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Proibito capire di Gigliola Fragnito, Sintesi del corso di Storia Moderna

Un'indagine sulla politica adottata dalla Chiesa della Controriforma contro l'uso della lingua volgare.

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016
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Scarica Proibito capire di Gigliola Fragnito e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Gigliola Fragnito Proibito capire: la Chiesa e il volgare nella prima età moderna Introduzione Solo il 7 marzo 1965 la lingua parlata, il volgare, entrò per la prima volta ufficialmente nel culto liturgico, con la prima messa in italiano pronunciata da papa Paolo VI nella chiesa di Ognissanti sull’Appia Nuova. Un evento definito dal papa stesso memorabile nella storia della Chiesa, che veniva a interrompere secoli di chiusura nei confronti delle lingue vernacole; un risultato peraltro ottenuto non senza una forzatura, da parte del papa, su quanto stabilito dal Concilio Vaticano II due anni prima, quando l’uso della lingua latina era stato confermato come preminente, pur lasciando più ampio spazio alle lingue vernacole. Nell’omelia il pontefice sottolineò come, per arrivare a tutti, tradizioni di secoli eran state sacrificate. E in effetti la Chiesa, dopo una prima apertura in cui si era avvalsa dell’arte tipografica e del volgare come strumenti per l’estensione della fede, a seguito del trauma della riforma protestante, invertì la rotta. E’ importante sottolineare che vi fu una fase in cui l’uso del volgare nei testi sacri fu ben tollerato, anzi incoraggiato, promosso dalla Chiesa di Roma. A partire dalla metà del Quattrocento, infatti, dalle tipografie uscirono numerosissimi i testi sacri e di argomento religioso: lezionari, salmi, opere della pietà popolare che incorporavano, spesso, brani della messa ed estratti delle Scritture, oltre che traduzioni in volgare dell’Antico e del Nuovo Testamento. Inoltre i frati mendicanti avevano fatto della predicazione in volgare il fulcro della propria attività pastorale, una predicazione rivolta a tutti, che spesso si traduceva nella pubblicazione di raccolte di sermoni o opuscoletti per la pratica della confessione e della penitenza – questa spinta, quest’impulso verso un più ampio accesso alla conoscenza delle Sacre Scritture favorì l’abbattimento di una barriera socio-linguistica e permise di diffondere una più ampia conoscenza religiosa, pratiche devozionali più intime e più consapevoli. Insomma l’esigenza di una più piena e consapevole partecipazione individuale del fedele alle varie forme della vita religiosa era nata in seno alla Chiesa di Roma, ben prima del dilagare delle dottrine protestanti – fu soltanto quando i riformatori fecero di quest’approccio individuale, intimo alla fede ed alle Scritture uno dei cardini della propria dottrina che tale esigenza assunse una connotazione eterodossa nel nuovo clima venutosi a creare. Fu di fronte alla rapida ed estesa infiltrazione in Italia delle dottrine protestanti ed al coinvolgimento di tutti gli strati della società nei dibattiti e nelle discussioni che le autorità ecclesiastiche si resero conto della forza eversiva che l’allargamento del sapere religioso a gruppi sociali a lungo estranei alla cultura scritta poteva avere. E così nel giro di pochi decenni gli spazi crescenti che la lingua italiana era riuscita a conquistare vennero progressivamente ridotti – l’autrice insiste sulle conseguenze che quest’evento ebbe sulla cultura e sulla religione italiane. Le ricadute che il riaffermato monopolio del latino ebbero andarono ben al di là della sfera teologica e biblica, determinando profonde modifiche nella pratica devota, oltre che nell’insegnamento primario. Ed anche quando il pericolo della Riforma, nella penisola, era ormai stato debellato, la Chiesa si portò dietro ancora per secoli la paura di intromissioni di laici e semplici nelle questioni di fede. E così la Chiesa bloccò e continuò a bloccare quel processo di maturazione culturale e religiosa, quell’affinamento delle esigenze spirituali, chiudendo sempre più il proprio patrimonio di fede in un fortilizio inespugnabile da chi non possedesse la chiave del latino. All’alba del diciassettesimo secolo, dopo un lungo e contrastato itinerario ai vertici stessi della Chiesa, l’idea che l’accesso al sapere religioso dovesse essere riservato alle élites ecclesiastiche e culturali non incontrava più resistenze. Indici Nel corso della seconda metà del Cinquecento vennero promulgati a Roma tre indici dei libri proibiti: nel 1558, nel 1564 e nel 1596. La Congregazione romana del Sant’Ufficio, per decisione di Paolo IV, redasse il primo; una commissione di vescovi nominata su ordine di Pio IV dal Concilio di Trento, preparò il secondo, il cosiddetto indice tridentino; la Congregazione dell’Indice stilò il terzo. La diversa natura delle autorità emanatrici ebbe peso rilevante sia sotto il profilo delle condanne, sia sotto la modalità di applicazione. L’autrice ricostruisce il complesso, spesso contraddittorio percorso di promulgazione di indici e di censure da parte delle autorità ecclesiastiche romane che elaborarono le norme finalizzate a tale scopo. Fu dalla fine degli anni Cinquanta del Cinquecento che tale disegno fu perseguito lucidamente, ma esso incontrò lungo tutta l’ultima parte del secolo forti resistenze ai vertici della Chiesa (dovute spesso, in realtà, a contrasti dovuti ai rapporti di autorità tra Inquisizione, papato ed episcopato, più che a divergenze sui margini di consapevolezza religiosa e teologica ch’era giusto concedere ai fedeli) e poté imporsi solo alla fine del secolo, dopo il 1596, grazie a un gesto di grave insubordinazione. Riassumendo in breve, possiamo dire che il primo indice fu caratterizzato da un’estrema severità delle proibizioni, tanto che nel 1561, su pressione di molti, venne redatta una Moderatio indicis: il documento apportava forti attenuazioni ai divieti del 1558 ed interveniva sulla scottante questione dell’assoluzione dalla scomunica, ampliando tale facoltà ai vescovi; in un certo senso la Moderatio fu un primo passo verso lo scardinamento di un sistema di controlli rigidissimi da parte dell’Inquisizione, verso la quale pendeva uno sbilanciamento di poteri ormai eccessivo. Dì lì a poco, infatti, il pontefice affidò ai padri riuniti a Trento il compito di redigere un nuovo indice, restituendo così pienamente ai vescovi le competenze in materia di fede. Molto più moderato (limitazione di molti divieti, frequenti licenze), il nuovo indice, lungi dal considerare la lettura della Scrittura come fonte di tutte le eresie, riteneva che essa potesse contribuire alla maturazione spirituale del credente. Questa apertura era, però, destinata a durare pochi anni: il tempo che sulla cattedra di San Pietro salisse il Ghislieri, nel 1566. Proveniente dall’apparato inquisitoriale e tra gli estensori del primo indice, Pio V non tardò a sottoporre a radicale revisione l’operato dei padri tridentini e a riaffermare la preminenza dell’Inquisizione sul concilio in materia di eresia. Procedette così al ripristino dei divieti del 1558 e al progressivo svuotamento dell’indice tridentino: nominò una commissione cardinalizia, trasformata l’anno successivo da Gregorio XIII in Congregazione dell’Indice. Nei venticinque anni in cui la Congregazione dell’Indice attesa alla laboriosa redazione del nuovo indice, il Sant’Ufficio e il Maestro del Sacro Palazzo trasmisero alla periferia istruzioni ed elenchi sempre più consistenti di divieti e sospensioni di opere in palese contrasto con l’indice contenere la lenta ma sicura espansione del numero dei lettori e il più facile accesso al libro da parte di fasce sociali rimaste a lungo estranee alla cultura scritta, finché l’invenzione dell’arte tipografica e dell’uso del volgare non avevano aperto nuovi spiragli per coloro che non conoscevano il latino. Tra le opere letterarie italiane proibite non vi sono soltanto quelle espressamente condannate nell’indice, ma anche tutta una serie di testi che nell’indice clementino erano ritenuti non più accettabili, perché lascivi o contrari alla morale, o che mettevano in discussione le prerogative della Chiesa – nessun genere letterario fu risparmiato: novelle, epistole, rime, commedie (Le Rime e le Satire dell’Ariosto, il Cortegiano di Castiglione, addirittura un’opera storica sui Turchi). Per queste opere si trattava tuttavia di un sequestro, almeno teoricamente, provvisorio: dopo le opportune correzioni le opere avrebbero dovuto essere reimmesse nel circuito librario, e dunque la loro temporanea confisca non sollevò particolari proteste. Fortissime furono, invece, le resistenze per la consegna dei volgarizzamenti biblici (Bibbie integrali, Nuovi Testamenti, epistole, storie sacre, raccolte di salmi, molto spesso in rima). Questa letteratura devozionale, che affondava le radici in un’antica tradizione di divulgazione delle Scritture, era ampiamente diffusa, e ciò è dimostrato dal tenace attaccamento dei fedeli: del resto solo la certezza di una domanda che perdurava al di là delle ingiunzioni avrebbe spinto molti librai e tipografi, ancora a fine secolo, a stampare e vendere libri inseriti nell’Indice. Insomma vi era una profonda adesione a consuetudini devozionali consolidate, una diffusa familiarità con la Scrittura ed i suoi derivati alla base di queste resistenze; resistenze che spesso furono accolte e sostenute da molti vescovi ed anche inquisitori, che scrissero a Roma lettere e sollecitazioni a riesaminare le proscrizioni. Capitolo V - Lettori e lettrici, pag 261 Non era per sola consolazione spirituale, per nutrimento dello spirito che i testi proibiti venivano reclamati. Le insistenti richieste denunciavano anche una volontà di capire, di partecipare consapevolmente ai riti ed alle cerimonie religiose, di verificare personalmente i messaggi trasmessi dalla predicazione escludendo la mediazione del magistero e di superare l’incomprensione del latino. I laici, lungi dal reagire all’oscurità del latino liturgico con una formale, distratta presenza al culto eucaristico, facevano ricorso ai testi in volgare per superare la barriera linguistica. Un’importante precisazione dell’autrice riguarda la definizione di quell’ambigua categoria dei “semplici”: con essa venivano indicati non solo i ceti inferiori della società, ma anche coloro che non conoscevano il latino, o comunque prediligevano l’uso del volgare nella preghiera e nella meditazione, pur essendo stati iniziati, spesso, ad un’educazione classica. Una categoria, dunque, molto ampia, un universo socialmente e professionalmente variegato: ad esser presa di mira dal Sant’Uffizio non fu la religiosità popolare, bensì una religiosità diffusa e largamente condivisa, un linguaggio devoto che accomunava agli strati umili della società membri di case regnanti, aristocratici e gentildonne, magistrati, giuristi ed anche uomini di chiesa, chierici e monache. Tra i semplici potevano dunque celarsi persone che avevano o avrebbero dovuto avere familiarità con il latino; ma è evidente che quella categoria ambigua si riferiva perlopiù a persone escluse da un regolare processo di scolarizzazione, una categoria comunque amplissima che al suo interno lasciava convivere sfumature diversissime – un mondo che andava dall’analfabetismo al semianalfabetismo all’alfabetismo assoluto, ma che era partecipe di un patrimonio culturale condiviso, fatto di una cultura ai margini tra scrittura e oralità, trasmessa entro le pareti domestiche, nelle botteghe, nelle confraternite o nelle scuole – lettori e fruitori di ogni ceto per secoli avevano letto ed ascoltato i medesimi libri. L’autrice insiste sulle molteplici occasioni di dialogo e sui punti di intersezione tra cultura alta e cultura popolare. Tra questi libri comuni a molteplici categorie sociali i volgarizzamenti della Bibbia occupavano un posto di rilievo, secondo soltanto a quello occupato dai romanzi cavallereschi. Certamente doveva essere diversa la ricezione e la comprensione dei testi da parte di gruppi socialmente e culturalmente tanto diversi: lo dimostra il caso del mugnaio friulano Menocchio, le cui vicende mostrano come la porosità tra cultura sacra e cultura profana potesse produrre quei sincretismi che tanto preoccupavano la Chiesa. Particolarmente colpite dai divieti sembrano essere state le donne, la cui curiosità preoccupava particolarmente la Chiesa, vista la radicata convinzione della loro inferiorità intellettuale e la minore attitudine all’esercizio spirituale. Del resto le donne, spesso escluse, più degli uomini, da un percorso scolastico regolare, facevano grande uso dei volgarizzamenti biblici. Se a ciò si aggiunge un attaccamento tutto femminile all’oggetto libro, trasmesso per generazioni di madre in figlia, usato anche come amuleto, si comprende quanto traumatica dovette essere la privazione, che dunque creò forti resistenze. La commistione tra cultura religiosa e profana no nera estranea neppure all’ambiente conventuale. Va sottolineato, poi, che con le proibizioni cinquecentesche venne inaridita la vena di autrici che nel corso del Cinquecento avevano contribuito allo sviluppo della letteratura italiana femminile, spesso di carattere religioso, che si era nutrita proprio di quella grande apertura linguistica d’inizio secolo. L’assedio del volgare L’autrice sembra suggerire che l’esclusione di opere letterarie e devozionali di larghissima fortuna (romanzi cavallereschi, versificazioni di argomento religioso che ben si prestavano alla memorizzazione) ebbe ripercussioni sul processo di alfabetizzazione e di unificazione linguistica della penisola. Questi testi venivano utilizzati per avviare i bambini all’apprendimento dei rudimenti della lettura sia entro le pareti domestiche, dove le madri erano solite impartire alla prole i primi rudimenti della fede, sia nelle scuole d’abaco, dove quei libri venivano portati da casa insieme a opere della letteratura italiana. Dalla fine del Cinquecento l’insegnamento primario si fondò prevalentemente sulla lettura e sulla ripetizione mnemonica di orazioni in latino e dell’Officium Beatae Virginis – non ci si può, dunque, non interrogare sulle conseguenze culturali e linguistiche dei divieti biblici. E ciò a maggior ragione in quanto essi vennero ad interrompere una diffusa familiarità con la Bibbia, come detto. L’autrice cita alcune stime sul tasso di alfabetizzazione dell’Europa della Riforma rispetto all’Europa cattolica, insistendo sulla situazione italiana (dal censimento del 1861 risulto il 78 percento di analfabeti, dato che collocò l’Italia tra le regioni europee con il più basso tasso di alfabetizzazione). Appare dunque fondato attribuire il ritardo dell’alfabetizzazione popolare al divieto di lettura della Bibbia in volgare, anche se l’autrice non si spinge troppo oltre, ripetendo più volte che la mancanza di studi approfonditi impedisce, per il momento, di giungere a qualunque conclusione. Se il nesso alfabetizzazione- censura rimane problematico, più certa appare la correlazione tra la politica della lingua latina perseguita dalla Chiesa e la tardiva affermazione di un idioma nazionale. Molto più precocemente di altre realtà europee, già dal Trecento, l’Italia aveva elaborato una lingua letteraria, presto assurta al rango di lingua comune della cultura e della comunicazione scritta. – eppure nella comunicazione orale persistette molto a lungo l’uso dei dialetti, a tutti i livelli sociali. Molte spiegazioni sono state date: la frammentazione politica del paese, gli accentuati localismi e municipalismi, il peso della tradizione classica, il ristagno economico,.. tra questi fattori l’autrice evoca anche l’influenza della censura ecclesiastica. L’autrice individua proprio nella reazione contro la Riforma, nell’interruzione di un’antica familiarità con i volgarizzamenti biblici cresciuta indipendentemente dal Sola Scriptura luterano uno dei fattori che ostacolarono la trasformazione della lingua scritta in lingua della comunicazione orale. I divieti biblici, l’obbligo del latino rallentarono l’acquisizione e la diffusione di una competenza attiva dell’italiano, cui l’ascolto delle parole dal pulpito non poteva stimolare a sufficienza. La lingua nazionale, relegata ai margini della vita religiosa e praticamente esclusa dal processo di alfabetizzazione, si presentava ancora agli italiani unificati una lingua «forestiera» e «incognita» quanto il latino che li aveva accompagnati per secoli.
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