cade così ogni possibilità di impostare il rapporto arte-vita secondo le regole dell'estetismo decadente, tracciato in Italia da Gabriele D'Annunzio. Rifiutando ogni lusinga esteriore, la letteratura si identifica con l'io profondo del soggetto, risalendo alle origini centrali dell'uomo. La letteratura esprime la purezza dell'esistenza e l'indiscutibilità di valori, si propone come scopo esclusivo la ricerca della verità e per questo è una "missione" e non un mestiere. Dal momento che la considera un prezioso strumento di conoscenza di sé non vuole che venga ridotta la sua funzione alla semplice descrizione di costumi ed epoche storiche. La letteratura recupera i significati profondi e primitivi della vita dell'uomo e, pertanto, non può che escludere ogni rapporto con la politica e con la storia. La letteratura contribuisce alla scoperta di un'identità che si allontana dalla realtà storica della società umana. La letteratura è ricerca continua di noi stessi ed impegno quotidiano dell'uomo. MONTALE Eugenio Montale nacque a Genova nel 1896 da una famiglia benestante. A causa della sua salute, Eugenio compì studi irregolari, ma si diplomò comunque ragioniere, dedicandosi anche alla musica e al canto. Lesse moltissimo, in particolare i poeti simbolisti francesi. Si arruolò volontario e combatté in Trentino. Finita la guerra, tornò a Genova e conobbe Anna degli Umberti che, col nome di Arletta, fu una delle donne ispiratrici della sua poesia. Pubblicò alcune delle sue liriche sulla rivista “Primo tempo”. Successivamente uscì anche Ossi di seppia, la sua prima raccolta poetica. Montale si dedicò all’attività di critico letterario, collaborando con alcune riviste: aperto alle novità, fu uno dei primi in Italia ad apprezzare l’opera di Svevo. Montale orientò sempre più i suoi interessi verso la letteratura in lingua inglese, soprattutto dopo aver conosciuto Thomas Eliot, di cui tradusse un poemetto. Successivamente si trasferì a Firenze e divenne amico del critico Gianfranco Contini. L’influenza di Contini e di Eliot fu decisiva nell’indirizzarlo agli studi danteschi. Ad avvicinare Montale a Dante contribuì anche la giovane ebrea americana Irma Brandeis, Clizia nelle sue poesie, a cui Montale dedicherà Le Occasioni. Nel periodo della seconda guerra mondiale rimase a Firenze, vivendo di traduzioni e di collaborazioni giornalistiche; ebbe modo di ospitare alcuni amici letterati ebrei costretti alla clandestinità dalle leggi razziali, tra i quali Carlo Levi e Umberto Saba. Si iscrisse al Partito d’azione e ricevette un incarico culturale, ma la sua esperienza politica fu breve; maturò la convinzione che la poesia e l’attività dell’intellettuale dovevano essere estranee alla politica. Successivamente si trasferì a Milano, dove collaborò con il “Corriere della Sera“. Nel 1963 restò vedovo e, quattro anni dopo, fu nominato senatore a vita. Negli anni successivi continuò a comporre poesie. Nel 1975 gli fu conferito il premio Nobel per la letteratura. Montale morì a Milano nel 1981. Poesia ‘metafisica’ La poesia di Montale non è una forma di confessione, ma piuttosto una sorta di testimonianza, che consente al poeta di affidare a un interlocutore le sue riflessioni sul disagio esistenziale. Montale sostiene di essere nato nel “solco“ della poesia che “si può dire metafisica“, la quale “non rinunzia alla ragione“. Il primo libro di Montale sarebbe il tentativo di cogliere “qualcosa di essenziale“, tentativo destinato al fallimento: la precarietà del reale e la sua illusorietà rendono questo avvicinamento impossibile. Nella poesia di Montale tutti i fenomeni vengono percepiti come una barriera che impedisce di andare oltre; il poeta cerca di scoprire un “punto morto“, attraverso il quale trascendere “l’inganno consueto“ del “mondo come rappresentazione“. La poesia può trovare il modo di lanciare uno sguardo aldilà dello opaca fisicità del mondo, per approdare a una “verità“. Essa funziona come “mezzo di conoscenza“. Poetica dell’oggetto La parola è lo strumento di cui si serve il poeta per confrontarsi con il mondo attraverso l’osservazione di oggetti, immagini e voci della natura che diventano emblemi di quel “male di vivere“ che nasce dalla mancanza di certezze e dalla negazione di ogni illusione. Si va quindi delineando una poetica dell’oggetto, un modo cioè di esprimere la condizione esistenziale attraverso oggetti che la evocano. Il poeta non dispone di parole capaci di dare forme universali al pensiero, ma lo può rappresentare attraverso luoghi, situazioni, esseri animati o cose che ne diventano il “corrispettivo“. Negli Ossi di seppia è presente un immaginario ricorrente di cui il lettore impara a riconoscere gli elementi: l’acqua è senso della vita, ed è contrapposta all’aridità, che rappresenta la nostra tragica “condizione umana”. Gli oggetti si caricano di un valore metaforico e metafisico tale da farli diventare l’unica presenza concreta dell’esistenza. La ricerca del ‘Varco’ -il desiderio irrealizzabile di recuperare il passato, espresso attraverso suggestioni evocative. La maggior parte delle liriche di Ossi di seppia ha come sfondo il paesaggio ligure, che diviene metafora e correlativo oggetto della negatività dell’esistenza. Il paesaggio degli “ossi brevi“ ha tratti essenziali e ricorrenti: il poeta descrive un “orto assetato“ o un “terreno bruciato“. I muri delle case sono scoloriti, il suono è polveroso e attraversato da crepe. Unica presenza che resiste in questo habitat inospitale è il girasole. Con gli Ossi di seppia nella poetica Montaliana vi è il superamento dei maggiori poeti di inizio novecento, Pascoli e D’Annunzio. Vi è la scelta di un linguaggio antiletterario e aspro, in grado di esprimere il disagio esistenziale attraverso immagini rappresentative ed eloquenti, e la ricerca di una nuova musicalità. Tuttavia, la nuova poetica non rifiuta il linguaggio e la metrica tradizionale: al registro aulico si affiancavano termini colloquiali e tecnici, mentre all’uso dei versi endecasillabi settenari, si alternava l’impiego del verso libero. Non Chiederci la Parola Questa lirica è una vera e propria dichiarazione di poetica, in cui Montale nega la possibilità di proclamare verità assolute. In questa lirica il poeta esprime la sua concezione della poesia e del ruolo del poeta. Egli si rivolge a un “tu“ generico, un interlocutore che sembra aspettarsi da lui una precisa dichiarazione poetica. Nella prima quartina, oggetto di polemica è la figura del poeta “vate“ che si proponeva come guida della società e ispiratore di valori. È impossibile, secondo Montale, che l’animo umano, privo di certezze, venga reso regolare in modo che risulti brillante. Al rifiuto di esprimere parole in grado di illuminare, si accompagna l’immagine del fiore solitario, in un prato pieno di polvere, correlativo oggetto del grigiore, della solitudine umana e del senso di incomunicabilità. Nella seconda quartina, bersaglio del poeta è l’uomo che vive di certezze ed è sicuro di sé, ma che non riesce a comprendere gli aspetti più inquietanti della realtà, evocati attraverso il correlativo oggetto dell’ombra sul muro “scalcinato“, emblema del disagio soffocante della quotidianità. Nella quartina finale, Montale sembra riferirsi ai poeti simbolisti, che teorizzavano l’esistenza di una dimensione raggiungibile solo grazie al potere evocativo della poesia. La poesia deve comunicare in un linguaggio scarno e farsi emblema della sofferta condizione umana. Gli ultimi due versi contengono la rassegnata consapevolezza dell’impossibilità di comprendere ed esprimere persino se stessi. La lirica, composta negli anni in cui si andava affermando il fascismo, va interpretata come un riflesso dell’emarginazione, da parte del regime, della borghesia colta e liberale, del cui disagio è portavoce il poeta. Non chiederci la parola è una sorta di manifesto della poetica della “negatività“. Per il poeta è impossibile dare risposte certe e presentarsi come detentore di verità assolute: egli può soltanto dirci ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Le parole con cui può esprimere questo male di vivere non possono che essere aride e asciutte, perché specchio di una sofferta crisi spirituale. La lirica testimonia una grande attenzione formale. Il testo a livello fonico è ricco di assonanze e allitterazioni di R, S e C. Tipico della poesia montaliana è anche l’uso di parole dotte e ricercate che si innestano sul tono medio e colloquiale, reso dall’uso costante del “tu”. Meriggiare pallido e assorto Questa poesia è una delle più suggestive della raccolta. Centrale è il paesaggio ligure: colto nella sua aridità nelle ore in cui il sole brucia e abbaglia, diventa emblema della dolorosa condizione esistenziale. Le prime tre strofe hanno una funzione descrittiva. In esse sono colte le sensazioni provate dal poeta. Nella quarta strofa, di carattere riflessivo, Montale esprime la concezione dolorosa e tragica della vita. Nel paesaggio arido e assolato il poeta ha una rivelazione che lo porta a un’improvvisa presa di coscienza: la vita è come camminare lungo una muraglia, coperta di cocci di bottiglia. La conclusione della lirica esprime l’impossibilità di una fuga o di apertura, e testimonia la drammaticità della condizione umana, condannata alla solitudine. Centrale della lirica è il ruolo del paesaggio ligure, brullo e assolato, che diviene correlativo oggettivo della negatività dell’esistenza. Nella natura riarsa dal sole il poeta coglie l’angoscia esistenziale dell’uomo e rimane come “sospeso“, in attesa di un evento miracoloso che gli permette di scoprire il “varco“ da cui fuggire, dalla drammaticità della sua condizione. I verbi all’infinito conferiscono alla lirica un senso di continuità e di durata indefinito e un valore assoluto e universale alla condizione esistenziale del poeta. Alla caratterizzazione del paesaggio contribuisce la scelta di un linguaggio aspro: le parole, spesso in rima, suggeriscono l’idea dell’ambiente bruciato dal sole. Spesso il male di vivere ho incontrato Montale ha visione profondamente negativa dell'esistenza. Il male di vivere interessa ogni essere vivente, non solo l'uomo. Nella lirica ne sono testimonianza il ruscello strozzato, la foglia accartocciata, il cavallo stramazzato, tre immagini che rappresentano una vita che si spegne bruscamente soffocata. L'unico rimedio possibile all'uomo è quello dell'indifferenza. Eugenio Montale interpreta le inquietudini, il malessere e l'impotenza dell'uomo di cultura che vede sgretolarsi i propri punti di riferimento e avverte l'impotenza della cultura e della ragione di fronte alle devastazioni di due guerre mondiali e alla nascita di regimi illiberali e totalitari in Europa. Registra con un linguaggio arido, scabro ed essenziale, l'impossibilità dell'uomo di comunicare e la sua disarmonia col mondo. Il poeta non ha verità o certezze da rivelare; di fronte all'impossibilità di ogni consolazione non resta che l'accettazione dignitosa della propria condizione di angoscia e di sconfitta. Nella vita, dice il poeta, domina il dolore. Intorno all'uomo è sofferenza: sofferenza nelle cose, negli animali, nelle persone. È il male di vivere, una concezione pessimistica dell'esistenza che avvicina Montale a Leopardi. L'unico rimedio al male di vivere è l'indifferenza, che è divina perché ci consente di restare sereni e impassibili come gli dei del mondo antico. Al male di vivere, a questa ferrea necessità dell'esistenza, il poeta contrappone la sua scelta morale, l'impassibilità, l'isolamento. Sono questi il suo bene di vivere, la sua filosofia della vita. Nella formula montaliana del male del vivere si è riconosciuta l'intera cultura tra le due guerre. Questo male di vivere è: il disagio contemporaneo di fronte a un mondo di odio e d'incomprensione; l'angoscia per la caduta dei valori e degli ideali che avevano reso più accettabile l'esistenza alle generazioni precedenti; il sentimento doloroso di chi non sa più conferire significato e scopo ai propri giorni. Il poeta rappresenta tutto ciò con la forza di alcuni eloquenti oggetti poetici. Si tratta di oggetti emblematici, che si caricano di un valore generale di simbolo: spesso, in montale, cose concrete diventano segno di concetti astratti. Si comincia individuando gli emblemi del male: il ruscello strozzato, la foglia incartocciata sul terreno, il cavallo caduto. Il bene per contro, non c'è, o meglio, consiste nell'assenza del male. Da qui l'invito del poeta a fuggire: bisogna fuggire in ciò che egli chiama indifferenza. Essa è l'unica realtà divina, perché ci porta fuori dall'esistente, fuori come sono già altri oggetti emblematici: la statua: inattaccabile dai sentimenti e dalla sofferenza la nuvola e il falco staccati dal mondo e preservati così da ogni bruttura In ciò risiede il precario messaggio che il poeta può offrirci in positivo: bisogna contemplare ogni cosa dall'alto, secondo il tipico volo del falco, e da fermi, come una statua. Questo è l'unico bene concesso agli uomini. LE OCCASIONI La raccolta Le occasioni comprende poesie scritte fra il 1928 il 1939. Una prima edizione fu pubblicata nel 1939 e conteneva 50 poesie; nella seconda edizione il poeta aggiunse altre quattro liriche. La sesta edizione reca la dedica “a I.B.“, iniziali di Irma Brandeis, cantata con il nome di Clizia. Irma fu oggetto di una grande passione amorosa e fu l’ispiratrice della raccolta. Il titolo della raccolta fa riferimento alle “occasioni“ da cui nasce la poesia: frammenti del passato, volti di donne amate in grado di creare un contatto illusorio tra passato e presente. Sono situazioni concrete, legate al vissuto dell’autore, che sembrano accendere la vita di improvvise illuminazioni. L’occasione, però, può rivelarsi una delusione, spesso legata alla presa di coscienza del trascorrere del tempo che annienta il passato. L’opera si presenta con una prima poesia introduttiva, cui seguono quattro sezioni senza titolo, eccetto la seconda, intitolata “Mottetti“. Nella prima sezione vi dominano le riflessioni sul trascorrere del tempo e sulla memoria, che tenta di recuperare vaghe tracce di un passato ormai perduto. Nella seconda edizione vi sono elaborati i motivi dell’assenza, del distacco, della lontananza dell’amata e l’attesa illusoria del suo ritorno. La terza sezione affronta il tema della poesia che deve misurarsi con l’irrompere della violenza e della volgarità della storia. La quarta e ultima sezione è aperta da liriche in cui emerge il senso di inafferrabilità dei ricordi passati, irripetibili. Affiora il desiderio del poeta di trovare il “varco“, la possibile salvezza, rappresentata dalle figure femminili. Ma la speranza di un miracolo svanisce generando dolorosa tristezza e un senso amaro di smarrimento. Il tema era già presente negli Ossi di seppia, ma ora la possibilità di intravedere una qualche certezza storica o metafisica, è resa più sofferta dalla complessità delle vicende umane, personali e storiche. Nelle occasioni la ricerca del “varco“ è stata spesso legata alla figura di Clizia che si trasforma in una donna salvifica, la quale soccorre il poeta dell’imminente tragedia della guerra. Rispetto agli Ossi, Le occasioni presentano una maggiore varietà tematica, in cui trovano spazio anche aspetti della realtà storica degli anni 30, come le leggi razziali. Nelle occasioni lo sguardo si rivolge alla propria vicenda privata, le ambientazioni sono prevalentemente toscane, scompare la natura inaridita che è sfondo della prima raccolta. Sono solo gli oggetti che permettono di comprendere lo stato d’animo del poeta. Mentre le liriche degli Ossi hanno solitamente una parte descrittiva e una riflessiva originata dai correlativi oggettivi, nelle occasioni il poeta fa parlare solo gli oggetti, le cose considerate nella loro essenza che si caricano di un significato allusivo non sempre facilmente decifrabile. L’accentuarsi dell’ “oscurità“ delle liriche delle Occasioni è sottolineata dallo stesso Montale. I “motivi“ autobiografici di queste liriche si celano dietro allusioni frammentarie, episodi privati che sono ignoti al lettore. Montale pensò ad una poesia che parlasse di persone e stati d’animo particolari senza raccontare apertamente i fatti e dichiarare l’identità di protagonisti. La difficoltà di lettura dei contenuti si traduce in una nuova densità e concentrazione espressive. Il linguaggio colloquiale degli Ossi di seppia lascia il posto uno stile più complesso e impenetrabile. Vi è anche l’adozione di un lessico raffinato. La Casa dei Doganieri La casa dei doganieri è il luogo, l’occasione, che ispira al poeta questa lirica. Egli evoca un attimo di felicità della sua giovinezza. Ma questo ricordo, anziché gioia, suscita un senso di smarrimento legato alla consapevolezza dello scorrere inesorabile del tempo. La donna cui Montale si rivolge è Annetta, che è stata identificata in Anna degli Uberti che trascorse le vacanze estive a Monterosso fino al 1924. Da allora, il rapporto del poeta con Annetta cessò quasi del tutto, anche se la donna visse fino al 1959. La realtà poetica non sembra, quindi, coincidere con la realtà storica. Il motivo centrale della lirica è l’oblio, identificato dal poeta con la donna assente. La mancanza di ricordi per il poeta rappresenta un male, perché annulla il senso della vita trascorsa, il presente, in cui poesia di Saba si mantiene lontana dalle ricerche di avanguardia, ma possiede un alto potere di rinnovamento dei contenuti e del linguaggio. Città Vecchia Saba sta attraversando la parte vecchia di Trieste, quella dei quartieri più degradati dove vive un’umanità emarginata e disprezzata, con la quale sente un legame profondo di solidarietà e fratellanza. È l’espressione più sentita dell’amore del poeta per la sua città. Per tornare alla propria casa, Saba attraversa i quartieri vecchi di Trieste, dove vivono persone semplici e umili. In esse e nella loro vita quotidiana il poeta coglie la realtà istintiva e profonda dell’essere uomini, nelle loro apparenti bassezze scorge l’<infinito> e la presenza di Dio. Fra la gente che va e viene egli ritrova le ragioni stesse dell’esistenza e instaura con essa un rapporto di fratellanza e profonda partecipazione. La prima strofa è caratterizzata dal contrasto cromatico tra l’oscurità della città vecchia e il giallo di qualche lampione che si specchia nelle pozzanghere. Nella seconda strofa il poeta descrive gli ambienti (<osteria>, <casa >) e i personaggi, dapprima indistintamente, poi attribuendo loro una precisa individualità con dettagli sempre maggiori. Nella terza strofa Saba dichiara la sua vicinanza spirituale a quegli umili. La visione della città non è idilliaca, né gli umili sono rappresentati in modo idealizzato. Saba ne coglie gli aspetti più squallidi e degradati, ma proprio dove <più turpe è la via> sente il suo pensiero farsi <più puro> e scoprire il valore religioso dell’esistenza. Il termine Signore rima con le parole amore e dolore: queste sono, per Saba, gli aspetti essenziali della vita che si ritrovano in altre sue poesie (Ulisse). Saba si discosta nelle modalità di espressione dei modelli poetici a lui contemporanei, per scegliere una materia umile attraverso la quale raggiunge una purezza di cuore e di poesia che nel basso dell’esistenza lo porta a scorgere <l’infinito nell’unanimità >. Ulisse Confrontandosi con Ulisse, l'eroe viaggiatore dell'antichità, Saba fa un bilancio della propria vita. Anche lui ha conosciuto delusioni e drammi; tuttavia non si è fatto prendere dalla disperazione, né dalla tentazione di un pigro riposo: ha scelto, pur con fatica, di continuare il viaggio fino ai confini del mondo, cioè, fino ad abbracciare la vita tutta intera e fino alle radici segrete del proprio io. Anche il poeta sente di avere un regno, come Ulisse che era Re di Itaca. Il poeta è "sospinto ANCORA al largo dal non domato spirito", così come Ulisse, uccisi i Proci, riparte verso terre lontane invece di godersi la vecchiaia insieme i suoi cari, anche il poeta conserva uno spirito di meraviglia e d'avventura pur essendo in un'età di maturità letteraria. Il poeta si identifica nel personaggio di Ulisse. L'eroe greco rispecchia lo stato d'animo attuale di Saba e la sua disposizione di spirito: l'autore è infatti nella tarda maturità (ha superato i sessant'anni), ma sente di non avere esaurito la propria parabola esistenziale; anzi, la vita può ancora offrirgli verità da scoprire, purché non si accontenti dell'approdo, ma si metta in viaggio per raggiungere altre mete (i temi riguardanti il porto e il viaggio sono ricorrenti nel Canzoniere). L'analogia che vi è tra Saba e Ulisse si estende a molti degli elementi presenti nel testo. Per esempio, gli isolotti che emergono sul pelo dell'acqua, che paiono belli come smeraldi alla luce del sole, ma in realtà micidiali per le navi durante l'alta marea notturna, alludono all'isola delle sirene. Queste, nella mitologia classica, erano rappresentate con il corpo metà di donna e metà di volatile (sono forse adombrate nell'uccello intento a prede) ed erano causa di morte per i marinai incautamente attratti dal loro canto fascinoso ma fatale; perciò le vele devono fuggirne l'insidia. Saba introduce gli scogli come un emblema delle difficoltà dei pericoli della vita, da cui si sente affascinato, malgrado le insidie che nascondono (scivolosi). MORAVIA Alberto Moravia nacque a Roma nel 1907 da una famiglia dell’alta borghesia. A causa di una lunga malattia non fece studi regolari, ma ebbe comunque modo di leggere moltissimo. Il suo romanzo giovanile, Gli indifferenti, segnò l’inizio di una lunga carriera letteraria, ma gli attirò anche l’ostilità del regime fascista, che lo spinse a lasciare diverse volte l’Italia. Uno stile oggettivo e analitico prevale nei primi romanzi, ma durante gli anni Trenta, Moravia accolse anche motivi intimistici che si ritrovarono in numerosi racconti lunghi. Dopo la guerra la sua narrativa si aprì alla tendenza neorealista. Negli anni sessanta la sua gamma narrativa si aprì a tematiche psicoanalitiche, con particolare riguardo alle problematiche sessuali. Di Moravia non vanno dimenticate l’attività giornalistica e la produzione di saggi di costume e di critica letteraria e cinematografica. Morì a Roma nel 1990. GLI INDIFFERENTI Siamo nel mondo dell’alta borghesia romana alla fine degli anni Venti. Maria grazia, vedova con due figli, Carla e Michele, ha per amante Leo Merumeci, che ha assunto il controllo delle risorse economiche della famiglia. Il rapporto tra i due è inquinato da frequenti manifestazioni di gelosia da parte della donna, che rinfaccia a Leo una relazione con una vecchia fiamma, Lisa. Ma Leo è interessato alla giovane Carla, la quale, pur odiandolo, ne subisce le attenzioni, per noia e per un vago senso di rivalsa sulla madre. Michele, disgustato da questa situazione, sente di dover intervenire e progetta di uccidere Leo. Ma anche lui, come i suoi familiari, è malato di indifferenza e il suo tentativo fallisce in modo grottesco (si dimentica di caricare la pistola). Allora si rassegna, e cede alle lusinghe di Lisa, invaghitasi di lui, mentre Leo riesce a sposare Carla, lasciando Mariagrazia nella solitudine e nello squallore quotidiano. Quando scrisse Gli indifferenti, Moravia non aveva obiettivi intenzionalmente sperimentali e si affidò in particolare alla lezione di Dostoevskij per rappresentare l’ambiente che meglio conosceva, quello della buona borghesia romana, mettendone a nudo il vuoto interiore, il torpore, l’indifferenza morale. Il tempo della storia è ridotto a soli due giorni, mentre il tempo del racconto si dilata riempiendosi di particolari. La scelta di concentrare l’azione in poco tempo e su pochi personaggi consente all’autore di approfondire le loro complesse motivazioni e le relazioni che li legano. L’immagine che ne scaturisce è quella di persone senza possibilità di riscatto. La voce narrante, in terza persona, registra impassibilmente i fatti e i pensieri. Lo stile rifiuta ogni preziosismo; la prosa è semplice e asciutta. La struttura del romanzo è di tipo teatrale: i capitoli iniziano e terminano ciascuno con l’ingresso e l’uscita dei personaggi; il numero dei personaggi è ridotto. Nel terzo capitolo, i protagonisti principali della vicenda sono riuniti in salotto e discutono dell’imminente rovina economica, evidenziando la loro apatia di fronte al problema. I personaggi sono creature vuote, che agiscono come manichini, con pesantezza di gesti molto calcolati. Carla, Leo e gli altri protagonisti dialogano senza un unico fulcro, ognuno tentando di imporre il proprio pensiero e la propria visione del mondo, senza uscire dai propri stereotipi. Nessuno di loro sa creare qualcosa di diverso dalla mera ripetizione di gesti: la stessa Carla è una Mariagrazia in piccolo, con gli stessi limiti e le stesse debolezze. L’intera famiglia Ardengo costruisce la propria esistenza sui formalismi, i materialismi, la ricchezza e il buon nome; ciò che è ritenuto importante è l’apparenza, come appare agli occhi degli altri. Gli arredamenti all’interno della casa manifestano un buon gusto e l’interesse per lo sfarzo e il lusso, nonostante i membri familiari stiano attraversando una grave crisi economica a cui non sanno come porre fine. Ogni accessorio della casa è statico, come se facesse parte di una scenografia teatrale. Moravia utilizza molta teatralità nella descrizione dei dialoghi dei personaggi e delle loro azioni. Carla non riesce a sostenere lo sguardo di Leo senza dar spazio alle proprie emozioni, poiché è una ragazza che si fa travolgere dagli eventi e che si sente costretta a fare i conti con sé stessa, appare violata da Leo. Mariagrazia, mentre Leo parla di affari, si guarda le unghie; vive in un mondo fatto di feste. Non vuole rinunciare alla sua vita privilegiata, si serve della figlia per mantenere la sua posizione, dicendo che non avrebbe trovando matrimonio andando in un semplice appartamento. Disprezza la massa FINALE DEL PIACERE Michele aveva saputo della relazione tra Leo e Carla, aveva tentato di sparare Leo e aveva fallito; alla fine si incontrano tutti e tre, all’insaputa di Maria Grazia e Michele non vuole che la sorella vada a finire nelle grinfie di Leo. Cerca di riporvi rimedio, le dice che ciò che ha fatto non importa, che la villa può essere venduta e che possono cambiare vita; in realtà, Leo voleva comprare la villa con il prezzo imposto dalla banca, molto basso rispetto al suo vero valore. Così, quando Leo vede che l’affare non sta andando a buon fine, capisce che l’unico modo per poter continuare a manovrare e controllare la famiglia è quello di entrare a far parte della famiglia stessa, sposando Carla. Lei risponde ‘sposarci? Noi due, sposarci?’, ha un atteggiamento completamente passivo. Moravia, inoltre descrive la scena e afferma che essa avviene mentre la pioggia cade; essa è una presenza simbolica all’interno del romanzo, rappresenta la monotonia della vita di queste persone. L’unico cenno di vitalità lo possiamo trovare nella figura di Michele, che però, al tempo stesso, parla, ma non è convinto di ciò che dice a sua sorella. Tutto il romanzo è caratterizzato da questa contrapposizione, tra quello che pensano e quello che dicono: Michele vuole salvare la sorella dalla falsità e dall’ipocrisia di Leo, ma dall’altra parte neanche lui ne è convinto, non vuole prendersi la responsabilità di cambiare vita. Tecnica: periodi lunghi, ma scrittura asciutta, essenziale e razionale. Priva di abbellimenti, canone dell’impersonalità
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