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PSICOLOGIA DEL LAVORO E DELLE ORGANIZZAZIONI – Psicologia delle organizzazioni, Appunti di Psicologia del Lavoro

Riassunto di alcuni capitoli del libro, dettagliato + appunti prof

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 28/06/2019

Va_12
Va_12 🇮🇹

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Scarica PSICOLOGIA DEL LAVORO E DELLE ORGANIZZAZIONI – Psicologia delle organizzazioni e più Appunti in PDF di Psicologia del Lavoro solo su Docsity! PSICOLOGIA DEL LAVORO E DELLE ORGANIZZAZIONI – Psicologia delle organizzazioni LE METAFORE ORGANIZZATIVE • Meccanizzazione. L'organizzazione è paragonata ad una macchina, ad un orologio o al programma di un computer. Per quanto riguarda la definizione, l'organizzazione fa riferimento a cose organizzate o ordinate e, per quanto riguarda gli aspetti organizzativi si guarda agli aspetti formali, programmabili e prevedibili. Inoltre, l'uomo è il classico dipendente che svolge una mansione e l'attenzione si focalizza sulla tecnologia e sul processo di lavoro, nonché sulla struttura formale. Infine, l'integrazione è ottenuta attraverso procedure standard, la gerarchia e il rispetto delle norme. • Intervento della natura. L'organizzazione è paragonata ad una macchina intelligente, ossia l'organismo. Per quanto riguarda la definizione, l'organizzazione non fa riferimento solo a cose organizzate e ordinate, ma anche a cose flessibili e variabili e, per quanto riguarda gli aspetti organizzativi si guarda agli aspetti formali e informali, programmabili e non prevedibili. Inoltre, l'uomo è portatore di bisogni e di desideri di valorizzazione (persona tesa ad auto- controllarsi e a produrre una prestazione) e l'attenzione si focalizza sui ruoli, sui piani, sui programmi e sui meccanismi operativi. Infine, l'integrazione è ottenuta attraverso la definizione di obiettivi e risultati e, l'analisi dei feedback (retroazione). • Avvento della cultura. L'organizzazione è paragonata ad una tribù, una comunità o ad una cultura. Per quanto riguarda la definizione, l'organizzazione è un corso di azioni e decisioni dotate di volività e ispirate dalla razionalità limitata e, per quanto riguarda gli aspetti organizzativi si guarda alla storia e al passato, alle tradizioni e alla competenza distintiva. Inoltre, l'uomo è un “animale simbolico” ricercatore e costruttore di significati e l'attenzione si focalizza sulla storia, sugli “eroi” e fondatori e sul campo simbolico dell'organizzazione. Infine, l'integrazione è ottenuta attraverso la socializzazione ai valori e attraverso la condivisione delle credenze. • Interessi, conflitti e poteri. L'organizzazione è paragonata a un'arena politica, a una piazza o un mercato. Per quanto riguarda la definizione, l'organizzazione è un corso di azioni e di decisioni che esiste nonostante i suoi membri e, per quanto riguarda gli aspetti organizzativi si guarda al conflitto d'interesse, alla competizione, all'ambiguità e al disordine (irrazionalità). Inoltre, l'uomo è una mente “mente libera” che ricerca il suo spazio e il suo potere e gli oggetti di analisi e intervento sono i giochi di potere (chi è con o contro), le strategie di influenza e le coalizioni. Infine, l'integrazione è ottenuta attraverso la gestione dei conflitti, la ricerca del consenso e della legittimazione, le alleanze e le minacce. • Irrompere l'irrazionale. L'organizzazione è paragonata a un iceberg o a un vulcano. Per quanto riguarda la definizione, l'organizzazione è un corso di azioni e di decisioni che protegge dalle ansie e, per quanto riguarda gli aspetti organizzativi si guarda ai comportamenti e alla comunicazione, alla realtà affettiva e al clima interno. Inoltre, l'uomo è alla ricerca di certezze e l'attenzione si focalizza sulle opinioni e atteggiamenti personali, sui sentimenti e sulle emozioni. Infine, l'integrazione è ottenuta attraverso l'elaborazione dei vissuti e dei conflitti interpersonali, nonché attraverso la protezione delle ansie. • Divenire dell'organizzazione. L'organizzazione è paragonata ad un flusso o ad un collage. Per quanto riguarda la definizione, l'organizzazione è sinonimo di disorganizzazione e, per quanto riguarda gli aspetti organizzativi si guarda ai discorsi che circolano all'interno delle organizzazioni. Inoltre, l'uomo è frammentato e continuamente emergente all'interno delle posizioni discorsive che assume e l'oggetto di analisi e d'intervento è dato da come il soggetto sia assoggettato e come quindi può aprire degli spazi di agency. Infine, l'integrazione è un “discorso”. LE PROSPETTIVE DI STUDIO PER LE ORGANIZZAZIONI L'industrialismo si compone di tre fasi: 1. Fase dello sviluppo. Questa fase, nella prima metà dell'800, sarebbe connessa all'utilizzo in maniera diffusa dei macchinari per estendere e aumentare la produttività del lavoro. Nelle fabbriche, che cominciarono a fare la loro comparsa in Inghilterra nel settore tessile, un capomastro faceva eseguire gli ordini della direzione. I macchinari erano in genere di uno stesso tipo e i tecnici della manutenzione, nonché i supervisori, erano uomini e i lavoratori erano prevalentemente donne e bambini. 2. Fase del decollo industriale (inizia tra il 1850-1860). il sistema della fabbrica si diffuse ad altri settori, tra cui prodotti alimentari e chimici, ingegneria e raffineria. La crescita della complessità tecnica portò a una maggiore complessità dei processi di produzione e parallelamente all'estendersi dei sistemi di organizzazione sociale e burocratica con la loro enfasi sul controllo, sulle routine e sulla specializzazione. Questi cambiamenti portarono, a loro volta, a una forte espansione dei quadri amministrativi e dirigenti (es: professionisti e impiegati). Analoghi cambiamenti si verificarono negli eserciti e nell'amministrazione pubblica; furono proprio questi cambiamenti a sollecitare gli interessi dei sociologi che diedero vita alle teorie classiche dell'organizzazione, soprattutto Weber e Marx. 3. Fase dello sviluppo industriale (dalla prima guerra mondiale in poi). La produzione va di pari passo e può anche superare la domanda spontanea dei beni. La dipendenza dell'organizzazione dalla crescita della produzione conduce a una maggiore sensibilità rispetto alle esigenze del consumatore, a nuove tecniche per stimolare il consumo dei beni, alla internazionalizzazione delle imprese e alla ricerca di nuovi mercati. Il nuovo rapporto tra imprese e mercati richiede che le organizzazioni diventino più flessibili, più attente ai bisogni del consumatore, più attive a livello internazionale e tecnicamente innovative. Inoltre, le organizzazioni chiedono che tutti i membri di un'impresa si impegnino a sostenere lo sviluppo economico. 4. Dall'industrialismo al post-industrialismo. La società industriale organizzata sarebbe organizzata in base al controllo della produzione dei beni, quella postindustriale si baserebbe sulla produzione non dei prodotti, ma delle conoscenze e sull'utilizzo e il controllo delle informazioni; modalità tutte rivoluzionate dall'introduzione del computer. Una conseguenza della rivoluzione informatica è l'abbandono delle gerarchie a favore della creazione di network o reti di comunicazione, con un conseguente spostamento del baricentro della struttura organizzativa dall'asse verticale all'asse orizzontale. Una caratteristica importante è la scomparsa dei confini organizzativi sia esterni (es: organizzazioni), sia interni (es: reparti). Le persone che si troveranno a lavorare non faranno distinzioni tra reparti, posizioni e gerarchie, ma dovranno continuare, oltre che a lavorare, anche ad aggiornarsi per tenere il passo con un mondo in continuo mutamento. Tendenze contemporanee della teoria organizzativa • Prospettiva moderno-sistemica. Nell'approccio modernista, tutti i fenomeni sono correlati: le società contengono i gruppi, i gruppi contengono gli individui, gli individui sono fatti di organi, gli organi di cellule, le cellule di molecole e le molecole di atomi; tutti questi fenomeni sono sistemi in cui si possono studiare leggi e i principi fondamentali atti a spiegarli. Un “sistema” è una “cosa” fatta di parti correlate tra loro: ciascuna parte ha un impatto sulle altre e dipende dalle caratteristiche e dal funzionamento del sistema nel suo complesso. Inoltre, ciascun sistema non può essere studiato attraverso l'analisi delle singole parti, bensì nel suo complesso. • Prospettiva simbolico-culturale. Secondo questa prospettiva, la realtà è una costruzione sociale. Essa sottolinea le origini soggettive della realtà e, quando usiamo i concetti, noi creiamo il fenomeno che intendiamo analizzare. Inoltre, quando dichiariamo il nostro interesse per un'organizzazione e stabiliamo un linguaggio per parlarne, reifichiamo l'oggetto del nostro studio, vale a dire rendiamo reale il fenomeno parlando e agendo in modi che diano tangibilità. Attraverso l'interpretazione, i membri di una società attribuiscono precisi significati le categorie della politica in cui si chiarisce chi è il nemico. • Ethos. Fa riferimento all'etica. alle questioni deontologiche e a ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Le categorie analitiche fondamentali delle forme espressive sono: • Linguaggio. Ovvero l'insieme di segni vocali che caratterizzano e stabilizzano l'esperienza umana. Il linguaggio non è solamente una sequenza di parole, esso comunica un tessuto sociale e ha il potere di condizionare i processi di azione, oltre che percettivi e di pensiero. Ogni cultura tenderà a sviluppare un linguaggio idiosincratico, specifico (es: etichette, espressioni tipiche, proverbi). • Miti. Narrazioni in forma drammatizzata di vicende passate più o meno reali che hanno la funzione di legittimare determinate azioni che sono state compiute nel passato e sono ancora valide tutt'oggi. Quello che viene raccontato appartiene alla sfera del sacro e del profano. • Storie e saghe. Le storie sono collezioni di aneddoti ed episodi che caratterizzano la quotidianità della vita organizzativa. Storie e miti fra loro intrecciati danno origine alle saghe organizzative che raccontano la vicenda spesso straordinaria di nascita, sviluppo ed evoluzione di un'organizzazione. Ciò che distingue la saga da un semplice racconto è la sua forte connotazione evocativa e affettiva. • Riti e cerimonie. Sono azioni che necessitano di un consumo – o spreco – di risorse. Si tratta di attività caratterizzate da un certo grado di progettazione ed elaborazione formale fruite da un pubblico, talvolta precedute anche da prove generali. • Spazio e artefatti. Si tratta dei prodotti tangibili e concreti che hanno il compito di ricordare ai membri di un gruppo chi sono e qual'è la loro identità. Come possono cambiare le organizzazioni? Mutare le strutture e le regole formali di un determinato contesto può essere inefficace o addirittura controproducente se tale mutamento non è accompagnato da paralleli interventi su assunti, valori e norme. Tali interventi sono stati classificati in termini di cambiamento apparente, quando vengono riassorbiti dalle strutture culturali preesistenti (circolo virtuoso che diventa vizioso): le strategie di intervento risultano allineate con i valori e gli assunti, pertanto la cultura rimane inalterata; cambiamento rivoluzionario, che si verifica quando il conflitto avviene in modo irreparabile, aprendo la strada a due sole alternative: o la strategia viene rifiutata in quanto considerata incompatibile con il credo dell'azienda, oppure essa si impone alla cultura esistente portando all'instaurarsi di una cultura intrinsecamente diversa; cambiamento incrementale, non incompatibile con gli assunti di base, ma capace di modificarne l'estensione e le conseguenze. LE EMOZIONI NELLA VITA ORGANIZZATIVA La centralità delle risonanze emotive è sovente data per scontata da quanti ogni giorno lavorano nelle organizzazioni. Tuttavia, gioia, invidia, rancore, ansia e frustrazione sono connaturate al vivere e costruire la realtà organizzativa. Sin dagli anni '30 del secolo scorso lo studio delle emozioni nei contesti di lavoro è stato sviluppato dalla psicologia, giungendo ai giorni nostri arricchito di numerosi contributi che appartengono a diverse prospettive psicologiche. Le parole della psicologia: affetto, emozione, sentimento e umore La prima teoria sulla emozioni si deve allo psicologo William James, il quale in un lavoro si chiedeva “Che cosa sono le emozioni?”: egli sosteneva che i cambiamenti fisici stimolano i sentimenti (es: se ridiamo siamo contenti). A partire da James, le emozioni sono state definite in modi assai diversi: alcuni studiosi le associano a tratti della personalità, altri a dimensioni inconsce e, altri ancora, mettono in evidenza la relazione tra emozioni e processi cognitivi, oppure tra sentimenti e norme culturali. Le parole della psicologia sono: • Affetto (affect). E' un termine generico e di ampia portata che include le emozioni. • Emozione (emotion). E' uno stato affettivo inteso e di breve durata associato a una causa esterna o interna al soggetto. Le emozioni sono messe in relazione a situazioni o a persone o, ancora, con qualcosa che è successo, sta avvenendo o accadrà. Hanno un carattere dinamico e si caratterizzano per una fase iniziale, cui seguono un'evoluzione e, infine, un'attuazione. Esse vanno e vengono, e hanno intensità diverse (es: possiamo essere decisamente arrabbiati fino ad arrivare a comportamenti violenti e incontrollati). Hanno una natura incerta, ambivalente e sono spesso intrecciate fra loro (es: l'odio può mescolarsi all'amore). Infine, le emozioni sono accompagnate da modificazioni fisiologiche, espressioni facciali e comportamenti caratteristici a seconda di ciò che si prova e della situazione sociale cui ci troviamo. • Sentimento (feeling). Secondo Fineman, il sentimento è l'elemento più soggettivo di ciò che si prova, ossia ciò che sentiamo in maniera “autentica” e “intima”. Nell'ambito della prospettiva costruttivista i sentimenti si distinguono dunque dalle emozioni, ovvero da ciò che “mostriamo” o “esibiamo” (displayed feature), da ciò che traspare e rendiamo visibile dei nostri sentimenti, mentre la prospettiva psicodinamica sembra non tener conto di questa distinzione. • Umore (mood). Si tratta di uno stato affettivo con intensità minore, ma durata maggiore rispetto alle emozioni (es: siamo tristi e depressi dal primo mattino e per tutta la giornata, finché verso sera, rientrando a casa, ritroviamo la serenità). Emozioni, sentimenti, umori e affetti non sono entità discrete: le emozioni si esprimono in forma di trame (emotional texture) poiché attraverso l'idea di trama emozionale si vuole sottolineare che esse non si presentano come entità distinte (es: il tessuto emotivo fa sì che in uno stesso momento si sperimentano ansia e delusione, che l'angoscia sia intrecciata ad un sentimento di depressione, che la felicità si accompagni ad uno stato di invidia e, che la rabbia sia imbevuta di gelosia, ma anche di invidia). Esse, quindi, non si presentano in maniera discreta o polarizzata. Le emozioni nelle organizzazioni In ambito organizzativo, l'idea che gli individui siano portatori di una visione emotiva compare soprattutto a partire dagli studi sulla Western Eletric Company di Hawthorne, nei pressi di Chicago: qui alcuni antropologi e psicologi sociali, coordinati da Mayo, condussero alcune ricerche empiriche e sottolinearono l'importanza della “logica dei sentimenti” o delle caratteristiche socio-emotive dei soggetti nei processi di lavoro. Negli anni '30 del '900 emerse l'idea che gli uomini e le donne che lavoravano nelle organizzazioni possiedono anche un cuore e, dopo questi primi lavori, per lungo tempo in letteratura per riferirsi alle emozioni si è parlato di “stato morale dei lavoratori”. Successivamente, fra l'inizio degli anni '50 e tutti gli anni '60, l'interesse degli studiosi per le emozioni si è dispiegato in due direzioni principali: 1. Lungo la prima è stato dato rilievo ad alcune attitudini che possiedono una componente affettiva. 2. La seconda direzione è rappresentata dalla lettura psicodinamica delle organizzazioni, sviluppata dagli studiosi radunati intorno al Tavistock Institute of Human Relations di Londra. Le ricerche pionieristiche avviate da Jaques prima e da Menzis poi descrivevano dinamiche organizzative centrate intorno alle diverse configurazioni delle angosce primarie che le persone rivivono all'interno dei contesti lavorativi. Dalla metà degli anni '80 gli studiosi delle organizzazioni hanno riscoperto le emozioni, in parte come riflesso di una tendenza di più ampia portata che ha visto crescere l'interesse per i sentimenti e le emozioni. Le organizzazioni come arene emotive Weber, in un suo estratto, suggerisce che la burocrazia raggiunge la sua massima espressione in termini di efficacia ed efficienza quando è completamente deumanizzata. Tuttavia, a partire dagli anni '80 qualcosa è cambiato e nell'ambito degli studi organizzativi almeno due prospettive – la psicodinamica e la costruttivista – hanno rivitalizzato il dibattito scientifico intorno alle emozioni che gli individui provano nel loro agire organizzativo. Per gli autori che hanno sviluppato questo tema, le organizzazioni sono arene emotive: si tratta di un immagine drammaturgica poiché le organizzazioni sono arene dove le emozioni sono rappresentate (performed) a favore di un pubblico (es: capi, colleghi, clienti, concorrenti) che si intende influenzare, stupire, impressionare e/o spaventare. Attraverso la metafora si intende portare al centro della speculazione teorica e della ricerca due sottolineature: 1. Sono i soggetti che costruiscono l'organizzazione. 2. Gli attori organizzativi compaiono azioni modellate dalle emozioni. L'esibizione delle emozioni (emotional display), per esempio rabbia, nostalgia, amore, paura, noia, ansia, frustrazione, imbarazzo, rimorso, pietà o speranza, lungi dall'essere solo un impulso incontrollabile, può anche essere utilizzata dai singoli per sostenere, aumentare o destabilizzare l'ordine organizzativo. Le organizzazioni sono arene emotive, dove i sentimenti provati dai singoli danno forma ad azioni e decisioni e, viceversa, azioni e decisioni modellano le emozioni. L'approccio psicodinamico In psicoanalisi, le emozioni sono forze che condizionano profondamente le vicende degli esseri umani e dell'intera umanità. Gli antichi greci utilizzavano la parola pathos per indicare “emozione” con due significati: 1. Una caratteristica dell'esperienza o di una rappresentazione artistica che evoca pietà o compassione; 2. Un'esperienza non desiderata, incontrollabile e non soggetta a giudizio: qualcosa di inevitabile, di cui si soffre o a cui si è sottomessi. La prospettiva psicodinamica recupera l’antico significato di emozione associandolo a quello derivante dal francese émotion che nel sedicesimo secolo significava “movimento” e nel diciassettesimo “agitazione popolare”. In psicoanalisi, le emozioni sono un impulso profondo che spinge a lavorare, lottare per il potere, ricercare la verità e appassionarsi alla conoscenza: tutte queste azioni sono mosse e plasmate dalle emozioni. L’ansia è l’emozione posta in primo piano negli studi considerati ormai classici che, attraverso una chiave interpretativa psicodinamica, hanno proposto una riflessione originale sulla vita emotiva degli individui nei contesti organizzati: si tratta dei lavori di quegli studiosi che alla fine della Seconda guerra mondiale erano radunati presso il Tavistock di Londra (Eric Trist, Elliot Jaques, Eric Miller, Harold Bridger, Isabel Menzies) e che elaborarono l’approccio psicodinamico per lo studio dei sistemi sociali, delle organizzazioni e dei gruppi. Gli individui, secondo Jaques, si uniscono in organizzazione per proteggersi dalle angosce, dalle paure e dalle ansie e in tal modo si utilizzano reciprocamente, caricando tra loro le relazioni di significati che “disturbano” la relazione stessa. Le ansie da cui gli individui si proteggono sono: • Ansie paranoidi. Paura di esse annientati o distrutti. • Ansie depressive. Timori per la perdita di un oggetto buono. La razionalità organizzativa si scontra con le emergenze irrazionali, di volta in volta camuffate da vittimismo, auto-svalutazione, arroganza e passività. Anche il lavoro di Menzis ha portato un contributo a sostegno di quanto già elaborato da Jaques in tema di emozioni che caratterizzano la vita organizzativa: nello studio sulle infermiere di una scuola ospedaliera londinese, l'autrice mise in evidenza che il personali infermieristico era continuamente esposto, da un lato, a emozioni e sentimenti legati al contatto con la sofferenza e la malattia e, dall'altro, alle emozioni che esse suscitavano nei pazienti e nei parenti malati. In sintesi, la situazione di lavoro faceva sorgere nelle infermiere sentimenti molto intensi di pietà, compassione, amore, colpa, risentimento e perfino odio, che spesso si presentavano intrecciati tra loro. Dall’altro lato, le competenze possedute dalle infermiere suscitavano nei malati e nei loro cari ammirazione mista a invidia, così come gratitudine e allo stesso tempo risentimento per la dipendenza generata dalle cure ricevute. Allo scopo di far fronte a questo crogiolo di emozioni, l’organizzazione aveva escogitato numerosi meccanismi difensivi: • L'organizzazione del lavoro era basata su una elevata specializzazione, cosicché a ogni infermiera era assegnato solo un ristretto numero di compiti, da svolgersi per tutti i ricoverati. 1. Dipendenza/indipendenza (es: non voglio o voglio avere vincoli). I soggetti sentono di provare una grande ambivalenza nei confronti dell'organizzazione per cui si dividono in due categorie: i primi sono individui che ci sentono profondamente legati al posto di lavoro fino al punto di perdere la propria indipendenza, mentre i secondi sono individui che esitano prima di rinunciare alla propria autonomia. 2. Riconoscimento (es: voglio essere riconosciuto come unico). Si tratta di quegli individui che amano distinguersi dagli altri. Al momento del loro ingresso nell'organizzazione non possono emergere per le loro capacità quindi cercano di avere una relazione speciale con il capo al quale si chiede grande lealtà in cambio di un ruolo che li faccia emergere. Quindi, emerge un ruolo conflittuale con il potere: se da un lato si aspira ad avere potere perché si è vicini a un'autorità, dall'altro si delega il potere per non assumere le proprie responsabilità nelle decisioni importanti e difficili. 3. Lasciare qualcosa (es: voglio lasciare qualcosa in eredità). Sono gli individui che vogliono lasciare qualcosa agli altri (es: amici, familiari, colleghi). La loro grande soddisfazione è quella di vedere che i loro sforzi hanno dato dei frutti nell'ambiente in cui operano, ma può accadere che non riescano a trovare delle soddisfazioni perché il lavoro che svolgono è ripetitivo o raggiunge risultati modesti. Quindi, saranno delusi e si allontaneranno dall'azienda pensando di mettersi in proprio onde lasciare qualcosa a chi viene dopo di loro. 4. Grandi ideali (es: voglio realizzare grandi ideali). Si tratta di soggetti che associano al lavoro l'espressione dei valori in cui credere per cui l'organizzazione li aiuta a dare un senso alla vita, dando loro degli ideali a cui mirare e dei modelli in cui identificarsi. E' possibile che questi soggetti con l'avanzare dell'età, essendosi immedesimati troppo con i valori aziendali, rischino di andare incontro a delle frustrazioni e delusioni proprio perché gli viene detto di “non prendere le cose troppo sul serio”, frase che verrà interpretata come “non prendere sé stessi sul serio”. L'entrata in organizzazione è sicuramente diversa per giovani e anziani. I primi ci si chiede quali desideri nutrono e soprattutto se gli anziani faciliteranno o ostacoleranno il loro ingresso,mentre i secondi ci si chiede se desiderano o temono l'avvio dell'esperienza ed essi si interrogano se saranno all'altezza delle richieste dei neo-assunti. Ancora, i primi resistono alla possibilità di essere messi subito alla prova, mentre i secondi vogliono sapere quando valgono i neo-assunti. Il processo iniziativo dell'entrata in organizzazione si compone di diverse fasi: • Integrazione. Possibilità di posizionarsi nel contesto organizzativo in modo chiaro e autonomo. • Elaborazione. Superamento delle eventuali frustrazioni precedenti. • Confronto. L'organizzazione è diversa da quello che ci si aspettava. • Incorporazione. Accoglienza nella collettività come se fosse un nuovo individuo. • Transizione. Preparazione per l'assunzione di una nuova identità. • Separazione. Svalutazione dell'identità precedente. Quando un neoassunto non giunge al compimento della fase d’integrazione con l’organizzazione, cioè quando non si avvia un vero e proprio contratto psicologico, la spiegazione più consueta che l’organizzazione si dà è che egli non fosse preparato ad assumere quel ruolo. I processi e le figure professionali che facilitano l'entrata in azienda sono: • Tutor. L'etimologia di questa parola rimanda al latino tutus (sicuro) e ha il valore causativo di “faccio sviluppare”, “rendo sicuro”. In latino, quindi, il tutor è il guardiano, il protettore e il custode che si prende cura di qualcun altro. In un setting formativo la tutorship non risiede in un unico soggetto, ma è il processo relazionale di natura educativa che di volta in volta viene costruito e negoziato nelle dinamiche che si attivano tra coloro che danno vita all'azione di apprendimento e formazione. • Mentore. Il mentoring è il termine derivato dal greco antico con cui nel mondo anglosassone si designano quelle attività volte a sostenere i lavoratori nel comprendere il mondo in cui sono capitati e quindi promuovere le potenzialità individuali. • Coach. Il coaching è un processo volontario, intenzionale e pianificato attraverso cui i capi aiutano i collaboratori ad utilizzare la loro attività quotidiana per apprendere, migliorando così il livello di competenze. • Counsellor. Il counselling dal latino consulere (avere cura) è una strategia di intervento volto ad aiutare la persona in stato di bisogno a definire il problema evolutivo e a imparare a gestirlo, partendo da una riattivazione di risorse interiori, affettive e cognitive. Ci sono, inoltre, diversi tipi di contratti psicologici: quello transazionale è di breve durata e le richieste di prestazione sono specificate, quello bilanciato, invece, è di lunga durata e le richieste di prestazione sono specificate. Ancora, quello di transizione è di breve durata e le richieste di prestazione non sono specificate, quello relazione, invece, è di lunga durata e le richieste di prestazione non sono specificate. Poi, vi sono i contratti atipici (es: part-time, collaborazioni a progetto, apprendistato, somministrato o interinale) che sembrano orientati verso un contratto psicologico transazionale e sembrano meno sensibili alle violazioni del contratto psicologico. I lavoratori che vedono il lavoro atipico come un mezzo per poter accedere in futuro a una posizione stabile tendono a stabilire un contratto psicologico “più relazionale” di coloro che invece lo considerano come fine a se stesso. Coloro che scelgono volontariamente il lavoro atipico e che lo preferiscono, valutano il proprio contratto in termini maggiormente transazionali (es: consulenti). I lavoratori atipici ritengono spesso che l’organizzazione per la quale lavorano offra loro poche prospettive e sviluppano un contratto psicologico che pone più enfasi sulle componenti transazionali piuttosto che su quelle socio-emozionali. Se è vero che alla sicurezza del posto si cerca di sostituire la sicurezza della carriera in termini di accrescimento e sviluppo delle competenze, allora il concetto stesso di contratto psicologico deve essere rivisitato. Secondo alcuni autori è forse necessario costruire un rapporto di fiducia e negoziare un nuovo tipo di accordo psicologico che rifletta l’“urgenza del momento” per le organizzazioni, ossia l’attrarre e il trattenere i collaboratori con la promessa di potenziare l’employability; quest’ultimo è un concetto, che, sotto la spinta delle nuove forme di lavoro atipico, temporaneo, flessibile e dell’ideologia neoliberista si sta sempre più diffondendo. LA PROSPETTIVA PSICODINAMICA: L'ORGANIZZAZIONE COME FRONTE D'ANSIA (Slide) Quattro assunti fondamentali 1. I processi psicologici sono sia consci, che inconsci. 2. Le difficoltà che gli individui incontrano nei luoghi di lavoro hanno a che fare con le relazioni. 3. Gli individui ricorrono a meccanismi di difesa per proteggersi da emozioni, desideri e sentimenti vissuti come pericolosi. 4. I vissuti d'ansia replicano le paure e le ansie dell'infanzia e, di conseguenza, riattivano le dinamiche di difesa allora apprese. Per questi motivi, ecco perchè le dinamiche relazionali nelle organizzazioni sono spesso improntate alla regressione e hanno le stesse totalità emotive che hanno caratterizzato il rapporto con le figure parentali. L'incertezza minaccia l'organizzazione: le teorie di Mainstream E' l'ambiente in cui opera l'organizzazione, con l'incertezza che lo caratterizza, a generare ansia. Le condizioni del post-industriale stressano l'incertezza; per questo motivo, le teorie mainstream definiscono il concetto di incertezza razionale, ma razionali sono le soluzioni proposte quindi esse non sono del tutto soddisfacenti poiché trascurano l'aspetto psicologico: l'esperienza soggettiva dell'incertezza. Dinamica dell'import-export dell'ansia Il mondo esterno è difficilmente prevedibile e controllabile quindi per contenere l'ansia si confida soprattutto nel rapporto con gli altri: a differenza delle variabili ambientali, gli altri (es: colleghi, capi, collaboratori) possono essere “usati” per stabilizzare il mondo interno, mediante i meccanismi di difesa. Il sistema dei normali danni psicologici Esso è “l'insieme delle offese normali e prevedibili che le persone subiscono quando tentano di collaborare con gli altri per realizzare i compiti di lavoro all'interno di un ambiente incerto” (es: scaricare le proprie responsabilità, idealizzare la figura del capo e assumere il ruolo della vittima). Normalmente, nelle relazioni interpersonali, tra cui quelle organizzative, ogni persona “offende” l'altra perché le attribuisce dei ruoli, degli atteggiamenti, dei poteri e dei desideri che non hanno alcun fondamento reale, ma che sono il frutto delle proiezioni individuali, attivate per ridurre la minaccia percepita (es: il bambino “difficile e problematico”). La teoria della relazioni oggettuali Le relazioni con gli altri costituiscono gli elementi strutturanti della vita mentale (es: il materiale per lo psicoanalista) e l'oggetto dell'esperienza del paziente è una visione emendata della persona “reale” coinvolta (es: transfert). Le persone agiscono e interagiscono non solo con un altro reale, ma anche con un altro interno: le rappresentazioni interne di altri significativi sono immagini anticipatorie di quello che ci si aspetta dagli altri quindi le persone vivono simultaneamente un mondo interno e un mondo esterno. L'oggetto: • Descrive sia le persone “reali”, sia le immagini di queste; • E' una parola vaga; • Può essere modificato. Un esempio è dato dal “capro espiatorio”: • L'ostilità dell'ambiente viene importata e attribuita a un individuo o a un gruppo; • L'incertezza esterna viene controllata; • Chi è investito nel ruolo di capro probabilmente collude con questo ruolo/fantasia; • Chi è investito nel ruolo ha personificato la fonte d'ansia. Principali fonti d'ansia Hirshhorn ha individuato tre principali fonti d'ansia della “normale” vita organizzativa cui corrispondono altrettanti “normali” meccanismi di difesa: 1. Le frontiere/i confini organizzativi. 2. L'esercizio del potere. Nell'era post-industriale l'appiattamento della gerarchia ha: - Portato i manager a essere più visibili; - Indotto i manager a sentirsi meno protetti; - Richiesto ai manager la “capacità di potere” Tra eccessi di delega, di autoritarismo e abdicazioni, le relazioni tra capi e collaboratori si mostrano sempre più “insoddisfacenti”. Quando il confronto con il potere è più ansiogeno? Gli individui temono l'esercizio dell'autorità quando non hanno un'immagine di sé sufficientemente buona, cioè quando si sentono fondamentalmente cattivi. Alcuni individui temono di non saper fare un buon uso del potere e di venire puniti per i propri errori quindi quando raggiungono un elevato livello di ansietà essi tendono a delegare il compito di essere aggressivi a qualcun altro; quest'ultimo, per varie altre ragioni (es: il narcisismo), può accettare il compito di essere aggressivo. Tuttavia, queste figure “investite” del/dal potere finiscono per essere vittime del medesimo. 3. La dinamica del ruolo. Ci sono due modi per agire un ruolo: - Si può prenderne possesso, impegnandosi a gestire le relazioni e i compiti che esso implica; - Lo si può violare, fuggendo dai rischi a cui espone. Si può fuggire dal ruolo attraverso: - Autosvalutazione. Ossia, non dichiararsi all'altezza dei compiti, proiettando i vissuti persecutori all'esterno. - Progressivo disimpegno. Avviene dal proprio ruolo attraverso comportamenti di eccessiva delega, ossia la tendenza a fare sempre di meno e rifiutare alcuni compiti. - Fuga dal ruolo. Fuggire il ruolo significa fuggire dalla realtà, violare i legami e 1. Ruolo manifesto. Corrisponde all'interpretazione ufficiale e alla definizione formale dei ruoli da parte delle organizzazioni che ci si aspetta dagli individui. 2. Ruolo latente. Esprime la dimensione inconscia del ruolo manifesto che può emergere come libera interpretazione del ruolo stesso. Coglie le difese psicologiche messe in atto quando il ruolo manifesto fallisce nella funzione di contenimento e si esprime in forzature riferite sia rispetto ai contenuti, sia rispetto ai confini del ruolo. Tuttavia, forzando i ruoli gli individui incrementano il vissuto generale di imprevedibilità per cui probabilmente l'organizzazione interverrà ridefinendo o rafforzando la struttura dei ruoli e al fine di contenere le nuove incertezze. Nell'organizzazione burocratica, ma non solo, i ruoli sono definiti in maniera rigida per fornire ai propri membri un ambiente prevedibile, impersonale e libero dall'ansia quindi per rispondere ai bisogni irrazionali di difesa. Quando, però, le strutture di ruoli altamente formalizzati sono esposte a eventi stressanti, le attività difensive si impennano a discapito di quelle produttive quindi, queste ultime, si scaricano sulla dimensione latente del ruolo, più che su quella manifesta. Per questo motivo, le forzature di ruolo diventano preponderanti rispetto alle prescrizioni di ruolo. Si possono individuare cinque stili difensivi improntati alla forzatura di ruolo: 1. Perfezionismo. Egli riduce l'ansia attraverso due strategie: - Stabilire standard di lavoro così elevati da consentire di attribuire ad altri la responsabilità per eventuali insuccessi; - Sviare l'attenzione da tutte le possibili imperfezioni che potrebbero essere fonte di indebolimento dell'immagine personale. Lo stile perfezionista risponde a un profondo bisogno di dominio e controllo ed è contraddistinto dalla tensione a perfezionare virtualmente all'infinito ogni elemento del lavoro ed è, inoltre, caratterizzato da critica distruttiva verso gli altri. In una bassa posizione gerarchica il perfezionista può solo tentare di imporre ai colleghi, a se stesso e talvolta al capo, i propri standard non risparmiando a nessuno le critiche e finendo per procurare, a sé e agli altri, un esaurimento nervoso. In un'elevata posizione gerarchica il perfezionista tenterà di sottrarre ai collaboratori l'approvazione, disseminando il lavoro di trappole che confermeranno la loro inadeguatezza. Metterà in atto comportamenti punitivi e umilianti verso i follower con l'obiettivo ultimo di avere il controllo assoluto della situazione. 2. Arroganza e vendicatività. Chi adotta questo stile tenta di contenere l’ansia coinvolgendo gli altri in una costante competizione con l’obiettivo di arrivare sempre primo/a ed essere sempre protagonista perché solo lui/lei “sa veramente come si fa”. Ne consegue una certa intolleranza verso coloro che ottengono risultati migliori e che mettono in discussione la sua superiorità. Al profilarsi di una possibile sconfitta si origina in questi soggetti il risentimento, che talvolta conduce all’aggressione dei rivali, reali o presunti.  In una bassa posizione gerarchica questi soggetti si mostrano cinici e incuranti delle questioni etiche. “Il fine giustifica i mezzi” soprattutto quando si tratta di riuscire a prendere il posto del capo (un posto che si ritiene di meritare). La sfida e ostilità  In un’elevata posizione gerarchica questi soggetti ricorrono all’intimidazione per garantirsi la totale obbedienza dei collaboratori che verranno messi in competizione fra loro. I più resistenti fra i follower sopravvivranno, ma tenderanno a divenire passivi, se non paralizzati, di fronte al cambiamento verso l’autorità sono spesso palesi. 3. Narcisismo. I narcisisti possono sia coltivare un’immagine di sé grandiosa e onnipotente, sia essere tormentati da un senso di inutilità e insicurezza: in entrambi i casi essi mal tollerano la frustrazione e cercano nel potere, nel prestigio e nello status una compensazione. Questi soggetti tendono a coltivare grandi progetti senza poi impegnarsi nell’azione diretta a realizzarli anche perché la pratica potrebbe smentire l’immagine che hanno di sé. L’incombenza del lavoro viene lasciata ad altri mentre ci si riserva il compito di acquisire ammirazione e lealtà, coltivando allo stesso tempo la fantasia di essere “così importanti da non avere tempo per nessuno”. In una bassa posizione gerarchica i narcisisti sfruttano il lavoro dei colleghi per dare al capo un’immagine di sé efficiente e produttiva, al fine di compensare la frustrazione di un ruolo che ritengono inadeguato; la compensazione avviene soprattutto identificandosi con il capo e immaginando di rimpiazzarlo. In un’elevata posizione gerarchica i narcisisti non delegano volendo restare protagonisti. Concepiscono grandi progetti che poi perdono slancio con l’insorgere di critiche che potrebbero mettere in discussione il loro ruolo. Poiché essere sconfitti significa perdere l’ammirazione, i narcisisti non lo accettano, difendendosi o attaccando gli altri 4. Autosvalutazione. L’autosvalutazione contraddistingue le persone che non riescono a tollerare la distruttività altrui. Esse “esorcizzano” l’ostilità esterna mediante l’esibizione della propria debolezza e della propria incapacità arrivando a dichiararsi incompetenti. Ciò corrisponde al bisogno profondo di sabotare l’immagine grandiosa di sé e sollevarsi da ogni responsabilità disponendosi invece a chiedere aiuto e a dipendere dagli altri. Assolvendosi dall’impegno a fare la propria parte, queste persone devono però adoperarsi per contenere l’ostilità di ritorno di coloro che si sono fatti carico del lavoro. Associata a una bassa posizione gerarchica questa vocazione alla sottomissione tradisce un progetto di sfruttamento dei colleghi mascherato dalla disponibilità a lasciarsi sfruttare e manipolare. Ogni responsabilità di efficienza o inefficienza è così lasciata agli altri. In un’elevata posizione gerarchica ci si sottrae a ogni responsabilità. La delega sarà sostituita da accondiscendenza e amicizia verso i collaboratori. Sempre per amicizia (come rielaborazione del tema della collaborazione), queste persone sono pronte a farsi sostituire nel ruolo. La rinuncia al ruolo è dettata altresì dalla paura di risultare superiore, attirandosi l’aggressività altrui. 5. Passività. I soggetti passivi rinunciano a ogni competizione e aggressività verso gli altri e dichiarano di avere un solo desiderio: evitare il conflitto nelle relazioni; invero vogliono evitare le relazioni stesse. Queste persone ambiscono a lavorare e a fare da sole, e non vogliono condividere le ansie relative ai risultati di gruppo. Ogni tentativo di loro coinvolgimento o richiamo da parte dell’autorità è avvertito come una violazione del loro spazio personale. È assente in questi soggetti ogni ambizione o motivazione alla carriera. In una bassa posizione gerarchica “i passivi” sono ipersensibili a ogni invito a dirigere l’azione verso un progetto comune: vivono tutto come una coercizione. Guardano i colleghi e i capi con diffidenza e fanno resistenza alla definizione di piani di lavoro. Talvolta la conseguente perdita del ruolo è vissuta come una liberazione. In un’elevata posizione gerarchica la passività si esprime nel rifiuto della responsabilità mediante continue procrastinazioni e indecisioni. Anche la delega e la collaborazione saranno evitate per mantenere la distanza dagli altri. Al conflitto si risponderà con un “muro di gomma” e anche in questa posizione la perdita di ruolo può essere un sollievo. Il rapporto tra i meccanismi di difesa individuali e le dinamiche collusive e inconsce del gruppo genera la cultura di gruppo. Allcorn e diamond individuano tre culture di gruppo che rispondono al bisogno di: • Dominio. I membri del gruppo pensano di poter realizzare qualsiasi cosa e di avere il controllo di ogni situazione. È un gruppo attraversato dall’idea della superiorità e invincibilità rispetto ai gruppi rivali, e dal disprezzo della dipendenza e della debolezza. Questi gruppi andranno alla ricerca dell’ammirazione e del rispetto in virtù dei successi ottenuti, anche con mezzi opinabili. Tenderanno, ad esempio, ad adottare politiche indiscriminate di downsizing per poter espellere le parti da essi ritenute inefficienti • Amore. È forte il desiderio dei membri del gruppo che qualcuno si prenda cura di loro. Ci si aspetta che il bisogno di amore dei collaboratori incontri il bisogno di riconoscimento del capo, il quale tendenzialmente evita qualsiasi comportamento dominante e controllante. In questo gruppo nessuno si decide ad agire per il timore di incorrere in critiche, ostracismi ed espulsioni. La scena è sempre lasciata a qualcun altro nella speranza che, in cambio della compiacenza dimostrata, si riceverà sempre amore e cura garantiti • Libertà. I membri del gruppo aspirano a evitare sia le relazioni, che i problemi. “Il prezzo” che ciascuno paga è la perdita del gusto dei rapporti e l’incapacità di difendersi da essi. A livello organizzativo il risultato è un’azione frammentata o boicottata perché questi gruppi si pongono pochi obiettivi, se non quello di vivere tranquilli. Capi e collaboratori assumeranno una posizione passiva ed esitante, specie di fronte a eventi destabilizzanti dai quali ci si difenderà anziché assumersi la responsabilità del processo di cambiamento. Queste sono le tre aspirazioni individuali che ci si aspetta vengano soddisfatte nelle relazioni con i capi, i colleghi e i collaboratori. Il lavoro di gruppo “omogeneizzato” Questa cultura incarna la posizione difensiva più regressiva: la fusione e l’indistinzione. Il gruppo è, infatti, caratterizzato da assenza di differenziazione tra le persone con sacrificio del senso di identità personale, ma a favore della protezione reciproca e della stabilità. L’impegno verso l’omogeneità tradisce un elevato investimento nel contenere l’aggressività e nello scongiurare ogni conflitto perciò in questi gruppi la fonte principale di ansia sono gli individui “originali” o “devianti”: la diversità del deviante può essere infatti letta come un attacco al gruppo o può scatenare delle ostilità nei suoi confronti. Altro meccanismo fondamentale di difesa in questo gruppo è la scissione tra ciò che è vissuto come buono e parte di sé, e ciò che è “cattivo” e rifiutato. Tutti sono chiamati a proteggere il gruppo da: • Ogni minaccia esterna. Resistendo ai cambiamenti, all’ingresso di nuove persone nel gruppo e sviluppando una controcultura rispetto all’organizzazione. • Ogni minaccia interna. Il gruppo si difende dall’emergenza di forme di leadership perché esse riproporrebbero il tema delle differenze individuali: l’unica leadership 3. Insieme delle relazioni tra uomini e donne. Possono definire strutture di potere e subordinazione, sia formalizzate che informali. 4. I primi tre processi definiscono l'identità di genere del singolo. 5. La distribuzione delle risorse, o gender based. Il genere rappresenta un elemento cruciale nella creazione e nella legittimazione della struttura della società e delle organizzazioni del lavoro. Il concetto di genere resta al centro della riflessione femminista per molti anni, fino a quando non è sottoposto ad una critica radicale operata da Judith Butler: secondo l'autrice il genere è “performante” (doing gender) nel senso che la differenza sessuale ha origine da una serie di atti (es: azioni, norme, parole e abitudini) che si ripetono in accordo con codici di comportamento sessuale. Da qui, nasce l'esigenza di interrogarsi sulla necessità e importanza del disfare il genere (undoing gender), decostruendo le concezioni socialmente acquisite e acriticamente “performate”, che rendono normali e normate le differenze tra donne e uomini all'interno della dicotomia maschile/femminile. Si possono individuare almeno quattro approcci che tentano di spiegare tali discriminazioni di genere: • Approccio biologico. Le ragioni delle disuguaglianze di genere nel lavoro e nella società risiedono nelle differenze biologiche. Gli esponenti di questo approccio identificano cause di tipo evolutivo o fisiologico per le differenze nelle competenze e nello stile comportamentale perciò per i diversi ruoli di uomini e donne nel lavoro e nella società. Tra gli altri, Doreen Kimura attribuisce alle differenze morfologiche del cervello maschile e femminile maggiori abilità, rispettivamente visivo-spaziali e verbali. Ancora, Baron-Cohen definisce il cervello maschile “programmato per la sistematizzazione” e quello femminile “programmato per l'empatia”, attribuendo perciò agli uomini una maggiore predisposizione per ruoli e professioni scientifici, d'azione e dirigenziali, mentre alle donne ruoli in cui prevale la dimensione relazionale, quelli di cura, nei servizi e con minore responsabilità. Analogamente, coloro che fanno riferimento alle attività di caccia svolte dagli uomini e a quelle di accudimento svolte dalle donne nell'antichità, attribuiscono alla selezione naturale competenze di cura per le donne e di azione produttiva per gli uomini. Le differenze biologicamente determinate sono inoltre sottolineate dall'aspetto fisico di donne e uomini che li rende apparentemente più adatti a mansioni che richiedono maggiore o minore forza fisica o delicatezza. Inoltre, Pinker afferma che il testosterone, presente negli uomini, porterebbe a un maggior impegno nella professione, mentre l'ossitocina, presente nelle donne, porterebbe a dedicarsi maggiormente alla famiglia. Quindi le attività ormonali + l'adattamento e selezione naturale determinano la predisposizione per i ruoli e per le professioni. Ma, il limite dell'approccio è quello di attribuire in modo deterministico, e perciò immutabile, caratteristiche e ruoli adeguati a donne e uomini. • Approccio socio-culturale. Il genere è letto nei termini di una costruzione sociale e culturale, frutto dell'interazione di donne e uomini, e non nei termini di un'inevitabilità biologica. Si riconosce nei processi di socializzazione la definizione e l'attribuzione a donne e uomini dei ruoli di genere nella famiglia, nella società e nelle organizzazioni del lavoro; è solo con i processi di socializzazione che chi nasce con un corpo maschile o femminile acquisisce il “ruolo” di uomo o di donna: questo ruolo ha una forte valenza relazionale in quanto in esso sono inscritte le dinamiche di potere e subordinazione che innervano le relazioni di genere. Questo approccio fa molto riferimento all'apprendimento sociale: attraverso i meccanismi di imitazione, di modellamento del ruolo maschile e femminile del rinforzo vicario in seguito all'adozione di modi di agire ritenuti “corretti”, i bambini sviluppano l'idea che esistono comportamenti adatti, giusti e pertinenti al sesso e tendono a metterli in atto e a ripeterli. Tale divisione porta a definire i ruoli, da un lato all'interno della famiglia, mentre dall'altro nella società e perciò nel mercato del lavoro: se all'uomo spetta il ruolo di “procacciatore di reddito” (breadwinner) che lo porta a svolgere una professione remunerata nel mercato del lavoro e a ricoprire un ruolo pubblico, alla donna per la capacità del suo corpo di dare la vita, spetta il ruolo di occuparsi della riproduzione e della cura in famiglia (carewinner). Ma, se succede che le donne riescono a guadagnare più degli uomini, e l'uomo ha fatto proprio il concetto di breadwinner, si creano delle tensioni se la questione economica non viene elaborata dalle coppie. In conseguenza, l'entrata delle donne nel mercato del lavoro non ha modificato la divisione dei ruoli nelle organizzazioni. Infine, non bisogna focalizzarsi sullo stereotipo uomo/donna perché si perdono di vista i cambiamenti che sono in atto, cioè il fatto di concentrarsi sempre sugli stereotipi fa si che non ci accorgiamo di quello che accade e avviene: questo è un limite. I contesti organizzativi riflettono la cultura sociale e di genere del contesto specifico in cui si colloca l'organizzazione e contribuiscono a ricreare quella cultura. Le culture organizzative sono gendered con una connotazione prevalente al maschile; inoltre, esse si manifestano nelle classiche forme espressive della cultura (es: attraverso il linguaggio, declinato prevalentemente al maschile agentic). Le relazioni di disparità tra uomini e donne sono riprodotte e riflesse nella società più ampia attraverso alcuni specifici meccanismi delle organizzazioni di lavoro, per esempio: - Metodo della staffetta. Se nelle organizzazioni i ruoli di vertice sono occupati dagli uomini, e una posizione rimane scoperta, allora questa essa viene occupata da un altro uomo perché è come se gli uomini scelgano un altro uomo e quindi una persona dello stesso sesso. - Svalutazione dei “lavori femminili”. Quindi gli uomini non desiderano questi ruoli. - Desiderio per alcuni ruoli di vertice e con maggiore responsabilità. Solo gli uomini pensano di poter ricoprire dei ruoli di vertice. • Approccio psicoanalitico. Freud propone una teoria dello sviluppo dell'identità femminile per differenza da quella maschile; ipotizza, infatti, un unico modello di sviluppo dell'identità sessuale che ha il suo momento centrale nel complesso edipico. Secondo Freud, gli uomini superano il complesso di Edipo, mentre nelle donne lo sviluppo della personalità rimane incompiuto: il complesso di Edipo porta alla consapevolezza della mancanza e quindi alla passività e a debolezza morale. Ma questa posizione viene criticata da Donna Haraway attraverso il Manifesto Cybor. Le studiose si soffermano sulle specificità di genere femminile e maschile che derivano dalle dinamiche di sviluppo. Per esempio, Gilligan sostiene che il modello di sviluppo maschile porta alla maturazione di un'etica fondata sul diritto, sul rigore del rispetto di leggi e regole, mentre quello femminile fa emerge un'etica “della cura” che predilige appunto la cura dell'altro attraverso la relazione. Secondo altre studiose, invece, sono diversi il modo di conoscere e lo stile del ragionamento maschili e femminili: per i primi si parla di una “conoscenza procedurale” basato sulla dialettica, mentre per le seconde di “connettivo” in cui si tenta di costruire delle relazioni. Secondo Paula Nicolson le culture organizzative sono innervate dalla logica maschile in quanto riprodurrebbero le dinamiche del complesso edipico: per le femmine vi è l'invidia del pene, mentre per i maschi vi è la paura della castrazione. La percezione della mancanza determinerebbe modalità diverse, maschili e femminili, di esprimere i contesti organizzativi e di muoversi al loro interno. Gli uomini non tollerano la possibilità di perdere il potere e quindi ingaggiano una lotta tra loro, mirando al possesso esclusivo; in tutto ciò, la lotta esclude le donne. Le donne entrano in organizzazione sperimentando l'esclusione, non solo del possesso del potere, ma anche delle logiche stesse dell'organizzazione, e da ciò deriva un vissuto ambivalente. Le reazioni possono essere due: 1. Uscire dall'organizzazione. Le donne giustificano l'uscita con il desiderio di avere figli e di dedicarsi alla loro crescita. 2. Rimanere in organizzazione a ricoprire solo alcuni ruoli. Le donne che restano si delineano quindi due opzioni: disinvestono nella professione e chiedono il part-time, oppure investono nella carriera accettando le regole imposte dagli uomini (es: le riunioni di lavoro più importanti sono messe nelle ore serali, oppure deve accettare il fatto di trasferirsi e andare all'estero). Questo approccio mette in evidenza il ruolo delle donne che si autolimitano, oppure se puntano a vertici alti hanno sensi di colpa. Ma, questi sentimenti sono sentiti solo dalle donne? E gli uomini? • Approccio post-strutturalista. Gli autori sono Derrida, Foucault, Butler. Con il termine “post-strutturalismo” si fa riferimento ad un gruppo di autori francesi che hanno rappresentato una rottura significativa con le posizioni del passato: l'etichetta “genere” viene espressa con una barra in quanto si ha bisogno di parlare di genere, ma allo stesso tempo ha bisogno di essere problematizzato; portato agli estremi della problematizzazione da Judith Butler. Date le domande “Chi sono io? Io, chi sono? Noi, chi siamo?” il post- strutturalismo prende le distanze dalle risposte offerta dal neo- positivismo attraverso la teoria dei tratti (es: la mia identità dipende da alcune mie caratteristiche essenziali) e, dal costruttivismo attraverso la teoria della costruzione del sé secondo cui l'identità è il senso che diamo di noi stessi attraverso le narrazioni/storie che raccontiamo su di noi; è un identità che si costruisce attraverso le domande che ci poniamo sui noi stessi. La domanda sull'identità viene riformulata diventando quindi “Io, da quali discorsi sono costituito/fatto?” in cui il soggetto è il prodotto di discorsi e, tali discorsi rendono intelligibile il soggetto, governano il soggetto e il suo genere e, posizionano il soggetto; quest'ultimo, inoltre, può essere emergente o frammentato perché i discorsi di cui parlo di me sono tanti. Quale ruolo ha il linguaggio nella costruzione dell'identità e dell'identità di genere? Attraverso il linguaggio possiamo fare molte cose: descrivere delle situazioni, ma ci sono degli atti linguistici che sono performativi e speciali perché nel momento in cui lo faccio sto facendo accadere delle cose che prima non esisteva (es: premesse, matrimonio). Butler riprende appunto la teoria degli atti linguistici in cui il genere per lei è performativo; questo ultimo termine è diverso dalla performance, intesa come una prestazione/evento. Bensì il performativo è un evento che si ripete; il performativo funziona perché il genere, anziché la causa di un comportamento, è l'effetto di una ripetizione, di una serie di atti stilizzati e ripetuti nel tempo. Ella sostiene anche che siamo nati in culture in cui le regole del genere precedono la nostra esistenza: se dobbiamo esistere come persone dobbiamo conformarci a quelle norme, a quelle regole e a quei discorsi; il rifiuto delle regole o la non capacità di conformarci ad esse comporta un Io non riconoscibile, senza identità, fuori luogo, strano, bizzarro e queer. Ma, se le cose stanno così quali spazi si aprono per il soggetto? Il linguaggio è lo spazio per creare uno scarto. Per esempio, la parola “queer” era vista in modo negativo per indicare gli omosessuali, ma andando avanti nel tempo prese un significato positivo. Parlò anche della matrice eterosessuale in cui si prevede una sorta di relazione tra sesso, genere e desiderio; quest'ultimo è inteso come riconoscimento, ossia essere riconosciuti dal desiderio dell'altro. Inoltre, il desiderio non è fisso, ma fluido: SESSO Maschio Femmina GENERE Uomo Donna DESIDERIO Donna Uomo La matrice di genere aperta da Butler “apre le porte” per parlare e mettere in discussione il concetto di eteronormatività: per definizione eteronormatività significa che l'eterosessualità è la norma nella cultura, nella società e nella politica quindi va ad evidenziare l'aspettativa dell'eterosessualità. Questo significa che, dal momento in cui il paradigma dominante nella nostra società è quello eteronormativo, io mi aspetto che tutti quanti siano eterosessuali. Quindi tutti coloro che vogliono essere considerati come individui “normali” che “stanno nel giusto” devono adeguarsi al paradigma eterosessuale perché l'eterosessualità e l'eteronormatività sono la norma. Il fatto che l'approccio post-strutturalista vada a problematicizzare il termine eteronormatività comporta il mettere in discussione le difficile condurre una battaglia con chi non è tangibilmente presente. LA LEADERSHIP Il tema della leadership è stato uno tra i più significativi per la riflessione e la ricerca, di studiosi e professionisti, nei più diversi contesti organizzativi. Per questo motivo, gli studi sulla leadership hanno comunque un'origine antica e alcuni studiosi indicano ne “Il Principe di Macchiavelli” il primo lavoro sistematico sul tema. La parola “leader” deriva dall'intreccio di due antiche parole: una tedesca (lidan – andare) e una inglese (lithan – viaggiare) quindi nel tempo si è andata affermando l'idea del leader come colui che “indica la direzione”, “è alla guida”. Inoltre, la parola leader indica il soggetto, mentre la parola leadership indica una capacità, una relazione o una funzione. Alla difficoltà di definire la leadership si associa il discusso tema della differenza tra leadership e management: questi termini, talvolta utilizzati in modo intercambiabile, sono invece da diversi autori ricondotti a nuclei di significato nettamente distinti. MANAGER LEADER • Ha una visione focalizzata • Si occupa del “come” • Punta al controllo • Si occupa della gestione della stabilità e del presente • Ha una visione ampia • Si occupa del “cosa” e del “perché” • Muove verso gli obiettivi • Pensa in termini di innovazione e sviluppo futuri Il leader è sopra e al centro; nel primo caso si guarda dall'alto, lontano e sotto di sé, mentre nel secondo caso il leader si espone al pubblico ed è visibile: • Essere sopra. Nella relazione con il seguace, il sogno è il motivo psicologico delle relazioni di potere. In questo senso, a sognare si è in due: il capo e i suoi gregari; tutti ugualmente coinvolti e partecipi ad alimentare quel sogno. Un sogno a due, quindi un bi-sogno che può giungere a trasformarsi in auto-illusione e perdita di contatto con la realtà. Infine, la caduta del sogno e quindi l'aprire gli occhi sulla realtà, segna la fine della leadership e apre sentimenti di vendetta per un sogno tradito. • Essere al centro. Il gioco del potere conosce rischi e pericoli: da un lato, si sperimenta la soddisfazione narcisistica di essere al centro della scena e, dall'altro, ci si confronta con la tentazione di trasformare chi guarda nello specchio da interrogare con una domanda di conferme che si fa spasmodica e morbosa. I primi studi, agli inizi del secolo scorso, si concentrano sulle personalità eccezionali, per individuare alcune caratteristiche di individui eccellenti che si ritiene possano essere le cause della leadership. Quindi, le prime ricerche definite come approccio del “grande uomo”, suggeriscono che alcune persone possiedano, sin dalla nascita, caratteristiche che le rendono dei leader naturali. Ma, gli innumerevoli lavori, tuttavia, non rilevano uno stretto legame tra tratti di personalità e leadership. Si affianca la filone dei tratti, quello degli stili di leadership sviluppato, in particolare, da Lewin e Likert. Gli studiosi, infatti, con il passare degli anni rendono più raffinata la modellazione degli stili e modulano il comportamento del leader lungo due dimensioni principali: 1. Comportamento di sostegno. Insieme dei comportamenti tesi al riconoscimento dei bisogni dei collaboratori e allo sviluppo delle relazioni. 2. Comportamento di realizzazione. Insieme dei comportamenti tesi alla realizzazione del compito. I risultati di queste ricerche sottolineano con forza l'importanza di due dimensioni – l'orientamento al compito e l'orientamento alla relazione – che permettono di individuare varie gradazioni di stili di leadership. Gli autori segnalano lo stretto legame tra “leadership e cambiamento” e, individuano cinque stili di leadership che oscillano all'interno di due dimensioni: l'interesse alle persone e l'interesse alla produzione. 1. Leader debole. Ha punteggi bassi su entrambe le dimensioni ed è quel leader che limita i suoi sforzi al minimo indispensabile per mantenere la sua posizione. 2. Leader manipolatore. E' interessato soprattutto alla produzione e per questo può avere la tendenza a trattare le persone in modo strumentale. 3. Leader amichevole. E' particolarmente interessato alla relazione con le persone ed è orientato a mantenere un'atmosfera di lavoro amichevole, senza molto interesse per la produttività. 4. Leader moderato. Ha un interesse intermedio – sia per le persone, sia per la produzione – ed è orientato a mantenere una prestazione soddisfacente e un buon clima. 5. Leader della squadra. Ha un elevato interesse – sia per le persone, sia per la produzione – ed è teso a ottenere la prestazione migliore possibile, alimentando al contempo, un buon clima di gruppo. Tra i cinque stili principali,individuati dall'intersezione delle due variabili, è il 9.9 a essere considerato “ideale”. Infine, il lavoro di Paul Hersey e Ken Blanchard propone la variabile della maturità dei collaboratori nell'affrontare il compito assegnato come determinante e come dimensione cruciale della situazione. Valutata dunque la maturità dei collaboratori, su un continum da bassa ad alta, il leader può scegliere lo stile più adeguato tra i quattro seguenti, bilanciando attenzione al compito e alla relazione: 1. Prescrivere con collaboratori di basso livello di maturità occorre fornire istruzioni molto dettagliate, descrivere esattamente modi e tempi per la realizzazione del compito. 2. Vendere con collaboratori di livello medio-basso occorre fornire specifiche istruzioni e, al contempo, sostenerli spiegando perché il compito deve essere portato a termine rispondendo alle domande che emergono. 3. Coinvolgere quando il livello è medio-alto occorre dedicare poco tempo nel fornire indicazioni generali, concentrandosi solo sull'obiettivo finale e, invece, dedicare energie soprattutto a incoraggiare i collaboratori. 4. Delegare quando il livello dei collaboratori è alto occorre fornire ai collaboratori le informazioni da loro richieste, chiarendo i dubbi quando emergono, ma limitando le istruzioni per lasciare che siano i follower a prendere le decisioni relative al compito in questione. Negli anni Ottanta (1985) ci fu una svolta: in un contesto segnato da un'accelerazione della competitività, la leadership che si afferma non è più per la sua capacità di rispondere alla situazione, ma per la sua abilità di anticipare l'azione; si tratta così di ragionare non per stili di leadership, ma piuttosto per qualità che si traducono in azioni. Quindi, si passa dalla transactional alla transformational leadership: capitano degli eventi che fanno si che i modelli studiati in precedenza non vanno più bene, per cui bisogna pensare alla leadership in modo diverso. La “nuova leadership”, ossia quella trasformazionale, attraverso alcune azioni, sostiene nei follower la crescita della motivazione e dell'orientamento alla realizzazione, oltre che l'identificazione con gli obiettivi organizzativi. Quindi, il leader efficace è colui che, attraverso azioni più spostate sul piano della visione, quindi sul piano simbolico, e a partire dal riconoscimento dei bisogni singoli, riesce anche a far nascere sentimenti di autostima e di auto- efficacia nei collaboratori. Detto in altre parole: Il superamento della leadership situazionale apre a un nuovo modo di pensare e parlare di leadership; il salto di paradigma sembra influenzato dall'aumento dell'incertezza: il cambiamento diviene necessità. A partire dall'intuizione di Burns, e soprattutto Bernard Bass, che precisa tale distinzione: la leadership transazionale fa riferimento alla transazione interpersonale tra leader e collaboratori; i leader, quindi, sono visti come professionisti impegnati nei comportamenti che mantengono un'interazione di qualità con i loro collaboratori. Le caratteristiche fondamentali della leadership transazionale sono: l'uso di sistemi di ricompensa contigenti, da parte del leader, per mantenere la motivazione dei collaboratori e, l'esercizio di azioni correttive, sempre da parte del leader, laddove i collaboratori non riescano a ottenere l'obiettivo atteso. Questo tipo di leadership, quindi, enfatizza il comportamento simbolico del leader, la comunicazione non verbale, il richiamo ai valori, la stimolazione e la motivazione dei collaboratori a un livello intellettuale ed emozionale: la fiducia è la merce di scambio di questa relazione ed è considerata un prezioso elemento di crescita individuale e collettiva. Il modello di leadership trasformazionale più noto è quello di Bernard Bass, il quale identifica quattro “I” come iniziali degli aggettivi utilizzati per descrivere il profilo delle azioni di leadership: 1. Considerazione individuale. Grazie alla comunicazione personalizzata, facilita la crescita e opportunità di apprendimento. 2. Stimolazione intellettuale. Sollecita innovazione e creatività quindi si mettono in discussione le credenze consolidate e le abitudini. 3. Motivazione ispirazionale. Dota di significato il lavoro, delineando prospettive sfidanti che elevano le aspettative. 4. Influenza idealizzante. Ottenere e dare fiducia, quindi essere un modello di ruolo in cui i collaboratori possono identificarsi. Il modello successivo è quello in cui vengono delineate tante aree, dove sono segnalate le specifiche dei comportamenti del leader che dovrebbe avere e mettere in atto: • Modeling the way. Il leader è colui che va per primo. • Encouraging the heart. Il leader sprona il team verso gli obiettivi. • Challenging the process. Il leader è un pioniere e va verso l'innovazione. • Inspiring a shared vision. Il leader crea un sogno per il futuro. • Enabling others to act. Il leader promuove fiducia e collaborazione. Questo modello diventa poi un questionario che le persone possono usare per farsi una sorta di auto-diagnosi. A partire da un maggior riconoscimento delle individualità e da un più deciso sostegno allo sviluppo della squadra, si configura nel corso degli anni Novanta e a seguire, il profilo di una leadership esemplare che facilita la crescita dei collaboratori attraverso l'apprendimento dall'esperienza e il raggiungimento dei risultati attraverso l'apertura al cambiamento: empowering leadership e team leadership. Quindi, la caratteristica più significativa dei contributi recenti in tema di leadership è il passaggio da una logica di lavoro improntata al controllo a una prassi delle relazioni ispirate all'empowerment. Questo concetto è divenuto un tema cruciale negli studi organizzativi poiché sempre più persone reclamano maggiore potere nelle loro vite, maggiore partecipazione e coinvolgimento a diversi livelli. In sintesi, alla leadership è chiesto di essere empowering attraverso alcuni comportamenti principali: • Fare in modo che i collaboratori ricevano informazioni puntuali e continue sulla prestazione organizzativa. • Fare in modo che i collaboratori possano apprendere le conoscenze e le competenze adeguate per contribuire agli obiettivi organizzativi. • Dare ai collaboratori il potere di prendere delle decisioni significative. • Aiutare i collaboratori a comprendere il significato e l'impatto del loro lavoro. • Riconoscere il contributo dei collaboratori in funzione dei risultati dell'organizzazione. Per concludere: il compito principale del leader è, dunque, identificato in quello di accompagnare i collaboratori nel processo di apprendimento e approfondimento del proprio potere, oltre che di apprendistato a un suo utilizzo consapevole ed efficace. Per questo motivo, il leader gioca il suo ruolo in due relazioni: di coppia, e nel gruppo. La centralità dell'empowerment si accompagna alla specificità della team leadership: i comportamenti di leadership centrati sulla persona sono legati all'efficacia del team, alla produttività, ma soprattutto all'apprendimento. L'efficacia del team leadership si fonda su un insieme di comportamenti che possono essere ricondotti ai seguenti: • Riconoscere i bisogni individuali e di gruppo. • Identificare i punti di forza del team. • Costruire e consolidare la fiducia. • Sviluppare le capacità del team di anticipare e affrontare efficacemente il cambiamento. • Delegare e condividere la responsabilità. • Ispirare e motivare il team verso livelli di prestazione sempre maggiori. • Riconoscere i risultati raggiunti. LEADERSHIP AL FEMMINILE Per quanto riguarda la leadership al femminile ci si può concentrare principalmente su tre prospettive:
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