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"Proibito Capire", Gignola Fragnito, Sintesi del corso di Filologia

Riassunto completo del libro, 37 pagine, formato Word.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
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Caricato il 25/09/2020

vrughetti
vrughetti 🇮🇹

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Anteprima parziale del testo

Scarica "Proibito Capire", Gignola Fragnito e più Sintesi del corso in PDF di Filologia solo su Docsity! Proibito capire Capitolo primo Guerre di indici e lotte di vertici Nella seconda metà del Cinquecento a Roma vennero promulgati tre indici dei libri proibiti: • 1558, redatto dalla Congregazione romana del Sant'Ufficio per decisione di Paolo IV; • 1564, definito indice tridentino, redatto da una commissione di vescovi nominata dal Concilio di Trento per volontà di Pio IV; • 1596, stilato dalla Congregazione dell'Indice. La diversa natura delle autorità emanatrice è stata una caratteristica importante dal punto di vista delle condanne, delle loro modalità di applicazione ma soprattutto fu la causa principale del conflitto politico-istituzionale che durò per 40 anni e che coinvolse sia il papato sia le due Congregazioni, allo scopo di definire il potere e le competenze dei tre protagonisti. Con la Riforma e la diffusione delle dottrine protestanti, la Chiesa cominciò a condannare le traduzioni bibliche nelle lingue vernacolari. Infatti, se fino al 1958 le edizioni della Bibbia circolavano indisturbate, da questa data il Sant'Ufficio di Venezia vietava addirittura la stampa della Bibbia e dei trattati di argomento biblico in tutte le lingue volgari. Ciò contraddiceva quanto deciso nel Concilio di Trento del 1546, in cui i Legati non menzionarono le traduzioni sulla Vulgata e rispettavano le diversità delle tradizioni locali. Il primo indice dichiara l’impossibilità di stampa, lettura e possesso del testo sacro e di conseguenza pochi potevano accedere ad esso. Quindi l’Italia, paese in cui prevaleva la produzione di Bibbie in volgare, divenne un paese senza libri. Un’altra caratteristica di questo indice riguarda la difficoltà di applicazione di tali proibizioni. Infatti, alla morte di Paolo IV nel 1559 il cardinale Madruzzo aveva criticato la poca considerazione che il cardinale Ghislieri aveva avuto nei confronti delle opere proibite. Solo il pontefice aveva il compito di assolvere alla scomunica del reo, indipendentemente dalla gravità del reato. Il problema sorgeva nel momento in cui venivano condannati anche i soli detentori o lettori delle opere condannate, proibite: per questo si decise di applicare l’indice ai lettori e detentori futuri e non a quelli che le hanno lette in passato. Tuttavia, dato che l’elaborazione di un nuovo catalogo avrebbe richiesto tempo, il pontefice Pio IV impose al cardinale Ghislieri di preparare una Moderatio Indicis. Pubblicata nel 1561, essa autorizzò gli inquisitori locali e gli ordinari ad assolvere sia tutti coloro che in futuro avrebbero letto o tenuto libri proibiti sia coloro che lo avevano fatto in passato, purché disposti ad ubbidire in futuro. Questa decisione fu presa per porre rimedio agli ostacoli nati dalle modalità di applicazione dell’indice, in quanto anche il breve di revoca delle licenze di lettura, pubblicato nel 1559, stabiliva che chi fosse stato accusato di aver letto libri proibiti potevano essere assolto solo dal pontefice o dagli inquisitori e che chi fosse stato a conoscenza di lettori o detentori di tali opere dovesse denunciarli. Il breve, pubblicato nel 1559 e applicato ai regni spagnoli secondo le esigenze di Ferdinando de Valdés, fu appoggiato da Filippo II e revocava tutte le licenze di lettura di libri proibiti e sospetti. Tuttavia, per le regioni italiane, bisognava applicare altre misure, data la sicura resistenza da parte delle autorità civili. Pio IV decise di scendere in campo per contrastare il rigore dell’Indice e la posizione del cardinale Ghislieri. La Moderatio non fu l’unico documento che riconosceva i diritti episcopali in materia di delitti contro la fede. Il pontefice decise di affidare ai padri riuniti a Trento il compito di rivedere e redigere l’indice del 1558, ma tutto ciò portò a delle tensioni. Il breve di Pio IV del 1564 prescriveva che i libri proibiti letti o tenuti o che sarebbero stati letti o tenuti in futuro dovessero essere consegnati agli inquisitori, ma non indicava l'obbligo di denuncia o chi dovesse assolvere i rei. Inoltre, se da un lato ci fu la distinzione tra opere di autori eretici o sospetti di eresia e opere proibite, ma non ereticali, dall’altro ci fu un’ulteriore distinzione tra lettori e detentori di libri di autori eretici o sospetti di eresia, che potevano essere scomunicati o processati giudizialmente e lettori e detentori di opere proibite, ma non ereticali, macchiati di reato mortale e per questo puniti severamente. I rei dovevano essere sottomessi alla giurisdizione vescovile, mentre gli assolti dovevano essere sottoposti alla prassi canonica e quella dei casi riservati. Il Sant’Ufficio, in questo modo, non poteva sostituirsi all’episcopato nella gestione della censura; tuttavia, l’esecuzione dell’indice resta problematica • Per la fragilità dell’apparato periferico della Congregazione; • A causa della resistenza a consegnare i libri agli inquisitori per il timore che incutevano; • Data l’opposizione da parte delle autorità civili. Le modifiche introdotte da Pio V nella bolla In coena Domini del 1568 revocavano la facoltà ai vescovi di assolvere dai reati di eresia occulta, riservandola al papa, al Sant’Ufficio e ai suoi delegati. I cardinali chiesero che Clemente VIII concedesse ai vescovi e agli inquisitori l’assoluzione. stata ripristinata la regola IV tridentina relativa alle traduzioni bibliche. I cardinali chiesero di lasciare la Bibbia in volgare, ma allo stesso tempo erano timorosi che si venisse a creare una situazione di stallo, che rischiava di prolungare l’ennesimo blocco dell’Indice. Il cardinale Santoro non aveva posto solo il problema del Talmud, delle opere di Bodin e delle traduzioni bibliche, ma era in disaccordo anche con il decentramento dell’espurgazione dei libri sospesi demandata a ordinari ed inquisitori. Egli temeva che ci potesse essere un rafforzamento del potere episcopale; infatti, la volontà di Clemente VIII di sottrarre agli organi centrali l’espurgazione affidandola alle strutture diocesane, allarmò l’inquisizione. Santoro, inoltre, critica il fatto che molti testi non furono inseriti nell’indice, nonostante fossero stati condannati dal Sant’Ufficio. In realtà il vero obiettivo della Congregazione era quello di riaffermare il proprio potere e garantirsi autonomia politica e teologica. L’inquisizione cercava di mettere in discussione l’indice già promulgato e ci furono numerose proteste contro l’eliminazione di precedenti condanne. In occasione delle trattative per la ricomposizione del conflitto, dove i componenti erano stati chiamati a redigere le modifiche e integrazioni del catalogo, ol potere del pontefice fu indebolito. Infatti, in questa occasione, l’indice era rappresentato dal segretario Paolo Pico e non dal cardinale. Tuttavia, troviamo i cardinali Valier, Toledo e Colonna. Il risultato fu la stesura dell'Observatio, composta da 5 versioni, in tre delle quali appare una clausola, che stabiliva che i libri proibiti dall’inquisizione dovevano essere considerati proibiti in tutta la Chiesa. Se inizialmente ricevette il consenso papale, successivamente furono più chiari i veri obiettivi, ossia il riconoscimento formale dell’Indice del 1558 e il ripristino dei suoi divieti. Clemente VIII si era dichiarato contrario all’eccessivo rigore del catalogo del 1558. Inoltre quella clausola avrebbe consacrato il tribunale inquisitoriale come unica istituzione abilitata a definire e tutelare la moralità dei cattolici. Il Sant’Ufficio mirava a vincolare Clemente VIII e i suoi successori a decisioni prese dai predecessori. Per questo motivo la clausola venne depennata e scomparve dell’Observatio. Nonostante la Santa Severina si ritirò, in realtà fu Clemente VIII ad arrendersi: infatti, per quanto riguarda la traduzione della Scrittura, il papa aveva proposto di salvare il principio della liceità della lettura dei volgarizzamenti, purché corredati di commenti rilasciati dal pontefice. Anche se alla Scrittura non poteva accedervi chi non era a conoscenza del latino, Clemente VIII aveva come obiettivo quello di far circolare la Scrittura fra i cattolici. Tuttavia, come detto in precedenza, a prevalere fu la regola IV tridentina del Sant’Ufficio. Inoltre, nella lettera del 27 aprile, si accenna ad una facoltà per vescovi ed inquisitori di rilasciare licenze di lettura per le traduzioni bibliche, ma fu revocata dall’inquisizione ai tempi di Pio IV. In realtà, non ci sono tracce di tale revoca. Nel 1576, all’interno degli organi centrali, giungevano istruzioni di attenersi alla regola IV e di restituire le bibbie volgari sequestrate. Solo nel 1577 apparirono i primi divieti di lettura della Bibbia volgare e non prima del 1580 vennero impartite istruzioni agli inquisitori di non concedere più licenze di lettura. Infatti, nel 1582 il cardinale Borromeo pubblicava un editto che imponeva la consegna entro 10 giorni di tutti gli esemplari di bibbie volgari. Durante il pontificio di Gregorio XIII, e non sotto il pontificato di Pio IV, come sosteneva il Santa Severina, l’Inquisizione accantona la regola IV dell’indice tridentino. La regola X tridentina, invece, autorizzava gli inquisitori generali a proibire, ove opportuno, la lettura anche di libri permessi dalle regole. • L’opera SIX LIVRES DE LA REPUBLIQUE di Bodin era stata vietata da Gregorio XIV nel 1591, come sosteneva anche il cardinale di Santa Severina; tuttavia, nella Observatio, si legge che l’opera era stata inclusa nell’indice tra quelle sospese, nonostante fosse stata già condannata da Clemente VIII nel 1592. • Nonostante la volontà dell’inquisizione di contrastare la traduzione spagnola della Republique, e la decisione di Aldobrandini di voler inserire nell’indice in quanto eretico, la Congregazione dell’Indice, nella versione sisto-clementina, approvata dal pontefice nel 1593, l’aveva annoverata insieme alla Demonomanie tra le opere sospese in attesa di essere emendate. Poco dopo Aldobrandini sostenne che aveva riserve nei confronti dell’inserimento nell’indice delle opere di scrittori cattolici viventi, tra cui Bodin. • Per non nuocere alla loro fama, il papa aveva ordinato che i loro scritti fossero sospesi, ma gli autori stessi si sarebbero assunti il compito di correggerli. Aldobrandini invocava clemenza nei confronti dell’angevino, in contrasto con quanto aveva fatto in precedenza, data la sua volontà di riavvicinamento alla Francia. Tuttavia, i cardinali inquisitori, ostili all’assoluzione di un eretico recidivo e alla politica filofrancese, nel 1595 pronunciarono una condanna della Republique in assenza di Clemente VIII. • Diversa fu la posizione dei cardinali dell’Indice, Toledo e Valier, in quanto si adeguarono alle direttive papali: infatti, presero atto della condanna della Demonomanie, ma non ritennero vincolanti né la presunta condanna di Gregorio XIV né quella pronunciata dal Sant’Ufficio. È evidente che il Sant’Ufficio approfittò sia delle complesse procedure che accompagnavano la condanna di un libro sia della debolezza del pontefice, per prendersi una rivincita sull'Aldobrandini, dopo la sconfitta rappresentata dall’assoluzione di Enrico IV. La tormentata vicenda del terzo indice ufficialmente inizia nel 1571, quando Pio V aveva affidato la sua preparazione ad una commissione, ma in realtà ruotava attorno all’abrogazione o al ripristino dell’indice inquisitoriale del 1558.alla base di quel dissidio, vi furono: • Problemi ecclesiologici; • Problemi politici; • Problemi istituzionali; • Problema riguardante la Sacra Scrittura in volgare; • Volontà del Sant’Ufficio di elevarsi al di sopra di ogni autorità e al centro dell’istituzione ecclesiastica; • Decidere a chi spettasse dichiarare eretico e condannare un’opera. Contestata da Santoro, che riteneva essere stato eletto legittimamente per acclamazione, la validità dell’elezione di Clemente VIII non avrebbe cessato di suscitare dubbi. Il motivo per cui si è passati da una forte aspettativa su personaggi come Giordano Bruno, alla ripresa dell’attività repressiva che culminò proprio nel rogo dello stesso Bruno, è il progressivo cedimento del papa all’intransigenza del Sant’Ufficio e alle intimidazioni della Santa Severina. Inoltre, i cardinali della Congregazione si erano schierati contro la sua candidatura, in quanto non volevano per papa un altro Paolo IV. Il Sant’Ufficio mirava ad aumentare i poteri legati alla vita religiosa, e con la presenza di un papa tutto ciò svaniva. Lo stesso accadde nei confronti della Congregazione dell’Indice, alla quale voleva sottrarre non solo ogni competenza sui volgarizzamenti della Scrittura, ma anche la gestione del controllo delle anime e delle menti. Infatti, alla linea di Paolo IV, che affidava ai soli inquisitori la vigilanza sulla circolazione libraria, con Pio IV il Concilio di Trento restituiva agli ordinari una funzione preminente nella gestione delle anime e la legislazione tridentina non fece altro che rafforzarli. Questi orientamenti contrastati da Sisto V furono sostenuti da Clemente VIII, che dedicò tempo per selezionare vescovi e migliorare il loro impegno nella cura delle anime e attraverso la creazione della Congregazione dell’Esame dei vescovi. Egli era contrario all’indice inquisitoriale e aveva come obiettivo quello di decentrare l’attività censoria attraverso la creazione di Congregazioni locali dell’Indice, autonome dai tribunali della fede e alle dipendenze degli ordinari. La mancata registrazione di proibizioni pronunciate dal Sant’Ufficio fu un pretesto per insabbiare un indice che sanciva la sconfitta del disegno concepito da Paolo IV e perseguito dall’inquisizione, allo scopo di allargare i propri poteri. Invece, per quanto concerne le traduzioni della Sacra Scrittura, il Cinquecento si chiude con la disfatta della linea moderata, tracciata dai vescovi a Trento e riproposta con l’assenso di Clemente VIII nel 1596. L’intervento del Sant’Ufficio contro i volgarizzamenti biblici segnava il sopravvento delle tendenze reazionarie e intransigenti. Capitolo secondo • Girolamo Giovannini da Capugnano, inquisitore di Vicenza, che interrogava il Valier su come comportarsi con le raccolte omiletiche del Cigno e del Lantana, in quanto sono ridotti in volgare, il primo dal latino e il secondo dallo spagnolo; • L’inquisitore di Novara, diversamente da altri esecutori, procedeva al sequestro di lezionari, compendi e sommari della Scrittura e nutriva delle perplessità sull’opportunità di farsi consegnare opere che riproducevano brani del Nuovo Testamento, corredati di meditazioni e omelie. La Congregazione dell’Indice affrontò in varie riunioni le ricadute di un provvedimento stilato ed imposto dal Sant’Ufficio, che le toccava ora interpretare. La Congregazione dell’Indice voleva contrastare l’ingerenza nella stesura dell’Indice ai danni delle proprie competenze e allo stesso tempo non poté ignorare le indignazioni delle popolazioni, di cui si fecero portavoce vescovi e inquisitori. Su alcuni dei volgarizzamenti più richiesti, essa si era espressa già nell’indice dei libri volgari italiani, successivamente eliminato dall’indice clementino. Mentre proibiva le traduzioni della Sacra Scrittura in versi, autorizzava compendi e sommari della Bibbia, previa approvazione dell’ordinario o dell’inquisitore. I cardinali dell’indice nel 1596 ribadirono che le Epistole erano proibite per decreto dell’inquisizione ed era proibito anche il breviario volgare. Tuttavia, se la Santa Severina diede istruzioni affinché fossero revocate tutte le licenze di lettura delle opere bibliche, i cardinali sostennero che i permessi non dovevano essere ritirati e i libri autorizzati non dovevano essere confiscati e autorizzarono la lettura delle raccolte omiletiche, come i sermoni di Cigno e le Prediche di Lantana. I cardinali infine, si mostrarono tolleranti nei confronti di libri di meditazione nei quali erano inseriti brani della Scrittura. La selezione dei testi autorizzati si basava sulla distinzione tra parte e particola di Scrittura in essi contenuta. Anche sul versante dei salmi, non ricadevano sotto il divieto alcune versioni accompagnate da commenti, come quelle di Panigarola e de' Nobili, ma la loro lettura doveva essere subordinata alla regola IV tridentina e quindi all'autorizzazione del vescovo o dell'inquisitore. I cardinali dovettero anche affrontare le proteste nate dal divieto di storie sacre, come il Compendio istorico di Dionigi da Fano, composto con il fine di ovviare alle difficoltà di procurarsi permessi per la lettura delle traduzioni integrali. Al Dionigi sfuggiva che l'obiettivo dell'Inquisizione era di allontanare i fedeli dalla conoscenza biblica. Per il Sommario historico di Miliani, dell'opera era stata autorizzata la lettura dalla Congregazione, previa espurgazione in quanto aveva attinto dagli autori cristiani antichi, mentre il Dionigi aveva riassunto il testo sacro. Al testo di Miliani, erano state apportate delle correzioni minime dal canonico della cattedrale Giovanni Battista Terzio. Tuttavia, a causa di alcune autorizzazioni mancanti, il Sommario non fu mai pubblicato, anche se le edizioni esistenti furono tollerate. Tra le cause della mancata ristampa troviamo:  Il Sommario, insieme con le correzioni, si sia smarrito negli uffici romani, in quanto l'attività espurgatoria assunse una tale rilevanza da assorbire cardinali, consultori interni ed esterni e da provocarne, quindi, il collasso;  la volontà del Sant'Ufficio di impedire la circolazione di surrogati della Scrittura. Il divieto dei lezionari aveva provocato una serie di proteste; così, i cardinali dell'indice decisero di rivolgersi al pontefice affinché accettasse di concedere agli ordinari la facoltà di rilasciare licenze di lettura con il consenso della Congregazione. Il pontefice, dopo la sospensione dell'Indice, aveva dato segni di insofferenza nei confronti dei problemi legati all'applicazione, liquidando, di conseguenza, le richieste del Santa Severina di autorizzare la lettura del nudo testo delle Epistole. Nel 1596, tuttavia, intervennero Baronio e Valier, facendo in modo che l'Indice autorizzasse le Epistole, a patto che fossero in edizioni corredate di annotazioni di autori ortodossi, come il domenicano Nannini. Se la Congregazione dell'Indice decise di scendere in campo in difesa di una serie di testi condannati, ciò non avvenne per le versificazioni della Scrittura; fino al 1596, i cardinali decretano che le versificazioni sia latine che volgari, scritte dopo il 1515, erano proibite. Cinque anni dopo, il Maestro del Sacro Palazzo Guanzelli, detto Brisighella, incaricato di aggiornare l'indice clementino, chiese che il decreto del 1596 venisse riesaminato prima di essere registrato nell'editto che si accingeva a pubblicare. Dietro la richiesta si celavano le pressioni esercitate dal cardinale Aldobrandini per salvare il Mondo creato del Tasso e vari autori di tragedie e poemi sacri. Secondo Brisighella, occorre distinguere tra versificazioni integrali o parziali che riproducevano in versi il nudo testo e scritti che parafrasavano storie bibliche. Così come non era proibito agli storici trattare della creazione del mondo, purché non ne proponessero il nudo testo, non doveva essere vietato ai poeti di narrare di episodi biblici e di ampliarli. Dunque, dovevano essere vietate le opere che proponevano la nuda versione e non quelle che attingevano alla Scrittura storie ampliandole. Brighella, in uno sfogo con l'amico Calbetti da Recanati, rivela che quando entrò a far parte della Congregazione, vi era confusione riguardo l'espurgazione di opere sospese. Egli difese le versificazioni e pressò il suo amico inquisitore, Calbetti, perché rivedesse le opere di Castelvetro per poter inserire le correzioni nell'indice espurgatorio che avrebbe pubblicato nel 1607. Questo indice venne bloccato poco dopo la pubblicazione dalla stessa Congregazione dell'Indice. Così, Brisighella denuncia l'oscurità del decreto del 1596 dato che Bargagli non aveva avuto l'autorizzazione per la ristampa della traduzione della tragedia di Buchanan. A ciò, i cardinali confermarono la declaratio del 1601 nella quale sostenevano il divieto delle opere che mettevano in atto la nuda versione. Nel 1617 a scendere in campo contro il decreto fu il prefetto Bellarmino. L'editto affisso a Roma vietava versificazioni scritte e stampate dopo il 1515, ma nei successivi inserimenti dell'editto, nelle ristampe dell'indice, per una svista tipografica, la congiunzione era caduta, alterando la normativa fino a renderla assurda. Anche se attraverso un rigoroso vaglio da parte degli organi centrali, nel 1617 la produzione biblica in versi veniva consentita per il futuro, mentre quella stampata in passato non era vietata ma doveva rispettare le regole dell'indice clementino. La Congregazione rinunciò ad esercitare un controllo preventivo, autorizzando le autorità locali a rilasciare licenze di stampa. Si era pervenuti, dunque, allo svuotamento del decreto del 1596. La diffidenza verso la poesia, suscitatrice di passioni e seminatrice di corruzione e la preoccupazione che gli artifici poetici potessero alterare il racconto biblico, introducendo elementi che avrebbero potuto inficiarne la purezza, la verità, erano radicate nella mentalità dei censori tanto da contrastare la linea meno rigida perseguita dalla Congregazione nei riguardi dell'accesso alla Scrittura. Allo scopo di non incentivare esercizi poetici intorno alla Scrittura, il divieto riguardava anche le versificazioni in latino oltre a quelle nelle lingue vernacolari. Tutti questi divieti hanno lo scopo di evidenziare le difficoltà in cui si imbatte chi si allontana dalla via maestra. Con Gregorio XIII, la pressione censoria sulla produzione biblica in volgare aumenta e gli orientamenti del Maestro del Sacro Palazzo e del Sant'Ufficio furono in sintonia con le linee ispiratrici del terzo catalogo universale. Costabili, insieme al Sant'Ufficio romano, distribuì elenchi consistenti di libri condannati o sospesi. Dopo Costabili, troviamo anche Sisto Fabri che agì allo stesso modo. Le cose cambiarono nel 1583, quando il cardinale Paleotti, membro dell'Indice, pose fine allo stravolgimento dell'indice tridentino. Lo stesso accadde durante il pontificato di Sisto V, periodo in cui si profilarono posizioni più moderate sulle traduzioni della Scrittura; nonostante ciò gli inquisitori periferici continuarono ad avere istruzioni dal Sant'Ufficio di sequestrarle e bruciarle. Ciò pone il problema della natura dei rapporti intrattenuti dalla Congregazione dell'Indice con il territorio. Non prima del 1613, la Congregazione dell'Indice pubblica dei periodici decreti che raccoglievano le proibizioni dei tre organi censori romani, Inquisizione, Indice e Maestro del Sacro Palazzo, allo scopo di rendere più incisivo il controllo sulla stampa, riunendo le condanne emanate dai tre dicasteri. Inoltre, vi era una suddivisione delle competenze, in quanto il Maestro del Sacro Palazzo e il Sant'Ufficio continuano a svolgere un ruolo determinato sia in centro sia in periferia. Il Sant'Ufficio prende dei provvedimenti contro la Scrittura privi di qualsiasi formalizzazione. I provvedimenti erano in contrasto con un indice ancora in vigore e ne era in gestazione uno nuovo. Alcuni pontefici non ne condividevano le scelte del dicastero, come nel caso di Clemente VIII. disciplinare una produzione che raccoglieva consensi tra lettori e fruitori di ogni ceto sociale, anche se soggetta ad appropriazioni diverse a seconda dei livelli di cultura. Tra i volgarizzamenti biblici circolavano opere ritenute teologicamente ereticali accanto a scritti in cui abbondavano le superstizioni. Ma esse evidenziano anche come il termine superstizione avesse assunto, sotto l'urto della Riforma, implicazioni che andavano ben oltre i rituali connessi a banali sortilegi, investendo aspetti dottrinali. Questi slittamenti avevano consentito al Sant'Ufficio di annettere alla propria sfera di azione resti di competenza della giurisdizione ordinaria, sfruttando l'indeterminatezza del confine tra superstizione semplice e superstizione ereticale e usando il sospetto di eresia. Le proteste dei vescovi contro l'invasione della loro giurisdizione da parte dei giudici della fede, finirono col trovare ascolto a Roma. La Congregazione dell'Inquisizione deliberò che nei casi di sortilegi ad amorem, bestemmie, infrazioni del digiuno, i vescovi erano autorizzati ad assolvere nel foro della coscienza. Esse sembrano riflettere una resa delle autorità ecclesiastiche di fronte all'impossibilità di estirpare pratiche superstiziose radicate nel vissuto del clero e del laicato e alimentate da testi che continuavano a circolare impunemente. I censori esercitarono la loro vigilanza su altri generi di scritti che affrontavano e sviluppavano soggetti biblici, come i componimenti in versi. A partire dalla seconda metà del Cinquecento ci fu un passaggio da poema narrativo, assai vicino al volgarizzamento, a poema-orazione o poema teologico, conseguenza dell'avversione delle autorità ecclesiastiche nei confronti di narrazioni poetiche che avevano intrecciato elementi profani ed elementi sacri. Il passaggio dalle forme di intrattenimento dei cantastorie, legate all'oralità ad una narrativa, legata ai modelli della lettura, aveva trasformato i romanzi di cavalleria in un prodotto editoriale più temibile, soprattutto dopo il successo del Furioso, seguito dal moltiplicarsi di traduzioni e rimaneggiamenti dei romanzi spagnoli. I verseggiatori biblici cercarono di inserire il poema sacro all'interno del poema eroico. Fecero sempre più ricorso al metro della tradizione epico-cavalleresca, alla popolare ottava rima, o ad altri espedienti, come l'uso del ciclo carolingio. Le iniziative, tese a sostituire con l'epica biblica il romanzo cavalleresco, non incontrarono il pieno consenso del pubblico. Questo impegno dovette presto essere ulteriormente frenato sia dall'avversione per le tradizioni bibliche sia dalla crescente diffidenza delle autorità censorie centrali nei confronti delle opere letterarie in generale. La letteratura di intrattenimento venne a trovarsi nell'occhio del ciclone e ad essere guardata con sospetto. L'umanesimo romano era stato oggetto di violenti attacchi da parte delle correnti evangeliche e movimenti di riforma disciplinare per la sua produzione atea e pagana. I motivi di conflitto, che da secoli nutrivano la polemica dei teologi contro le favole dei poeti, si erano accentuati con la Riforma protestante. Ciò che preoccupava maggiormente i censori erano la profonda immersione nel magico e nel sacro di molti protagonisti nelle opere letterarie. In anni in cui la Chiesa si occupava ad irrobustire e a riformare le istituzioni ecclesiastiche e a riqualificare l'alto e il basso clero, non potevano non ingaggiare una lotta contro la vena anticlericale e anticuriale che percorreva gran parte della letteratura italiana. Le opere letterarie cominciarono a fare il loro ingresso tra i libri proibiti e la censura preventiva iniziò ad aggredire l'esercizio stesso della letteratura. Tra i maggiori promotori di questa offensiva contro qualsiasi espressione letteraria, sia sacra che profana, troviamo il domenicano Costabili. Ci si chiede se all'origine della lotta che ingaggiò contro poeti e prosatori ci fossero impressioni e immagini riportate dal soggiorno trascorso in veste di inquisitore nella città natale tra il 1568 e il 1572. L'appartenenza ad una delle famiglie più illustri dello Stato estense e le sue funzioni gli avevano consentito di acquisire una conoscenza della società ferrarese sia sotto il profilo religioso che sotto quello morale. Nella mente esaltata del Costabili, la corruzione e la decadenza erano percepite non soltanto come il retaggio della peste ereticale, ma anche come l'esito inevitabile di quei poemi cavallereschi affollati di favole di maghi e fate, esaltando le debolezze. Negli stessi anni, in molti si chiedevano se quelle letture, fonte di intrattenimento e diletto piuttosto che di ammaestramento e di edificazione, non fossero un incentivo ad ogni sorta di trasgressione morale e religiosa. Infatti c'era la convinzione che dagli atteggiamenti irriverenti diffusi dai testi letterari non potessero che derivare costumi immorali e propensi ereticali. L'avversione nei confronti di poeti e prosatori, annoverava sostenitori anche tra i membri più moderati della Congregazione dell'indice, come il Paleotti e Bellarmino. Anche al di fuori della Congregazione si moltiplicavano le pressioni del clero su lettori e lettrici per allontanarli dai poemi cavallereschi. Mentre vari autori si cimentavano in spiritualizzazioni del poema ariostesco, altri criticavano la letteratura di intrattenimento e in questo periodo di avversione nei confronti proprio di questa tipologia di letteratura, e del poema cavalleresco, Costabili se ne fece interprete. Reduce dal contatto con l'ambiente che aveva ispirato i poemi di Boiardo e Ariosto e scosso dal costume del paese, adottò misure di rigore. Compilò e distribuì alla periferia tra il 1574 e il 1580 elenchi sempre più consistenti di condanne e sospensione di opere letterarie, con un'interpretazione estensiva della regola VII dell'indice tridentino del 1564. Non pago di aver ordinato il sequestro di opere già stampate, che non davano utile alla Chiesa, Costabili cercò di rafforzare la censura preventiva, diffidando gli inquisitori periferici dall'autorizzare la pubblicazione di storie, commedie volgari di innamoramenti. Mentre le devastanti direttive romane si diffondevano in provincia, all'interno degli uffici centrali veniva passata al setaccio dei censori gran parte della produzione letteraria italiana, allo scopo di disinfestarla da tutto ciò che avrebbe potuto urtare la morale e la fede. Nel breve volgere di qualche anno, le strategie della Chiesa, volte ad esercitare un controllo ideologico e sociale, erano mutate. I revisori romani iniziarono ad attribuire al fato e alla fortuna un ruolo preminente nelle vicende umane e ci fu l'uso di termini tratti dai classici pagani nella narrazione di vicende i cui protagonisti erano cristiani. L'ambiguo atteggiamento delle autorità centrali consentiva il sequestro di libri di sacra scrittura in versi volgari e apriva crepe attraverso le quali gli scrittori e revisori locali potevano far passare opere proibite. Di quelle crepe, furono in molti ad approfittare. Versificazioni bibliche continuarono ad essere scritte e stampate nel Seicento, ma non sappiamo se incappassero nelle maglie della censura, come accadde alla Reina di Cebà, o se i loro autori si autocensurassero preventivamente, come aveva fatto il Chiabrera. Tasso era impreparato a sostenere un'adeguata difesa delle ragioni della poesia e rassegnato alla necessità di procedere all'elaborazione di dispositivi di evasione per neutralizzare i censori in agguato. Mezzo secolo di censura e di espurgazione aveva reso i letterati più avvertiti dei margini ristretti lasciati alla loro creatività, ma anche più determinati a sfruttarli fino in fondo. La via dell'espurgazione che la Chiesa aveva imboccato al Concilio di Trento per recuperare un patrimonio indispensabile all'esercizio delle professioni liberali fallì per la mancata collaborazione con il laicato; inoltre, gli accademici fiorentini, incaricati della correzione dei testi letterari, si astennero dal manomettere e dall'amputare le opere dei loro colleghi. Rimane tutta da dimostrare la tesi secondo cui la politica espurgatoria della Chiesa avrebbe offerto agli intellettuali laici una palestra non soltanto per manifestare il loro entusiasmo per la censura, ma per affinare le loro conoscenze filologiche. Un loro coinvolgimento nel recupero delle opere sospese è difficilmente documentabile sia perché il recupero avvenne in misura esigua, sia perché le poche opere letterarie che si salvarono dal naufragio furono purgate da membri di ordine religioso. Ci fu un clima opprimente che giunse a fiaccare gli scrittori italiani e gli uomini che avessero divulgato valori e nozioni non condivisi dall'apparato censorio. Il Sant'Ufficio battagliò affinché i testi biblici non venissero presi di mira da lettori non professionisti e l'uomo comune non avesse accesso a saperi riservati alla sola casta superiore e chiusa. Per questo motivo, le interdizioni furono estese anche ad opere che trattavano altri argomenti, come opere di controversia religiosa tra cattolici e protestanti in volgare. Vennero considerate pericolose in quanto occasione di confronto tra posizioni antagoniste e di stimolo per una riflessione critica personale. Quindi, la conoscenza della teologia protestante e dei fondamenti scritturali che quegli scritti veicolavano, veniva ritenuta pericolosa quanto le traduzioni vernacole della Bibbia. La regola VI tridentina, infatti, prevedeva che la loro lettura fosse subordinata all'autorizzazione del vescovo o dell'inquisitore. Negli anni Ottanta del Cinquecento veniva revocata a vescovi e inquisitori la facoltà di rilasciare licenza di lettura dei libri di disputa teologica in volgare. La Congregazione dell'Indice aveva riproposto nel catalogo del 1596 la regola VI senza modifiche. Tuttavia, poco tempo dopo, la Congregazione vietava la lettura, il possesso e la vendita delle Lettioni di Panigarola e di qualsiasi libro di controversia in volgare. Se nei confronti delle inquisitori, che se ne sarebbero disinteressati, dato il numero esiguo dei componenti e le loro numerose occupazioni. La carenza di documenti unita alla difficoltà di valutare l'efficacia dei richiami all'osservanza dell'indice nei decreti sinodali o durante le visite pastorali, non consente di verificare l'attendibilità di critiche formulate. A complicare ulteriormente l'esecuzione dell'indice conciliare dovette contribuire l'irrigidimento della politica censoria durante i pontificati di Pio V e di Gregorio XIII, culminato nella creazione di una Congregazione e nell'avvio della redazione del terzo indice romano. Durante la gestazione di quest'ultimo, la sorveglianza sulla circolazione libraria che il Sant'Ufficio continuò ad esercitare fu episodica e frammentaria. A dar luogo ad un'intensificazione dei controlli e ai roghi erano:  l'assunzione dell'ufficio da parte dell'inquisitore con la connessa pubblicazione di editti di grazia;  la pubblica abiura di qualche eretico;  nuove condanne di opere;  la scoperta di singoli eretici detentori di libri proibiti. La ricca presenza tra i libri sequestrati a fine Cinquecento di opere letterarie italiane, di scritti di Erasmo e di volgarizzamenti biblici, che avrebbero dovuto essere sottratti da tempo alla lettura, induce ad ipotizzare che le direttive romane, in contrasto con l'indice e formulate con poca chiarezza, abbiano influito limitatamente sulla prassi censoria quotidiana. La Congregazione dell'Indice ne propone una riorganizzazione e razionalizzazione, che avrebbero consentito di gestire l'esecuzione del primo indice di cui aveva responsabilità. A tal fine, fin dal 1592, aveva chiesto e ottenuto da Clemente VIII la facoltà di risolvere le controversie e di chiarire i dubbi che fossero sorti nell'interpretazione della normativa. Tale facoltà non fu l'unico strumento che avrebbe dovuto permetterle di pilotare e coordinare l'attività censoria. Di fronte all'insufficiente rete dei tribunali inquisitoriali essa cessò di fare perno sulle strutture diocesane, invitando i vescovi ad istituire nelle loro sedi diramazioni del dicastero centrale, congregazioni dell'Indice locali, di cui avrebbero fatto parte consultori laici ed ecclesiastici e l'inquisitore. Esse avrebbero dovuto riunirsi nel palazzo vescovile con regolarità allo scopo di procedere all'esecuzione dell'indice, e, quindi, vagliare le liste dei libri denunciati, distinguendo tra quelli vietati e quelli sospesi, e provvedere alla correzione delle opere sospese e alla vigilanza sulla circolazione di opere sospette o vietate. Questo nuovo assetto, che privilegiava le istituzioni diocesane, avrebbe avuto vita breve a causa degli ostacoli del Sant'Ufficio. Il coordinamento svolto dalla Congregazione dell'Indice avrebbe prodotto una cospicua documentazione. L'intensa corrispondenza tra centro e periferia, le liste dei libri vietati e di quelli sospesi, consentono non soltanto di precisare le modalità e le diverse fasi dell'operazione e di valutarne gli esiti, ma anche di individuare nella proibizione dei volgarizzamenti biblici il problema più intricato che gli organi centrali e periferici dovettero affrontare. L'invio a vescovi e inquisitori di esemplari dell'indice privi delle rettifiche successivamente imposte dal Sant'Ufficio, creò confusione. Tali disguidi furono, però, compensati dallo zelo di alcuni esecutori i quali ingiunsero a laici e chierici di consegnare tutte le Bibbie, le Epistole, i sommari e i compendi. A prescindere da formulazioni scorrette nella forma e da slittamenti densi di conseguenze, questi interventi denotano la piena consapevolezza da parte delle autorità ecclesiastica dell'ampia diffusione di quella letteratura e della necessità di dare specifico e chiaro rilievo alle misure che la concernevano. Anche laddove gli inquisitori erano più rigidi e rigorosi, la presenza di scritti biblici in volgare rimaneva imponente. Nel 1597, la Congregazione dell'Indice chiese che le venissero inoltrati gli elenchi delle opere vietate e sospese depositate negli archivi e la replica fu che i libri già erano stati bruciati. Nella furia distruttrice, pochi si erano preoccupati del rispetto della legalità, che prescriveva la registrazione da parte di un notaio dei titoli e del numero di esemplari dei libri dati in fiamme. Le liste pervenuteci risalgono agli anni a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento e rispondono ad una seconda richiesta inoltrata dalla Congregazione dell'Indice nel 1599. Il quadro che esse delineano è fuorviante e incompleto in quanto registrano libri trattenuti in attesa di espurgazione e opere proibite scampate ai precedenti roghi. La letteratura italiana e i volgarizzamenti biblici rappresentano le categorie più colpite. Dietro queste scelte non si può non intravedere una strategia volta a contenere l'espansione del numero dei lettori e il più facile accesso al libro da parte di fasce sociali estranee alla cultura scritta. Tra le opere letterarie italiane, non sono registrate solo quelle condannate nell'indice per oscenità o perché erano in contrasto con la regola VII tridentina, ma sono elencate anche quelle che venivano colpite dalle norme DE CORRECTIONE LIBRORUM introdotte nell'indice clementino. La confisca di questi libri non sembra aver sollevato proteste in quanto essi rientravano nella categoria delle opere espurgabili secondo i criteri definiti dalla normativa clementina. Pertanto il loro sequestro sarebbe dovuto essere provvisorio. I censori non soltanto ne corressero e ne rimisero in circolazione un numero limitatissimo, ma non pubblicarono neanche l'indice espurgatorio delle opere in volgare. Fortissime furono le resistenze per quanto riguarda la consegna dei volgarizzamenti biblici. Accanto a questi testi non mancavano altre opere il cui sequestro non dipendeva solo dalla loro presunta appartenenza alla categoria dei sommari della Sacra Scrittura, ma anche dall'esser anonime o in versi. Inoltre, versioni dei salmi, soprattutto dei salmi penitenziali, costituivano una parte rilevante dei libri sequestrati, ma raramente gli esecutori indicano i nomi dei traduttori o commentatori e molte di esse ne erano prive. Queste opere, sequestrate perché traduzioni bibliche, perché contenenti proposizioni ereticali, perché in versi, erano accompagnate testi dai contenuti magici e superstiziosi. Limitato era, invece, lo spazio occupato nelle liste di fine secolo dai sermonari e omiliari che la Congregazione dell'indice aveva autorizzato. L'esecuzione dell'indice clementino evidenziò anche la sopravvivenza di testi che avrebbero dovuto essere stati soppressi da anni. Le precedenti direttive relative ai volgarizzamenti biblici e ai libri di preghiere erano state disattese. Questi tardivi sequestri, oltre ad evidenziare le carenze di un sistema di controllo che stentò a decollare, sembrano anche indicare attaccamento dei fedeli ai loro libri di devozione. Per quanto riguarda i lezionari è presumibile si trattasse di edizioni non commentate e, quindi, non conformi a quelle autorizzate dopo l'attenuazione del divieto inquisitoriale. Le lettere delle autorità periferiche alla Congregazione dell'Indice confermano che i divieti biblici costituirono un vero e proprio trauma tra i fedeli di tutta la penisola. La loro protesta non riuscì ad essere soffocata e trovò la strada di Roma, dove, accanto alle molteplici richieste di chiarimenti, giunsero sollecitazioni a riesaminare le proscrizioni dell'Observatio. Se molti esecutori non si fecero molti scrupoli e mandarono al rogo volgarizzamenti di ogni sorta, altri ricorsero a Roma, facendosi portavoce delle rimostranze delle popolazioni. Non erano soltanto i vescovi a trasmettere alla Congregazione il disagio del loro gregge, ma anche alcuni inquisitori, come il caso di quello di Pisa. Se nella corrispondenza con le autorità centrali gli esecutori si astenevano dal prendere posizione, pur lasciando trasparire una personale partecipazione allo smarrimento dei fedeli e una piena fiducia nell'ortodossia dei detentori dei volgarizzamenti, in privato c'era chi esprimeva a chiare lettere la propria adesione alla loro protesta. Le proteste più energiche giunsero dalla Toscana, dove si registrava un più alto tasso di alfabetizzazione nelle popolazioni urbane e dove la memoria del Savonarola e dell'ampio uso da lui fatto nelle prediche dell'Antico e Nuovo Testamento, era ancora molto viva. Tutt'altro che passivamente rassegnati alle decisioni di Roma e determinati a recuperare o a salvaguardare i loro testi devozionali, i fedeli si mostravano informati sulle modifiche apportate alla normativa e coglievano ogni segnale di distensione da parte delle autorità centrali. Così, la voce di un'attenuazione del divieto delle Epistole, che salvava i lezionari corredati di commenti, venne immediatamente raccolta. Le proteste da parte della popolazione, che chiedeva equità e temperamento, mettevano a nudo la profondità della voragine che si stava aprendo e che avrebbe inghiottito opere che gli stessi legislatori non si aspettavano fossero ancora così diffuse. Gli uffici centrali non avrebbero potuto trincerarsi ancora per molto dietro l'autorità del pontefice per difendere proibizioni che si stavano rivelando impopolari e impraticabili. I cardinali approdarono ad un'interpretazione meno restrittiva dell'Observatio, ma vi approdarono tardivamente e in maniera confusa. Diversamente da quanto si gli stampatori romani chiedevano alla Congregazione dell'Indice la concessione del privilegio di stampa per orazioni e historiette. Fu solo in seguito all'applicazione dell'indice clementino che alcuni degli inquisitori più scrupolosi denunciarono a Roma la permanenza massiccia di pratiche e devozioni superstiziose e la loro impotenza a porvi rimedio senza interventi dal centro. I cardinali dell'Indice reagirono alla denuncia con il silenzio, lasciando cadere ogni invito a prendere provvedimenti e a coordinare l'azione dei responsabili della vigilanza sul territorio. Nel corso del Seicento tale produzione non fu estirpata e, quindi, crebbe a dismisura a causa di alcuni fattori:  assenza di direttive chiare;  assenza di un raccordo tra centro e periferia;  astuzie dei tipografi e librai nel sottrarre facilmente agli occhi degli ispettori ecclesiastici opuscoletti con orazioni e historiette;  allentamento nella sorveglianza;  attenuazione delle pene comminate in sede inquisitoriale ai detentori del materiale. Nel 1604 i titoli elencati nella Sommaria, fornita da Calbetti ai vicari, erano solo 28; dieci anni dopo divennero 46 in un editto dell'arcivescovo e dell'inquisitore di Bologna, mentre nel 1687, all'interno delle Regole del Tribunale del Sant'Officio, divennero 62. La Raccolta, pubblicata nel 1718 in appendice all'indice di Innocenzo XI del 1681, occupava una cinquantina di pagine e aveva l'intenzione di facilitare l'individuazione delle opere proibite e di ovviare alla dispersione dei divieti in diverse sedi. Non era la prima volta che in un'appendice all'indice appariva una lista di operette, ma la novità stava nel riproporre un'iniziativa periferica sconsiderata. Il Leoni non aveva esitato ad accostare orazioni e devozioni superstiziose , la Bibbia sacra volgare; fu assimilata, dunque, ai testi ereticali e degradata addirittura al rango delle operette. Di fronte a questa produzione, gli inquisitori si dichiaravano impotenti e non intervenivano. Da una parte, nasce il sospetto che glia genti del Sant'Ufficio cercassero di depistare gli organi centrali, dirottando le critiche alla carenza dei controlli su altri inquisitori; dall'altra, per il rapido deperimento cui erano soggette queste stampe a perdere, hanno lasciato tracce così esili nei cataloghi da rendere impossibili una stima della loro consistenza e l'individuazione delle fonti di produzione. La distinzione tra devozione pubblica e devozione privata, fissato nel compromesso del 1601 sulle litanie, aveva creato molte crepe nel sistema di difesa che la Chiesa tridentina aveva cercato di erigere contro le deviazioni superstiziose. Maggior rigore sembra essere stato adottato nei confronti del pullulare di Officia in onore della Vergine, dei santi dell'angelo custode, stampati senza l'approvazione della Congregazione dei Riti. L'attenzione dei censori romani si soffermò anche sulle rubriche in volgare annesse agli Officia latini nelle quali potevano annidarsi proposizioni avventate. Non è l'unico segnale di un'attenuazione del rigore nei confronti di scritti contenenti elementi superstiziosi. Giorgio Caravale ha illustrato il graduale allentamento della tensione censoria all'alba del Seicento. Ai vertici stessi degli organi censori si stava verificando un progressivo cedimento dottrinale, risultato di un ridimensionamento della pericolosità degli elementi superstiziosi e miracolistici. Solo nel caso di pubblici eccessi e stravaganze le autorità ecclesiastiche sembrano essersi irrigidite. Disposte a chiudere più di un occhio sull'uso privato di opere intrise di superstizione e di elementi eterodossi, esse entravano in azione quando si profilava il rischio che nuove ed eccentriche pratiche si radicassero. Gli sviluppi incontrollabili e imprevedibili cui poteva dar luogo l'effervescenza devozionale, devastavano ben più serie preoccupazioni. Ma, salvo provvedimenti per contenere le esternazioni pubbliche di una devozione esuberante, indisciplinata e scomposta, i margini di tolleranza nei confronti di pratiche e scritti che continuavano ad essere intrisi di elementi superstiziosi e talvolta scorretti erano e rimarranno a lungo ampi. Le misure adottate da Pio V per depurare testi della pietà cattolica o per sopprimere libri devozionali di largo consumo non ebbero applicazione uniforme. I successivi provvedimenti presi da Clemente VIII, volti a mettere ordine nella selva delle litanie, furono controbilanciati dall'autorizzazione all'uso difficilmente controllabile in privato e negli oratorio di litanie vietate in pubblico. Il cardinale Bellarmino si oppose ai ripetuti segnali di resa da parte dei vertici romani, ma il suo tentativo di vagliare anche testi devozionali, destinati alla dimensione privata, per evitare che inesattezze storiche, imprecisioni o invenzioni lessicali ed errori dottrinali allontanassero i devoti dalla retta fede, fu vano. Chiusosi il periodo dell'emergenza, una volta debellata l'eresia luterana, la gerarchia ecclesiastica aveva guardato con maggiore attenzione alle pratiche e alle credenze magiche e superstiziose, ma non aveva tardato a convincersi della sua inoffensività. Inoltre, ad un impegno radicale nella rimozione di devianze ostava la difficoltà di fissare un chiaro discrimine tra difetto ed eccesso di religione, tra irriverenza e devozione esagerata, tra eresia ed ortodossia. Una lettura dei provvedimenti di Pio V e di Clemente VIII, finalizzata ad una valutazione degli esiti dell'offensiva contro scritti superstiziosi e apocrifi, non potrebbe che apparire riduttiva. La stessa applicazione della bolla del 1571 evidenzia come quell'offensiva avrebbe potuto conferire alla strategia della Chiesa quei caratteri modernizzati che oggi si tende ad attribuirle e come fosse obiettivo secondario rispetto al progetto di rendere inaccessibili i misteri della fede. La Chiesa riporta un successo quasi totale nella battaglia per la rimozione del testo sacro e di alcuni dei più familiari adattamenti biblici in volgare. Allo scopo di allontanare i cattolici da forme di pietà più intime e individuali, ma anche per contenere la fantasia della massa dei fedeli, garantendo uniformità, stabilità e ortodossia delle formule religiose, il latino fu reso inaccessibile. Dunque, le autorità ecclesiastiche erano determinate a mantenere le masse in una condizione di minorità. Nel 1785 ci fu l'abolizione delle compagnie e delle confraternite toscane da parte del sovrano a causa delle indecenze basate sul voler pregare in latino. Capitolo quinto Lettori e lettrici Gli esecutori dell’indice clementino dichiarano che le resistenze provenivano dai semplici, uomini e donne, e dalle monache e concordano nel sostenere che i libri di cui veniva chiesta con insistenza la restituzione o l’autorizzazione a trattenerli erano salmi, lezionari, meditazioni, omiliari, … . Le richieste relative alle Epistole denunciavano una volontà di capire, di partecipare ai riti e alle cerimonie religiose e di verificare i messaggi trasmessi dalla predicazioni, escludendo la mediazione del magistero. Anche opere che penseremmo destinate esclusivamente al clero, come gli omiliari e i sermonari, erano diffuse tra gli idioti, i quali dalla loro lettura ricavavano gran frutto. Accomunati dalla lettura e dall’ascolto di un corpus omogeneo di libri di devozione, i fedeli che si ribellarono a fine Cinquecento ai divieti biblici, non lo erano dall’estrazione sociale o dalla professione. Dietro i semplici c’era un universo socialmente e professionalmente articolato e variegato. Tra i detentori di edizioni integrali della Sacra Scrittura e di adattamenti biblici, troviamo notai, avvocati, magistrati, membri del clero, uomini che avevano dimestichezza con il latino. All’indomani della promulgazione dell’Indice del 1558, di fronte alla sconcertante novità del divieto, furono in molti a tentare di ottenere da Roma licenze di lettura. Gli stessi professionisti del sacro possedevano volgarizzamenti biblici, ma gli esecutori dell’Indice clementino non potevano dichiararlo apertamente senza denunciare implicitamente l’ignoranza del latino da parte di molti chierici. La situazione non doveva essere molto diversa negli Stati della penisola dove, tra i proprietari di versioni integrali della Scrittura e di Epistole, incontriamo non soltanto secolari ma anche membri di ordini religiosi maschili e femminili. Non si può escludere che anche il clero preferisse il volgare per le pratiche devozionali, ma le ripetute richieste di stralciare i lezionari, omiliari e sermonari dal divieto generale, fanno supporre che questa letteratura fornisse un supporto indispensabile ai curati per adempiere all’obbligo di esporre i vangeli nei giorni festivi, secondo quanto stabilito dal Concilio. Le carenze del sistema normativo, unite all’assenza di un impegno da parte dei vescovi postridentini nel promuovere una letteratura omiletica funzionale ai nuovi compiti dei parroci, aveva favorito il ricorso a testi di lunghissima tenuta. Le istruzioni impartite di lì a poco dai vescovi sulle opere che il clero curato doveva possedere testimoniano una rassegnata accettazione del monopolio dei regolari sulla predicazione. Mentre erano prescritti libri necessari alla pratica liturgica e sacramentale, il catechismo, i decreti tridentini e una serie di manuali  Rimozione del testo sacro e degli adattamenti biblici;  Codificazione linguistica del Cinquecento;  Difficile accesso delle donne alle tipografie;  Offensiva della Chiesa contro il volgare. Oltre alla repressione delle diverse forme di intervento autorevole delle donne, l’irrigidimento della clausura, con l’interruzione dello scambio tra comunità monastiche femminili e cenacoli di devoti e devote, che era stato un importante fattore di reciproco arricchimento culturale e religiosa. I provvedimenti censori di fine secolo dispersero un patrimonio librario sacro e profano che era stato linfa vitale della religiosità e della creatività. Fino all’applicazione dell’Indice clementino, l’epurazione delle biblioteche della penisola è stata tutt’altro capillare e uniforme e solo l’azione di coordinamento svolta dalla Congregazione dell’Indice ha consentito una bonifica di vaste dimensioni. Il coinvolgimento degli ordinari diocesani contribuì a rendere più efficace l’opera di disinfestazione delle biblioteche dei monasteri femminili. Sebbene le venerabili monache fossero le uniche destinatarie e dedicatarie privilegiate di molti dei testi proibiti, nelle intenzioni degli autori, dei curatori e dei volgarizzatori, essi erano rivolti anche alle persone che non conoscevano il latino. I divieti colpivano il pubblico fin dalla fanciullezza: infatti, molti testi venivano utilizzati per avviare il bambino all’apprendimento dei rudimenti della lettura sia all’interno delle pareti domestiche sia nelle scuole d’abaco. Queste consuetudini, sul volgere del Cinquecento, subirono un'ulteriore modifica nel periodo in cui ci fu un’intensificazione della sorveglianza del clero sulle letture femminili e dunque vennero modificati anche i tradizionali percorsi didattici delle scuole di abaco, aperti alla cultura e alla letteratura volgari. Dalla fine del Cinquecento fino alle riforme settecentesche, l’insegnamento primario si fonda sulla letteratura e sulla ripetizione mnemonica di orazioni in latino, mentre l’uso dell’italiano era riservato al catechismo. I divieti biblici interruppero la familiarità dei fedeli con la Bibbia riconosciuta dagli stessi padri tridentini, i quali annoveravano l’Italia tra i paesi con una consolidata tradizione di lettura della Scrittura in volgare, al secondo posto dopo la Germania. Inoltre, nonostante si tenda s ridimensionare, negli studi relativi al mondo protestante, il nesso Riforma, Bibbia nelle lingue vernacole ed espansione delle capacità di lettura e di scrittura e ad enfatizzare, invece, negli studi relativi al mondo cattolico, l’importanza delle scuole della dottrina cristiana come agente di alfabetizzazione delle masse urbane e rurali, rimangono i dati del superiore tasso di alfabetizzazione dell’Europa della Riforma rispetto all'Europa cattolica. Queste potenzialità sono state soffocate dall’azione della Chiesa e il ritardo dell’alfabetizzazione popolare è da imputare anche alla scelta di controllare e dirigere la produzione dei libri, di vietare la lettura della Bibbia in volgare e di restaurare la scuola del latino come scuola delle classi dirigenti. Proibizione e dissuasione procedettero in parallelo e agirono da deterrente contro ogni familiarizzazione con la parola scritta. L’ipotesi di una relazione tra la tardiva affermazione dell’idioma nazionale e la politica della lingua perseguita dalla Chiesa sembra trovare più di una valida giustificazione. Molto più precocemente di altre realtà europee, l’Italia aveva elaborato fin dal Trecento una lingua letteraria, ossia il toscano della Divina commedia, del Canzoniere e del Decameron. Relegati a dialetti tutti gli altri volgari della penisola, il toscano nel Cinquecento divenne lingua letteraria e dotta e venne usata anche nella comunicazione orale quasi esclusivamente tra eruditi e letterari. L’Italia unita non dovette affrontare il compito di confezionare o di imporre una lingua nazionale, che possedeva da secoli, ma dovette adeguarla alle nuove esigenze comunicative della nazione. La persistenza e la vitalità dei dialetti, in presenza di una lingua scritta compiutamente elaborata, sono state attribuite:  alla frammentazione politica del paese;  ai particolarismi regionali e municipali;  al ristagno della vita economica, sociale ed intellettuale;  al peso della tradizione classica  al monopolio del latino nelle università e nelle scuole e nei collegi degli ordini religiosi riservati alle classi dirigenti. Viene, tuttavia, sottovalutata l’influenza della censura ecclesiastica. Se la Chiesa ha rappresentato nell’Italia divisa l’unica istruzione che era in grado di promuovere la diffusione dell’italiano, ha avuto una funzione rilevante anche nel processo di unificazione linguistica della penisola. Il rapporto tra la Chiesa e la lingua ha dunque, acquistato una nuova e positiva rilevanza. In questo quadro di rimozioni e cancellazioni, appare più pertinente la mancata affermazione nella penisola della Riforma protestante. Più che nella mancata Riforma italiana è nella reazione contro di essa che si deve individuare uno dei fattori che ostacolarono la trasformazione della lingua letteraria in lingua della comunicazione orale. Nell’aver rallentato l’acquisizione e la diffusione di una competenza attiva dell’italiano ebbero un peso maggiore la proibizione di opere di contenuto biblico con cui uomini e donne di ogni ceto e professione avevano intrattenuto un rapporto stretto. Se nella scuola elementare il latino si mantenne allo Stato unitario, superando la prova delle Riforma napoleoniche, nelle chiese persistette fino al 1965, alla prima messa celebrata da Paolo VI. L’atteggiamento della Chiesa agli albori dell’età moderna fu quello di ricorrere alle nuove tecniche tipografiche e all’uso crescente dell’italiano allo scopo di divulgare il suo patrimonio biblico e teologico tra i semplici e di promuovere una spiritualità più interiore. La Chiesa cercò di esercitare una vigilanza sulla produzione libraria e di ridurre gli spazi del volgare nella pratica e nella scrittura religiose a causa di alcuni fattori:  il dilagare del dibattito religioso nelle piazze, nei mercati, nelle case e nelle botteghe;  inquietanti connotazioni sociali derivanti dall’alleanza tra istanze di riforma e lingua volgare;  rinnovata sensibilità religiosa;  bisogno più esteso di consapevolezza teologica;  attenzione per il significato personale della fede. Rimasero altre forme di comunicazione del messaggio cristiano in volgare a cui il clero poté affidarsi e che favorirono una conoscenza passiva dell’italiano. L’impegno nell’istruzione primaria delle scuole della dottrina cristiana appare discontinuo e disomogeneo e l’uso del volgare al loro interno sembra essere stato limitato alla ripetizione del catechismo, mentre il latino veniva imposto per la recita delle preghiere. L’uso dell’italiano nella corrispondenza tra vescovi e curati non può essere considerato un fenomeno di spessore nell’unità linguistica e non riuscirono ad impedire che la lingua nazionale si presentasse agli italiani unificati come una lingua incognita. Chiamati a dare una risposta ai problemi sollevati dall’applicazione del terzo catalogo dei libri proibiti, i dicasteri romani si videro costretti a definire meglio le loro competenze, ad armonizzare i loro orientamenti e dare coerenza alle norme. Solo tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, un progetto, avviato da Paolo IV e irrobustitosi con Pio V e Gregorio XIII, pieno di smagliature, acquistò un profilo nitido e organico e l’offensiva contro il volgare ampliò i suoi obiettivi giungendo ad ostacolarne l’uso delle opere di controversia religiosa, di teologia. Su di esso continuò a gravare l’ombra della Riforma, per la centralità che la Scrittura nelle lingue vernacolari aveva assunto nel mondo protestante. Il divario tra teologia e pratica religiosa si era ridotto e la riflessione teologica si era estesa aj massimi livelli, tanto che vi prendevano parte anche coloro che era considerati inaffidabili. Roma era ancora turbata dal periodo in cui circolavano testi clandestinamente, allo scopo di divulgare tesi eretiche: per questo motivo, era necessario bloccare il processo di maturazione culturale e religiosa. Dunque, di fronte a ciò, la Chiesa non seppe trovare altra risposta se non chiudere il proprio patrimonio di fede da chi non possedesse la chiave del latino, col pretesto di preservare il popolo fanciullo dai pericoli di un’autonoma riflessione. L’idea, a questo punto, che l’accesso al sapere religioso dovesse essere riservato alle élite ecclesiastiche e culturali non incontrava più resistenze. La discriminazione che i divieti romani provocarono nelle pratiche di lettura e di ascolto dei credenti non fu determinata dalla nascita o dal censo, ma attraversarono verticalmente tutti gli strati sociali, escludendo solo quei chierici e laici che potevano seguire nei collegi d nelle scuole degli ordini religiosi un regolare processo di scolarizzazione incentrato su studi classici. Solo chi era in grado di comprendere il latino avrebbe potuto attingere alle fonti della fede, mentre chi non lo era doveva esserne tenuto lontano. Se questi divieti
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