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Psicologia dell'arte, Appunti di Arte

Appunti del corso "Psicologia dell'arte" integrati con il libro "Osteria dei dadi truccati" di Manfredo Massironi

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 14/10/2020

ila-lo
ila-lo 🇮🇹

4.4

(9)

8 documenti

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Scarica Psicologia dell'arte e più Appunti in PDF di Arte solo su Docsity! Psicologia dell’arte Lezione 1 – DEFINIZIONI Psicologia dell’arte: Wikipedia: campo multidisciplinare che studia la percezione, la cognizione e le caratteristiche dell’arte e della usa produzione. (l’uso dei materiali artistici come psicoterapia è l’arte-terapia). Da Wikipedia: La psicologia dell'arte è una disciplina che si occupa di indagare e spiegare i processi psicologici coinvolti nelle esperienze di produzione e di fruizione di un'opera d'arte. Dato il suo carattere intrinsecamente pluri e interdisciplinare, è difficile delimitarne a priori i settori di pertinenza e definirne lo statuto teorico e metodologico . Molteplici e variabili (in base agli interessi e alle prospettive) sono i suoi territori di confine: dall'estetica alla storia, alla teoria e alla critica dell'arte, dalla letteratura alla medicina e alla psichiatria, attraverso antropologia, sociologia, pedagogia e semiotica, per non parlare delle diverse pronunce e declinazioni riferibili all'ambito storico, teorico e disciplinare relativo all'universo stesso della psicologia e dei suoi diversi indirizzi. Un modo per cercare di definire la psicologia dell’arte è cercare di definire i termini che la costituiscono. - La psicologia è quella disciplina che studia la mente e il comportamento umano. La mente non è una entità che si può osservare direttamente. In che modo possiamo quindi indagare il funzionamento della mente? - Van Gogh: “A tutt’oggi, non ho trovato miglior definizione dell’arte di questa, L’arte è l’uomo aggiunto alla natura – natura, realtà, verità. Ma col significato, il concetto, il carattere che l’artista sa trarne, che libera e interpreta.” Non necessariamente solo espressione dell’artista. Artista libera un significato nel suo incontro con elemento. Interpretazione. Non semplicemente espressione. Più raffinato, più universale. Da Wikipedia Eng: l’arte è un insieme di attività umane nel creare artefatti visivi, uditivi o spettacolari che esprimono capacità di immaginazione o tecniche dell’autore, intese per essere apprezzate per la loro bellezza o potere emotivo. → È una definizione limitante, poco entusiasmante. L’arte non fornisce solo un’emozione ma intriga la mente, ha un aspetto ludico che non emerge da questa definizione. Da Wikipedia, it: L'arte, nel suo significato più ampio, comprende ogni attività umana – svolta singolarmente o collettivamente – che porta a forme di creatività e di espressione estetica, poggiando su accorgimenti tecnici, abilità innate o acquisite e norme comportamentali derivanti dallo studio e dall'esperienza. Nella sua accezione odierna, l'arte è strettamente connessa alla capacità di trasmettere emozioni e "messaggi" soggettivi. Tuttavia, non esiste un unico linguaggio artistico e neppure un unico codice inequivocabile di interpretazione. Nel suo significato più sublime, l'arte è l'espressione estetica dell'interiorità umana. Rispecchia le opinioni dell'artista nell'ambito sociale, morale, culturale, etico o religioso del suo periodo storico. → anche se nasci con un’abilità, per perfezionare l’espressione devi dedicare del tempo. → L’arte è strettamente connessa alla capacità di trasmettere emozioni e messaggi soggettivi: accezione moderna. → Non esiste un unico livello di interpretazione dell’arte. → Espressione estetica dell’interiorità umana. Rispetta le opinioni dell’artista in ambito sociale, morale, culturale, etico o religioso nel suo periodo storico.: ogni arte è lo specchio e riflette il proprio periodo storico. Cennino Cennini – “Il libro dell’arte”, 1390 ca. Dopo essere stati cacciati dal paradiso terrestre Adamo ed Eva si rendono conto che devono lavorare. Poi seguitano molte srti diverse. La scienza è la più degna, è osservazione della natura. Ne deriva la riproduzione della natura attraverso il dipingere: serve fantasia, verosimiglianza. Rappresentare qualcosa con la propria manualità facendo sì che appaia realistico anche se in realtà non piò esistere. Emilio Garroni – “Enciclopedia Multimedial delle Scienza Filosofiche” Arte è una parola strana, polisemica. Originariamente era un sapere unito ad abilità volto alla produzione di oggetti, comportamenti o eventi. Chris Witcombe La nozione di arte e l’idea di artista sono termini relativamente recenti. Molti oggetti che oggi identifichiamo come arte sono stati fatti in tempi e luoghi in cui la gente non aveva nessuna concezione di arte come il termine è inteso oggi. Oggi non è facile rispondere alla domanda cosa sono l’arte e l’artista. Non c’è una singola definizione di arte. Nessuno oggi osa dare una definizione. Oggi non c’è consenso sul termine. Qualsiasi cosa può essere designata arte. Non si può dire cosa è o non è arte oggi, è finito. Non la produzione artistica ma un certo modo di parlare di arte, gli artisti continuano a produrre ma non siamo in grado di definire se è arte. L’idea che ogni cosa può essere arte e non c’è forma d’arte più vera ci è inaccettabile. Bisonte, Grotte di Altamira, oltre 18000 a.C. → Perché “l’artista” ha creato l’immagine? Funzione decorativa/religiosa/…? Non lo sapremo mai. Stele di Ur-Nammu (III millennio a.C.) → Stele illustra re con qualità divine per contemplare e confermare il suo potere. Funzione politica. Affreschi nelle chiese → Funzione illustrare passi della Bibbia al popolo illetterato. Pollock → Titolo solo per riempire un vuoto. Conta l’azione. Quella dei prodotti artistici è una categoria singolare, perché accetta ciclicamente al suo interno quegli oggetti e prodotti che ragioni sempre ben motivate e precise avevano stabilito no dovessero mai appartenervi. Prima dell’avvento dell’estetica, si riteneva che l’arte fosse contenuta nei limiti delle regole che guidavano l’esecuzione dell’opera, e cioè di affermazioni positive e impositive del tipo sì alla verosimiglianza, al decoro, alle proporzioni, alle simmetrie, all’imitazione della natura. L’avvento dell’estetica mette in chiaro che il prodotto artistico non può essere tenuto al rispetto delle regole di composizione fissate in canoni e manuali, non può essere vincolato all’insegnamento dei maestri. Weitz spiega che il fallimento di artisti e studiosi nel definire adeguatamente l’arte non è un caso. Sostiene che l’arte non è suscettibile di definizioni. Non solo tuti i tentativi passati di definire l’arte sono falliti, ma ogni tentativo è destinato al fallimento. Per il semplice motivo che l’arte non ha essenza, non c’è una proprietà al tempo stesso necessaria e sufficiente che faccia di qualcosa un’opera d’arte. Non ci sono proprietà comuni alle, e solo alle, opere d’arte. L’estetica, mirando a definire il bello, tiene conto soprattutto di vista e udito. È giunto fino a noi l’assunto che attribuisce un primato teorico all’udito e alla vista, intese come le sole modalità sensoriali in grado di cogliere gli aspetti di simmetria, proporzioni e armonia che sono alla base della bellezza. Il Rinascimento, come erede diretto dell’antichità classica, teorizza e giustifica la differenza fra le esperienze sensoriali. La certezza della superiorità di udito e vista viene ricavata da argomentazioni inesistenti e pur tuttavia convincenti e per certi versi ancora condivise. Alla metà del 700 Diderot ribadisce la differenza fra gli apporti conoscitivi dei cinque sensi e riconosce nella diversità dei referenti a cui possono essere applicati gli aggettivi bello e buono il discrimine fra due tipi di esperienza del mondo. Differenza non più di tipo morale ma di tipo intellettivo, in quanto misurata in base ai rapporti che le parti intrattengono fra loro e con il tutto. Chiama bello fuori di me tutto ciò che contiene in sé qualcosa che possa risvegliare nell’intelletto l’idea di rapporti. E bello per me tutto ciò che risveglia quest’idea. Esclude però le qualità relative al gusto e all’odorato. Benché queste qualità possano risvegliare l’idea di rapporti, non si chiamano belli gli oggetti in cui risiedono . Il rapporto in genarle è un’operazione dell’intelletto, che considera sia un essere, sia una qualità in quanto implicano l’esistenza di un altro essere o di un’altra qualità. Quando dico dunque che un essere è bello per i rapporti che vi si osservano, parlo dei rapporti non intellettuali o fittizi ma i rapporti reali che vi sono, e che il nostro intelletto vi osserva col soccorso dei sensi. Gli studi sulla percezione visiva hanno messo in evidenza che i rapporti fra le parti di un oggetto rigido costituiscono l’informazione che il sistema utilizza per vedere quell’oggetto invariato pur al variare continuo della forma e delle dimensioni della sua proiezione retinica. La cultura occidentale è attraversata da una vena di neoplatonismo, secondo cui i sensi che presuppongono un contatto diretto con gli oggetti materiali non possono essere che grossolani e quindi incapaci di cogliere le idee. Solo le esperienze sensoriali che rispondono alla immaterialità della luce e del suono possono avvicinarsi alle idee e in parte comprenderle. Le emozioni prodotte da gusto, olfatto e tatto possono essere raccontate, oggetto di narrazione, di cui si fanno carico letteratura e cinema. Per accedere al mondo dell’arte devono essere filtrate da un mediatore che frapponga uno spessore di pensiero fra l’attività sensoriale e la materialità degli stimoli che la attivano. Il coinvolgimento estetico non è prodotto direttamente da opere olfattive, gustative o tattili. È come se il piacere del buono avesse sempre bisogno di un mediatore estetico, mentre il piacere della vista e dell’udito portassero di per sé il bello. Gombrich si interroga sul ruolo del gusto nella genesi del piacere estetico e mette in luce la mancata attenzione della psicanalisi per un problema che avrebbe dovuto essere di sua competenza. È convinto che l’importanza dell’appagamento orale merita che lo si indaghi più attentamente. Sin dalla nascita concentriamo le nostre facoltà critiche sul cibo prima di ogni altra cosa. Il pregiudizio platonico a favore dei sensi spirituali vista e udito è così forte che la disapprovazione sociale sembra ancora colpire soddisfazioni animali come quelle del mangiare e del bere. Non so se un cuoco bravo comunica qualcosa per mezzo della salsa da lui inventata, ma sono sicuro che una simile invenzione non è così lontana dalla creatività estetica come si vorrebbe dare ad intendere. Nel corso della storia dell’arte la separazione fra bello e brutto è andata riducendosi fin quasi ad annullarsi. L’opera d’arte fino alla seconda metà dell’800 era il risultato di una equilibrata mistura di intuizione e immaginazione, forme, sensibilità emotiva, conoscenza, competenza e abilità tecnica e virtuosismo compositivo. Il romanticismo aveva già completamente legittimato l’ingresso nell’arte del brutto. Ma sono le avanguardie artistiche del secondo 900 che azzerano ogni significato e valore attribuito alla competenza operativa e alle prestazioni virtuosistiche. I dadaisti decidono la totale indifferenza dell’opera da ogni dimensione estetica. La scelta dei ready-made si sostiene sull’indifferenza visiva e nei riguardi del gusto. Ogni prodotto artificiale può essere un’opera d’arte, ma di fatto non lo è se non si verifica un evento che funziona da catalizzatore. L’evento che favorisce il processo di metamorfosi è l’incontro di quell’oggetto con un artista che rinominandolo lo trasformi. Estetica = il bello e il sublime in arte e natura Domanda: Il Bello è l’unico fattore che rientra nell’esperienza estetica suscitata dalla fruizione di un’opera d’arte? No. Ipotesi di chiamare la psicologia dell’arte estetica sperimentale. Poco appropriato perché sebbene sia una prospettiva di ricerca empirica nel campo dell’estetica, di per sé non racchiude tutta la sfera di cui si potrebbe occupare la psicologia dell’arte. L’estetica interseca l’arte ma non la ingloba. L’arte ingloba gli studi estetici. Sul “bello” Gli scienziati da molto tempo cercano una formula del bello assoluta. Una ricerca partita dalla filosofia, fino alla neuroestetica (può dire quali centri si attivano davanti a qualcosa che ci sembra particolarmente piacevole. È più complesso definire l caratteristiche che inducono la sensazione di piacevolezza legata anche a emozioni particolari (desiderio, gioia, desiderio di possesso). Il bello muta col tempo. In parte è legato a fattori biologici, condizionato dalla presenza o meno di cibo e da altre cose che riguardano la sopravvivenza Dall’altro lato è determinato a livello sociale (ex. Moda). È dato dal bilanciamento tra questi due aspetti, che sono mutevoli nel tempo, e quindi il bello cambia col passare degli anni. Ci sono dei canoni che restano comuni, si ripetono e si rinnovano. Ad esempio, la Venere di Botticelli, oggi il viso appare molto grazioso. Non è la bellezza a cui siamo abituati ma risponde al canone di bellezza classico. Il piacere è una dimensione psicologica che si accompagna a momenti es esperienza della nostra vita, fra cui quelle che riguardano l’arte. È uno stato della mente e del corpo prodotto da circostanze e condizioni di cui si ha consapevolezza, che vengono vissute come causa di uno stato emotivo gradevole, che si vorrebbe prolungare, pur sapendolo limitato nel tempo. È necessario distinguere all’interno del piacere. Le dimensioni in cui collochiamo le cose o i fatti che provocano piacere sono due e bello e buono sono gli aggettivi che usiamo per assegnare una data esperienza all’una o all’altra di queste dimensioni. Un bel gelato: bello a vedersi ≠ Un buon gelato: gusto. Essenziale per il cibo. Un bel dipinto Un buon dipinto. Buona esecuzione. Buono sinonimo di bello, non di buono per il palato. Le cose, gli oggetti, che inducono esperienze gradevoli possono essere suddivise in due grandi classi e l’appartenenza a una o all’altra dipende da tipo di aggettivo con cui ne definiamo la gradevolezza. I prodotti dell’arte rientrano nella categoria valutata lungo la dimensione bello-brutto. Il bello si è trasformato da aggettivo a sostantivo e comprende solo il mondo d’arte. Le esperienze valutate lungo la dimensione buono-cattivo non rientrano nella categoria arte. Il termine greco kalòs all’origine ha il significato positivo, che è un misto di bello e buono, sano, gradevole, salutare e bello. Nella cultura occidentale bello, buono e vero si riferiscono a momenti separati di uno stesso fatto, facce di uno stesso solido orientate in direzioni diverse. È una modalità molto diffusa con cui uomini e donne si mettono in relazione e mettono in relazione tra loro le cose e gli eventi del mondo. Dal punto di vista etimologico in lingue molto lontane fra loro, contrapposizioni bello-brutto e l’intreccio in una sola parola dei significati di bello e buono, danno conto di una ubiqua e comune omogeneità di atteggiamenti nel giudicare come analoghe determinate esperienze. La separazione dei due significati per definire aspetti diversi dell’esperienza divide l’esperienza sensoriale in due tronconi ù, uno fra il brutto e il bello e l’altro fra il buono e il cattivo. L’arte rientra nel primo caso. Anche la distinzione sensoriale fra buono e bello rispecchia una distinzione fra modalità dei sensi. Le arti per antonomasia (pittura, scultura, architettura e musica) riguardano i sensi che durante il percorso evolutivo dell’umanità sono diventati più discriminativi, più sofisticati e potenti, quindi più impegnati nel costruire la conoscenza del mondo. Riescono a raccogliere il maggior numero di informazioni, e le più ricche e articolate in seno qualitativo. Questa sofisticata capacità discriminativa ha fatto sì che i due termini bello-brutto non assumessero la rigida polarizzazione che separa buono da cattivo. La logica per la quale cattivo è opposto a buono è molto più rigida i quella che contrappone bello a brutto. Nel primo caso i due termini sono autoescludenti, nel secondo lo sono solo in linea teorica. Nell’arte, bello e brutto intesi come esperienza sensoriali-cognitive possono presentarsi insieme. Ciò che l’estetica non ha preso in considerazione è che si hanno idee diverse a seconda dell’esperienza sensoriale che le alimenta. Le esperienze di buono-cattivo e di bello-brutto hanno entrambe origine dal lavoro dei sensi, ma le prime non hanno nessuno spessore filosofico. Le seconde aprono spazi infiniti alla speculazione. Così la distinzione buono/cattivo non avendo alimentato ragionamenti filosofici è rimasta chiara e aproblematica, mentre la distinzione bello7brutto si è prestata a tutti i giochi di opposizione e somiglianza, rendendo sempre minore la distanza fra i due termini e sempre più vago il confine che i separa. Il problema da affrontare non è cosa sia la bellezza, ma che cosa sono arte e poesia, lasciando intendere che la bellezza non è necessariamente parte integrale. Gli studiosi si riferiscono all’arte in generale, non a opere o artisti. Ne dipende che l’estetica parla una lingua in cui il termine bello esiste solo come sostantivo. C’è il bello assolutizzato ma non si può dire chi e cosa sia bello. Il bello come aggettivo presuppone l’incontro fra un’opera e un fruitore, esperto o ingenuo che sia. Gli aggettivi “bello” e “buono” indicano entrambi esperienze positive, legate a sensazioni piacevoli. Ma quando è corretto usare l’aggettivo “buono” invece di “bello”, e viceversa? A quali esperienze rimandano quegli aggettivi? E che dire a proposito di “Un buon gelato” e “Un buon dipinto”? “Un bel gelato” e “Un bel dipinto” stanno sullo stesso piano? Proviamo a ragionare sui concetti opposti a bello e buono: brutto e cattivo. Brutto è l'opposto di bello: ciò che è brutto è decisamente non bello. Che cosa s'intende dire quando si afferma: "il film era brutto"? Che era mal diretto? Che la storia non reggeva? Che gli attori recitavano male? Si può dire che un film è cattivo? Cattivo rimanda più a una qualità materiale. Brutto rimanda a qualità estetiche. Un cattivo dipinto: tecnicamente ha una cattiva resa Un brutto dipinto: non ha le qualità necessarie per essere definito bello. Jean Dubuffet, teorizzatore dell’Art Brut. Si esprime con miriadi di materiali e tecniche diverse. Art brut: arte grezza. Prodotta da non professionisti dell’arte rinchiusi in prigioni, manicomi, istituti psichiatrici che però manifestano un talento e producono essenzialmente per se stessi (non per gli altri: ricerca artistica molto diversa dal canone normale). Grazie a lui c’è molta condivisione di questa arte e lui stesso ne tare ispirazione. Alcune tecniche ricordano molte opere del 900, ad esempio Picasso. Se non avesse dipinto lui i suoi quadri penseremmo che sono opere brutte. È un problema per la psicologia dell’arte perché ci si pone di fronte al problema di definire i confini dall’arte. "Dubuffet credeva che l'art brut avrebbe rivoluzionato i musei tradizionali, agendo come un contro-potere. Ma in realtà è avvenuto il contrario: l'art brut è stata inghiottita dal mondo dell'arte, compreso il mercato dell'arte contemporanea" Sarah Lombardi, direttrice della Collection de l'Art Brut a Losanna. La dinamica del mercato dell’arte che fagocita tutto si ritrova anche con la street art. Non tutti possono fare arte. Dubuffet colleziona opere di persone con grande talento. Un cattivo dipinto è un dipinto in cui la tecnica pittorica e/o l’abilità dell’esecutore sono mediocri, oppure inadeguati al compito. Cenacolo: Un bel dipinto, in quanto a composizione armonica, resa dello spazio, capacità di rappresentazione degli “accidenti” e dei “moti mentali” (stati emotivi e pensieri). Un cattivo dipinto, in quanto la tecnica adottata da Leonardo non era adatto alla tecnica dell’affresco. Si deteriora dopo pochi giorni. È una volontà di sperimentare una tecnica nuova che però rovina. Il “brutto Definire il brutto è abbastanza facile. Tutto ciò che si discosta in modo negativo dalla norma, dallo standard. Ciò che riteniamo brutto lo troviamo anche ripugnante e spesso inferiore. In passato al brutto veniva associato il male, oggi anche l’essere stupido. La caricatura entra anche in musica e introduce il brutto nel suono come esigenza estetica. →Adriano Banchieri, Barca di Venetia per Padova: Mercante Bresciano et Hebrei. Personaggi resi in musica tramite le caricature. Anche Leonardo fa delle caricature. Poi diventano normali, entrano nella cultura. Leonardo usa il brutto per rappresentare tipi umani e caratteristiche psicologiche. L’uso precedente del brutto era rappresentare non solo il male ma anche il dolore. Ex. Scultura lignea di Donatello, Maria Maddalena. Figura scarna per mostrare la trasfigurazione interna che si è esternata. È una forma di espressionismo che si ritrova anche in Grünewald: Crocifissione, Gesù rappresentato in modo molto espressivo. Gesù che patisce sulla croce. Si vede dalle mani, dai piedi, dalle gambe rovinati, sofferenti, brutti, il corpo magro ed emaciato. Bisogna definire se l’esistenza del bello presupponga anche quella del brutto come sostantivo. Mentre il bello è astratto e ha sede ovunque e da nessuna parte, ciò che è brutto ha sempre un nome e un cognome, riferibili sia alla cosa che al giudice. C’è sempre stato interesse per la debolezza, il peccato, la stoltezza, la violenza, la brutalità, per esaltarle e condannarle ma anche solo per farle vedere. Si potrebbe dire che ciò che fa bella un’opera d’arte non è ciò che vi è rappresentato, ma ciò che essa vuole rappresentare e soprattutto come lo rappresenta. Un capolavoro è tale anche perhcè la sua esecuzione manifesta un’abilità e controllo tecnico, a volte un virtuosismo, che producono meraviglia e ammirazione. Si potrebbe perciò ritenere che un’opera è bella perché è fatta bene. Ci sono dei casi in cui il brutto è raffigurato con maestria e perizia tecnica, ed è perciò bello. L’opera d’arte, però, può essere tale indipendentemente dalla perfezione tecnica della sua esecuzione. Un’altra opzione è pensare che non si devono misurare gli stravolgimenti dell’arte contemporanea con lo stesso metro con cui si misurano i grandi risultati dell’arte classica. Ma non è vero, perché il brutto è sempre esistito, ma non sempre riveste gli stessi caratteri: mentre molto di ciò che è bello permane a lungo nello stato di grazia, molto di ciò che è brutto cambia con facilità di stato, spesso anche in maniera radicale. Il brutto è mobile, variabile, perché gli unici a sapere con certezza cosa sia il brutto sono i critici d’arte, che cambiano e si succedono velocemente. Molti nomi di correnti artistiche furono coniati da critici d’arte detrattori che intendevano definire il brutto. Bello-Brutto Qualità estetiche che si possono raccogliere mediante i sensi della vista e dell’udito. Brutto-cattivo si trova anche in altre espressioni artistiche (musica). Brutto: finalità di creare qualcosa di bello non raggiunta. Separa le manifestazioni da essere opere d’arte. Buono-cattivo Qualità morali co-determinate dall’individuo e dalla società. Qualità materiali, per esempio una cosa di buona fattura, una cosa di cattiva fattura. Qualità edonistiche che si possono percepire tramite tutti i sensi: un buon sapore / un cattivo sapore, un buon odore / un cattivo odore, una buona ricezione acustica / una cattiva ricezione acustica, una buona resa visiva / una cattiva resa visiva... Doppio piacere: bello e buono. In tempi ormai lontani, ciò che era considerato brutto aveva anche scarse qualità morali. Talvolta il brutto era in tutto e per tutto considerato immorale, cioè privo di una condotta morale e quindi qualche cosa che si avvicinava di più al regno animale (contrapposto cioè all’umano). Il brutto incarna il cattivo. Il Male, per esempio, era perlopiù rappresentato come una figura grottesca, orrida, mezzo uomo e mezzo animale, deforme, ecc. Solo in anni più recenti il Male è stato raffigurato tramite sembianze piacevoli, per esaltare la sua forza di seduzione in una società dove l’apparenza sembra contare più della sostanza. Nel XX secolo anche il diavolo si adegua, abbandonando il classico look truce e grottesco a favore di un look decisamente più seducente in linea con i nuovi stereotipi culturali. La rappresentazione del male è cambiata nella società. Evoluzione iconografica del vampiro: anche nei cartoni animati, sempre più un personaggio positivo. Personaggi affascinanti. Da mostro diventa personaggio del desiderio. Lezione 4 – PSICOANALISI E ARTE Psicologia e arte - Arte e psicologia La psicologia dell’arte, nell’arco della sua breve storia è limitata nei risultati. Fin dal suo costituirsi come scienza autonoma, la psicologia si rese conto che il mondo dell’arte, coinvolgendo le potenzialità emotive e cognitive di donne e uomini, rappresentava un nodo psicologico di primaria importanza. Per questo affrontò il problema dell’arte, sovradimensionato rispetto agli strumenti teorici e metodologici di cui disponeva. Necessitò quindi di semplificazioni, causa della relativa pochezza dei risultati raggiunti. C’è stato un eccesso di presunzione, ritenendo che le teorie psicologiche disponibili fossero in grado di spoegare l’arte. Ogni psicologo che si è interessato di arte si appoggiava ovviamente al suo bagaglio di convinzioni e di teorie. È accaduto perciò che invece di affrontare la questione arte in maniera aperta e problematica, quasi tutti gli psicologi andassero a cercare nell’arte prove a conferma delle proprie ipotesi e convinzioni psicologiche. Poiché il campo dell’arte è ampio e ricco, tutti hanno trovato qualcosa ed hanno ritenuto si trattasse di ciò che cercavano. Il risultato è stato che l’arte ha fornito rassicurazioni alla psicologia, mentre la psicologia non ha contribuito che in modo trascurabile a spiegare l’arte. Ma l’arte, se assunta in tuta la sua problematicità, potrebbe costituire un campo di prova dello stato di avanzamento degli studi sulla mente nelle sue dimensioni emotive e cognitive. [...] Il fallimento risiede nel fatto che la psicologia dell’arte non è autonomamente riuscita a stabilire con chiarezza né il suo oggetto di studio, né il metodo o i metodi con cui affrontarlo. Massironi, 2000, pp. 45-46 Critica di Massironi sulla capacità della psicologia di comprendere veramente i meccanismi inerenti all’arte (capire come si fa arte, perché si fa e perché certi oggetti diventano opere e altri no). Ogni opera d’arte reca naturalmente l’impronta del suo autore. Possiamo riconoscere lo stile di un’artista come riconosciamo la calligrafia di un individuo. Lo stile dice qualcosa dell’uomo, l’opera tradisce una particolare personalità. Resta da vedere se un’opera possa considerarsi come puro e semplice specchio del suo creatore. Ci sono dei casi in cui la natura di un’artista e quella della sua opera sembrerebbero essere in armonia. Se condotta e comportamento sono manifestazioni esterne del carattere, bisogna essere cauti nelle interpretazioni. Ad esempio, nelle sue opere non c’è traccia della condotta sregolata di Caravaggio. Non si può neanche generalizzare (tutti i pittori di opere violente hanno una vita sregolata o tutti i pittori “miti” hanno carattere gentile). Ognuno accetta i documenti, letterari e visivi, a seconda di quello che conviene ai suoi scopi. Una delle caratteristiche dell’immagine visiva è l’ambiguità. Può apparire diversamente ad ogni fruitore. Gli studi psicologici desunti dall’impressione soggettiva che uno spettatore ricava dall’opera d’arte sono quindi per necessità fortemente sospetti. Gli storici dell’arte non si sono curati di questa questione. Ingenuamente o arbitrariamente hanno creato una razza di artisti immaginaria, assolvendoli da ogni macchia o rivestendoli di panni moderni. Gli errori di interpretazione sono fra le cose che giovano di più a tenere in vita il passato. Solo quello che riteniamo congeniale viene ripreso da una tradizione ricca e rivivificato nel presente. Usare ai propri scopi le opere d’arte di età passate è una prerogativa degli artisti. Gli storici si credono più obiettivi ma anche loro in realtà guardano al passato con gli occhi del loro tempo. Se queste deformazioni sono forse inevitabili, non lo sono però i fraintendimenti dovuti ad analogie arbitrarie. L’Arcimboldi, pittore cinquecentesco ha suscitato molto scalpore tra i surrealisti. Questi lo assumevano a capostipite, fraintendendone le intenzioni e non capendo il significato della sua opera. b. Giuseppe Arcimboldi: un surrealista “avant lettre”? Ebbe a suo tempo fama internazionale, poi fu quasi dimenticato per secoli e riscoperto recentemente soprattutto grazie alle sue “immagini multiple”, paesaggi che sono al tempo stesso volti o figure, ritratti composti da frutti o da animali. Uno storico le definisce un trionfo dell’arte attratta nel sedicesimo secolo, un modello d’arte surrealista. Oltre i dati biografici non si sa niente di Arcimboldi. Due anni prima della sua morte, però, in un trattato viene esaltato l’ingegnosissimo Arcimboldi, comunicandoci cosa la gente vedesse e cosa piacesse nelle sue opere. In un’altra opera spiega il significato delle varie parti componenti una testa interamente costituita da animali (volpe furba per la fronte, elefante vergognoso per le guance, sede della vergogna…). Questa fisiognomica zoologica era molto in voga all’epoca. Il significato allegorico della pittura arcimboldesca è impenetrabile a chi non abbia familiarità con questa tradizione. L’arguzia stimolante delle opere dell’Arcimboldi ne costituiva la maggiore attrattiva. Le sue pitture erano considerate come immaginose metamorfosi della natura. Il loro simbolismo non scaturisce da immagini oniriche affioranti dal subconscio, ma è un simbolismo scientifico, della scienza astrusa dei tempi dell’autore. Queste nozioni oggi ci sono estranee, ma una volta decifrati gli indovinelli arcimboldeschi, le composizioni appaiono per quello che sono: illustrazioni a volte pedantesche o didascaliche, a volte scherzose e satiriche di intricati concetti parascientifici cinquecenteschi. È evidente che le pitture dell’Arcimboldi dicono poco sulla persona dell’artista, ma con una precisazione. Se guardassimo alle sue opere come a opere del Novecento, le guarderemmo come si guarda una pittura paranoica surrealista, intravvedendovi una complessa personalità moderna, di un artista cosciente, per intuito o riflessione, della propria struttura psicologica tipicamente postfreudiana. Togliendo l’errore cronologico, queste suggestioni svaniscono. Pensando che il quadro è stato dipinto da un uomo “prepsicologico” rivediamo automaticamente il nostro giudizio. La mutata prospettiva dipende dal fatto che la conoscenza delle situazioni storiche ci consente di catalogare genericamente un certo tipo di personalità. Con tutte le idfferenze individuali di carattere e condotta, i pittori surrealisti hanno in comune determinate idee, convinzioni e tradizioni, una sensibilità e connotati specifici, che concorrono a formare un tipo di personalità riconoscibile. Lo stesso vale per i pittori di tutte le epoche. Non bisogna però prendere questa “personalità generica” come uno schema fisso, fuori dal tempo, dalla personalità dell’artista e confonderla con i caratteri individuali. c. Le teorie tipologiche degli psicologi: Lombroso e Kretschmer Gli psicologi si sono mostrati inclini a confondere il tipo con l’individuo. Quelli dell’ottocento che si interessarono all’arte hanno concentrato l’attenzione sulla psicologia dell’atti creativo: il che per loro equivaleva a indagare sul vecchio problema del genio. Lombroso era convinto che il genio fosse una varietà di pazzia. Le sue ricerche artistiche sembravano promuovere risultati oggetti: confrontò le reazioni di scrittori e artisti e dei malati di mente all’influenza di stimoli improvvisi come l’alcol o alle condizioni climatiche e meteorologiche e si occupò dei fattori ereditari, razziali e geografici. Pur ammettendo eccezioni, giunse alla conclusione che la fisiologia dell’uomo di genio e la patologia dell’alienato avessero molti punti in comune. Una serie di aneddoti e leggende gli valsero come prove scientifiche delle sue teorie. Lo zibaldone enciclopedico del Lombroso mirava a una definizione extratemporale della personalità artistica, e nei suoi enunciati non c’era posto né per le opere d’arte né per i problemi specifici dei singoli artisti. Il suo esempio ebbe effetti disastrosi. Nel Novecento c’erano ancora degli psicologi che cercavano di batterlo al suo stesso gioco. Ad esempio, i fratelli Pannenborg si proposero di istituire con il metodo statistico una tipologia delle personalità artistiche (pittori, scultori, musicisti). Anche Ernst Kretschmer seguì le orme del Lombroso. Anche lui concentrò l’attenzione sulle condizioni fisiologiche dei fenomeni psicologici. Mirando soprattutto a dimostrare le leggi biologiche fondamentali della personalità, si servì delle grandi opere d’arte e dei lavori degli scienziati a sostegno di ampie teorie tipologiche e razziali. Queste lo portarono a generalizzazioni pretenziose e conclusioni storiche illusorie. Ha avuto una modesta influenza sugli storici dell’arte. L’idea della corrispondenza fra il carattere di un’artista e la sua opera rimase del tutto estranea a Lombroso e ai suoi seguaci. Questi avevano spostato le indagini sull’arte dal campo della riflessione filosofica a quello delle ricerche mediche e hanno fornito una base pseudo-scientifica alla vecchia tradizione del nesso fra genio e anormalità psichica. In accordo con le vedute scientifiche e moralistiche dominanti al loro tempo, la loro testimonianza offriva una spiegazione plausibile delle stravaganze di condotta di molti artisti dell’era romantica e degli atteggiamenti antiborghesi e antisociali delle giovani generazioni. Pareva a molti assodato che i degenerati non sono sempre criminali, prostitute, anarchici e passi dichiarati, spesso sono scrittori e artisti. La psicologia dava un’immagine deformata della personalità artistica, e fomentava l’estraniazione dell’artista. d. La dialettica psicanalitica: interazione fra la personalità e l’opera Neanche la psicanalisi segnò una rottura con la vecchia tradizione. L’immagine dell’artista pazzo o melanconico si mutò in quella dell’artista nevrotico. Il quesito che gli psicanalisti si pongono indagando le opere d’arte riguarda non tanto il carattere che in esse si manifesta, quanto gli elementi nevrotici che esse rivelano. Gli psicanalisti hanno portato un contributo importante servendosi delle vicende biografiche degli artisti per interpretare le loro opere, e derivando dalle opere stesse conclusioni circa gli aspetti meno accessibili della personalità. A differenza di quasi tutti gli psicologi freudiani, trascuranti sia l’individualità dell’artista sia la sua opera nella ricerca dei tratti di carattere tipici del gruppo, e in contrasto anche con l vecchia idea dell’opera come specchio del carattere, gli psicanalisti considerano i problemi della personalità come lo stimolo soggiacente alla creazione artistica, e le opere come una nuova dimensione aggiunta alla personalità stessa, in quanto esse scaturiscono dallo scioglimento e dalla sublimazione delle repressioni. Solo così si può capire come un carattere schivo possa essere un pittore pieno di audacia e viceversa. Lo studio di Freud su Leonardo da Vinci Per preparare questo studio dovette rifarsi a documenti e materiale letterario noti agli storici dell’arte. Scoprì che Leonardo era un figlio illegittimo e che aveva tendenze omosessuali, punti a cui altri studiosi non avevano dato importanza. Partendo da alcuni suoi passi, Freud analizzò le memorie infantili di Leonardo e sostenne che queste spiegavano la sua omosessualità e risolvevano alcuni aspetti enigmatici dei sui quadri. Né questo studio né le successive esplorazioni di Freud sull’arte e sugli artisti suscitarono molto interesse tra gli storici dell’arte. Un esame approfondito della sua analisi di Leonardo fu intrapreso molti anni dopo la pubblicazione, dimostrando come e sue ipotesi fossero basate su errori di fatto e rilevando deficienze metodologiche nei procedimenti psicanalitici applicati allo studio dei personaggi storici e delle opere d’arte. In una critica a questi saggi si dice che Freud formulò delle conclusioni desunte probabilmente dalla propria autoanalisi, a quindi importanti per lo studio della sua personalità. Molto di quello che Freud disse internandosi nella personalità di Leonardo era al tempo stesso un’auto descrizione. Se sono osservazioni vere, confermano la tesi che le spiegazioni psicanalitiche dipendono, come le altre, dalle disposizioni personali dell’interprete. Se era un’auto descrizione, bisogna vedervi il riflesso della sensibilità in materia di relazioni familiari e nascite illegittime propria della generazione di Freud, ma non necessariamente di quella di Leonardo. Non c’è nessuna prova che Leonardo abbia sofferto per la sua nascita irregolare o per la separazione della madre. L’interpretazione di Freud si fondava sull’assunto che i figli nati fuori dal matrimonio e separati in tenera età dalla madre manifestino in ogni tempo e luogo le stesse reazioni psicologiche. Nel rinascimento l’atteggiamento verso l’illegittimità era molto diverso dall’epoca vittoriana. Figli legittimi e illegittimi godevano spesso degli stessi diritti. È poco credibile che questa indulgenza potesse produrre le stesse reazioni emotive dell’intolleranza ottocentesca. Per giunta Leonardo fu adottato dal padre nella prima infanzia, e questo fatto da solo smentisce che la sua nascita illegittima abbaia costituito per lui qualcosa di infamante. Nessuna fonte fa riferimento ai rapporti di Leonardo con la madre e non ci sono notizie su che tipo di donne fossero lei e la matrigna. Le arpie di Andrea del Sarto: un abbaglio psicanalitico Ernest Jones ha pubblicato uno studio sull’influenza avuta dalla moglie di Andrea del Sarto sull’arte del marito. Nella prima edizione delle Vite il Vasari la descrisse come una donna di pessima indole, ma nella seconda edizione tacque molte delle cose malevole che ne aveva detto in precedenza. Questa revisione ha dato adito a molte congetture ma non se ne sono scoperte le ragioni né quale delle due versioni fosse la verità. Jones sostiene la prima versione e suppone che il fatto di non essere pervenuto alla suprema maestria fosse dovuto alla sua omosessualità repressa e al carattere femminile influenzato dal non risolto rapporto di odio-amore con la moglie dominatrice. Trova una conferma a questa opinione nella Madonna delle Arpie. Individua diverse arpie, secondo lui fuori luogo in un soggetto del genere. In realtà non lo sono, sono piuttosto comuni nell’iconografia religiosa dell’epoca. Simboleggiano il paganesimo sopraffatto dalla religione cristiana e più specificamente dalla Vergine in trono. Se fosse vero che motivi pagani come questo non figurano in nessun’altra opera di Andrea, sarebbe perhcè i soggetti e i desideri dei clienti non li richiedevano. Come quasi tutti gli artisti del tempo, Andrea non era in condizione di scegliere i simboli che appagassero i suoi stimoli inconsci. La Madonna delle Arpie fu commissionata da un frate, e in casi simili i committenti erano soliti prescrivere minutamente quel che volevano fosse rappresentato. Il “Sesamo apriti” psicanalitico Questi due esempi di studi psicanalitici in materia\ d’arte rivelano alcuni punti deboli fondamentali di quel metodo: lettura e interpretazione chimerica dei dati biografici e artistici, e negligenza dell’informazione storica a disposizione degli studiosi. Ma come tutti gli scienziati Freud era cauto nei suoi enunciati e ben consapevole dei limiti della psicanalisi nei confronti dell’arte e degli artisti, al contrario di alcuni di quelli che hanno adottato e sviluppato le sue teorie. Le sue ipotesi sono state divulgate come verità assolute e sono diventate dogmi convenzionali non meno rigidi di quelli che lui intendeva demolire. Da quando le sue idee e la sua terminologia hanno conquistato l’immaginazione del pubblico letterario, è diventato fuori moda mettere in dubbio l’adeguatezza dei metodi psicanalitici alle ricerche storiche. Convinti di avere in mano il grimaldello che schiude tutti i segreti dell’anima, questi manipolatori faciloni del materiale storico sanno giungere avertici di cecità e di stortura che hanno pochi confronti nel campo della storiografia. (Privo di un’immagine paterna Michelangelo non poté rendere giustizia a Dio nella cappella sistina, dipingendo solo un vecchio con la barba. Consapevole di questa debolezza tenta di glorificare la figura divina con lo sfondo) e. Esiste il “tipo costituzionale” dell’artista? La psicanalisi ha insegnato l’infinita complessità della personalità umana e i molteplici livelli di autorealizzazione, coscienza e sensibilità a cui essa da luogo. Questo rafforza l’arbitrarietà della vecchia tipologia elaborata dagli psicologi, che tendeva a confermare l’immagine tradizionale dell’artista alienato. In certe condizioni e in certi periodi gli artisti vissero davvero secondo i moduli di quell’immagine. Se si accetta il punto di vista secondo il quale le tendenze culturali hanno un’influenza determinante sulla formazione e lo sviluppo del carattere, se ne ricava una testimonianza contro l’esistenza di un tipo artistico costituzionale fuori dal tempo. La storia degli ultimi cinquecento anni può essere considerata sotto la specie di una disputa circa la superiorità della ragione sulla sfera emotiva e viceversa. A volte si afferma l’Es, zona oscura inaccessibile della personalità, altre volte il Super IO, autodisciplina cosciente. La parte avuta dagli artisti in queste mutevoli vicende si rintraccia nell’atteggiamento del pubblico. Quando la sorgente delle energie creatrici era posta nell’intelletto e nella razionalità, la gente cercava nelle opere degli artisti la manifestazione delle facoltà riflessive. Quando invece regnavano il sentimento e la sensibilità, queste erano le qualità che si ricercavano. Gli artisti più avanzati erano consapevoli dell’indirizzo prevalente e spesso ne erano i battistrada. Nel rinascimento la cultura godeva di un prestigio senza confronti, e le responsabilità intellettuali assunte dagli artisti ebbero molto peso nel dar loro una disciplina mentale. Con Michelangelo credettero che un uomo dipinge con il cervello. Con Leonardo convennero che la pittura aveva a che fare con la filosofia naturale, che essa era una scienza e che il pittore doveva prima studiare la scienza, e seguitare con la pratica basata sulla scienza. Questa concezione rimase per quasi tre secoli, fino al 500 quando fu rivendicata la libertà dell’artista di raffigurare tutto quello che la mente, la fantasia o il capriccio dell’uomo possa inventare. Solo nel diciottesimo secolo si sposta l’accento, tentando di equilibrare il contrasto tra i due modi di vedere la vita e l’arte (si può esagerare nell’indulgere all’immaginazione e nel frenarla). William Blake disprezza poi la ragione. Comincia sul serio la ribellione dell’artista ingenuo e intuitivo contro l’artista intellettuale. Il romanticismo produsse un mutamento di estrema importanza nella personalità degli artisti e nell’atteggiamento del pubblico verso di essi. Quando entrarono in scena gli psicologi, l’artista può proclamare i diritti della libera immaginazione, esente dall’impaccio di corredi libreschi. L’auto espressione e il subcosciente divennero gli equivalenti complessi della fantasia e del capriccio. L’artista freudiano e postfreudiano esalta e coltiva l’elemento irrazionale della creazione artistica, ma proprio questa posizione presuppone un’intelligenza molto sofisticata. È un abbandono all’inconscio molto cosciente. La psicanalisi ha prodotto un nuovo tipo di personalità artistica con caratteri specifici suoi propri. Se la psicologia ha contribuito, bene o male che sia, a foggiare genericamente la personalità e il carattere degli artisti moderni, essa non potrà mai risolvere il problema storico che sta al centro di questo libro. Abbiamo voluto far conoscere quel che ci dicono le fonti sul carattere e sulla condotta degli artisti. Per giudicare e valutare questo materiale è necessaria una conoscenza dell’atmosfera in cui costoro respirarono, delle credenze e delle opinioni, del pensiero filosofico e delle convenzioni letterarie, diffuse in un determinato periodo. Quello che vediamo affiorare è un disegno valido per tutti i rapporti umani: un intreccio di mito e realtà, di congetture e di osservazioni, di finzione e di esperienza, che ha determinato e determina tuttora l’immagine dell’artista. Non c’è mai stata e non ci sarà mai una risposta all’enigma della personalità artistica: perché – per chiudere con una citazione d’un pittore tanto grande quanto <matto>, il Turner – “l’arte è una buffa faccenda”. -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- “In un discorso psicanalitico sull’arte, quasi sempre primeggia l’analogia fra l’opera d’arte e il sogno.” Gombrich E.H. (1966). Freud e la psicologia dell’arte. Torino: Einaudi, pp.44. “...dovrà sempre esistere, e che è sempre esistita [nell’arte], una determinante personale; cioè, che analizzando Hobbema potremmo scoprire perché preferiva ispirarsi ai mulini di Ruysdael piuttosto che ai panorami di Koninck (...). Ma in fondo, che cosa ce ne importa? Domanda non futile se analizziamo le opere d’arte dal punto di vista psicoanalitico. Chiederlo sarà un’eresia, ma dalla risposta a questa domanda dipende tutto il rapporto fra la psicoanalisi e la storia dell’arte . (...) Perciò quei tentativi che vi sono stati di traversare come funamboli (...) l’abisso dei secoli, servendoci di notizie d’accatto come di una fragile corda, non potrà essere altro che un jeu d’esprit (...). E perciò ripeto la domanda: è poi tanto importante sapere che significato abbia avuto l’opera per l’artista? Perché ciò sia importante, occorre una sola premessa, questa: che il significato privato, personale, psicologico del quadro, sia l’unico significato vero - sia quindi quello che esso trasmette, se non alla coscienza, almeno all’inconscio dello spettatore .” È inconscio. Non sappiamo se verrà mai trasmesso o ricevuto. Sono supposizioni che si basano sul nulla. Gombrich, 1966, pp. 45-46 Non esiste un livello 0 di interpretazione. Il significato dell’opera è molto spesso legato a quello che voleva il committente. L’artista ha stile, abilità… ma nella commissione erano spesso indicate tutte le cose che voleva presenti, tutti i simboli. Quindi l’artista aveva poca scelta. 3) In che rapporto sta la nevrosi dell’artista con quello del critico? 4) In che rapporto stanno queste due nevrosi con quello che caratterizza gli spettatori ? → se l’atto di fruizione deve comportare una fase di empatia, in cui si entra in comunicazione con l’artista e la sua sofferenza attraverso la sua opera, anche lo spettatore deve soffrire di un certo tipo di nevrosi, altrimenti non può comprendere. Se uno non conosce la sofferenza non può essere empatico con un sofferente. Dal punto di vista psicanalitico l’opera d’arte diventa tale solo con fruitori che soffrono dello stesso disturbo, delle stesse problematiche inconsce di cui soffre l’artista. L’arte è il risultato di molte relazioni complesse fra cui quella fra l’opera e il fruitore e fra il fruitore e l’autore attraverso l’opera. Alcuni artisti hanno creato la loro vista come un’opera d’arte. Forse la psicologia potrebbe capire come questo avvenga e quale sia l’influenza di quella metaopera sulle altre opere e sulla loro circolazione. Il fatto che un’opera possa esibire le preferenze condivise e generalizzate per certi rapporti e proporzioni non basta a garantirne l’artisticità; allo stesso modo non è sufficiente la sublimazione delle spinte pulsionali da parte dell’autore di un’opera per garantirne il risultato artistico. Una componente di conflitto e di incomprensione all’interno della corrente psicanalitica a proposito dell’arte riguarda la posizione radicale di rifiuto dell’arte contemporanea da parte di Freud e la sua accettazione da parte di molti psicanalisti. La critica che si deve fare a Freud non riguarda la scelta teorica del suo approccio all’arte, né il suo disinteresse per l’arte del suo tempo, né il grande numero di aspetti del complesso gioco dell’arte che in essa venivano trascurati, quanto piuttosto la sua radicale negligenza per le forme delle opere. Per avere inaugurato un approccio all’arte che ha finito col ridare credito al peggior psicologismo e biografismo, saltando di netto ogni specificità artistica delle opere, considerate alla stregua di sintomi. Negli anni Sessanta si verificò una vera e propria inflazione di interpretazioni psicanalitiche dell’arte e della letteratura. Wittkower biasima la fantasiosa lettura e l’interpretazione chimerica de dati biografici e artistici, nonché il disinteresse per l’informazione storica a disposizione degli studiosi. La rappresentazione di figure umane nelle opere d’arte è spesso accompagnata da un tentativo di riprodurre stati d’animo ed emozioni. Questi sono oggetti di studio della psicologia. Tuttavia, risalire dalla rappresentazione di stati d’animo ed emozioni alla scoperta delle motivazioni profonde ed inconsce che sottostanno all’atto creativo dell’artista è un’operazione del tutto arbitraria. Il rischio di mistificazioni è altissimo, come già hanno sottolineato a loro tempo i coniugi Wittkower. La psicoanalisi non è forse il metodo migliore per indagare le personalità degli artisti, e come approccio per spiegare l’arte, oppure l’atto creativo, ha indubbiamente più limiti che pregi. Tuttavia, proprio la psiche malata diviene un motivo, quando non proprio un tema, analizzato dagli artisti. La follia, infatti, è un tema presente nell’arte, già prima di Freud. Dal Primo Manifesto del surrealismo (André Breton): “Noi viviamo ancora sotto il regno della logica: ecco chiaramente dove volevo arrivare. Ma i processi logici, ai giorni nostri, s'applicano unicamente alle soluzioni di problemi di secondario interesse. Il razionalismo assoluto che rimane di moda permette di prendere in considerazione nient'altro che i fatti strettamente riferibili alla nostra esperienza. I fini logici, al contrario, ci sfuggono. Inutile aggiungere che l'esperienza stessa s'è ritrovata chiusa tra limiti assegnati. Essa s'agita in una gabbia da cui è sempre più difficile farla evadere. S'appoggia anch'essa all'utile immediato ed è sorvegliata dal buon senso. Sotto il color della civiltà, col pretesto del progresso, si è giunti a bandire dallo spirito tutto ciò che, a torto o a ragione, può essere tacciato di superstizione, di chimera, a proscrivere ogni metodo di ricerca della verità che non sia conforme quello in uso. È stato per un formidabile caso, almeno in apparenza, che recentemente si pose in luce una parte del mondo intellettuale, per me importantissima, verso cui si ostentava trascuratezza. Bisogna ringraziare le scoperte di Freud. In forza di tali scoperte si manifesta finalmente una corrente d'opinioni per cui l'indagine umana si potrà spingere più lontano nelle proprie ricerche, finalmente autorizzata a non tener più solo conto di sommarie realtà. L'immaginazione è forse sul punto di riconquistare i propri diritti. Se le profondità del nostro spirito racchiudono strane forze capaci d'aumentare le forze di superficie o di contrapporsi vittoriosamente a esse: v'è tutto l'interesse a captarle prima, per poi sottometterle, se appare necessario, al controllo della nostra ragione. Gli analizzatori stessi non hanno che da guadagnarvi. Ma è indispensabile osservare che nessun metodo è imposto a priori per definire tale impresa e che sino a una nuova rivelazione essa può appoggiarsi tanto sulle energie dei poeti quanto su quelle dei dotti, e che infine il suo successo non dipende dalle vie più o meno capricciose che saranno seguite.” Si evince l’idea di un tentativo di superamento del rapporto razionale con la realtà per primeggiare contenuti interiori più inconsci, il sogno, manifestazioni anche di organizzazione casuale degli argomenti. Si evince anche il ruolo che Freud ha giocato suo malgrado nella nascita del surrealismo. Definizione del termine ‘surrealismo’ dato da Breton: Automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente che in ogni altro modo, il funzionamento reale del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale. Automatismo psichico: si producono opere d’arte in modo automatico, senza ragionamenti vari. Qualcosa di simile è fatto in letteratura. In pittura il vero automatismo non si esprime tramite il surrealismo, che usa raffigurazioni molto curate e dettagliate, pur nel loro simbolismo accentuato. Si ha ad esempio con l’action painting, che non è più surrealismo. Definizione per un’enciclopedia filosofica: Il Surrealismo si fonda sull'idea di un grado di realtà superiore connesso a certe forme d'associazione finora trascurate, sull'onnipotenza del sogno, sul gioco disinteressato del pensiero. Tende a liquidare definitivamente tutti gli altri meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella risoluzione dei principali problemi della vita. La psicanalisi ha dato all’arte dei temi, un modo di pensare all’arte diverso rispetto alle altre correnti, mirante a rappresentare paradossi e condizioni interiori. Il surrealismo, più che essere esplicativo del fare arte, ha aperto le porte all’immaginazione vera e propria. Surrealismo in letteratura “Mentre un mattino Gregor Samsa si veniva svegliando da sogni agitati, nel proprio letto egli si trovò mutato in un insetto mostruoso.” Inizia così il racconto surreale (ma non surrealista) di Franz Kafka (1883-1924) intitolato La metamorfosi (1915). Parla di una cosa che non ha riscontro nella realtà ma non ha fini surrealistici di rappresentare l’inconscio. Kafka vuole rappresentare una condizione umana ben precisa. James Joyce (1882-1941), due romanzi surreali per stile e contenuti: L’Ulisse e Finnegans wake. Tali romanzi sono scritti con la tecnica del “flusso di coscienza”, portata agli estremi in Finnegans wake che si caratterizza per la polisemia con cui viene tradotta l’esperienza onirica. Il procedimento con cui è creata l’opera è tale che non permette la traduzione in un’altra lingua. Un’altra lingua dovrebbe adottare procedimenti analoghi, non traducendo ma dovrebbe ricreare l’opera, quindi creerebbe un’opera diversa. Haruki Murakami (n. 1949): La fine del mondo e il paese delle meraviglie (1985). Murakami spesso fa ricorso al soprannaturale e a esperienze psicologiche particolari. Opera divisa in sue parti. Non prima e seconda ma si intersecano. Ogni capitolo disparì appartiene a una parte e ogni pari all’atra. Si capisce il gioco, la corrispondenza tra mondo reale e mentale solo a metà. La psicoanalisi come soggetto letterario La coscienza di Zeno di Italo Svevo (1923). “Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica.” “31 Maggio 1915 L’ho finita con la psico-analisi. Dopo di averla praticata assiduamente per sei mesi interi sto peggio di prima. Non ho ancora congedato il dottore, ma la mia risoluzione è irrevocabile. Ieri intanto gli mandai a dire ch’ero impedito, e per qualche giorno lascio che m’aspetti. Se fossi ben sicuro di saper ridere di lui senza’adirarmi, sarei anche capace di rivederlo. Ma ho paura che finirei col mettergli le mani addosso.” Hans Richter, Vormittagsspuk (Fantasma prima di colazione) Being John Malkovich → surreale nel cinema. La psicoanalisi come soggetto cinematografico (con esiti surreali) nel film Zelig di Woody Allen. Mockumentary. Storia di un uomo che si sente inadeguato e non accettato, inferiore. Per risolvere il problema sviluppa la capacità di identificarsi con chi gli sta attorno al punto che cambia anche sembianze. Le incertezze di Rudolf Arnheim Arnheim è stato un grande e inesauribile evocatore di domande, a nessuna delle quali ha dato una risposta esauriente, presumibilmente perché si tratta di domande a cui non era possibile dare risposta. Si occupa spesso di arte contemporanea. Da un lato non rifiuta nemmeno le proposte più estreme, dall’altro non rinuncia al tentativo di ricondurle alle dimensioni che stanno alla base delle qualità dell’arte classica. All’uomo è sempre riuscito considerare i mostri come annunci di sciagura. Sembra che annunci di sciagura si verifichino nelle arti del nostro secolo. Le distorsioni sono dei commenti alla natura, che possono provocare indignazione. Ma il mostro crea ansietà perché rivela e mostra in fallo la natura stessa. Quali sono le mostruosità che si riflettono negli incubi dell’artista? Quei mostri non sono semplicemente manifestazioni dell’angoscia, non sono espressione di un inconscio che si pretende irrazionale. Quando sono validi, sono risultati di osservazione e interpretazione precisa. Solo per il fatto che la cosa paurosa viene presentata adeguatamente e vigorosamente, essa può produrre quel tipo di risposta emotiva che, artisticamente conta. Il disordine può venir presentato artisticamente unicamente per mezzo dell’ordine. Se la visione che l’artista ha dei mostri non fosse ben organizzata ed equilibrata, essi non potrebbero giungere a dimostrare la perversità di quanto è disorganizzato e squilibrato. Quand’è che i mostri sono validi? Quali sono i criteri con cui riconosciamo che in un’opera c’è l’intelligente e ordinata ricerca del mostruoso? Qual è il tipo di risposta che emotivamente conta? L’arte è diventata incomprensibile. È sempre stata adoperata e concepita come un mezzo per offrire all’occhio e all’orecchio umano un’interpretazione della natura del mondo; ma oggi gli oggetti dell’arte rientrano, apparentemente tra le realizzazioni più sconcertanti che mai siano state condotte a termine. Sono essi, ora, che richiedono interpretazione . Constatare l’incomprensibilità significa dichiarare il proprio disagio e avanzare un’implicita richiesta di spiegazione. Nel XIX secolo essere un buon artista era diventato assai più difficile di quanto fosse stato negli ultimi due millenni. Un’epidemia di bruttezza cominciò ad infettare ogni cosa. Non dice cosa intende per bruttezza, né perché sia così difficile essere un buon artista oggi. Il mondo della produzione e del consumo in cui siamo immersi è ossessionato dalla bellezza. Viviamo in un mondo immerso in un proliferare di bellezza a livello di produzione e promozione, che tuttavia, dopo il rito del consumo, si trasforma in un mare di bruttezza. La maggior parte degli oggetti con cui ci intratteniamo quotidianamente sono portatori contemporaneamente di bellezza e bruttezza. La sospensione dell’uso di un prodotto, così come il suo esaurimento, innesca il processo di metamorfosi che trasforma la bellezza in bruttezza, e mentre la bellezza viene consumata, la bruttezza si accumula inesorabilmente. Oggi gli abissi che separano l’artista dall’artista e l’artista dal pubblico possono venir valicati soltanto con l’interpretazione. Occorre un’interpretazione capace di spalancare gli occhi e le orecchie ai messaggi trasmessi dalla forma, anziché distoglierli da essi per tramite delle configurazioni esteriori. Nel momento in cui la produzione e il consumo si sono impadroniti del bello e lo hanno fatto diventare seduzione, trascurando tutti i distinguo dell’estetica filosofica, l’artista visuale ha capirò che se voleva sopravvivere doveva conquistare nuovi territori, cioè allargare l’obiettivo dei suoi interessi al di fuori della ragione del bello. È necessaria la rinuncia a fondare il proprio lavoro su quei processi automatici dell’attività percettiva e cognitiva che prediligono la simmetria, l’ordine, la regolarità, le proporzioni, il virtuosismo della verosimiglianza. Di conseguenza si perde il contatto con l’osservatore ingenuo perché è andato in frantumi il meccanismo cognitivo comune alle scelte formali dell’artista e alle valutazioni e al gradimento del fruitore. Secondo Arnheim i baratri possono essere attraversati affidandosi all’interpretazione. I pattern casuali sono interessanti, suggestivi, stimolanti. C’è un senso di libertà nella fuga occasionale del senso. Anche l’agglomerato più estraneo di elementi può esser fatto equilibrare perfettamente intorno a un punto centrale. Ma stimolo, godimento, equilibrio non bastano. Un’opera d’arte deve far qualcosa di più che essere se stessa: deve adempiere a una funzione semantica, e nessuna asserzione è comprensibile, se le relazioni tra i suoi elementi non formano un insieme organizzato . Per l’arte dell’antichità classica, il caos è il brutto, e ciò che non ha esistenza positiva, e che perciò viene separato dall’ordine che è componente fondante del bello. In ogni atto percettivo, prima dell’apparire del bello, tutto ciò che presenta caratteristiche di ordine si impone come figura, segregandosi da uno sfondo caratterizzato da un livello maggiore di disordine. Allorché il bello perde la capacità di turbare l’osservatore, diventa grazioso e in questo passaggio perde ogni contatto con il brutto. Contatto ripristinato attribuendo diritto di cittadinanza all’amorfo, disarmonico, asimmetrico, indefinito. Quando Arnheim constata che gli artisti contemporanei hanno portato alle estreme conseguenze quel processo iniziato in epoca barocca, accetta il fatto negandolo. Sostiene che il caso non è mai completamente casuale, da momento che prodotti ottenuti da condizioni o procedure casuali non sono privi di equilibrio. E che se l’esito finale è un’opera d’arte, il risultato non sarà casuale, anche quando lo sono le procedure seguite per crearla, perhcè i suoi elementi non possono non formare un insieme organizzato. Arnheim considera il piacere un epifenomeno che si accompagna all’arte, ma non ne costituisce lo scopo. Per dimostrare la fragilità teorica dell’estetica sperimentale, introduce la sua rilettura anticonvenzionale del lavoro di Fechner ponendo la domanda sulla differenza del piacere prodotto da un’opera d’arte e quello prodotto da un gelato. Lezione 5 – FECHNER E L’ESTETICA SPERIMENTALE Le misure del bello Secondo Policleto da Argo (V sec. a.C.), la bellezza nasce dall'esatta proporzione non degli elementi, ma di tutte le parti tra di loro. Studia la proporzione ideale dell’uomo. Egli realizzò il Doriforo (atleta portatore di lancia), secondo il canone da lui derivato empiricamente misurando i corpi e le membra di persone reali: il canone potrebbe derivare dalle medie di quelle misurazioni. Per l’altezza ideale dell’uomo e le proporzioni tra le sue membra si usava come riferimento le dimensioni della testa e rapporti tra le parti del volto. Secondo il canone della bellezza teorizzato da Policleto da Argo, l’altezza ideale dell’uomo (l’altezza media) era 8 volte la lunghezza della testa. Cennino Cennini è un artista e trattatista che scrive il libro dell’arte, che riporta una serie di ricette per come fare le cose in ambito artistico e una serie di annotazioni molto interessanti per capire la mentalità dell’epoca e quello che si conosceva circa alcuni fenomeni. Fecnher, profondamente religioso, affascinato dal pensiero orientale e convinto panteista, nel saggio sull’anima delle piante esalta le qualità espressive arrivando a sostenere, per esempio, che è la forma della ninfea a consentirle di godere, in maniera così manifesta e percepibile, de nutrimento dell’acqua e del calore della luce. Queste sensazioni mezzo secolo dopo saranno insistentemente tradotte in chiave visiva da Monet. Sezione aurea Dato un segmento AC, si ottiene una sezione aurea quando il suo tratto più corto BC sta a quello più lungo AB come il tratto più lungo AB sta al segmento intero AC. BC : AB = AB : AC Il tratto più lungo AB è medio proporzionale tra il tratto più corto e l’’intero segmento. Questa proporzione è considerata magica, che dà luogo a questo risultato. È anche considerata magica perché contiene la radice quadrata di cinque, che è un numero irrazionale. Si ritiene che molti capolavori tramandati a noi attraverso i secoli siano strutturalmente basati su rapporti “aurei”. Come nel caso della facciata del Partenone. La convinzione che la seziona aurea sia la misura matematica della bellezza è talmente diffusa anche al giorno d’oggi che si moltiplicano le dimostrazioni della sua applicazione (maschere create con le proporzioni sovrapposte ai volti). Luca Pacioli, in pieno rinascimento sostiene il valore altissimo della sezione aurea. “Poiché Dio portò in essere la virtù celestiale, la quinta essenza, e attraverso di essa creò i quattro solidi ... la terra, l'aria, l'acqua e il fuoco ... così la nostra sacra proporzione diede forma al cielo stesso assegnando al dodecaedro ... il solido costruito con dodici pentagoni, che non può essere costruito senza la nostra sacra proporzione.” Luca Pacioli, De divina proportione (1498) Le cinque proprietà di questa meravigliosa proporzione che la rendono divina: 1) Come Dio, è unica; (è sempre uguale a se stessa, indipendentemente dalla lunghezza del segmento, facendo le suddivisioni per ottenere la sezione aurea si ottiene sempre lo stesso numero.) 2) Come la Santa Trinità è una sostanza in tre persone, così la sezione aurea è una proporzione in tre termini facenti parte di uno stesso segmento. 3) Come Idio proprialmente non e po definire né per parolle a noi intendere, così questa nostra proportione non se po mai per numero intendibile assegnare (La proporzione aurea non è un numero finito, è un numero infinito), né per quantità alcuna rationale exprimere, ma sempre fia occulta e secreta e dai mathematici chiamata irrationale. 4) Come Dio, è sempre simile a se stessa. Non muta. 5) Permette di formare il “duodecedron” (volume formato da 12 pentagoni) che Platone nel Timeo definisce l’espressione stessa della quintessenza. Sono le cinque ragioni per cui la seziona aurea ricopre così tanta importanza nel neoplatonismo, di cui Luca Pacioli è un’espressione. “Nel cercar di dimostrare che un sistema di proporzioni è stato deliberatamente applicato da un pittore, uno scultore o un architetto, si è facilmente portati a trovare in una data opera proprio i rapporti che si cercano. Il compasso, in mano al ricercatore, non si ribellerà. Se vogliamo evitare le delusioni della speculazione oziosa, dobbiamo cercare le nostre direttive nei rapporti forniti dagli stessi artisti. Cosa curiosa, non è mai stato fatto sistematicamente.” Rudolf Wittkover, 1964 A voler cercare la sezione aurea ovunque la troviamo, perché accomodiamo il modo in cui tracciamo l linee ecc alle nostre volontà, all’esigenza di trovarla. Il rettangolo aureo è legato anche a delle illusioni. Ad esempio, l’illusione della verticale: il segmento orizzontale e quello verticale sono uguali ma quello verticale sembra più lungo. Questa illusione è legata al fenomeno dell’anisotropia spaziale. Nell’illusione del quadrato, tutti sembrano quadrati, ma uno sol è un vero quadrato. Lezione 6 – DOPO FECHNER La strada della misura delle preferenze estetiche, aperta da Fechner, è stata seguita durante l’ultimo secolo da un numero piccolo ma costante di ricercatori e studiosi, che hanno misurato il grado di accordo manifestato da persone diverse per alcune caratteristiche delle figure presentate. Pur consapevoli che un accordo perfetto non esiste, hanno ricercato £grandi intermedi di accordo usando formule matematiche atte a esprimere i gradi di correlazione”. Hanno sottoposto a verifica e riesame le misure di preferenza di determinati rettangoli in funzione delle loro proporzioni. Poi hanno introdotto altri tipi di valutazione, come la determinazione del punto di equilibrio, che si ottiene chiedendo ai soggetti di dividere un segmento in parti fra loro equilibrate, o il gradi di accettazione o rifiuto di combinazioni cromatiche. Dopo Fechner, e in seguito agli sconvolgimenti nel mondo dell’arte legati sia all’invenzione e all’affermarsi della fotografia, sia alla nascita delle avanguardie artistiche, il concetto di esperienza estetica subisce una lenta mutazione, in particolar modo quando si riferisce al campo delle arti: da esperienza legato al bello e al sublime (di modello kantiano) diviene nel tempo esperienza che dona piacere a livello affettivo e/o a livello intellettuale. Diffusione e perfezionamento della Fotografia spinge verso le avanguardie Artistiche e produce mutamenti lenti ma profondi nella concezione della fruizione artistica. Non è una cosa immediata, è un mutamento lento ancora in corso su una nuova concezione dell’esperienza estetica. Tentiamo quindi di formulare una nuova definizione di “estetica” applicata alle arti, o meglio di una “esperienza estetica- artistica”. Prima però cerchiamo di definirne le caratteristiche. “Per esperienza estetica-artistica ci si riferisce ad una particolare sensazione di piacere legata alla fruizione di opere d’arte. Questa sensazione di piacere non è determinata in modo esclusivo da rappresentazioni del “bello”, e di norma si caratterizza come una modifica di stati affettivi e cognitivi nel fruitore. In sostanza, il fruitore esperisce a livello cognitivo/intellettuale una sensazione di accrescimento/arricchimento quando entra in contatto con un prodotto il cui contenuto è imprescindibile dalla sua struttura formale.” Quello che il fruitore prova dinanzi un’opera d’arte, quindi l’esperienza estetica artistica è un accrescimento, un arricchimento, una trasformazione interna di uno stato sia affettivo che intellettuale. E questa sensazione dipende da un contenuto che però è imprescindibile dalla struttura formale dell’opera. Definizione di “esperienza estetica-artistica”: L'esperienza estetica-artistica è un piacere insieme affettivo e intellettuale emergente dalla fruizione di opere d'arte. La definizione è nuova, e non la troverete altrove perché in generale chi pratica l’estetica empirica di norma non distingue tra esperienza estetica ed esperienza estetica-artistica, dove la prima si riferisce al piacere estetico kantianamente inteso, mentre il secondo è un piacere che emerge solo dalla fruizione di opere d’arte. Non implica il sublime in senso formale, sensuale. Indica il sublime come esperienza profonda che tocca sia le corde affettive che quelle intellettuali. Deriva da oggetti (anche poesie, romanzi, brani musicali, balletti…) che, escludendo l’architettura, non hanno uno scopo se non quello di convogliare attraverso la propria struttura formale un contenuto. Ma quel contenuto è dipendente dalla struttura formale. In un’opera d’arte, cambiando parole e contenuto si può sconvolgere il senso dell’opera. A livello teorico, se si riuscisse a definire i parametri che inducono un'esperienza estetica-artistica, si riuscirebbe anche a definire alcuni dei parametri che costituiscono l'essere “opera d’arte”. Se riusciamo a definire cosa determina un’esperienza estetica artistica ricca potremmo anche riuscire a definire alcune delle caratteristiche che le opere d’arte devono possedere. George David Birkhoff (1884-1944) propone un approccio matematico all’estetica, con una formula che esprime il valore estetico (1932). Partendo dall’assunto che il grado di paicere prodotto da un oggetto estetico fosse funzione dle rapporto fra due parametri, l’ordine e la complesistà, giunse alla conclusione che M = O/C M = misura estetica, cioè il grado di piacere estetico suscitato da un’opera d’arte O = il grado di ordine di un oggetto C = il grado di complessità di oggetto Tanto maggiore è il grado di ordine rispetto al grado di complessità, tanto maggiore è l’esperienza di piacere con l'oggetto. L’assunto base della formula proposta da Birkhoff è che il valore estetico di un’opera d’arte dipende dall’esatta misura delle sue componenti. Cioè bisogna definire in maniera operativa il grado di ordine e di complessità dell’oggetto in esame. Quando si valuta sul piano estetico un’opera d’arte bisogna considerare 3 fattori di natura psicologica: 1) Lo “sforzo”, che l’osservatore di un oggetto artistico compie per coglierne percettivamente la struttura. Lo sforzo sarebbe direttamente proporzionale al numero delle componenti elementari di quell’oggetto. Dato che Birkhoff identifica con il numero delle componenti la misura della complessità di un’opera, lo sforzo sarebbe direttamente proporzionale alla complessità dell’opera. Più è complessa l’opera, maggiore è lo sforzo richiesto all’osservatore per coglierne percettivamente la struttura. Quindi lo sforzo è indicativo della complessità. 2) La “percezione dell’ordine”, inerente alla configurazione o alla struttura dell’oggetto e alle sue componenti elementari. Anche l’ordine, come la complessità, sarebbe quantificabile. Bisogna avere un modo per quantificare l’ordine. 3) La “sensazione di piacere”, che la percezione dell’oggetto provoca, compensando lo sforzo compiuto, tramite la percezione di ordine. Problema: Birkhoff attribuisce del tutto soggettivamente i valori numerici ai parametri individuati per stabilire la quantità di ordine e di complessità delle opere d’arte. Concettualizzazione della misura estetica di Birkhoff mediante l’utilizzo dell’entropia di Shannon e della complessità di Kolmogorov Nel 1928 Birkhoff introduce la misura estetica definita come un rapporto tra ordine e complessità. Nel 1965 Bense analizza la misura di Birkhoff da un punto di vista dell’informazione della teoria. In questo articolo i concetti di ordine e complessità di un’immagine (dipinto) sono analizzati alla luce dell’entropia di Shannon e della complessità di Kolmogorov. Presetiamo inoltre una visione nuova del processo creativo. L’incertezza iniziale che si ottiene attraverso l’entropia di Shannon riferito al repertorio è trasformato in un contenuto di informazione algoritmica definita dalla complessità di Kolmogorov dell’immagine. Da questo punto di vista la misura estetica di Birkhoff è presentata come un rapporto tra la riduzione algoritmica dell’incertezza (ordine) e dell’incertezza iniziale (complessità). Le misure proposte sono applicate a diversi lavori di Mondrian, Pollock e Van Gogh. Information entropy is the average rate at which information is produced by a stochastic source of data. Generally, entropy refers to disorder or uncertainty, and the definition of entropy used in information theory is directly analogous to the definition used in statistical thermodynamics. The concept of information entropy was introduced by Claude Shannon in his 1948 paper "A Mathematical Theory of Communication" Nella teoria algoritmica dell'informazione, la complessità di Kolmogorov di un ogge.o (assumendo che possa essere rappresentato come una sequenza di bit, per esempio un pezzo di testo), è la lunghezza del più breve programma informatico (in un dato linguaggio di programmazione) che produca l’oggetto come output. La definizione della complessità di Kolmogorov suppone che si possa descrivere, e quindi riscrivere, un'opera d'arte come una sequenza di bit (in teoria dell'informazione il bit è definita come la quantità minima di informazione che serve a discernere tra due eventi equiprobabili). La complessità di kolmogorov va bene per le stringhe. Le immagini sono bidimensionali ma rappresentano realtà tridimensionali. Non si può ridurre semplicemente a una serie di bit. Correzione di Hans Jürgen Eysenk (1916-1977) all’operazione di Birkhoff. Mentre Birkhoff proponeva un rapporto tra ordine e complessità, secondo Eysenk la misura estetica è determinata dal prodotto di orndine e complessità: M = O•C Birkhoff vede la complessità come un fattore negativo. In realtà questo si lega al mutamento lento ma profondo che si comincia ad avere dell’esperienza estetica artistica. La complessità, da fattore negativo viene ad essere un fattore che ha un peso equivalente, né necessariamente negativo né positivo rispetto all’ordine. Posso avere un romanzo di più di 600 pagine, dove invece di scrivere le parole si scrive una serie di 1. Quello con le parole è più complesso e più piacevole e esteticamente più pregevole. Ordine e complessità che comunque influenzano in modo positivo o negativo la misura estetica ma non uno in negazione all’altro. Il concetto di ordine Zanichelli (1984): Assetto, disposizione o sistemazione razionale e armonica di qualcosa nello spazio o nel tempo secondo esigenze pratiche o ideali. Avere un ordine significa disporre ad esempio i libri in un certo modo. Arnheim, Entropia e arte,1971, p. 2 “Qualunque cosa la mente umana si trovi a dover comprendere, l’ordine ne è una indispensabile condizione. Quando non comprendiamo qualcosa diciamo che è caos. Comprender qualche cosa vuol dire individuarne una struttura che in qualche modo ci comunichi qualcosa. Sono le strutture che portano l’informazione intellegibile. Quindi l’ordine è una condizione indispensabile per comprendere qualsiasi cosa. Disposizioni quali la planimetria di una città o di un edificio, un insieme di utensili, un’esposizione di mercanzia, la manifestazione verbale di fatti o di idee, ovvero quali un dipinto o un brano musicale, sono disposizioni dette tutte ordinate quando sia possibile a chi le osservi o le ascolti coglierne la struttura generale ed anche il diramarsi di essa in una certa articolazione di dettaglio.” L’ordine ci permette di cogliere la struttura, e ci permette quindi di individuare all’interno di quella struttura un messaggio. La struttura stessa è un messaggio. Esempi di ordine: • Bibliografia e citazioni: opere sono citate in ordine alfabetico in base all’elenco degli autori. • Indice: mostra l’ordine di esposizione di un testo scritto. Quando l’indice è fatto bene, permette di comprendere la macrostruttura degli argomenti trattati. • Catalogo di una mostra: percorso ragionato delle opere esposte. • Collezionismo: di solito il vero collezionista ci mette del metodo nella raccolta ed esposizione della propria raccolta. In che modo possiamo misurare l’ordine? Quali sono i fattori che ci possono informare circa l’ordine che tiene insieme, in una struttura logica o percettiva, un gruppo di elementi? Un fattore principale nella percezione di ordine è data da regolarità sottostanti la struttura ordinata. Principi organizzativi sul piano visivo (e anche uditivo) possono essere, per esempio, le leggi di segmentazione del campo studiati dalla psicologia della Gestalt. Anche la simmetria è un fattore che introduce regolarità all’interno di strutture, ed è quindi un fattore che crea ordine. La complessità nell’arte concettuale sta nel rapporto stesso tra pensiero e contenuto che precede l’esecuzione dell’opera stessa. È il pensiero che diviene centrale, a discapito del prodotto stesso che è soltanto la manifestazione del pensiero, il segno che testimonia il concetto. Quel segno però è necessario, altrimenti non ci sarebbe l’opera d’arte. Nell'arte concettuale il titolo dell'opera diventa spesso una componente fondamentale. È il titolo che in qualche modo porta alla luce il significato recondito dell’opera, che altrimenti potrebbe anche passare del tutto inosservato. E = O•C Questa formula è in grado di spiegare la complessità dell’operazione artistica dell’epoca contemporanea? Bastano ordine e complessità per spiegare l’esperienza estetica dinanzi all’arte contemporanea? Spesso nell'arte contemporanea alla novità e all'ambiguità è stato aggiunto il sensazionalismo, con lo scopo di provocare e scandalizzare il fruitore. Vedere configurazioni: semplicità e complessità L’esito percettivo di un campo di stimolazione, quale potrebbe essere un’opera d’arte visiva, dipende dal modo in cui il sistema visivo organizza gli stimoli in entrata in configurazioni dotate di senso. La bontà degli esiti percettivi dipende da un fondamentale isomorfismo tra la macrostruttura fisica che genera la stimolazione sensoriale e la struttura della resa fenomenica (cioè quella effettivamente percepita). Questo isomorfismo (somiglianza a livello morfologico) riguarda aspetti fondamentali quali per esempio la forma, la disposizione degli elementi costituenti configurazioni complesse, le dislocazioni spaziali, le articolazioni spaziali, ecc. Questo riguarda la percezione in generale. La bontà dell’operato del sistema visivo pare essere garantito da un principio del minimo che regola non solo la modulazione e l’interazione dei principi di segmentazione del campo, ma anche che opererebbe di modo che la struttura visiva emergente (quello che si vede) risulti essere tanto più semplice quanto le condizioni date lo consentono. In quale relazione stanno il principio del minimo e la semplicità? È considerato semplice quello che si capisce. Da ciò si potrebbe concludere che la semplicità è definibile soggettivamente, ma qui si sbaglia. Questo modo di concepire la semplicità ha però dei limiti. Per comprendere i limiti pensiamo alla definizione intuitiva spesso data all’arte astratta (e in quanto tale non semplice, ovvero complessa): è astratta quell’arte il cui contenuto figurativo non risulta comprensibile. Si arriva al paradosso che Picasso viene definito come artista astratto e Dalì come artista figurativo. Ci sono criteri oggettivi in grado di definire la “semplicità”? John Maeda, artista visivo, grafico, designer, ha scritto un agile libretto in cui elenca e spiega 10 leggi della semplicità che possono essere applicate alla progettazione, alla tecnologia, agli affari e alla vita. 1) Riduci: il modo migliore per ottenere la semplicità è mediante una riduzione ponderata. 2) Organizza: l’organizzazione semplifica l’immagine di un sistema. Smartphone con icone che permettono di fare delle cose e pulsanti e sensori. Tutto questo complesso è un’immagine di sistema. 3) Tempo: il risparmio di tempo appare come un guadagno in semplicità. Se per far funzionare qualcosa bisogna leggere 200 pagine di manuale, quella cosa appare complessa. Se si riesce a attivare senza dover leggere niente, appare molto semplice e gratificante. 4) Apprendi: la conoscenza rende tutto molto più semplice. A volte è necessario leggere il manuale, per sfruttare a fondo alcune operatività possibile bisogna apprendere. 5) Differenze: semplicità e complessità sono necessari l’uno all’altro. Importante per l’arte. 6) Contesto: ciò che sta alla periferia della semplicità non è affatto periferico. La semplicità è una situazione contestuale. 7) Emozioni: più emozioni sono meglio di poche emozioni. Riguarda le nuove tendenze del design dove si vuole creare un desiderio e attaccamento affettivo attraverso la configurazione degli oggetti. 8) Trust: ci fidiamo della semplicità. 9) Fallimento: alcune cose non possono essere rese semplici. 10) Vera Legge della semplicità: sottrarre l’ovvio e aggiungere significato. Principio interessante considerando l’arte a noi contemporanea, dove spesso si sottrae l’ovvio ma per aggiungere un significato nuovo alle cose. Ad esempio, nell’orinatoio di Duchamp, l’ovvio sta nell’oggetto stesso. Si è sottratto l’ovvio dandogli un nome, un titolo diverso, Fontana. In quel modo si è aggiunto un significato nuovo. I principi di segmentazione del campo visivo ed il modo in cui essi interagiscono tra loro sono in accordo con la prima legge della semplicità: una riduzione degli elementi a favore di una coesione delle parti costituenti una struttura. Nel primo caso si possono vedere dei “cilindri”, nel secondo è più facile vedere le linee raggruppate per colore. Alcune figure appaiono più complesse perché c’è in gioco il fattore della dinamicità. Alcune cose a livello visivo appaiono stabili, altre poco stabili. Le cose poco stabili hanno quindi un aspetto molto dinamico. La semplicità di una figura non dipende tanto dal numero degli elementi costituenti, bensì dal numero delle caratteristiche strutturali presenti, cioè del rapporto tra il tutto e le sue parti in relazione al contesto entro cui sono osservate. La semplicità visiva è diversa da quella cognitiva. Dal punto di vista cognitivo una figura piana è molto più semplice di una tridimensionale. Eppure, questi disegni a tratto si dovrebbero tutti e tre poter vedere come figure piatte. In realtà riusciamo a vedere come figura piatta solo la prima a sinistra, gli altri due ci appaiono come solidi fatti di fil di ferro, delle figure tridimensionali. Perché per il sistema visivo risulta più semplice far vedere una struttura tridimensionale che è coerente. Il sistema visivo è sintonizzato sulla terza dimensione: la soluzione tridimensionale è favorita quando tale esito semplifica la struttura dell’oggetto visivo. Gli psicologi di indirizzo gestaltista chiamano il principio del minimo pregnanza e affermano che il campo visivo viene segmentato in funzione di una massima omogeneità e una minima eterogeneità. Di modo che le parti si appartengano tra di loro e le differenze tra le arti siano ridotte, che la struttura abbai nel complesso un’armonia. Quando consideriamo strutture più complesse, quali sono per esempio le opere d’arte, entrano in gioco dinamiche e tensioni visive che possono semplificare o complicare la scena visiva. La lode alla semplicità emerge soprattutto nell’ambiente del design, della tecnologia (usabilità) e dell’economia. La semplicità è una categoria fondante della ricerca artistica? Se sì, in quali termini? Le arti mirano forse ad una semplicità relativa più che ad una semplicità assoluta. Secondo Arnheim, la semplicità relativa implica economia e ordine. Cioè un principio del minimo e un principio ordinatore. In un certo qual senso, anche le scienze applicano il principio del minimo: di solito si predilige l’ipotesi più semplice (quello con meno eccezioni) alla spiegazione di un fatto. In linea generale, un’ipotesi è più semplice di un’altra in base al numero di elementi primari che la compongono. Ha forse senso parlare di un principio del minimo anche in arte: l’artista non deve andare oltre a quanto è necessario per lo scopo che vuole raggiungere. In altre parole, un’opera d’arte non deve essere più complessa di quanto necessario alla rappresentazione del proprio contenuto. Ecco dunque il terreno della sfida su cui si gioca il valore intrinseco di un’opera d'arte: una giusta compenetrazione di semplicità e complessità. Le grandi opere d’arte sono complesse, eppure sono lodate per la loro semplicità. Il dosaggio di questi aspetti avviene mediante il principio dell’ordine. Noi riusciamo a comprendere qualche cosa perché questa cosa ci appare con una struttura ordinata in un certo modo. È la struttura quello che ci porta il messaggio, ci rende possibile la fruizione del messaggio. “Elementi semplici in se stessi possono (…) venir disposti in modo da costruire un “tutto” assai complicato; e tali scelte compositive possono a loro volta essere unificate da un ordine semplificatore.” Arnheim Nel dipinto di Klee (Giardino di Rose), gli elementi semplici sono rettangoli, triangoli, losanghe, ecc. L’ordine semplificatore è dato da una griglia principale di disposizioni verticali, e una griglia secondaria di linee tendenti all'orizzontale. Infine, la scelta cromatica è molto ristretta. È un quadro strutturalmente complesso perché ci sono molte parti che lo compongono ma ci sono degli elementi che danno un ordine e un senso, questa tensione verso il verticale e l’orizzontale e l’accurata scelta cromatica che tiene tutto unito insieme. Gli oggetti d’uso comune hanno una funzione, e la loro semplicità non si riferisce solo al loro aspetto ma alla corrispondenza tra l’immagine del sistema (ciò che noi attraverso la vista riusciamo a capire a livello operativo, come possiamo far funzionare quella cosa) e l’operabilità del sistema che ne garantiscono l’usabilità e quindi una user experience positiva. “Nel linguaggio, la frase che con la sua complessa struttura verbale corrisponde esattamente alla complessa struttura del pensiero che deve esprimere è di una invidiabile semplicità, mentre qualsiasi discrepanza tra forma e significato interferisce con la semplicità.” Arnheim Gli oggetti artistici hanno tutti un significato: figurativo o astratto, l’opera d’arte è un’asserzione. Anche le opere d’arte senza titolo hanno un loro senso e significato. Il problema della semplicità si annida tra la forma e il significato dell’opera. La discrepanza tra forme semplici e significati complessi può generare opere molto complesse. Tale complessità non è però necessariamente negativa in arte. Anzi, è spesso la calamita che attira l’attenzione del fruitore. Ambiguità e semplificazione Che cosa ci ricordiamo dopo aver osservato e studiato una configurazione complessa? È probabile che il sistema cognitivo, nella codifica in memoria, semplifichi la configurazione in modo tale da massimizzare o l’omogeneità strutturale (simmetria, regolarità: livellamento), oppure l’eterogeneità (asimmetria, disomogeneità: accentuazione). Una tendenza alla massima omogeneità può essere un metodo per economizzare la trascrizione nella memoria di immagini geometriche e di caratteristiche ambientali, per cui si può ipotizzare che la regolarità dello spazio permette di semplificare i rapporti tra gli oggetti ivi collocati e gli oggetti e lo spazio stesso. La tendenza invece alla massima eterogeneità, o meglio alla accentuazione di caratteristiche distintive può invece risultare più conveniente quando si devono immagazzinare immagini altamente significative sotto il profilo della vita sociale ed emotiva. La caricatura, mentre nessuno dei personaggi assomiglia alla caricatura, tutte le caricature assomigliano ai propri personaggi. Cogliendo alcune caratteristiche strutturali dei visi ed esagerandole, si riesce a permettere l’identificazione del personaggio ma anche a introdurne una visione psicologica. Semplicità e segmentazione. Il sistema visivo cerca sempre la soluzione più semplice nell’operare la segmentazione tra forme monocromatiche. “Il tutto è più della somma delle sue parti” Questa affermazione può indurre in inganno: molti infatti intendono che una unità percettiva è data dalla somma delle sue parti + un qualche cosa di misterioso. In realtà il motto gestaltista indica che esiste un rapporto molto stretto tra il tutto e le sue parti: l’aspetto del tutto influenza il modo in cui le parti appaiono, e l’aspetto del tutto è a sua volta influenzato dalla conformazione delle parti. Non è semplicemente la somma delle parti più qualcosa di magico, significa che c’è una compenetrazione di influenza tra il tutto e le parti. Sicché entrambi queste qualità, il tutto e le parti, si auto modulano. Provate ad immaginare cosa significhi questo sul piano creativo (compito del poeta, pittore, scrittore, musicista… nell’atto creativo): ogni volta che si aggiungono o si tolgono elementi da un’opera in fieri l’artista, almeno a livello di possibilità sul piano teorico, si ritrova con un’opera “diversa”. Chi ha avuto la possibilità di assistere ad atti creativi (cioè alla lavorazione di un’opera non ancora compiuta) si sarà chiesto come mai l’artista non si ferma a un certo punto, ma prosegua nella lavorazione o perché si ferma a un certo punto. È evidente che l’artista guarda l’opera in fieri (mentre la sta eseguendo) con occhi diversi dai nostri. Ha un obiettivo da raggiungere, e l’interazione “tutto-parti” assume per lui un aspetto diverso. Diviene quindi interessante soffermarsi sulla definizione di “parte”. Una parte non è una suddivisione arbitraria di una struttura. Una parte intesa come elemento strutturale è un qualche cosa che ha caratteristiche figurali sue proprie. Un viso umano, per esempio, è composto da molte parti, tra cui guancia, mento, fronte, eppure queste “parti”, sebbene abbiano un nome, sono di riempimento, non hanno una conformazione oggettuale precisa che li rende immediatamente riconoscibili. Gli egiziani hanno usato l’occhio nei loro ideogrammi, perché l’occhio visto frontalmente ha una forma particolare e ha una caratteristica sua oggettuale. Gogol ha scritto un capolavoro satirico creando un personaggio sfrontato, ovvero il Naso di un assessore che se ne andava a spasso per conto suo. Un naso che va a spasso per conto suo è possibile perché il naso ha un aspetto molto distintivo, una caratteristica oggettuale. Ti prendo per il naso. Le labbra diventano divani; le gote, invece, al massimo possono arrossire, non avendo in sé caratteristiche "oggettuali". Uno scheletro ha una “qualità di compiutezza” che si oppone ad aggiunte od omissioni, mentre le singole ossa hanno solo un certo grado di compiutezza in quanto le loro forme implicano la congiunzione con altre ossa. Alcune di queste ossa appaiono più compiute delle altre (Amleto non terrebbe in mano un femore. Il teschio simboleggia la morte ma anche un altro osso potrebbe farlo. Ma il teschio è la sede della mente umana, dell’organo regolatore di tutto il corpo e è tutta la testa che è significativa). Altra parte che ha una caratteristica oggettuale sua indipendente è la mano. È differente dal piede, anche il piede lo avrebbe ma non le ossa, un grado minore rispetto al piede in carne e ossa. Le leggi del tutto Nel 1923, lo psicologo gestaltista Wertheimer individuò le leggi di segmentazione (o di unificazione/organizzazione) del campo visivo. Oltre venti anni più tardi Cesare Musatti argomentò che i principi individuati da Wertheimer possono essere ridotti ad uno solo, il principio di omogeneità. Arnheim descrive il principio di omogeneità di Musatti in termini di un principio di somiglianza, nel senso che tutti i fattori e i principi isolati da Wertheimer, per esempio la buona continuazione, possono essere descritti in termini di una somiglianza, che nel caso della buona continuazione sarebbe di direzione. In verità questo tentativo appare un po’ semplicistico, mi pare che il principio di omogeneità di Musatti implichi molto più della sola somiglianza. nel caso della buona continuazione, ad esempio, non c’è una continuazione di direzione, non è semicamente una somiglianza in quel senso, il principio agisce in un modo diverso. Non rende giustizia neanche all’idea di omogeneità espressa da Musatti. Per certi versi questo principio di omogeneità assomiglia al principio di pregnanza, che sarebbe quel principio sovraordinato che controlla l’esito dei raggruppamenti compiuti con i principi di somiglianza, vicinanza, ecc. M= Um (Ue) (Cm,e) M = grado di bellezza (intesa come esperienza estetica); Um = grado di non ambiguità dei mezzi; Ue = grado di non ambiguità dell’effetto; Cm,e = contrasto tra effetto e mezzi. Mediante questa formula viene calcolato il grado di bellezza teorico di 37 poligoni di Birkhoff. Ni valori ottenuti risultano altamente correlati con i giudizi di gradimento estetico dati da altri soggetti. Risulta che le verifiche e le misure ricavate dalle procedure e dalle ricerche dell’estetica sperimentale hanno molto a che fare con i processi e i meccanismi psicologici, ma hanno poco a che fare con l’arte, soprattutto con l’arte contemporanea. Siamo nel 1984 quindi sono autori che stanno parlando dell’esperienza estetica non tanto dell’arte del passato ma dell’arte a loro contemporanea. Dagli anni 80 in poi ha mirato proprio a creare un forte sconcerto nel fruitore. La definizione di Boselie e Leeuwenberg ha una forte assonanza con la teoria sull’arte sviluppata dallo psicologo sovietico Lev Semёnovič novič Vygotsky (1896-1934), basato sul rapporto dialettico tra Materiale e Forma. Secondo Boselie e Leeuwenberg, un oggetto produrrà un’impressione di bellezza quando è cognitivamente rappresentato come portatore di due qualità, che, in accordo con le conoscenze incorporate nel nostro sistema rappresentativo, sono fra loro incompatibili. Una tale sensazione di sorpresa si produrrà solo quando le qualità ritenute incompatibili sono rappresentate in modo chiaro e non ambiguo. (1984, p.368). “Non ho studiato una favola o una tragedia, tanto meno la favola e la tragedia in particolare. Ho studiato tramite queste opere le valenze universali dell’artisticità, - la natura e il meccanismo della risposta estetica. Mi sono basato sugli elementi comuni di forma e di materiale, che sono inerenti a tutta l'arte (…). Il capitolo "Analisi della risposta estetica" indica che lo scopo dello studio non è un'esposizione sistematica della teoria psicologica dell'arte nella sua totalità e nella larghezza di contenuti, ma esattamente l’analisi dei processi nella loro essenza.” L. S. Vygotskij Parla dell’arte ma trae osservazioni sulla letteratura, ma possono essere trasposte anche all’arte pittorica, cinematografica… Il metodo dell’analisi oggettivo analitico “Bisogna tentare la prova di assumere a fondamento non l’autore, e non lo spettatore, ma l’opera d’arte in se stessa. È vero, sì, che quest’ultima, di per sé, non può essere in alcun modo oggetto della psicologia, e che la realtà psichica, come tale, in essa non è data (L’opera d’arte non può essere psicoanalizzata). Tuttavia, se ci rappresentiamo la posizione dello storico, che appunto allo stesso modo studia, ad esempio, la Rivoluzione francese su materiale in cui gli obiettivi stessi della sua indagine non sono dati e non sono impliciti, oppure quella del geologo, ci accorgiamo che sono numerosissime le discipline che si trovano nella necessità di ricostruire in anticipo quel che è l’oggetto della loro indagine, facendo ricorso a metodi indiretti, vale a dire analitici”. Materiale e forma come due componenti essenziale dell’opera d’arte “Le due componenti essenziale che ci troviamo di fronte, nell’analisi della struttura d’un qualsiasi racconto, si possono definire come materiale e forma del racconto stesso. Per materiale conviene intendere tutto ciò che il poeta ha preso già pronto (nel caso dello scultore la materia): situazione della vita quotidiana, storie, casi, cornice ambientale, caratteri: tutto ciò, insomma, che esisteva già anteriormente al racconto, e che può sussistere al di fuori e indipendentemente da questo, perché lo si traduca, in modo intelligente e connesso, in parole proprie. Alla disposizione, poi, di tale materiale secondo le norme della costruzione artistica, si conviene nel senso esatto del termine, il nome di forma dell’opera”. “Se vorremo sapere in quale direzione si sia mossa l’attività artistica del poeta (o dell’artista in generale), che si è espressa nella creazione del racconto, dovremo ricercare con quale procedimento e con quali obiettivi il materiale esposto nel racconto è stato dal poeta rielaborato e informato a quel soggetto poetico”. Il giornalismo non può essere inteso come arte perché un fatto può essere raccontato in diversi modi, ma non è artisticità l’artisticità sta nel fatto che la struttura con cui si racconta il fatto fa sì che emerga altro oltre il fatto stesso. La contraddizione tra forma artistica e materiale come caratteristica fondante della creazione artistica “…nell’ opera d’arte vi sia sempre riposta una certa contraddizione, una certa intima discordanza tra materiale e forma, e che l’autore scelga apposta (si direbbe) del materiale difficile, refrattario, tale che, con le sue stesse caratteristiche, opponga contrasto a tutti i tentativi che egli fa di esprimere quel che vuole esprimere. E quanto più difficile dominare, quanto più ostinato e ostile è quel material, tanto più sembra risultare utile per l’autore”. (p. 226) “… qualsiasi opera d’arte cela in se un intimo disaccordo tra contenuto e forma e che proprio con la forma l’artisticità raggiunge quell’effetto, per cui il contenuto viene ad essere annullato, quasi estinto” C’è un intento narrativo, un fatto che deve essere ad esempio in letteratura raccontato. Ma la forma con cui quel contenuto dovrebbe essere espresso fa sì che quel contenuto si sciolga nella forma e non diventi più l’elemento importante dell’opera. È difficile da comprendere perché si pensa che l’arte deve comunicare qualche cosa. Si, deve lasciare una certa impressione del fruitore, è essenziale. Ma il contenuto di quello che comunica, cioè ciò che l’artista voleva comunicare ha poca importanza. È importante ciò che la struttura riesce a dare al fruitore. È questa l’esperienza estetico-artistica, l’emozione estetico-artistica. Dove va a toccare corde che sono sia affettive sia intellettuali, cognitive. Le linee seguite dai tre approcci più importanti della psicologia dell’arte consentono di trarre alcune conclusioni: a. L’estetica sperimentale lascia un senso di inadeguatezza metodologica, a fronte della complessità del problema cui i suoi scarsi risultati avrebbero dovuto, o dovrebbero, fornire una risposta. b. Freud ha cercato nell’arte delle conferme al presupposto che le forze motrici che la attivano sono gli stessi conflitti che spingono altri individui alla nevrosi. Per fare ciò ha utilizzato le opere d’arte alla stregua di sogno o di lapsus, con cui inferire tratti della personalità dell’artista. c. Arnheim, titolare di una teoria forte e convincente sulla percezione, è andato a verificare come le opere d’arte visiva confermassero e adeguatamente rispecchiassero quella teoria. Tutti hanno trovato le conferme che cercavano. Non hanno preso in considerazione, se non di sfuggita, le modalità con cui dovrebbe essere affrontato il problema arte dalla psicologia. All’interno della psicologia sono emerse, sulla base delle constatazioni e dei limiti fin qui considerati, delle riserve sulla possibilità che si possa dare una psicologia dell’arte. Crozier e Chapman hanno sostenuto che ci sono due ragioni di insoddisfazione nei riguardi di quanto è stato fatto finora. La prima condivide il pessimismo circa il valore euristico dell’approccio psicologico all’arte, soprattutto perché il metodo scientifico e le grossolane categorizzazioni della psicologia non sarebbero appropriati per lo studio di molti processi che sono alla base della percezione dell’arte. La seconda è che la psicologia, nel suo primo secolo di vita, si è presentata come una disciplina composita, caratterizzata dalla presenza di numerose scuole sempre in polemica fra loro, per cui molti fenomeni artistici sono stati esaminati selettivamente e assimilati alle teorie che venivano evocate per interpretarli. La conseguenza è una segmentazione che ha inibito investigazioni più ampie e sistematiche. È derivato un approccio all’arte superficiale e frammentario per cui i contributi della psicologia dell’arte rivelano molto di più il lavoro dell’investigazione psicologica di quanto non contribuiscano a chiarire il fenomeno dell’arte. Ipotizzando che una psicologia dell’arte sia possibile, un posto non secondario dovrebbe essere destinato al controllo e alla discussione di ciò che sta avvenendo nel mondo dell’arte. Bisognerebbe considerare le spinte psicologiche che sono alla base delle metamorfosi in cui una tela e un colore si trasformano in un’opera d’arte dal valore economico rilevante. Il valore aggiunto è dato solo dal lavoro dell’artista? Quando si danno le condizioni che consentono una possibile trasformazione di una materia qualsiasi in oro, allora il denaro e il mercato si mobilitano per controllare il fenomeno e farlo diventare oggetto di speculazione. Questo gioco quando riguarda l’arte ha di solito un centro geografico mondiale, oggi New York. Un tempo, quanto più era alto il livello artistico di un’opera, misurato se si vuole dalla richiesta, tanto più era alto il suo valore economico. Oggi invece, quanto più è alta la quotazione commerciale di un’opera, tanto più alto viene considerato il suo valore artistico, indipendentemente dalla richiesta. Se quello dell’arte è un terreno di scontro di interessi di mercato, non vuole però dire che non si tratta più di arte. La psicologia dell’arte non può far finta che il fatto non la riguardi, ritenendo che solo le opere già “santificate” siano di sua competenza. La sorpresa, la provocazione, il disgusto mescolato alla paura hanno un ruolo sempre più importante nell’orientare le scelte di mercato. Capire come funzionino questi meccanismi è anche compito della psicologia dell’arte. Visitando alcune rassegne contemporanee emerge a. Le arti visive hanno imboccato un cammino in cui le connessioni con le altre forme d’arte sono diventate molto labili e occasionali. b. Nelle arti visive, più che nelle altre modalità artistiche, si è assistito a una rottura radicale con tutte le regole, le norme, i materiali, le procedure, le modalità di osservazione che sono state alla base della pittura e della scultura a partire dalla preistoria e fino all’impressionismo. Fino all’impressionismo e all’invenzione della fotografia il compito delle arti visive era raffigurare gli oggetti e le scene così come si presentano a chi osserva il mondo. L’abbandono, o il superamento, della verosimiglianza ha avuto un effetto a valanga di tale potata da modificare tutta l’orografia del territorio delle arti visive. c. Si è giunti all’impossibilità di stabilire fuori del contesto degli ambienti artistici se qualcosa, un oggetto, una presenza, un evento, sono il risultato di una ricerca artistica. L’opera, senza il contesto, non elicita da sola l’innescarsi di un processo estetico. È la decisione dell’autore di attribuire, rinominandolo, un nuovo significato a un oggetto che ne possiede già uno, a produrre il nuovo oggetto artistico. d. C’è una difficoltà estrema o probabile impossibilità di costruire una tassonomia dei modi e dei filoni entro cui ordinare e suddividere il grande ventaglio di proposte e di tentativi che vengono avanzati oggi dai ricercatori che operano nell’ambito delle arti visive. e. Con l’inizio del nostro secolo il ritmo lento del succedersi degli stili è diventato più sincopato, in quanto molte correnti, anche radicalmente diverse, si sono trovate a operare contemporaneamente, a volte in polemica altre volte in accordo tra loro, ma ben separate e chiaramente individuabili per quanto riguarda le teorie, gli obiettivi, i metodi di lavoro e le opere. Oggi tale separazione è venuta meno e si è instaurato quel regime di promiscuità un po’ confusa che emerge con grande evidenza quando si visita una grande esposizione. Molte delle analisi e dei risultati a cui si giunge prendendo in considerazione aspetti dell’arte classica si infrangono con l’arte contemporanea. L’alternativa è o negare l’esistenza dell’arte contemporanea, come ha fatto Freud; o accettarne l’esistenza, a patto di rinunciare alle semplificazioni e alle generalizzazioni, ed è quello cha ha fatto Arnheim. Ma Arnheim lascia supporre che la soluzione dei problemi avvenga automaticamente, una volta che essi sono stati correttamente posti. L’estetica sperimentale misura invece il piacere sulla base di due presupposti non dimostrati, uno che l’arte generi piacere, e l’altro che le variazioni nell’intensità del piacere siano variazioni del livello estetico dell’opera. L’arte contemporanea fa di tutto per coniugare opera e sofferenza. Se ‘arte avesse uno scopo, e se lo scopo fosse la comunicazione, non sarebbe importante tener conto delle categorie di bello e piacere. Un’arte collegata alla comunicazione riconoscerebbe con entusiasmo tutto il contributo dell’arte classica, ma non escluderebbe niente neppure dell’arte contemporanea, perhcè comunicare vuol dire dare spazio ai contrari, alla comprensione e incomprensione, al malinteso e chiarimento, all’indignazione e al plauso, all’accettazione e al rifiuto… Lezione 7 – NEUROESTETICA SECONDO SEMIR ZEKI Semir Zeki è il padre fondatore della neuroestetica. Statement on neuroesthetics Zeki si chiede cosa sia l’arte, perché è una presenza così cospicua in tutte le società e perché le diamo così tanto valore. L’argomento è stato discusso a lungo senza giungere ad alcuna conclusione soddisfacente. Questo non deve sorprendere. Simili discussioni sono solitamente condotte senza alcun riferimento al cervello, attraverso il quale tutta l’arte è create, eseguita e apprezzata. L’arte è un’attività umana e, come tutte le attività umane, incluse la moralità, la legge e la religione, dipende da e obbedisce alle leggi del cervello. Siamo ancora lontani dal conoscere le basi neurali di queste leggi, ma avanzamenti spettacolari nella conoscenza del cervello visivo ci permettono di iniziare un campo di ricerca relativo alle basi neurali dell’arte visiva. Zeki ha iniziato le neuromode. Dopo la neuroestetuca la neuroeconomia, la neuroteologia… Le tesi qui presentate sono tratte dal primo capitolo del libro di Semir Zeki, La visione dall'interno. Arte e cervello Tesi #1 Per comprendere il fenomeno “arte” bisogna conoscere il funzionamento del cervello, perché come qualsiasi altra attività umana, anche l’arte dipende da - e obbedisce a - le leggi del cervello. La tesi è forte e su alcuni punti è indubbiamente inattaccabile. Per esempio, ad ogni attività umana corrisponde una serie di correlati neurali. L’arte, essendo un’attività, sia nella sua creazione, sia nella sua fruizione è governata dal modo in cui funziona il cervello. Conoscere le leggi del cervello può quindi indubbiamente aiutare a comprendere il fenomeno “arte”. Il problema però è comprendere se l’identificazione dei correlati neurali esaurisce la spiegazione di un qualsiasi fenomeno cognitivo. È il problema mente-corpo: la mente si dissolve interamente nel cervello (corpo)? Cioè: per comprendere come funziona la mente (la psiche) è sufficiente conoscere come funziona il cervello? Il comportamento umano modula la plasticità della rete neurale, e il comportamento è a sua volta governato dal cervello, sulla base però dell’interpretazione dei dati in ingresso che è operazione mentale, compiuto tramite il cervello. È un loop. È il discorso hardware-software. È evidente che il software non serve a niente se non c’è l’hardware che lo fa funzionare. Ma è altrettanto evidente che c’è un programma, un software, un codice, che sia genetico o quant’altro che fa sì che l’hardware funzioni in un certo modo e permetta di fare certe operazioni. Tesi #2 Arte e cervello hanno una funzione comune: acquisizione di conoscenza. La funzione dell’arte è dunque un’estensione della funzione del cervello. È un punto fondamentale di Zeki, su cui insiste molto nel suo libro. Spiega che l’arte serve per acquisire conoscenza, esattamente come fa il cervello, quindi è un’estensione della funzione del cervello. Questa tesi pone 2 problemi su cui vale la pena riflettere: 1) La funzione dell’arte è in modo inequivocabile sempre quello di acquisire conoscenza? Tutte le arti hanno come scopo ultimo incrementare la conoscenza dell’uomo? 2) Che tipo di conoscenza può essere fornita dall’arte? Cosa ha in comune e quanto è diversa questa conoscenza da quella fornita dalla ricerca scientifica? Magritte – l’inganno delle immagini (Ceci n’est pas une pipe). Opera filosofica, concettuale. È chiaro che sta fornendo l’informazione che questa non è una pipa. Ma nello stesso tempo, la conoscenza che offre va ben oltre l’apprendimento percettivo che si può derivare dall’opera. La funzione dell’arte è piuttosto variegata e fluida. Una delle funzioni di cui poco si parla è che l’arte “intrattiene”, dona piacere al fruitore. Un piacere del tutto intellettuale. Lezione 8 – ORIGINI DELL’ARTE Come nasce l’arte? Quando inizia? Quando l’uomo sente questo desiderio di rappresentare qualcosa? Arte come re-interpretazione Ogni prodotto artistico ha sempre un corpo materiale. Quando guardiamo risultati artistici, la materia di cui sono costituiti non esiste più come entità autonome, è diventata un’altra cosa. Di fatto reinterpretiamo la materia in funzione della forma che ha assunto. Questa capacità specialmente umana di vedere in una cosa l’aspetto e le fattezze di un’altra anche se il materiale di cui è costituita è tutt’affatto diverso, sta all’origine della produzione artistica, ed è probabilmente questo ciò che i greci chiamavano mimesis. Si può ritenere che l’arte sia nata quando l’uomo ha cominciato a utilizzare esplicitamente la facoltà di reinterpretare la natura. Il problema delle origini dell’arte è già posto dai grandi del rinascimento. Una risposta la offre Leon Battista Alberti con un concetto che lui chiama immagini somiglianti. Leon Battista Alberti e le immagini somiglianti. Le arti di coloro che cercarono di tradurre nell’opera propria figure ed immagini somiglianti a corpi generati dalla natura, penso che abbiano avuto questa origine. Essi forse qualche volta videro in un tronco o in una zolla o in altre cose inanimate di tal genere alcuni tratti che, con pochi cambiamenti, potevano rappresentare qualcosa di molto simile agli aspetti reali della natura. Allora, rendendosene conto ed esaminandoli, diligentemente cominciarono a fare dei tentativi, se mai potessero aggiungervi o togliervi qualcosa e darvi quei tocchi finali che parevano mancare per cogliere ed esprimere completamente il vero aspetto di un’immagine. Così, correggendovi e rifinendovi linee e superfici secondo i suggerimenti della cosa stessa, raggiunsero il loro proposito, di certo non senza piacere. (Aspetto importante sottolineato, anche il piacere di creare arte.) Né meraviglia che, movendo di qui, l’applicazione e lo studio umani s’esercitassero di giorno in giorno nell’esprimere somiglianze fino al punto che, anche quando nella materia a disposizione non scorgevano alcun aiuto di somiglianze allo stato di abbozzo, poterono ugualmente ricavarne la figura che volevano. Leon Battista Alberti, De Scultura, 1450 Arrivati a un certo punto di sperimentazione si capisce che si può usare la materia per creare rappresentazioni che rappresentino ciò che si desidera mettere in mostra. La teoria che circolava da secoli sull’origine delle immagini raccontava che Nino, re degli Assiri alla morte del padre Belo ne aveva fatto fare un ritratto che i sudditi dovevano adorare. Vasari accenna ancora a questa storia. Alberti si distacca dalle giustificazioni mitiche e le sostituisce con una teoria di carattere cognitivo, che gli studi recenti sull’arte preistorica sembrano confermare. L’utilizzazione sistematica delle asperità naturali nell’arte preistorica è costante, anche se assume aspetti diversi. nelle fasi antiche la suggestione è soprattutto fisica e si limita a richiamare la figura di un singolo animale. Nelle fasi più recenti la suggestione sarà globale, si riferirà a degli insiemi. Opere della cave art, opere rupestri tratte dalle grotte. Mettono in mostra l’ipotesi di Leon Battista Alberti. Protuberanze sul muro che poi sono state colorate, a cui sono stati aggiunti dei particolari che hanno permesso di rappresentare gli animali, suggerire la presenza degli animali di cui era popolata la terra all’epoca e che costituivano il nutrimento. Non si può sapere perché venivano rappresentati. Poteva essere per fini ritualistici, per rappresentare una caccia… Alberti si sofferma sul fatto che pochi cambiamenti bastano a trasformare una forma inanimata e imprecisa nella rappresentazione di aspetti reali della natura. Una procedura che, abbandonata dall’arte occidentale, è stata coltivata dall’arte cinese e giapponese. Macchie causali di inchiostro, inserite in un contesto opportuno, oppure con l’aggiunta di qualche particolare, diventano non solo la raffigurazione di piante e animali, ma soprattutto la rappresentazione della transitorietà. L’idea di verosimiglianza coltivata dalla pittura dell’estremo oriente è radicalmente diversa da quella occidentale, tutta irata alla resa minuziosa dei particolari. Si scivola così nell’ovvia conclusione che per il bello ci sono tanti modi di dar conto di una stessa verità. Un passo di Leonardo da Vinci sull’insegnamento fornito a giovani artisti. Lastra di pietra paesina Se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di varie macchie o pietre di vari misti, se avrai a invecionare qualche sito, potrai lì vedere similitudini di diversi paesi, ornati di montagne, fiumi, sassi, alberi, pianure, grandi valli e colli in diversi modi; ancora vi potrai vedere diverse battaglie, e atti pronti di figure, strane arie di volti e abiti e infinite cose, le quali tu potrai ridurre integra e bona forma. Leonardo Da Vinci, 1942 (tratto da Baltrusaitis, Aberrazioni, 1983) Sta in qualche modo riprendendo l’ipotesi di Alberti ma con una prospettiva diversa, cioè come insegnamento a giovani artisti. Se vuoi copiare dei paesaggi, osserva ciò che c’è intorno a te, le macchie sui muri, cosa riconosci? Riconoscere in un certo modo significa già disegnarlo con gli occhi, questa è l’ipotesi di Leonardo. Pareidolia “simile – immagine” La pareidolia è definita in diversi modi: come “un processo automatico della mente”, “una tendenza subconscia”, “un’illusione subconscia”, una tendenza soggettiva, ecc. Sono le cosiddette immagini somiglianti, ovvero la capacità di riconoscere in configurazioni delle caratteristiche figurali In pratica si tratta di un fenomeno normale e automatico di organizzazione del campo visivo . – scissione fenomenica figura-sfondo, leggi di organizzazione gestaltiche, comparazione con templates (cioè macro modelli di entità percettive rilevanti, come la faccia umana) – che dà luogo alla percezione di raffigurazioni di oggetti, cui è aggiunta una volontà associativa-riconoscitiva conscia e proiettiva, quindi sono immagini somiglianti con qualcos’altro, con un’aggiunta, che attribuisce un significato particolare alla rappresentazione riconosciuta e che può essere regolata da diversi fattori psicologici: emozioni (es. paura, desiderio), bisogni trascendentali (fede religiosa), autointrattenimento., cioè la volontà di riconoscere ad esempio nelle nuove forme particolari. Se l'immagine somigliante è all'origine dell'arte, come argomenta l'Alberti, la pareidolia è un derivato dell'immagine somigliante, in cui si vuole riconoscere, identificare o semplicemente vedere nella configurazione casuale dello stimolo un significato più profondo, una presenza, un segno. Anche quando lo stimolo è ambiguo, il sistema visivo, in automatico, cerca di organizzare i dati in modo da segregare potenziali figure (entità fenomeniche rilevanti) dallo spazio circostante (lo sfondo, il “contenitore” in cui si trovano ad agire le entità, e che ha proprietà tali da definire le relazioni spaziali intercorrenti l’osservatore e le entità fenomeniche). Reinterpretazione Sembra proprio che le cose all’inizio dell’arte siano andate come Leon Battista Alberti aveva immaginato. Finke è interessato alla capacità delle persone di manipolare mentalmente immagini di oggetti o di forme non attualmente sotto osservazione. Il risultato di tali operazioni è definito da Finke reinterpretazione. Il significato che attribuiamo al termine reinterpretazione è alla base dell’attività cognitiva che Neisser definisce andare al di là dell’informazione data. Per Neisser si tratta di un processo automatico e di basso livello, per effetto del quale ciò che stiamo osservando muta e si riorganizza in modi diversi, come avviene nei casi di inversione tra figura e sfondo. Un processo analogo, ma riguardante il significato complessivo della figura, si verifica anche in configurazioni ambigue (paper-coniglio). L’opera d’arte è là, mescolata a tutte le cose che ci circondano, bisogna essere capaci di vederla. Se partiamo dal presupposto che ogni prodotto artistico sia il risultato di un qualche tipo di reinterpretazione, dobbiamo verificare se anche la condizione estrema costituita dai ready-made possa rientrarvi, almeno per analogia. È certo che il carattere provocatorio dell’atto artistico di Duchamp si basa sull’applicazione dei processi di reinterpretazione, allorché egli impone un oggetto della più normale quotidianità come epifania dell’opera d’arte. La rottura che egli opera consiste in un’ardita dislocazione di campo semantico: un oggetto definitivamente monosemico acquista un’ulteriore valenza semantica che va al di là della concretezza dell’oggetto. Esso si trasforma da oggetto-opera d’arte in arte senza oggetto, ovvero in opera-zione d’autore. Ma se lo scolabottiglie non smette di essere tale quando viene reinterpretato come opera d’arte, non lo diventano tutti gli scolabottiglie, ma solo quello firmato da Duchamp. L’idea è già consumata e non più trasferibile. Non esiste opera, corrente, artista, senza interpretazione, un’interpretazione che ha sempre più a che vedere col gioco di attribuire un’intenzionalità non sempre esplicita all’autore. Mentre numerose sono artisti, opere e correnti, pochi e potenti sono gli interpreti. Gli artisti giocano ormai solo il ruolo di materiale grezzo. Vengono utilizzati dai critici come veniva usato il blocco di marmo da uno scultore classico. Il gioco della reinterpretazione si complica: - C’è il materiale grezzo che esiste con un suo significato di livello zero. - Questo materiale viene interpretato dall’artista e diventa opera col significato di livello 1. - Il critico interpreta quell’opera (significato di livello 2) , ma anche le intenzioni dell’artista (livello 3) e, mettendoli insieme, raccontandoli in un suo discorso, decide di farli diventare arte (livello 4). Quando il gioco dell’arte diventa astratto, indipendente dalla verosimiglianza e dall’abilità esecutiva rispettosa di regole e di principi conosciuti e condivisi da tutti, in quel momento il ruolo del critico diventa determinante e necessario. Il critico diventa una sorta di artista di livello superiore, che usa il lavoro degli artisti di livello inferiore come materiale da manipolare. Sparisce la singolarità dell’opera concretamente determinata ed essa diventa genericamente lavoro, o anche capolavoro di una corrente. Ciascuna corrente viene assunta come una singola opera, il cui vero creatore è il critico che ‘ha promossa giustificandola teoricamente. Un modello largamente condiviso dell’attività percettiva ritiene che al suo funzionamento concorrano due processi: uno innescato dai dati registrati dagli organi sensoriali periferici, e uno innescato dai dati già depositati e organizzati nella nostra memoria in forma di concetti. La fase che possiamo chiamare sensoriale organizza i dati secondo le leggi gestaltiche. Questo prodotto semilavorato dell’attività percettiva di basso livello viene preso in carica di processi cognitivi di più alto livello (inferenza, ragionamento, giudizio, categorizzazione) e viene completato con l’attribuzione di un significato a ciò che stiamo osservando. Questo meccanismo funziona sulla base di due momenti caratteristici dell’attività cognitiva: 1 A fondamento dell’organizzazione delle nostre conoscenze vi sarebbe un sistema ordinatore basato in primo luogo sulla forma delle cose e poi anche sugli altri attributi. 2 I processi di raccolta delle informazioni sensoriali (dal basso) e di verifica del loro significato (dall’alto), in condizioni di osservazione prolungata, non si arrestano e proseguono nella verifica dei significati attribuiti e nel controllo della compatibilità dei dati sensoriali con altri significati possibili. Il nuovo risultato conoscitivo non annulla le conoscenze precedenti. Vedendo la testa di bisonte non si mette in dubbio che sia ancora un pezzo di roccia. La roccia può apparire come bisonte, ma il bisonte non può apparire come roccia. Nei casi di mimetismo può accadere che un animale appaia come qualcosa di diverso, anche un oggetto inanimato. Ma in questo caso non si tratta più di reinterpretazione, perché l’animale mimetizzato cessa fenomenicamente di essere qual animale per diventare solo la cosa che si vede, mentre la roccia non smette di apparire anche come roccia nel momento in cui viene vista come bisonte. Ogni reinterpretazione conserva dunque il significato della sua materialità interpretabile e il significato ulteriormente acquisito. Si può pensare il mondo delle cose esistenti separabile in due insiemi, con eventuale sottoinsieme per ognuno dei due. L’insieme die reinterpretabili e quello dei significati possibili. La lingua ha un suo modo di trattare queste cose e di ordinarle in modo che rispecchino spesso le proprietà e le caratteristiche degli oggetti. Oggetti numerabili vs non numerabili. Gli oggetti del primo gruppo esibiscono una forma singolare e definita diversa per ognuno, mentre gli oggetti del secondo gruppo si presentano in forme cumulative o con la forma dei contenitori. Ci può essere anche un gruppo intermedio, che comprende oggetti che potrebbero appartenere a entrambi i gruppi. Ci possono essere anche interpretazioni del tipo oggetto numerabile-oggetto numerabile, oppure oggetto non numerabile con oggetto non numerabile, ma un oggetto numerabile non può mai essere reinterpretato come oggetto non numerabile. La direzione del processo di reinterpretazione procede quindi dall’insieme non numerabile a quello numerabile. Tutto ciò ha a che fare con la forma, ovvero con la nostra attività percettiva che ci fa assumere il mondo come un vuoto pieno di cose distinguibili e non come un continuum. La reinterpretazione non da conto solo di un modo di procedere della nostra conoscenza, ma anche della corrispondenza fra vedere e parlare. L’attività percettiva, infatti, è l’unica interfaccia che abbiamo col mondo, ed essa regola sia il vedere che il parlare. Alla ricerca di senso L’arte informale è una corrente artistica diffusasi a partire dagli anni 50 del secolo scorso. All’interno del programma dell’arte informale vi era anche l’idea di una perdita di valore della forma (da qui il termine informale) a favore della materia stessa di cui è fatta l’opera. Cioè si mette in scena la materia a prescindere da qualsiasi rappresentazione formale. Si potrebbe quindi concludere che per l'arte informale il contenuto è la materia stessa di cui sono composte le opere. Viene meno, spesso, anche la nozione di stile classicamente inteso. Lo scopo dell’arte informale è far vedere le cose come sono effettivamente, che fa pensare quasi a una ricerca estetica del naturale. Se non fosse che poi sono prodotti artificiali, cioè è l’uomo che decide come far crepare, come adagiare i colori, come usare il gesto per far cader ei colori sulle tele. E tuttavia, anche se priva di una "forma" riconoscibile, l'arte informale è pur sempre la rappresentazione di una istanza in quanto ricerca artistica. E lo stile emerge sia dal gesto dell'artista che dalla scelta dei materiali. In questo senso, nell'arte informale, forma, stile e contenuto sono un tutt'uno. Una critica al Rorschach. Roberto Casati, “Le tavole del pregiudizio”, Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2001. Recensione di un libro in cui viene analizzato l’utilizo del rorschach. Gli studi indicano che il Rorschach tende a patologizzare i suoi soggetti, ovvero gli adulti normali tendono ad apparire patologici se ci si basa sul metodo di valutazione del Rorschach. Accade così che un sesto dei soggetti del campione di controllo appare schizofrenico. Non è chiaro perché le norme del Rorschach deviano così sensibilmente. Ma chi ha stabilito le norme interpretative del Rorschach? Stranamente, i manoscritti che descrivono gli studi preliminari di Exner non sono pubblici, per cui non è possibile ricostruire la genesi delle norme. Pare inoltre che il Rorschach sia tendenzioso rispetto a differenze culturali: le comunità afroamericane e indiane degli Stati Uniti danno risposte che deviano sistematicamente dalla norma; il test non sarebbe quindi generalizzabile. In questo test di tipo proiettivo si vogliono vedere dei simboli. È il terapeuta che attraverso le indicazioni fornite con le tavole fornisce una lettura simbolica delle figure dichiarate presenti nelle tavole dai soggetti. La spiegazione di questa insufficienza del Rorschach? Pare semplicemente che non vi siano stati studi sufficienti sulla validità degli indici. Per esempio, le risposte che indicano la presenza di ombre dovrebbero essere un indice di ansietà. Per il senso 1) La struttura, o ossatura, propria degli insiemi ordinati e organizzati che presentano forma spaziale o struttura figurale. 2) Qualità e caratteristiche globali. Le qualità del materiale di cui sono fatte le cose. 3) Il modo-di-essere, nel senso generale n cui la moderna teoria dell’espressività usa questa parola, non soltanto per ciò che è vivente, ma per tutto l’incontrato. Le qualità di questo gruppo vengono definite terziarie. i trattatisti e teorici dell’arte del 500, tesi a fissare le regole che gli artisti avrebbero dovuto seguire per raggiungere i risultati migliori, non mancavano di raccomandare particolare attenzione per le qualità espressive, anche se non le chiamavano così. Michotte e il movimento Michotte fu il primo psicologo a studiare con sistematicità la causalità fenomenica, rivelando che fra le forme in movimento si instaurano con inattesa facilità relazioni reciproche di dipendenza causale che tutti vedono allo stesso modo. Il modo in cui si svolgono gli eventi cinetici costituisce una fonte di informazione importante per la comprensione degli stati emotivi e per l’interpretazione delle azioni altrui. Michotte insiste sul ruolo fondamentale del movimento nei fenomeni da lui studiati: “sembra ragionevole ammettere, fino a prova contraria, che la causalità fenomenica, in senso stretto, è appannaggio del campo dei movimenti”. Queste conclusioni mettono in evidenza il ruolo fondamentale che gioca il movimento nel prodursi del fenomeno. È infatti sufficiente che se ne vedano gli effetti (movimento rappresentato e non reale) perché si colgano chiaramente le relazioni di causalità. È prassi normale dei pittori e dei disegnatori, in modo particolare i disegnatori di fumetti, dar vita alle azioni dei loro soggetti sfruttando le condizioni che favoriscono la percezione di relazioni di causalità fenomenica fra gli elementi della scena. Non è che vediamo relazioni di causalità perché consociamo gli oggetti e sappiamo come vanno le cose nel mondo. Non rileviamo la causalità fenomenica grazie alla nostra esperienza passata. In una scena statica si possono instaurare delle relazioni di causalità fenomenica fra le figure disegnate (non importa se significative o prive di significato), quando in una struttura complessivamente regolare sia presenta una zona circoscritta di irregolarità. Se vicino all’irregolarità è presente inoltre una figura con una forma funzionalmente adatta a produrre la deformazione, essa apparirà essere l’elemento attivo. Il reciproco è anche vero; infatti se una struttura complessivamente disomogenea e irregolare appare regolarizzata in una sua limitata porzione, quella regolarizzazione è vista come prodotta da un agente causale che ha messo ordine. La causalità fenomenica implica sempre la percezione del movimento, non importa se reale o solo raffigurato, e il movimento implica a sua volta una componente temporale. Gli eventi cinematici comprendono sempre un prima e un dopo che fluiscono l’uno nell’altro nel momento che li osservo e per tutto il tempo che li osservo. Anche in condizioni statiche che rappresentino casi di causalità fenomenica, vediamo un agente. Vediamo la relazione di causalità proprio perché vediamo che qualcosa ha modificato uno stato di cose precedenti che siamo ancora in grado di percepire. Si tratta di una forma di completamento amodale temporale invece che spaziale (processo, il più delle volte inconsapevole e automatico, grazie al quale ci appaiono complete forme o oggetti di cui solo una parte è presente nella modalità sensoriale). Leyton e la percezione visiva del tempo Leyton sostiene che il tempo sia, almeno in certi casi, visivamente percepibile già nella forma degli oggetti e su questa base ha costruito una teoria secondo la quale l’asimmetria sarebbe il veicolo visivo dell’informazione temporale. I punti cardine di questa teoria sono:  La forma di un oggetto ci dice qualcosa della sua storia. oltre a vedere la forma degli oggetti vediamo anche i processi che l’hanno portata a essere così come appare. La forma funziona come una finestra sul passato.  È possibile cogliere i processi che una data forma ha subito solo se quei processi hanno lasciato memoria di sé.  La proprietà che caratterizza tutte le situazioni di memoria percepita è l’asimmetria. L’asimmetria è la memoria che i processi lasciano sugli oggetti, da cui discende che la simmetria è l’assenza di processi di memoria. L’asimmetria nel presente è vista come originata da una passata simmetria. Il processo va dalla simmetria all’asimmetria e non viceversa. Secondo Massironi, i termini simmetria e asimmetria, che sono propri del linguaggio matematico, non possono essere riferiti all’esperienza fenomenica se non in maniera suggestiva. ella percezione si possono avere vissuti di maggior e o minore simmetria, ma vissuti appunto, per cui preferisce parlare di maggiore o minore regolarità nel confronto tra struttura complessiva e una sua parte. La percezione di un prima e di un dopo costituisce un’esperienza di tipo relazionale, cioè solo se si è in grado di percepire nell’oggetto osservato la coesistenza di aspetti contrastanti e del loro rapporto, si è in grado di vedere un prima e un dopo. Una forma apparirà come il risultato di uno o di una serie di processi che l’hanno modificata quando, pur presentando una struttura complessivamente regolare (o irregolare), una sua parte quantitativamente limitata presenta aspetti contrastanti rispetto all’insieme. Non è necessario che il contrasto si verifichi solo nella direzione dell’irregolarità, può anche avere un andamento opposto. Leyton sostiene che l’informazione utilizzata dall’attività percettiva per ricavare la storia delle forme è l’asimmetria subentrata a una precedente e costante simmetria. Massironi ritiene che tale informazione sia convogliata dalla disomogeneità fra le caratteristiche dell’intera struttura e quella di una sua parte. Fra queste due posizioni c’è accordo sul fatto che la forma degli oggetti convoglia anche informazioni sul loro passato e la loro storia. La teoria Ecologica di Gibson Gibson è lo studioso che più sistematicamente ha cercato di spiegare in cosa consiste l’informazione sulle qualità terziarie e come funzionino i meccanismi preposti alla loro raccolta ed elaborazione. Teoria ecologica della percezione. Secondo James Gibson, il compito del sistema visivo è quello di rilevare strutture che sono già perfettamente organizzate in forma di informazione ottica che viaggia nella luce. In altre parole, la stimolazione prossimale (cioè quello che accade a livello di retina) conterebbe in sé tutta l’informazione necessaria, già strutturata, che deve essere soltanto registrata dal sistema visivo senza ulteriori elaborazioni. Ciò che il sistema visivo rileva e registra sono le caratteristiche invarianti dell'oggetto fisico, le quali emergono in funzione della variabilità del flusso ottico. Perché la stimolazione prossimale, il flusso ottico che arriva alla luce varia di continuo ed è grazie alla variabilità di flusso ottico che emergono quelle strutture, i rapporti invarianti. Per vedere che una cosa è invariante, altre cose nella scena devono cambiare. Altrimenti se nulla cambia non si può vedere che c’è un invariante di struttura. Se l’informazione relativa alle caratteristiche fisiche degli oggetti viene convogliata dagli invarianti percettivi del flusso ottico, diventa un problema stabilire in quale maniera lo stesso meccanismo riesca a veicolare le qualità espressive. La teoria ecologica della percezione sostiene che la luce riflessa dagli oggetti arriva agli occhi dell’osservatore come un fascio di angoli solidi ben strutturati e ordinati in quello che Gibson chiama “ assetto ottico”. Quando l’oggetto sotto osservazione (o l’osservatore) si muove, le ampiezze degli angoli formati dai raggi visivi si modificano in modo sistematico, conservando invariate alcune relazioni. L’attività percettiva sarebbe in grado di utilizzare gli aspetti invarianti nel flusso ottico come informazioni sulle caratteristiche dell’ambiente in cui gli uomini o gli animali vivono. Gibson definisce affordances (tradotto con consentibilità. L’aria consente la respirazione, l’acqua no ma consente il bere…) le caratteristiche dell’osservato in base alle quali siamo in grado di decidere che cosa di buono o di cattivo ci sia nelle cose con cui entriamo in contatto. Qualsiasi sostanza, superficie, disposizione, consente qualche cosa a favore o a danno di qualcuno. Gibson dichiara apertamente che il problema centrale per una teoria delle affordances non riguarda il fatto che esistano o meno, ma la comprensione del come la luce ambientale veicoli questo tipo specifico di informazione. Dal momento che lo stesso stimolo fornisce l’informazione sia per il rendimento percettivo delle caratteristiche formali- dimensionali-posizionali, sia l’informazione delle affordances, diventa sostenibile per Gibson che due ordini di invarianti lavorino a livelli diversi, veicolando contemporaneamente entrambi i tipi di informazione. Si può pensare a un ordine di invarianti di basso livello per quanto riguarda le caratteristiche formali e spaziali, e a una classe di invarianti di ordine superiore per quanto riguarda le affordances. Ma, come fa notare Cutting, la relazione fra affordances e invarianti non viene chiaramente esplicitata da Gibson, se non attraverso la nozione secondo cui gli invarianti si riferiscono a relazioni strutturali che riguardano il percipiente, mentre le affordances si riferiscono alle relazioni funzionali a esse corrispondenti. Gibson giustifica l’adozione del termine “ecologico”, affermando che esso serve a far comprendere l’importanza sia dell’adesione attiva all’ambiente da parte dell’osservatore, sia della necessità di comprendere l’ecologia della luce e la struttura fisica del mondo per spiegare i fatti percettivi. Infatti, secondo questo approccio, l’informazione ottica che viaggia nella luce è già perfettamente strutturata e pronta all’uso. Il sistema visivo diventa una specie di rilevatore di segnali ( invarianti di struttura) in mezzo ad un mare necessario di rumore (le variazioni nel flusso ottico). Si noti l’assonanza con la posizione di Zeki, secondo cui compito del cervello è quello di rilevare le costanze percettive. Zeki prende delle idee da Gibson per giustificare la sua impostazione teorica sulla neuroestetica ma non lo cita nel suo libro. In quest’immagine tratta dal libro di Gibson The Ecological Approach to Visual Perception si vede come cambiano le proiezioni in base alla posizione dell’osservatore. Secondo questo approccio teorico, la luce che viaggia verso l’occhio possiede una struttura che le deriva dall’azione di riflessione degli oggetti fisici. È una struttura che subisce continue variazioni sia a causa del movimento di cui sono suscettibili gli oggetti stessi nella scena, sia a causa dei movimenti continui dell’osservatore. Queste variazioni sono essenziali, perché è per mezzo di esse che emergono le invarianti di struttura. Le invarianti di struttura sono senza nome e senza forma: difatti, esse sono meglio descrivibili in termini di rapporti tra gli elementi costitutivi degli stimoli. Sono senza nome e senza forma perché sono dei rapporti. In tale ottica, il rapporto aureo, sempre identico a se stesso, sarebbe l’invariante di struttura sottostante la percezione di bellezza. (se uno crede che il rapporto aureo comporti la percezione di bellezza) Alla famosa domanda di Koffka (psicologo gestaltista) “Why do things look as they do?”, Gibson risponderebbe “Because they are what they are!” Noi vediamo la macrostruttura fisica del mondo, secondo Gibson. Rispetto al cognitivismo classico, il sistema visivo non crea una “rappresentazione” del mondo, bensì registra il mondo così come si presenta nella sua veste macro-fisica, trasmessa a noi come struttura complessa, ma non ambigua, tramite la luce. La teoria di Gibson a presenta diversi problemi dal punto di vista epistemologico. Un primo problema riguarda l’esistenza di illusioni ottiche. Le illusioni ottiche non esistono nel mondo fisico, sono un fatto percettivo. Se vediamo due linee che appaiono di uguale lunghezza e fisicamente non sono di uguale lunghezza o viceversa è perché fisicamente sono di uguale o diversa lunghezza. Però la mia percezione è quella di due linee di lunghezze diverse, o uguali. Se il sistema visivo registra la macrostruttura dell’ambiente circostante, non dovrebbero esserci fenomeni illusori, in quanto le illusioni non fanno parte del mondo fisico. Secondo Gibson le illusioni ottiche accadono perché l’informazione visiva che di solito si ha dinanzi a queste illusioni è povera, cioè l’assetto ottico, il flusso ottico fornisce poca informazione visiva rispetto ala situazione che è rappresentata dall’illusione. Se è così povera l’informazione visiva che si può avere, risulta che il sistema non è in grado di rilevare abbastanza invarianti di struttura. Perciò vediamo le illusioni perché sono fenomeni da laboratorio. Di fatto, Gibson tratta le illusioni alla stregua di eccezioni, fenomeni che emergono soltanto in laboratorio dove le condizioni di stimolazioni sono particolarmente impoverite, e quindi con pochi invarianti di struttura. Gibson, infatti, ha sottolineato la necessità di condurre studi sperimentali al di fuori dai laboratori, in condizioni appunto “ecologiche”. Si possono fare due importanti obiezioni a questi argomenti: 1) “In una corretta teoria scientifica non vi deve essere posto per le eccezioni: esse devono poter essere spiegate dalla teoria o la teoria va messa in crisi. (…) Molto più produttivo mi sembra considerare questi fenomeni come preziosi indicatori del reale funzionamento del sistema, cioè come «situazioni sperimentali naturali» che possono consentire di scoprire la «logica» secondo la quale funziona quel sistema” (Kanizsa, 1980). Alan Gilchrist, psicologo americano, concepisce le illusioni con una firma del sistema visivo. Non si possono considerare le illusioni come dei fenomeni estremi dovuti alla povertà dell’informazione visiva presente. Sono fenomeni che esistono e secondo alcuni sono fenomeni di laboratorio che mostrano il sistema visivo al lavoro. 2) Il sistema visivo funziona sempre allo stesso modo, sia dentro che fuori di un laboratorio. Il vantaggio del laboratorio è quello di permettere un maggiore controllo su variabili non pertinenti ma che nondimeno potrebbero influire sull’esito dell’esperimento stesso. (Gibson dice che siamo in grado di vedere il mondo così com’è perché mediante gli spostamenti nel mondo e e cose che si muovono nel mondo noi raccogliamo un’abbondanza di informazione visiva, che varia continuamente, e attraverso queste variazioni noi possiamo cogliere gli invarianti di struttura. Ma cosa succede davanti a un’immagine pittorica?) Un secondo importante problema riguarda l’esistenza di immagini pittoriche (disegni, dipinti, fotografie). Queste presentano un assetto ottico congelato, suscettibile di variazioni solo in virtù del movimento dell’osservatore, il quale però muovendosi non determina l’acquisizione di nuova informazione in forma di invarianti di struttura, in quanto la struttura di un’immagine non è suscettibile di variazioni. Spostandosi a destra o a sinistra rispetto al centro di proiezione di un’immagine pittorica, viene a modificarsi la proiezione retinica di quell’immagine. Però ci sono due fatti: quelle deformazioni che avvengono a livello retinico noi non le vediamo a livello percettivo. L’immagine, anche se ci spostiamo a sinistra o a destra, a meno che andiamo proprio agli estremi, non appare mai distorta. La seconda è che ogni nostro spostamento non produce nuova informazione visiva se non quella che l’immagine è piatta. Se la struttura tridimensionale raffigurata all’interno dell’opera è statica, come appaiono gli invarianti strutturali? Un’immagine è infatti una superficie piatta; scostamenti dal punto ideale di osservazione possono indurre effetti di distorsione nella percezione della scena raffigurata, ma non apportano necessariamente nuova informazione circa la scena raffigurata. In realtà i nostri spostamenti non producono distorsioni percettivamente rilevanti. Le inducono come percezioni retiniche ma a cui noi non abbiamo un accesso diretto. Gibson cercò di ovviare a quest’ultimo problema epistemologico introducendo l’ipotesi di una peculiare abilità percettiva: la percezione pittorica: l’abilità di vedere al posto delle macchie, delle scene raffigurate. Parla di una doppia rappresentazione. Da un lato il sistema visivo ci informa che l’immagine è piatta, dall’altro lato abbiamo una consapevolezza di una rappresentazione interna. Questa consapevolezza è un fattore top-down. Diche che siamo consci che all’interno è rappresentato qualcosa, ma come possiamo essere consci se non attraverso un processo top-down visto che a livello bottom-up non possiamo ricevere invarianti di struttura? “Concludo dicendo che un’immagine richiede sempre due abilità percettive che agiscono simultaneamente: una è diretta, e l’altra è indiretta (indiretta vuol dire che è cognitiva. Perché Gibson parla di teorie dirette della percezione visiva e teorie indirette. Le Lezione 9 – VEROSIMIGLIANZA Le immagini hanno il potere di presentarsi con le caratteristiche visive di altri oggetti di tutt’altra natura, materia, dimensioni… Il concetto che i Greci utilizzarono per parlare di questa disponibilità metamorfica fu quello di mimesi. In seguito nella cultura occidentale si è parlato di imitazione o di verosimiglianza. Lo scopo e l’utilizzazione delle immagini non è solo quello imitativo. Senza questa precisazione si potrebbe credere che le uniche immagini interessanti siano quelle che raffigurano qualche pezzo di realtà visibile w che l’unico scopo delle arti visive sia quello di ritrarre il mondo che ci circonda. Leon Battista Alberti raccontava l’inizio della produzione figurativa come scoperta, o incontro fortuito, con la possibilità di vedere prima, e di realizzare poi, la forma di oggetti in altri oggetti. Quasi sempre, inoltre, nei più importanti siti in cui l’arte delle caverne è conservata, accanto a raffigurazioni naturalistiche sono presenti immagini che non hanno niente a che fare con l’imitazione. Si può pensare che la geometria abbia avuto origine da questo tipo di disegni. L’ammirazione per le raffigurazioni naturalistiche di epoca preistorica è comprensibile e giustificata, da un punto di vista cognitivo le configurazioni di tipo astratto geometrizzante sono altrettanto interessanti. Esse costituiscono la testimonianza di un esercizio del vedere e del ragionare sulle forme che, senza nessuna preoccupazione di somiglianza, era di fatto mirato al controllo della superficie e dello spazio. La verosimiglianza è un problema che si coniuga con le origini dell’arte. In fondo l’arte nasce con l’idea di poter rappresentare il reale. Nasce l’esigenza di rappresentarlo, all’inizio, di rappresentarlo il più fedelmente possibile. Poi nascerà l’esigenza in fase post rinascimentale di andare oltre la vera somiglianza reale per correggere la natura e renderla ancora più bella e perfetta. Verosimiglianza: Caratteristica di ciò che è simile o conforme al vero. Tensione costante alla verosimiglianza nell’arte figurativa dai suoi albori. La funzione è quello di rappresentare nel modo più “realistico” possibile ciò che realmente esiste, ma anche ciò che è frutto soltanto dell’immaginazione. È quello che si cerca anche in teatro o al cinema i film migliori sono quelli in cui non ci si accorge che gli attori stanno recitando. Questo vale per tutte le espressioni artistiche nel momento in cui si riesce a portare il fruitore al di là del confine del reale, mostrando delle cose che sembrano possibili anche se poi sono impossibili. Tensioni alla verosimiglianza sono presenti anche nell’arte contemporanea, anche se in forme diverse da come inteso nella definizione classica. Tali tensioni caratterizzano inoltre altre forme di arte, dalla letteratura al cinema, dall’arte radiofonica al teatro. Il mondo come arte-fatto Un ponte su un fiume, un tempio su un cole, una casa o una città sono uno stravolgimento dell’ambiente naturale, sostituzione del mondo naturale con un mondo arti-ficiale. L’arte ha costruito da sempre la testa di ponte dell’artificiale, dell’artefatto nei confronti del naturale. La natura è sempre stata per gli artisti fonte di ispirazione dal momento che nelle sue forme nascondeva e palesava allo stesso tempo gli ingredienti della bellezza, come regolarità, proporzioni, simmetrie. Ma la natura esibiva, a chi la osserva con attenzione, anche approssimazioni, irregolarità, asimmetrie. L’arte si è allora assunta il compito di mettere ordine nel mondo, sostituendo le imperfezioni e le irregolarità naturali con la bellezza e le proporzioni che la natura stessa poteva solo suggerire. Il mondo artificiale doveva essere grazie all’arte un mondo naturale, ma corretto là dove l’artista riteneva che non andasse bene. In periodo manierista, una vasta letteratura cercò di chiarire che tipo di rapporto l’artista dovesse intrattenere con la natura. Il punto da chiarire era il discrimine fra imitazione passiva e reinvenzione ricostruttiva del mondo. Si doveva porre attenzione al fatto che la natura, per un’intrinseca resistenza della materia, non poteva raggiungere, se non saltuariamente, quella perfezione a cui invece l’arte doveva sempre tendere. I trattatisti di epoca manierista, certi che le tecniche artistiche avessero raggiunto un livello non ulteriormente perfezionabile di eccellenza nell’imitazione della realtà, cercarono di capire come utilizzarle al meglio. Dal momento che era stato raggiunto l’obiettivo di rappresentare fedelmente l’osservato, diventa possibile anche il cammino inverso, quello di sostituire la realtà con una figura immaginata utilizzando gli stessi mezzi. La fedeltà della raffigurazione realistica apre la strada alla credibilità della raffigurazione irreale. Ciò consentiva una reinvenzione della realtà attraverso la finzione seducente delle scenografie del quadraturismo architettonico, del trompe l’oeil, dell’inganno. L’intelletto umano ha il potere e il dovere del giudizio sulla natura. La natura è generatrice e portatrice di perfezione, perciò va imitata. Ma la natura è incostante, squilibrata e disomogenea nel distribuire la perfezione, perciò va superata. Superare la natura non vuol dire abbandonarla per affidarsi al proprio giudizio o alle proprie conoscenze e ricordi, ma vuol dire inseguirla, spiarla, imparare a conoscerla, ma non esserne schiavi. L’artista deve imparare a discriminare fra le opzioni offerte dalla natura e grazie a tale discriminazione deve essere in grado di riconoscere e scegliere solo la perfezione. L’arte da un lato dichiara di stare dalla parte della natura chiamandola maestra, ma dall’altro si arroga il diritto di giudicarla e di conseguenza si sente moralmente giustificata nell’impegno di superarla correggendola. Arte come specchio L’arte è un territorio di conoscenza torica, è un catalogo di esperienze sensoriali, è una palestra di realizzazioni pratiche che ha funzionato spesso come specchio in cui l’uomo e la donna si sono guardati, e poi si sono ammirati e quindi si sono innamorati di sé stessi. Arte perciò anche come sede del narcisismo di uomini e donne. Se il mondo è un artefatto e le donne e gli uomini ne sono gli autori, in quanto parti del mondo essi ne sono anche un prodotto. Donne e uomini, avendo la capacità di riflettere su sé stessi e di emettere giudizi hanno deciso che il loro corpo è bello. È una conclusione ampiamente condivisa, anche se Fechner avanza dei dubbi sula sua legittimità. “L’orgoglio e la vanità di uomini e donne, pur essendo dei giudici corrotti e parziali, fa sì che siano gli unici che si arrogano il diritto di emettere la sentenza. Supponiamo che uomini e donne si alleino con la ragione, al fine di chiedere al suo occhio insensibile, freddo e lucido di stabilire un criterio di valutazione della bellezza. La risposta affermerebbe che non vi sono criteri definitivi per la bellezza, ma che alla forma si deve chiedere almeno l’armonia. Le figure dell’uomo e della donna sono piene di protuberanze, escrescenze, angoli, punte, da cui si può ricavare che si tratta di una macchina utile, ma in cui è difficile dire con precisione in che cosa risiede la bellezza.” Nonostante le riserve di Fechner, la certezza di essere depositari di bellezza è talmente radicata e permanente da farla diventare il parametro di riferimento da cui ricavare relazioni e simmetrie in base alle quali dare la giusta forma e le giuste dimensioni non solo a ogni cosa costruita artificialmente, ma all’intero universo. Nella cultura occidentale il corpo è direttamente collegato al mondo ricostruito dall’uomo, che sarà tanto più armonico, esteticamente apprezzabile, fonte di piacere e di conoscenza, quanto più i suoi parametri riprenderanno misure e proporzioni proprie del corpo umano. L’pera di Vitruvio De Architetura è l’unico documento pervenutoci in cui si codificano le regole di misura e di proporzione del corpo umano, al fine di ricavare le dimensioni degli edifici e le relazioni fra le loro parti. Nel V secolo a.C. la ricerca Policleto per vincere la pesantezza del corpo umani mediante regole armoniche di simmetria e ritmo (canone) appare nelle sculture dei suoi atleti. Stabilire un legame fra opera e parametri numerici era la via per dimostrare che, rispettando determinate relazioni e proporzioni, si ottenevano risultati di equilibrio e di armonia che dal corpo potevano essere esportati a molti tipi di manufatti. Il corpo umano definito in un canone è diventato un microcosmo unico, inalterabile, senza tempo, che Vitruvio sintetizza elaborando le misure delle sue parti (dita, palme, piedi) e calcolando, sulla base dei numeri 10 e 6, i rapporti che fra loro intercorrono. Si è stabilita una precisa corrispondenza tra forma del corpo e forme della geometria. La sua iscrizione nel quadrato e nel cerchio lo rende affidabile garanzia di equilibrio e di bellezza per tutti gli oggetti costruiti dall’uomo. Luca Pacioli afferma che “Dal corpo umano ogni mesura con le sue denominazioni deriva et in epso tutte sorti de proporzioni e proporzionalità se ritrova. Gli antichi hanno costruito le loro opere considerando le disposizioni del corpo umano. Perché in quello trovavano le principali figure senza i quali non si può fare niente”. Leonardo alla fine del XV secolo eseguirà, in accordo con Luca Pacioli il più famoso disegno sulle proporzioni del corpo umano, al quale ne seguono altri. La produzione iconografica di questo secolo si presenta anche come sintesi dell’incontro e dell’integrazione felice e feconda fra l’opera di Vitruvio e i testi sacri della cristianità, giustificando la ritrovata centralità dell’uomo all’interno della tradizione cattolica con argomenti teorico-teologici.  Durante il medioevo l’opera di Vitruvio era stata copiata più volte e aveva contribuito ad alimentare l’interpretazione cristiana del corpo come microcosmo e come mezzo per avvicinarsi alla perfezione di Dio.  Il corpo di Adamo prima della caduta non poteva essere che perfetto, essendo stato concepito a immagine e somiglianza di Dio. un ricordo di tale perfezione si sarebbe conservato nel corpo degli uomini, pur soggetto, dopo il peccato originale, a decadenza e corruzione.  L’uomo può essere considerato un microcosmo, risultando dalla combinazione dei quattro elementi, sicché ogni uomo proporzionato è rotondo, così come lo è il mondo.  Saper apprezzare la bellezza dell’uomo è alla base di ogni meditazione sulla natura dell’uomo come immagine di Dio.  Qualche limitata conoscenza di Dio, o del mondo da lui creato, sarà possibile solo se si terrà conto della somiglianza dell’uomo con Dio.  C’è una continuità nell’ininterrotta catena che lega il macrocosmo, ovvero l’ordine assoluto che è Dio, al mediocosmo, ovvero il mondo creato, e al microcosmo che è l’uomo.  Per Pico della Mirandola l’uomo è un mondo minore, in cui si mescolano l’animalità dei sensi e la ragione, lo spirito vegetativo delle piante, l’intelligenza angelica e la somiglianza a Dio. L’interesse per le misure del corpo umano e per le proporzioni fra le sue parti è continuato anche nei secoli successivi al Rinascimento. È riemersa in epoca rinascimentale la convinzione che le forme geometriche regolari e perfette fossero derivate dal corpo e non dalla mente delle donne e degli uomini. La certezza che il corpo umano fosse la cosa più bella. Questo centro di bellezza e perfezione non può che irradiare bellezza e perfezione, ragion per cui tutto quanto di artificiale verrà progettato, prodotto, costruito sarà tanto più esteticamente rilevante quanto più rifletterà le proporzioni con cui si connettono le varie parti del corpo umano. C’è una sorta di paura e disagio nei confronti del caso e di conseguenza il bisogno di limitare e controllare la causalità tramite delle regole che vincolino il prima al dopo e viceversa. Il corpo oltre ad essere complesso è plastico, si modifica autonomamente nello spazio e nel tempo, è quindi espressivo e comunicativo, ed è anche per questo che quanto è bello e giovane produce piacere a guardarlo. La forma del corpo perderà, nella cultura occidentale, l’aura di divinità e la proprietà della perfezione, allorché sarà riferita all’altro, allo sconosciuto, al diverso. Per lungo tempo il corpo dell’alieno ha perso nella nostra immaginazione ogni attributo di perfezione formale, diventando l’epifania del mostruoso e dell’orribile. Verosimiglianza nell’arte figurativa classica (pittura, arti grafiche, scultura) L’Alberti sostiene che l’arte nacque come tentativo di riprodurre il visibile. Il fine potrebbe essere di varia natura: celebrazione di eventi, religioso, racconto. In ogni caso si tratta di comunicazione. È necessario perciò chiedersi se vi sia uno stile migliore degli altri, che sia più fedele nel modo di rappresentare le qualità formali e materiali del mondo visibile. Questo è l’oggetto della verosimiglianza. Vi è un incastro tra forma e stile e verosimiglianza. In che modo lo stile va incidere nella verosimiglianza. In verità già nell’arte preistorica vi sono non pochi esempi anche di raffigurazioni geometriche. Sono decorazioni o rappresentazioni simboliche? Non lo sappiamo. Qualsiasi fosse la funzione che erano chiamate ad assolvere, molti studiosi ritengono che le raffigurazioni geometriche in generale sono importanti esercizi del vedere e del ragionare miranti al controllo della superficie e dello spazio. La psicologia dell’arte e l’estetica sperimentale in passato si sono concentrate soprattutto sull’analisi dell’arte figurativa, individuando nella tensione alla verosimiglianza uno dei motori dell’evoluzione artistica. Quanto è realistica l’arte figurativa? L’uomo da sempre ha cercato di piegare la natura. L’artista tuttavia è sempre andato contro le rappresentazioni realistiche: il mondo infatti presenta irregolarità e imperfezioni, pur suggerendo all’osservatore la bellezza di proporzioni regolari e perfette. Compito dell’artista era quindi di rappresentare una natura perfetta, sostituendo le irregolarità e imperfezioni trovate in natura con regolarità e proporzioni ritenute ideali (Come ad esempio l’uomo ideale è il doriforo di Policleto). In altre parole, l’arte figurativa mirava non tanto a imitare la natura, ma a superarla: il mondo rappresentato diventa luogo simbolico in cui la comunicazione era perseguita seguendo specifici canoni estetici. Questo riguarda soprattutto l’arte del manierismo, che viene dopo il rinascimento (i manieristi sono quelli che eseguono alla maniera dei grandi artisti che li hanno preceduti). Lavoravano attraverso specifici canoni estetici. L’arte del bonsai è un’altra arte in cui si cerca di superare la natura. Spesso gli artisti di Bonsai cercano di creare il tormento perfetto, cioè la rappresentazione della natura che sopravvive all’aggressione della natura stessa. Quindi questi pini tutti contorti che in realtà possono crescere così in natura se colpiti ad esempio costantemente dal vento che viene dalla costa, che tende a spogliare con la sabbia la corteccia. Si pone una distinzione tra imitazione e ritratto della natura: la prima deve rappresentare ciò che si vede, la seconda deve rappresentare ciò che si dovrebbe vedere se il mondo fosse perfetto. Il secondo rappresenta la vera sfida, che consiste nel perfezionare la natura, superandola in bellezza. È questo il programma implicito dell’arte figurativa, reso esplicito dal manierismo in poi. Distinzione tra imitare la natura con tutte le sue imperfezioni oppure ritrarre la natura, cioè creare qualcosa di ideale. Questa distinzione è fondamentale soprattutto nel passaggio tra l’arte rinascimentale e il manierismo. La natura, quindi, come generatrice e portatrice di “perfezione” va anzi tutto imitata. Ma il grande artista va oltre, supera la natura, appunto per equilibrare e aggiustare le sue disomogeneità e imperfezioni. È esistito quindi un atteggiamento ambivalente dell’arte verso la natura, che se da un lato è maestra da imitare, dall’altro lato è dimensione da giudicare e superare, correggendo la sua apparenza laddove necessario. (Ricordatevi le proporzioni ideali del corpo umano) Non ci si deve però scordare che l’uomo imita la natura anche ritraendo il “brutto”, che in natura si sostanzia in proporzioni esagerate, irregolarità e asimmetrie. Anche qui l’arte, pur ispirandosi alla natura, sembra andare oltre, individuando e Non bisogna scordare che spesso a immagini (comprese sculture e oggetti) – in particolar modo scene religiose, ritratti, rappresentazioni figurative – sono state attribuite effetti taumaturgici, apotropaici, e di protezione in generale contro le forze del male o eventi avversi. Le immagini, in quanto noi riusciamo a riconoscere in esse persone, scene, oggetti a cui possiamo attribuire un certo grado di realtà, quindi verosimiglianza, queste immagini hanno poi assunto un ruolo di protettori a vari livelli. Il potere evocativo è immediatamente riconoscibile nell’arte della musica, ma è anche un fenomeno molto importante nella sensazione odorifera (un particolare odore può richiamare alla mente particolari esperienze del vissuto personale di un individuo). Le immagini figurative, invece, data la loro immediatezza e intrinseca “completezza” come esperienza visiva, possono essere evocative? Oppure ciò che in esse è rappresentato ha una consistenza fenomenica tale per cui non possono essere definite evocative in quanto si costituiscono come esperienza completa? Le immagini possono emozionare, sia per il loro contenuto intellettuale che sensoriale. Sono due emozioni diverse. Non si dà esperienza sensoriale collegata alla fruizione artistica che non sia infine anche evocativa sul piano cognitivo e/o affettivo. In altre parole, ogni esperienza sensoriale legata all’arte, che superi la soglia della coscienza, produce una nostra reazione, sia questa fisica (es. allontanamento, avvicinamento), cognitiva (es. attenzione, pensiero, ricordo), emotiva (es. gioia, paura, rabbia), o una combinazione di reazioni. Lezione 10 – ASTRATTO VS FIGURATIVO Il confine tra figurativo e astratto non è ben marcato. Ci sono delle opere pittoriche e scultoree che sono effettivamente astratte, ma ci sono delle opere che sono figurative ma hanno degli elementi che richiamano l’astrazione. Altre sono del tutto figurative. Astratto: ciò che non ha rapporti empirici con la realtà empirica. Assenza di qualsiasi riferimento alla realtà oggettiva. Figurativo: che rappresenta per mezzo di figure. Nell’arte, rappresentazione o interpretazione della realtà esterna senza prescindere da essa. Vuol dire il più verosimigliante possibile. Però non tutto. Gli unicorni, per quanto possano essere verosimiglianti, cioè rappresentare qualcosa che possa sembrarci vero, non esistono. La rappresentazione di un unicorno non è figurativa perché prescinde dalla realtà esterna. Come gli angeli e i diavoli. Queste definizioni sono problematiche. Tesi di Zeki: Tutta l’arte è astrazione in quanto l’artista astrae dal particolare per rappresentare l’ideale. Anche questo ha un limite perché cosa significa? Molti artisti non astraggono nulla per rappresentare l’ideale, vogliono rappresentare l’hic et nunc, come gli impressionisti. Il Figurativo La definizione di “figurativo” sembra non lasciare scampo: L’arte figurativa non può prescindere da un’istanza di “realismo”. Il dipinto di Raffaello Dama con Licorno è molto realistico e probabilmente molto verosimigliante alla modella. Ma l’unicorno, che è una rappresentazione simbolica è un elemento del tutto astratto. Proprio perché è una rappresentazione simbolica. Come probabilmente è il gioiello che porta, che rappresenta qualcosa. È reale, perché probabilmente è esistito ma ha anche una funzione simbolica. Di nuovo diventa difficile definire cos’è figurativo e astratto. Domande essenziali Ma che cosa s'intende per realtà oggettiva? Che cosa significa "realismo"? L'arte può rappresentare la realtà oggettiva? È evidente che le definizioni fornite su arte figurativa e arte astratta, sebbene siano quelle ufficiali, sono del tutto insufficienti. Il concetto di rappresentazione "oggettiva" collide con il concetto di stile. A un certo punto l’arte si mette a servizio della scienza ma per faro deve rinunciare al proprio stile perché deve cercare un tipo di rappresentazione il più oggettivo possibile. Lo stile si contrappone alla verosimiglianza ma si contrappone anche al concetto di arte figurativa così com’è formulato normalmente. Si definisce figurativa quell’arte che appunto rimanda ad una figura o insieme di figure, ad una realtà quindi non astratta. Anche qui c’è un problema. Se si rappresenta una sirena, è un problema perché non esistono questi esseri. È una realtà comunque astratta, ma è una rappresentazione figurativa. Perché si stanno mostrando delle figure per cui si hanno anche dei termini che le denotano. Una composizione artistica fatta con quadrati, cerchi, triangoli e/o altre qualsivoglia figure geometriche, che non dia luogo al riconoscimento di una figura (che non sia altro che quella geometrica) o di una scena che rimandi ad una realtà diversa da quella geometrica, è astratta perché le figure geometriche sono entità astratte. Però le figure geometriche sono astratte quanto sono astratte le sirene, i demoni, i fantasmi… non le incontri nella realtà fisica a meno che non ci si costruisca un triangolo. Allora non è più neanche arte astratta, diventa di nuovo arte figurativa. Spesso si parla di realtà arte astratta come se non rappresentasse qualcosa. Arte informale: oltre l’astrattismo (geometrico) Quando si parla di arte informale, viene spesso nominato Jean Dubuffet (1901-1985), che però in realtà inventò la corrente nota come Art brut. Altro artista spesso inserito tra gli esponenti dell’arte informale è Giuseppe Capogrossi (1900-1972). La sua arte però porta in primo piano la tradizione, spesso sottovalutata, della cosiddetta arte decorativa, in cui elementi più o meno geometrici si ripetono definendo così nuove direttrici spaziali. Che cosa si intende con il termine “realtà”? Lo psicologo tedesco Wolfgang Metzger individua 5 significati per la parola realtà. Essi sono: 1) La realtà del mondo fisico, di cui si occupano appunto i fisici, che ha carattere strettamente metaempirico, in quanto è al di là dell’esperienza diretta. Noi non abbiamo una conoscenza diretta di questo tipo di realtà. Abbiamo una conoscenza mediata dai nostri sensi e che quindi costituisce la realtà del mondo fenomenico. 2) La realtà del mondo fenomenico. Questa è la realtà dell’ambiente comportamentale, ovvero la realtà fornita dai nostri sistemi sensoriali. È questa una realtà che in molti sensi è indipendente dal nostro io. Fanno parte di questa realtà non solo il mondo percepito, gli oggetti fenomenici, ma anche i dolori “fisici” e quelli “psicologici”, i sogni, i ricordi che ci assalgono all’improvviso, le allucinazioni dotate di vivacità sensoriale. Metzger chiama questa seconda realtà anche realtà incontrata, immediata. È questa una realtà di grande interesse per lo psicologo. 3) La realtà rappresentata. Questa realtà la si capisce meglio in contrapposizione alla precedente. Mentre la realtà incontrata resiste a qualsiasi nostro tentativo di alterarla (l’insieme degli stimoli combinato con il mondo in cui funziona il nostro sistema visivo ci permette di vedere. Se non c’è un elefante dipinto di rosa è difficile che riusciamo a vedere un elefante rosa. Però possiamo pensarlo), la realtà rappresentata si trasforma a nostro arbitrio. È la realtà creata, per esempio, dalla nostra immaginazione. Anche questa è una realtà di grande interesse per lo psicologo. Anche questa realtà è di natura fenomenica, ma è vissuta come dipendente interamente dall’io. La realtà rappresentata è la realtà che interessa l’arte. Anche nel caso in cui ci si imbatta nell’arte impressionistica che vuole rappresentare il momento, il momento è comunque una rappresentazione. Da un punto di vista particolare che è quello dell’artista. È comunque una mediazione, quindi è una realtà di natura rappresentata. 4) La realtà del nulla, che se vogliamo è un vero e proprio paradosso. Infatti, il nulla è dal punto di vista logico ciò che non esiste, e in quanto non esistente, non ha nessuna qualità che lo rende “reale”. Eppure, per la nostra mente il nulla ha una sua sostanzialità, dei suoi modi di essere e anche di apparire, che influiscono sia sul nostro mondo percettivo che su quello cognitivo (pensato per esempio allo zero). Va da sé che anche questa realtà è di grande interesse per lo psicologo. 5) La realtà del fenomenicamente apparente. Ci sono cose che vediamo o che proviamo, e che tuttavia non ci appaiono “veri”. Un esempio tipico è il sogno in cui siamo coscienti di sognare. Un altro esempio riguarda gli specchi. Un esempio riguardante proprio gli specchi ci fa comprendere che la realtà apparente non dipende dalla realtà fisica in sé. Per esempio, se siamo dinanzi ad uno specchio che riflette un ombrello accanto a noi, noi vediamo due ombrelli che appaiono uguali, eppure soltanto l’ombrello accanto a noi, fuori dallo specchio, ci apparirà reale, mentre l’ombrello riflesso ci apparirà irreale, immateriale. Per contro, se entriamo per esempio in un salone un poco buio con uno specchio gigantesco a muro, e vediamo delle cose riflesse, come delle poltroncine, queste ultime ci appariranno come vere e solide, e anche la stanza ci sembrerà molto più grande. La realtà sarà del tipo “incontrato”, almeno fino a quando non ci renderemo conto dell’esistenza dello specchio. Quali di quei significati attribuiti al termine realtà sono vincolanti ai fini di una definizione di “arte figurativa”? la realtà rappresentata. Una scena osservata al microscopio è realtà di tipo fenomenico? Dal 3 al 5 sono tutte realtà di tipo fenomenico, ma sono declinazione diverse. Nel caso del microscopio è una realtà fenomenica. Se si usa il microscopio si, se no non esiste, non siamo in grado di ottenere una simile risoluzione con i semplici occhi. I fenomeni visivi come le illusioni sono sicuramente fatti incontrati, anche se non sempre riconosciuti. Gibson diceva che le illusioni sono fatte in laboratorio. Ma non è vero. Spesso incontriamo dei fenomeni che poi scopriamo essere illusioni ma spesso vediamo la realtà ma non ci rendiamo conto che sotto sotto c’è un’illusione. Un esempio è il parcheggio. Cercando di parcheggiare tra due auto messe in fila con uno spazio in mezzo, spesso passando accanto sembra che la nostra auto non possa entrare in quello spazio. In realtà poi si scopre che la macchina ci stava benissimo. Ci si è accorti di essere dinanzi a un’illusione. Le illusioni, che in realtà sono fatti cognitivi radicati nella percezione. Fatti cognitivi perché l’illusione esiste fintato che ci rendiamo conto che c’è una discrepanza tra ciò che noi vediamo e ciò che effettivamente c’è sul piano fisico. Se non ci rendiamo conto di questa discrepanza le illusioni diventano semplicemente parte della nostra vita fenomenica normale. Utilizzare un fenomeno visivo di tipo illusorio significa intrufolarsi tra le arti figurative o le arti astratte? Op Art: movimento artistico del 900 che è stato caratterizzato dallo studio di fenomeni percettivi (le cosiddette illusioni) e dal loro utilizzo all’interno di opere d’arte. In un certo qual senso Escher appartiene all’Op Art anche se l’Op Art non mira a essere figurativa in senso classico. Gli artisti che aderiscono alla Op art indagano i rapporti causa effetto tra l'immagine e lo sguardo del fruitore. Protagoniste sono le texture (gradients come li chiamava Gibson) e i patterns, che concorrono a suggerire effetti tridimensionali, e/o di movimento. Queste opere mirano a una partecipazione diretta dell’osservatore nella generazione dell’effetto visivo desiderato. Nella fruizione c’è sempre una partecipazione diretta del fruitore, che valuta esteticamente e fornisce una sua spiegazione dell’opera. Come si evince dagli esempi riportati, il confine tra astratto e figurativo è sfumato. Ci sono dei punti fermi: 1) Che sia astratta o figurativa, un’opera d’arte intende sempre rappresentare qualche cosa d’altro del semplice materiale utilizzato per creare l’opera. Anche nel caso della corrente Informale. L’opera d’arte, anche se è astratta, rappresenta qualche cosa. Non necessariamente un’istanza di realtà esterna, potrebbe anche rappresentare un’istanza di realtà interna e molto spesso è questo il caso. Potrebbe rappresentare il gesto, il sogno. Non deve richiamare sempre una realtà esterna, ma ogni opera d’arte è la rappresentazione di qualcosa. Non solo le arti figurative ma qualsiasi espressione artistica. 2) Il modo con cui si guarda un’opera può determinarne l’esito in termini di classificazione in astratto/figurativo. Tale classificazione è quindi mutabile e legato sia allo stile di osservazione adottato, sia alle conoscenze pregresse del fruitore. Cioè la sua capacità di riconoscere qualcosa all’interno della raffigurazione. 3) La definizione di un’opera come astratta o figurativa poco ha a che vedere con la complessità intrinseca di un’opera. Lezione 11 – ARTE E SCIENZE Fino a Leonardo da Vinci questi due modi di ricerca erano molto collegati fra di loro. L’arte, intesa come techne coltivava interessi per la scienza dei numeri, per le proporzioni e i rapporti, si dedicava alla progettazione di macchine ed edifici destinati a scopi sia civili che militari. In un certo modo fare l’artista significava anche studiare la percezione visiva. Lo si può comprendere ad esempio leggendo il trattato della pittura di Leonardo, dove molte delle osservazioni che lui fa sono fatti che riguardano le scienze percettive. Tutte le descrizioni che lui fa sul ritrarre quali che lui chiama accidenti e moti mentali sono considerazioni psicologiche sulle dimensioni affettive del pensiero visibili come attività nello sguardo di una persona. Fino a Leonardo arte e scienza camminano a braccetto. La prospettiva aveva inaugurato un nuovo atteggiamento nell’osservazione della natura, preparando la strada alla grande rivoluzione scientifica del XVII secolo. Negli Stati Uniti si trovano le Faculty of Arts and Science... Perché? Quando si guarda il panorama delle offerte formative negli USA e in Canada non si può non rimanere colpiti dalla combinazione tra arte e scienze a livello di Facoltà. È vero che le Facoltà sono molto eterogenee rispetto alle nostre ex Facoltà e che rivestono una funzione di sovrastruttura di secondaria importanza rispetto ai Dipartimenti, che sono invece strutture organizzative che raccolgono ricercatori i cui interessi convergono verso un macro-tema. L’accostamento potrebbe comunque stare ad indicare una possibilità di “dialogo” tra discipline artistiche, umanistiche e scientifiche, almeno a livello ideale se non propriamente pratico. Si postula la separazione tra arte e scienza intorno al 1600, in seguito alla scoperta di nuovi strumenti di osservazione e alle pubblicazioni di Galileo Galilei e l’introduzione del metodo sperimentale, che affiancò il metodo dell’osservazione che aveva caratterizzato lo sviluppo delle scienze naturali. A favorire l’autonomia della scienza sono state l’introduzione della falsificazione come metodo di verifica delle ipotesi e l’applicazione della matematica ala descrizione dei fenomeni e alla definizione delle leggi che li regolano. La scienza divenne consapevole che non bisogna far conto sui dati sensoriali se si vogliono scoprire le leggi che regolano la natura. Si può tuttavia assegnare a Leonardo da Vinci l’idea che l’osservazione da sola non basta, e che bisogna ‘sperimentare’ per capire come funzionano certi aspetti del reale. Il metodo vinciano, tuttavia, era ancora largamente legata ad interpretazioni del reale basate sull’osservazione. Gli esperimenti erano infatti guidati da domande (cosa succede se? come funziona?), non da ipotesi, le quali sono alle basi della formulazione di teorie, complesso appunto di ipotesi interconnesse, che caratterizza le scienze moderne. La formulazione di ipotesi non è legata a domande generiche (tipo ‘come funziona?’), ma a domande strutturate: Perché succede una cosa? È a causa di A o di B? Il positivismo di Comte unifica arte e scienza, e Morin sosteneva che la scienza fosse un’arte in quanto strategia di conoscenza. È Galileo, che contrapponendo il ‘dubbio’ al ‘dogma’, va oltre la semplice ’sperimentazione’, adoperando in modo sistematico l’osservazione sperimentale, ponendo così le basi allo sviluppo del metodo sperimentale. Vantaggi? Una ri-unificazione di scienza e arte è funzionale soltanto all’industria culturale, non certo alle due discipline. I modi di procedere, i risultati ottenuti e ottenibili, gli scopi stessi, ed i linguaggi utilizzati sono intrinsecamente diversi. L’arte alla fine della fiera ha lo scopo di suscitare un’emozione, una curiosità estetica, qualcosa che ha a che fare non con la risoluzione di un problema ma semmai pone dei problemi all’osservatore. L’artista non è un neuroscienziato (come invece voleva sostenere Zeki): il suo scopo non è quello di studiare o di spiegare il funzionamento del cervello, bensì quello di determinare in un osservatore una determinata esperienza estetica. Il neuroscienziato (e lo psicologo) non sono artisti: il loro scopo non è quello di creare forme o di rappresentare istanze umane, bensì quello di comprendere i meccanismi sottostanti il comportamento umano. La scienza rincorre la verità attraverso lo studio della realtà. L’arte relativizza la verità, e nel fare ciò può anche prescindere del tutto dalla realtà. Tesi 2 di Zeki (Arte e cervello hanno una funzione comune: acquisizione di conoscenza. La funzione dell’arte è dunque un’estensione della funzione del cervello.). Che l’arte dipenda dal funzionamento del cervello è evidente, come dipende dal funzionamento del cervello il fatto che si facciano schioccare le dita. Ma non è che schioccando le dita si fa un’estensione del cervello. Semplicemente le dita obbediscono a una nostra volontà trasmessa attraverso dei circuiti neurali specifici. Tesi 5 (L’artista è un neuroscienziato in quanto comprende in modo istintivo il funzionamento del cervello per quanto concerne le componenti comuni dell’organizzazione visiva ed emotiva) Sminuisce le doti intellettuali dell’artista. Dire che è un neuroscienziato istintivo significa che non sa quello che sta facendo ma è come se fosse un neuroscienziato perché tocca le corde giuste. Sono in molti però a saper toccare le corde giuste, tutti quelli che vogliono vendere qualcosa. Questo non vuol dire nulla. L’artista non è un neuroscienziato istintivo e non necessariamente funziona secondo la logica dell’istinto. Artista che si mette al servizio delle scienze. Rappresentazioni nelle enciclopedie. Falsificazione e falsi Il prodotto dell’arte è un oggetto materiale, che non può esimersi dall’avere una forma, che è l’ancora materiale senza la quale l’opera non potrebbe esistere. Un risultato scientifico è tanto più vero, verificato, quanto più è ripetuto, rifatto, smontato e rimontato. Mentre un’invenzione artistica è tanto più falsa quanto più sarà ripetuta. Nessuno nelle arti visive può fare un’opera senza ancorarla a un oggetto e un oggetto ha sempre una forma. Il prodotto della scienza è indipendente dall’oggetto materiale che lo veicola. Di solito è costituito da testi, formule, immagini, ma è indipendente dallo stile e dalla grazia con cui sono presentati. Il valore di un risultato scientifico è completamente indipendente dal modo e dalla forma in cui si presenta nella sua prima formulazione, mentre l’opera d’arte ha solo una prima e ultima formulazione e da essa dipende il suo valore. Nel campo delle arti visive si è cercato di formalizzare, ovvero di descrivere in termini numerici o di rapporti fra numeri, le caratteristiche estetiche dei prodotti artistici. Questo è stato interpretato spesso come un momento di incontro tra scienza e arte. Si trattava invece della semplice evidenza che il numero è un pezzo di astrazione matematica che serve all’arte, come alla scienza. Hadamard e la psicologia della matematica Hadamard pensa una psicologia della matematica. Il suo tentativo è interessante più per quello che dice sui limiti della psicologia che sull’artisticità della matematica. Considera il questionario usato in alcuni studi sull’invenzione matematica uno strumento non sempre affidabile, che consente di porre domande poco importanti e tralasciarne altre a suo avviso importanti come la natura delle emozioni provate. Secondo lui, infatti, le emozioni potevano favorire, oltre alla produzione poetica, altri generi di creazione come quella matematica. Un altro aspetto importante per Hadamard e trascurato da quei questionari è il fallimento. Mentre gli errori, pur frequenti, non costituiscono un problema perché si correggono facilmente, gli insuccessi sono delle perdite irrecuperabili. Per fallimenti intende problemi incontrati e non riconosciuti, o soluzioni che erano a portata di mano e non sono state considerate. Capire le ragioni psicologiche di tali insuccessi sarebbe per Hadamard un contributo importante. Hadamard vorrebbe capire come mai nel corso delle sue ricerche gli siano sfuggite alcune soluzioni che erano a portata di mano. L’aspetto difficile se non impossibile da affrontare per uno psicologo è quello di stabilire quando e in che senso due argomenti matematici che non conosce, e probabilmente non è in grado di capire, siano vicini e quando si possa parlare di soluzione a portata di mano. Non succede solo a chi non è matematico. Ci sono delle teorie con cui alcuni matematici hanno delle difficoltà ma altri sono completamente a proprio agio. Dice che sarebbe interessante trovare le ragioni psicologiche di tali differenze. Perché alcuni scienziati vedono e altri no? In cosa consiste precisamente quel vedere? È appropriato il termine vedere perché la difficoltà non è dovuta a imperfezioni di ragionamento, alla complessità del problema o dei calcoli, ma perché il risultato era già pronto e non ce ne siamo accorti. La visualizzazione La visualizzazione dei problemi e dei fenomeni offre un aiuto al pensiero. Alcuni sostengono il ruolo esclusivo del linguaggio nella produzione e formulazione di idee e nello sviluppo dei ragionamenti. Altri sostengono l’importanza della visualizzazione nella soluzione dei problemi e nella costruzione e formulazione di ipotesi teoriche e di interpretazioni creative. Hadamard è dalla parte dei sostenitori dell’utilità, anzi del ruolo fondamentale delle rappresentazioni mentali dei fenomeni. Scienza e arte: riscoprire e imitare Molti matematici, quando affrontano lo studio di scoperte avvenute in epoche precedenti e di risultati già raggiunti, preferiscono ripensarli e riscoprirli per conto proprio, piuttosto che apprenderli dai testi nella forma scelta dal loro autore. È un’evidenza importante della differenza tra scienza e arte. Il testo scientifico può essere addirittura evitato dallo studioso. Significa che far propri i risultati di altri non significa apprenderli ma riscoprirli. Nel camp dell’arte non si possono riscrivere le opere per rassicurarsi sulle proprie capacità creative. Ciò che si può fare in arte è l’imitazione, la copia, appropriarsi dello stile, operare alla maniera di, ed è possibile perché si conosce molto bene ciò che si imita. L’artista imita lo stile del suo maestro ma non rifà mai una sua opera, a meno di copiarla. Il matematico invece rifà l’opera prescindendo da ogni problema di stile. Nel primo caso c’è di mezzo la forma sensibile, nel secondo la forma pura, i concetti. L’inconscio matematico, ovvero l’estetica della soluzione Hadamard costruisce una teoria della creatività matematica articolata in tre momenti. - Il primo di preparazione prevede un lavoro rigorosamente logico del pensiero cosciente che assume i termini del problema da risolvere. - Il secondo di incubazione prevede che il problema con tutto il suo armamentario di ipotesi, idee, intuizioni, che continua ad essere alimentato dal lavoro di preparazione, diventi oggetto di elaborazione da parte di processi inconsapevoli, che fanno maturare quella soluzione di cui non siamo in grado di dire se e quando verrà. L’inconscio svolge un lavoro molteplice per costruire numerose combinazioni di idee e paragonarle fra loro e approdare infine alla scelta risolutiva. - Il terzo momento è quello dell’illuminazione in cui la soluzione si presenta già completa e definitiva. I tempi e le procedure con cui si presenterà tale illuminazione sono imprevedibili e sorprendenti. Paul Valery aveva sostenuto che anche alla base dell’invenzione poetica c’è una scelta, e Hadamard è d’accordo. Se l’invenzione è scelta, si chiede quale ne sia il criterio e risponde che non può che esser estetico. Per scegliere i problemi a cui dedicarsi e selezionare gli argomenti delle ricerche, il ricercatore deve fidarsi della guida del senso di bellezza scientifica. Hadamard descrive un mondo sorretto da una specie di gnoseologia estetica, secondo la quale la bellezza può essere considerata un indicatore attendibile di cui tener conto in ogni tipo di scelta, da quelle più banali quotidiane a quelle riguardanti le ricerche in cui impegnare l’intelligenza. Afferma che le scelte operate in base alla bellezza finiscono quasi sempre col dimostrarsi giuste e fruttuose, anche quando considerate da altri punti di vista potrebbero apparire sterili e insensate. Arriva a una doppia conclusione: l’invenzione matematica è scelta, governata perentoriamente dal senso della bellezza scientifica. Secondo Hadamard, quindi, l’estetica del bello si trova a monte del processo scientifico nella scelta degli argomenti di ricerca e anche a valle, quando avviene l’illuminazione risolutiva. Non è la stessa cosa che avviene per l’artista? Il senso estetico lo guida nelle scelte e una folgorazione ne illumina l’esecuzione. Una scienza come la psicologia che studia prima di tutto l’uomo in molte delle sue manifestazioni, ha come obiettivo l’analisi e la spiegazione delle attività dell’uomo medio, che si trova ad affrontare compiti di media difficoltà in un ambiente mediamente complesso. Quanto più i problemi che la psicologia affronta si allontanano da questa medietà, tanto più difficili diventano. Quindi pensare a una psicologia della scienza o della matematica è molto più arduo che parlare di psicologia dell’arte; e parlare di psicologia dell’arte è più difficile di parlare di conoscenze ingenue. L’ostacolo maggiore è la necessità di usare contemporaneamente due discipline, la psicologia e la matematica. I matematici avranno mai una conoscenza sufficiente della fisiologia del cervello, o i neurologi della matematica così da rendere possibile un’efficiente collaborazione? La psicologia dell’arte pone un problema analogo ma non è raro trovare psicologi con buone competenze artistiche (Arnheim) e studiosi d’arte con buona competenza psicologica (Gombrich). Nei territori di confine tra le discipline è quasi impossibile mantenere l’equilibrio tra gli opposti interessi e la bilancia tenderà sempre verso una delle due parti. Infatti, gli psicologi hanno usato l’arte come miniera di esempi a sostegno delle loro teorie psicologiche e gli studio si d’arte hanno trovato nella psicologia idee e scoperte che li hanno aiutati a rinnovare i loro criteri di osservazione delle opere. Non si è mai verificato il caso che psicologi e studiosi d’arte abbiano deciso di collaborare nelle ricerche sull’arte. Inoltre, i possibili interlocutori e collaboratori dello psicologo nel campo dell’arte dovrebbero essere almeno tre (critico, storico, artista) e questo complica le cose. Infatti, è difficile chiedere ai cultori di una disciplina di aprire spazi al suo interno per un’altra. Aprire una nuova branca di studi e di ricerca è un modo di mettere a frutto una vecchia ignoranza per raggiungere una nuova conoscenza. È comodo usare metodi e procedure di una disciplina già praticata. È un procedere additivo e asistematico che ha il vantaggio di lasciare spazio all’avventura nella ricerca e consente di fare scoperte interessanti e curiose senza dover dar conto delle proprie scelte o collegare i propri risultati alla struttura teorica di base della disciplina. Si rischia poco seguendo questa via, al massimo di dare la precedenza ad aspetti secondari perché più immediatamente aggredibili, ma le conoscenze che si raggiungono risultano orientate in molte direzioni che si allontanano da un centro sempre meno comune e sempre più evanescente. È questo il modo in cui ha lavorato finora la psicologia dell’arte. Una procedura seguita da mote discipline consiste nello smontare problemi troppo grossi in sotto-problemi più facilmente aggredibili. Nel caso della psicologia dell’arte sembra necessario procedere nella direzione opposta: riportare le molte manifestazioni e le molte istanze dell’arte all’interno di un unico centro tematico che ne costituisca l’anima problematica. Al di là dei volti diversi, anche contrastanti, con cui l’arte si mostra ci deve essere un nucleo di base, che pur non essendo facile individuare e descrivere, è necessario rimettere insieme, perché è attorno a esso che una psicologia dell’arte può crescere. Lezione 12 – ARTE E COMUNICAZIONE 1 Comunicazione: Atto del trasmettere ad altri; Atto del trovarsi in contatto con altri; Processo mediante il quale l’informazione viene trasmessa tra due sistemi; Collegamento materiale. Un processo per mezzo del quale l’informazione è scambiata tra individui per mezzo di un sistema comune di simboli. Il termine comunicazione si riferisce a moti processi diversi, uno dei quali è la capacità, ma anche la necessità, che gli umani hanno di mettere in comune e condividere conoscenze, emozioni, esperienze. Gli umani vivono all’interno delle strutture sociali organizzate e complesse che essi si sono dai e che vengono tenute insieme dal continuo riaggiustamento di un sistema di credenze, che si forma, cresce e si modifica grazie alla possibilità di comunicare. Informazione La comunicazione o ricezione di conoscenza; Conoscenza ottenuta mediante l’investigazione, lo studio, o l’istruzione; L’attributo inerente a, e comunicato da, una sequenza o arrangiamento di un insieme di elementi che produce effetti specifici; Un segnale o segno rappresentante dati, cioè entità aventi un contenuto specifico; Qualche cosa (messaggio, dati, immagine) che giustifica un cambiamento di costrutto (come un piano, un’ipotesi, un pensiero) rappresentante esperienze fisiche, mentali, oppure un altro costrutto. Nozioni fondamentali 1) Tutti i rapporti umani sono mediati dalla comunicazione. Verbale o non verbale. 2) Un sistema vivente (che respira, si riproduce e si adatta) è differente per il modo in cui utilizza l’informazione rispetto ad una macchina che funziona in base ai principi della meccanica classica (legame di tipo causa-effetto con esiti prevedibili). 3) Le problematiche inerenti ai processi di comunicazione non risiedono nel contenuto o nella natura dell’informazione, ma nel modo in cui l’informazione è definita, trasmessa, riconosciuta, orientata e utilizzata. Spesso studiando il ruolo della comunicazione si confonde il contenuto con i mezzi, i modi. I gradi di libertà della comunicazione Chi tratta di comunicazione mette in evidenza i seguenti punti: - Tutti i rapporti umani sono mediati dalla comunicazione, la quale non ha fini anche se chi la pratica ha degli scopi; - Un sistema vivente che respira, si riproduce, si adatta è differente per il modo in cui utilizza l’informazione da una macchina che funziona in base ai principi della meccanica classica. - Il problema della comunicazione non risiede nella natura o nel contenuto dell’informazione, ma nel modo in cui l’informazione viene definita, riconosciuta, orientata e utilizzata da specifici sistemi e all’interno di essi. Un termine ripetuto ha tanti significati quanti sono i contesti in cui può apparire. Ogni nome ha un piccolo nucleo semantico comune a tutti gli usi che se ne possono fare e tante desinenze differenti che vengono determinate dal discorso in cui è inserito. I nostri processi cognitivi lavorano con le forme, cioè con le strutture emerse dai processi di organizzazione sensoriale, non con l’informazione sensoriale grezza. È la base per comprendere l’importanza delle forme nell’arte. L’arte è continuamente attiva nel ridefinire, ridisegnare, esplorare i confini della comunicazione. Passaggi principali di questo processo: - Il nostro sistema cognitivo percepisce, riconosce, concettualizza, ricorda soprattutto forme. - La vita sociale è il risultato di interazione e scambio di informazione tra gli individui. Questo processo articolato è chiamato comunicazione. - La comunicazione avviene mediante trasmissione e scambio di informazione (intesa come messa in forma). - Ci sono modi diversi in cui il termine comunicazione può essere usato. La vita sociale è caratterizzata dalla comunicazione di tipo aperto. - La comunicazione aperta funziona e rimane attiva se è alimentata da una continua invenzione ed immissione di nuove forme. Non di nuovi contenuti, di nuove forme. - Le forme perdono potere comunicativo in funzione del loro uso: una forma usata molte volte ha, a livello teorico, meno potere di una forma inventata da poco. - L’arte è uno di quegli ambiti in cui è portata avanti la ricerca di nuove forme aventi potenzialità comunicative. - Non c’è un travaso immediato e completo delle nuove forme dall’arte alla comunicazione. È un’osmosi continua e inesauribile tra i due livelli. - L’esistenza e la frequentazione di luoghi e oggetti deputati (esposizioni, teatri, sale, musei, biblioteche, libri di letteratura) testimoniano il bisogno e la curiosità per le forme che hanno consentito e che possono consentire scambi comunicativi. - Il vissuto, l’incontrato, le esperienze emotive hanno la caratteristica di essere spesso le stesse, ma di essere anche radicalmente diverse, a seconda del modo in cui sono comunicate. - Non si tratta solo della ricerca artistica avanzata, ma anche di tutta l’invenzione, realizzazione, produzione di forme che riempiono la vita quotidiana di qualsiasi persona a qualsiasi livello economico e culturale. - C’è una forte unità stilistica di fondo fra tutte le manifestazioni artistiche di un’epoca. L’idea di stile risiede nel fatto che sia prevista la possibilità di scegliere fra opzioni diverse relativamente al modo di fare qualcosa, quindi essa riguarda la forma e poco il contenuto. In molti casi le opzioni diverse seguono la stessa direzione. Questa sorta di convergenza è dovuta al ruolo di guida e indicatore svolto dalle scoperte maturate nell’ambito della ricerca artistica. - Fra la ricerca artistica più avanzata e dirompente e le forme quotidiane del comunicare c’è omogeneità e continuità. - Forma e contenuto sono due aspetti indissolubili e interconnessi nell’unità di un’opera realizzata, che tuttavia nella sua fase esecutiva possono essere temporaneamente separati e trattati indipendentemente. - Se è impossibile separare la forma dal contenuto nell’opera conclusa, è non solo possibile ma conveniente separarli nella fase della sua realizzazione. La scoperta o la maturazione delle forme e dei contenuti non si verificano contemporaneamente. Può accadere che nuovi contenuti debbano, per diventare comunicazione, trovare le forme adatte. Ma può anche darsi il caso della scoperta di nuove soluzioni formali che vadano alla ricerca di contenuti da veicolare. All’inizio del 900, la pubblicità diventa una cosa seria, i manifesti pubblicitari cominciano a moltiplicarsi e c’è la ricerca di originalità. La ricerca di catturare l’attenzione dell’osservatore, tramite risoluzioni estetiche anche estreme. Gli artisti direttamente creano pubblicità. La pubblicità va a pescare direttamente dagli artisti, anche. C’è una terza via, ossia l’arte che va a pescare dalla vita reale, cioè dal prodotto commerciale. Non tutta la ricerca artistica finisce col fornire nuove forme alle esigenze più diverse della comunicazione quotidiana, ma vi è un’osmosi tra i due livelli. Infatti, gli elementi della comunicazione quotidiana possono avere una importante influenza sulla ricerca artistica. Roy Lichtenstein. Il segno della sua arte è riproporre temi fumettistici all’interno delle sue opere, solitamente di grandi dimensioni. Alcune delle sue ispirazioni vengono da riviste young romance. Fumetti dedicati all’educazione romantica delle giovani donne. Is Lichtenstein a great modern artist or a copy cat? Quando la pop art è improvvisamente entrata nella scena nei primi anni Sessanta, molte persone hanno misconosciuto il lavoro di Andy Warhol, Roy Lichtenstein e i loro contemporanei come spazzatura, senza valore. Ogni volta che c’è un nuovo scenario nel mondo dell’arte la critica più tradizionale fatica a seguirlo, salvo poi ricredersi. I vissuti che ogni persona può esperire durante la propria esistenza, nonché le esperienze emotive, sono spesso molto simili tra loro, ma allo stesso tempo diversi sia per il contesto che caratterizza l’esperienza, sia in base al modo in cui sono rappresentate (o ricordate). In arte è soprattutto la FORMA che si carica della diversità, e quindi del processo di innovazione. Tra le forme “peggiori” e quelle più “sublimi” vi è una continuità di realizzazioni che soddisfano una richiesta generalizzata e scalare di modelli da cui attingere le forme del comunicare. Tutte le epoche ed i periodi storici sono caratterizzati da una certa unità di stile che non riguarda solo l’arte, ma tutte le manifestazioni dell’attività umana. Lo stile riguarda anzi tutto la scelta di forme, e non necessariamente di contenuto. In tal senso l’arte di un determinato periodo storico tende a fornire modelli utili alle attività in cui la componente della comunicazione è rilevante. Anche perché utilizza uno stile che modella e si modella sul periodo storico in questione e quindi diventa più facilmente interpretabile. Ovvero, l’arte nutre lo stile di un’epoca, nutrendosi a sua volta di contenuti emergenti dall’epoca in cui è nata l’opera. È fondamentale per capire lo scambio che avviene tra arte e società, che è basato essenzialmente su forme. Su forme e sullo stile che va a caratterizzare l’epoca. Quindi è lo stile che caratterizza l’epoca, e riguarda anche la scelta delle forme e il loro modo di apparire. Che fine ha fatto il contenuto? A livello di opera conclusa, forma e contenuto sono elementi inseparabili. È inutile dire manca il contenuto, perché se manca il contenuto manca l’arte. L’opera d’arte è fatta di forme e il contenuto è lì delle forme. Non è un’idea bizzarra astratta. Se non c’è una forma adeguata per comunicare, in grado di attirare l’attenzione, quel contenuto è perso. La pura forma non esiste: ogni forma veicola anche un contenuto (se non altro perché innesca un processo di interpretazione). Quindi anche l’arte per l’arte e l’arte informale, in cui la forma classicamente intesa scompare, quella è forma e quindi è anche contenuto perché diventa oggetto di interpretazione. Tuttavia, nella pratica del fare arte, queste due facce della stessa medaglia possono essere temporaneamente separate. Per esempio, nelle cosiddette belle arti, una volta definito il contenuto, è la forma ciò di cui l’artista deve preoccuparsi: concentrandosi sulle qualità estetiche della forma, l’artista può mettere in evidenza aspetti inediti del contenuto. Il grande artista è questo. Non è colui, come diceva Freud, che è in grado di mettere in scena le proprie pulsioni. È colui che è in grado di far sì che si provino determinate emozioni o determinate reazioni cognitive, in grado di far innescare determinati pensieri e valutazioni. In fondo l’arte è una bugia. Una bugia funziona quando fa credere qualcosa che non c’è. La percezione pittorica è questo, ingannare, mostrare delle condizioni che in realtà non sono quelle reali. Ma non ha importanza, perhcè lo scopo non è riprodurre la realtà, è presentare una realtà altra. Perché l’arte è una realtà altra, ed è questo quello che ci interessa. La diversità tra un’opera d’arte e un documentario è che il documentario rimane un documento, che testimonia una visione storica. L’opera d’arte non è un documento che vuole restituire di per sé una visione del reale. Vuole innescare dei processi altri che poi possono anche richiamarsi a fatti storici o contemporanei, ma è sempre una trasfigurazione per andare oltre quelle cose. Secondo Massironi l’arte svolge un ruolo concreto e funzionale in termini di una ricerca attiva mediante cui vengono scoperte, sperimentate e verificate le forme che alimentano la comunicazione di tipo aperta. In arte, “la forma della comunicazione deve essere in buona misura libera anche rispetto ai contenuti”. Una volta deciso di voler rappresentare una determinata cosa, una volta determinato lo scopo, è attraverso la forma che si va a modulare le possibilità comunicative. Se ci si concentra sul contenuto verrà fuori una cosa didascalica noiosissima. Se invece ci si concentra sulla forma e tramite la forma so è in grado di portare alla luce caratteristiche inaspettate che poi vanno a incidere sul contenuto, si raggiunge un obiettivo importantissimo. Rappresentazione dello spazio e della materia Due scuole artistiche molto importanti che hanno caratterizzato il rinascimento a confronto: l’oggettività lenticolare del Rinascimento nordico fiammingo (Jan Van Eyck) e l’oggettività prospettica del Rinascimento italiano (Masaccio). Van Eyck. Rappresentazione lenticolare della natura. Masaccio. Rappresentazione di uno stile completamente diverso. Anche due tecniche pittoriche diverse. Van Eyck usa già la tecnica dell’olio, scoperta fiamminga che arriverà in Italia solo dopo la seconda metà del 1400. Rappresentazione di piante ed animali nel secondo Rinascimento Nella storia della cultura occidentale c’è stato un periodo in cui la scienza dovette fare appello all’arte per risolvere dei problemi di comunicazione che non era in grado di affrontare in maniera autonoma. Non furono tutte le scienze e tutte le arti ad essere coinvolte, ma la botanica e la zoologia e la pittura e il disegno. La scoperta della prospettiva fece ritenere che l’obiettivo inseguito per secoli dai pittori di raggiungere la perfetta verosimiglianza fra raffigurato e osservato fosse a portata di mano. Ulisse Aldrovandi (1522-1605) era uno studioso della natura, il che significava per lui prima di tutto catalogarla, ridurla a un lungo e dettagliato elenco e quindi raccogliere, sugli esempi così enumerati, tutte le possibili informazioni, attendibili o meno che fossero, dalle fonti più disparate. Sente la necessità di classificare la natura: rifare l’inventario del mondo in base ai metodi dell’osservazione diretta. Non più attraverso il racconto di qualcuno che ha visto qualcosa di meraviglioso ma osservando direttamente la natura. Prima dell’epoca c’erano erbari e bestiari, che erano del tutto fantastici. I nuovi scienziati si erano resi conto sia dei limiti comunicativi e descrittivi della parola, sia dei limiti estetico-decorativi delle sole figure. I limiti della descrizione verbale possono essere superati mediante l’ausilio di immagini. Questa nuova tecnica pittorica e questa nuova verosimiglianza porta l’esigenza di riscrivere l’enciclopedia del mondo. Partire dall’osservazione diretta per descrivere la realtà naturale come si presenta. La migliore descrizione sono le immagini. La pittura è il mezzo adatto non solo a fissare e verificare le nuove conoscenze, ma anche lo strumento necessario alla loro trasmissione. Allora vengono assoldati quegli artisti dalle grandissime abilità tecniche che però non sviluppino in modo particolare uno stile personale. Lo stile personale è importante nell’arte perché è la firma dell’artista ed è il motivo per cui alcuni artisti sono molto ricercati piuttosto che altri. Al fine di soddisfare le esigenze di una nuova oggettività, agli artisti è richiesto di rinunciare alla propria ricerca stilistica, alla propria esplorazione nel campo delle forme. Aderiscono alla chiamata d’armi degli scienziati naturalisti quegli artisti che, dotati di un gran virtuosismo, non sono però innovatori nel campo dell’arte. Ciononostante, questa collaborazione produrrà anche esiti in campo dell’arte, come il fiorire di un nuovo genere pittorico, la natura morta. L’arte dunque non importò aspetti o contenuti della conoscenza scientifica, bensì orientò nella direzione del suo ambito di ricerca le sollecitazioni e le curiosità che gli scienziati instillarono al suo interno. Potere e arte Il potere politico e religioso si è nutrito di arte, ha utilizzato l’arte per mandare i propri messaggi. Come un veicolo comunicativo. Alle immagini sono state attribuite fin da epoche arcaiche attributi magici, finalità celebrative, funzioni simboliche, e in tal senso l’arte è stato spesso al servizio del ‘potere’. Il potere, di qualsiasi tipo esso sia, è intrinsecamente mirato a espandersi e perpetuarsi ed è perciò consapevole da sempre che la sua espansione, ma soprattutto la sua permanenza dipendono, oltre che dalla sua forza e dalle sue conquiste, da come forza e conquiste sono comunicate. La comunicazione mediata dall’arte ha il potere di trasformare la massa ottusa di sofferenza, dolore e morte che ogni conquista porta con sé nelle figure del mito. E il mito è un accumulatore di identificazione, quindi di consenso. Il ‘potere’ (la persona o il gruppo di persone che reggono i destini di altre persone mediante scelte politiche, economiche e sociali) ha usato l’arte per illustrare e comunicare le proprie conquiste, i propri intenti, i propri valori, la propria giustificazione. Ma l’arte, pur accettando di rendersi interprete dei contenuti imposti dal potere, non ha mai abdicato alla sua libertà nell’invenzione delle forme. L’insofferenza alla pura celebrazione e alla funzione propagandistica imposta dalle autorità comincia già a serpeggiare dalla seconda metà del 1500. L’insofferenza diventa programmatica con le avanguardie del Novecento. Le avanguardie artistiche di quel periodo coltivavano una dichiarata insofferenza per ogni regola, che non fosse libera scelta dell’artista. Dichiaravano inoltre una mal celata insofferenza nei confronti del tardo mondo borghese. Tutte le avanguardie, all’inizio, qualunque sia poi stato l’esito della loro storia, hanno promosso qualche crociata conto il pensiero piccolo borghese. Lo scontro si fa frontale con l’avvento del Nazismo, che bolla le avanguardie del Novecento come “Arte degenerata”. Il nazismo reagì in maniera scomposta alle provocazioni dell’arte contemporanea, e come tutti coloro che non nutrono dubbi, finì per strafare, contribuendo alla dimostrazione che le avanguardie avevano ragione. “Le opere d’arte che non si possono comprendere, ma richiedono una quantità esagerata di spiegazioni per provare il loro diritto di esistenza come tali e per giungere a quei neurotici sensibili a tali stupide e insolenti assurdità, non capiteranno più pubblicamente tra le mani dei cittadini tedeschi. Che non vi siano illusioni! Il nazionalsocialismo ha intrapreso l’epurazione del Reich tedesco e del nostro popolo da tutte quelle influenze che ne minacciano l’esistenza e il carattere. […] Con l’apertura di questa esposizione è giunta la fine della follia artistica e della contaminazione del nostro popolo nel campo dell’arte.” Adolph Hitler, Discorso d’apertura della “Casa dell’arte tedesca” in Monaco, 18/07/1937 che era l’arte che doveva celebrale la germanica del popolo e quindi era un’arte selezionata da lui e dai suoi ministri. La Germania opera un capillare lavoro di epurazione dell’arte decadente, che porta all’allontanamento dai musei tedeschi di circa 6500 opere di tutti gli artisti moderni. Goebbels dadaista La presunzione con cui il potere assoluto si illude che le sue interessare convinzioni siano delle grandi verità fa compiere a Goebbels, ministro della propaganda, un errore grave dal suo punto di vista. Goebbels organizza in una zona della città lontana da quella in cui era esposta l’arte nazionalsocialista, in una galleria fatiscente, una mostra di “arte degenerata” a illustrazione delle ragioni del Führer. Voleva mostrare al popolo da che cosa Hitler lo stava salvando. 3) Esaltare ogni forma di originalità, anche se temeraria, anche se violentissima. 4) Trarre coraggio ed orgoglio dalla facile faccia di pazzia con cui si sferzano e s'imbavagliano gl'innovatori. 5) Considerare i critici d'arte come inutili e dannosi. 6) Ribellarci contro la tirannia delle parole: armonia e di buon gusto, espressioni troppo elastiche, con le quali si potranno facilmente demolire l'opera di Rembrandt, quella di Goya e quella di Rodin. 7) Spazzar via dal campo ideale dell'arte tutti i motivi, tutti i soggetti già sfruttati. 8) Rendere e magnificare la vita odierna, incessantemente e tumultuosamente trasformata dalla scienza vittoriosa. Siano sepolti i morti nelle più profonde viscere della terra! Sia sgombra di mummie la soglia del futuro! Largo ai giovani, ai violenti, ai temerari! All’inizio del secolo veloce ci fu tutta una serie di manifesti, come se si dovesse aderire a un programma per essere riconosciuti. Il motivo è chiaro, quello di cercarsi un mercato. Perhcè anche gli artisti più temerari poi devono mangiare. Il programma metafisico è un programma che a un certo punto viene più facilmente accettato rispetto all’arte futurista. I quanti e la visualizzazione L’arte esplora, ridefinisce e dilata i confini del mondo della comunicazione. La scienza esplora, ridefinisce e dilata i confini del mondo della natura. La comunicazione è interessata alla scoperta e alla continua reinvenzione delle forme che costituiscono il materiale per il suo funzionamento, mentre la scienza deve necessariamente prescindere dalla forma, e tuttavia ha bisogno di comunicare le sue scoperte e conoscenze. Lo fa elaborando continuamente il linguaggio della matematica, ma spesso non basta. Le scoperte della struttura e delle leggi del mondo si costituiscono e vengono verificate prima e indipendentemente dalla loro comunicazione. Nel campo dell’arte, invece, nuovi percorsi della comunicazione sono tentati, sperimentati e proposti prima e indipendentemente dal costituirsi di nuovi contenuti da comunicare. Nel primo caso è primario il problema di giungere al sapere, mentre il problema dei modi di comunicazione viene dopo. nel secondo caso è di primaria importanza la forma del comunicare e il “che cosa” viene dopo. Un esempio è la polemica che si è accesa all’inizio del 900 sull’utilità, nella formulazione e nella spiegazione delle nuove teorie, di un qualche tipo di visualizzazione dei fenomeni considerati. Fu formulata la teoria dei quanti, ma i fisici si resero conto che non avevano un linguaggio adeguato per poterne parlare. Alcuni sostenevano che l’atomo non era rappresentabile visivamente, altri che invece si poteva rinunciare a un po’ di rigore, pur di continuare a ragionare sugli atomi visualizzandoli. Bohr giunge alla conclusione che la formalizzazione di una teoria coerente dei fenomeni atomici era stata raggiunta grazie alla consapevole rinuncia alle usuali pretese di visualizzazione. Si è trattato di un caso emblematico di sapere e conoscenza acquisita, che ha incontrato complicati problemi di comunicazione. Anche se non si tratta di un caso in cui l’arte abbai direttamente fornito soluzioni al problema di comunicazione dei fisici, è tuttavia un buon esempio della separazione e relativa indipendenza tra la conoscenza e la sua comunicazione. La conoscenza acquisita non è necessariamente predisposta alla comunicazione. Arte, rivoluzione bolscevica, comunismo Per l’arte invece il problema primario risiede nello scoprire e verificare sempre nuovi modi del comunicare, mentre il “che cosa” comunicare, l’acquisizione consapevole di un nuovo sapere, viene dopo. Con lo scoppio della rivoluzione e con il costruirsi di uno stato socialista sovietico, quasi tutte le avanguardie artistiche europee offrirono collaborazione, avanzando la propria candidatura a sostenere la rivoluzione. Nel campo dell’arte, il significato di tale collaborazione era mettere a punto le condizioni comunicative adatte a diffondere i contenuti nuovi nati dalla rivoluzione, come se gli artisti fossero consapevoli che il lavoro dell’arte è quello di inventare, tentare e scoprire modi sempre nuovi della comunicazione. C’è lo stesso modello di quello che accade col futurismo. C’è un’adesione entusiastica delle avanguardie artistiche alla rivoluzione che stava accadendo in Russia. Un’accettazione iniziale da parte dei rivoluzionari di questi nuovi artisti, che guardano sia al cubismo si al futurismo sia a tutte le avanguardie che andavano in scena tra Berlino e Parigi. Un rifiuto successivo in nome di un’arte populista in grado di essere immediatamente compresa. Gli artisti vennero accusati di non aver capito e non aver interpretato il senso della rivoluzione e di essere in realtà dei controrivoluzionari. Gli artisti reagirono con fuga, diaspora, isolamento e a volte suicidio. Quindi prima c’è un’accettazione di questi artisti che aiutavano a promuovere la rivoluzione attraverso le proprie opere, ma poi c’è un rifiuto da parte degli ex rivoluzionari che ormai erano al potere, in nome di un’arte che doveva essere populista. Non dissimile da quello che era il programma di Hitler. La visione utilitaristica dell’arte dà luogo ad una ricerca di forme atte a promuovere il messaggio sovietico (da soviet, che significa unione). Inizio dell’arte-propaganda. L’arte al servizio del potere è, in un modo o nell’altro, sempre portatore di un messaggio propagandistico, educativo, spesso auto-celebrativo. Se lo scopo e il senso dell’arte è la continua reinvenzione degli strumenti della comunicazione, per i poteri l’unico significato della parola comunicazione è quello di propaganda. Quel sapere in cui le risposte vengono prima delle domande La filosofia si interroga da sempre sull’arte. Platone considera l’arte un insieme di regole adatte a dirigere un’attività qualsiasi. Arte come eccellenza del fare. Ma anche: l’arte è quel sapere in cui le risposte vengono prima delle domande, ovvero le domande ci sono ma possono essere abbandonate, ci possono essere risposte diverse e risposte senza domande. Le nuove forme di comunicazione dell’arte e il suo ruolo comunicativo non sono da considerarsi lo scopo dell’arte, ma solo una dimensione dell’arte.
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