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Psicologia dell'arte - Zavagno, Appunti di Psicologia Generale

Appunti completi integrati (slide + osteria dadi truccati + libro gombrich). Mi sono valsi un 29. 2020/2021

Tipologia: Appunti

2020/2021

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Scarica Psicologia dell'arte - Zavagno e più Appunti in PDF di Psicologia Generale solo su Docsity! La definizione d’arte La psicologia dell'arte è una disciplina che si occupa di indagare e spiegare i processi psicologici coinvolti nelle esperienze di produzione e di fruizione di un'opera d'arte. Dato il suo carattere intrinsecamente pluri e interdisciplinare, è difficile delimitarne a priori i settori di pertinenza e definirne lo statuto teorico e metodologico. Molteplici e variabili (in base agli interessi e alle prospettive) sono i suoi territori di confine: dall'estetica alla storia, alla teoria e alla critica dell'arte, dalla letteratura alla medicina e alla psichiatria, attraverso antropologia, sociologia, pedagogia e semiotica, per non parlare delle diverse pronunce e declinazioni riferibili all'ambito storico, teorico e disciplinare relativo all'universo stesso della psicologia e dei suoi diversi indirizzi. Van Gogh: “L’arte è l’uomo aggiunto alla natura - natura, realtà, verità. Ma col significato, il concetto, il carattere che l’artista sa trarne, che libera ed interpreta.” Wikipedia: “L’arte comprende ogni attività umana - svolta singolarmente o collettivamente - che porta a forme di creatività e di espressione estetica, poggiando su accorgimenti tecnici, abilità innate o acquisite e norme comportamentali derivanti dallo studio dell’esperienza. Nell’accezione odierna è strettamente connessa alla capacità di trasmettere emozioni e “messaggi” soggettivi. Sono state date differenti definizioni di arte nella storia, Platone per esempio la considerava “rappresentazione”, Wordsworth come un’emozione ricordata in momenti di tranquillità, e ancora Kant come un interattivo gioco di forme. È così possibile notare che l’arte non è suscettibile a definizioni, o almeno, non ad una definizione univoca, in quanto non ha essenza. Nel significato più sublime, è l’espressione estetica dell’interiorità umana. Rispecchia le opinioni dell'artista nell'ambito sociale, morale, culturale, etico o religioso del suo periodo storico. In senso lato, l’arte consiste in ogni capacità di agire o di produrre, basata su un particolare complesso di regole e di esperienze conoscitive e tecniche, quindi anche l’insieme delle regole e dei procedimenti per svolgere un’attività umana in vista di determinati risultati. Il concetto di arte come tèchne, complesso di regole ed esperienze elaborate dall’uomo per produrre oggetti o rappresentare immagini tratte dalla realtà o dalla fantasia, si evolve solo attraverso un passaggio critico nel concetto di arte come espressione originale di un artista, per giungere alla definizione di un oggetto come opera d’arte. Nell’ambito delle cosiddette teorie del ‘bello’, o dell’estetica, si tende infatti a dare al termine arte un significato privilegiato, per indicare un particolare prodotto culturale che comunemente si classifica sotto il nome delle singole discipline di produzione, pittura, scultura, architettura, così come musica o poesia. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- La tassonomia La tassonomia è una branca della biologia che studia comparativamente i diversi organismi viventi e li raggruppa in base a caratteristiche comuni. La tassonomia è quindi un metodo e un sistema di descrizione e classificazione (parallelismo con l’assunzione della estensione tassonomica nell’acquisizione del linguaggio del bambino). Il termine può essere esteso ad indicare classificazioni sistematiche anche di entità non naturalistiche. Affinché una tassonomia sia efficace e abbia senso, si devono poter individuare, e quindi distinguere, le caratteristiche comuni interclasse e le specificità intraclasse. Quali sono le ♥ Quali sono le caratteristiche e le specificità proprie delle diverse produzioni artistiche? In linea generale, le tassonomie partono da macro-aspetti della realtà, affinando poi la classificazione tramite l’individuazione di caratteristiche distintive. Per esempio, per quanto concerne il regno naturale possiamo distinguere tra entità biologiche (che cioè hanno bisogno di un apporto energetico per svilupparsi) da entità non biologiche. Tra le entità biologiche possiamo distinguere poi il regno animale da quello vegetale, e in quello animale distinguere quello dei mammiferi dagli altri, poi quello dei felini, quello dei gatti, quello dei persiani... Si possono tuttavia determinare tassonomie partendo da altre caratteristiche. Per esempio, nel regno animale possiamo classificare in base al modo in cui l’animale si sposta nell’ambiente, al modo in cui si riproduce, in base ai colori o ad altre caratteristiche della livrea, ecc. ♥ Quali sono le Come classifichiamo le espressioni artistiche? Esistono diverse possibilità per classificarle:  La classificazione classica: suddivide le 7 arti di pittura, scultura, architettura, teatro, letteratura, musica e cinema;  La classificazione in funzione del supporto materiale e dei mezzi usati per creare l’opera;  La classificazione che tiene conto della modalità di fruizione (in che modo noi possiamo godere di quell’espressione artistica?)  La classificazione che considera, laddove possibile, il grado di dinamicità o di evoluzione temporale dell’opera (seppur è un metodo poco efficiente, come vedremo. Ci dice poco sulla natura delle opere). ♥ Quali sono le Spiegami la classificazione classica; 1) Pittura: oltre alle varie tecniche pittoriche, comprende il disegno e l’incisione. Ma c’è un problema: anche la grafica digitale è un’opera d’arte? Se sì... è un’opera di pittura, pur usando modalità di fruizione, materiali e mezzi diversi dalle opere classiche fatte a mano ed esposte in musei? 2) Scultura: comprende molte delle cosiddette arti plastiche. Anche qui abbiamo un problema: la land art (se non sai cos’è, cerca “la passeggiata di Cristo sul lago Iseo) resta fuori da questa classificazione... 3) Architettura: tutto ciò che ha a che fare con la progettazione e costruzione di ambienti e luoghi. Qui il problema sta nel fatto che la land art sembra riconnettersi anche a questo ambito. Ma a quale fa davvero parte? E poi, possiamo davvero farla rientrare in almeno uno dei due? La logica in base alla quale il cattivo è opposto al buono è molto più rigida rispetto a quella che contrappone il bello al brutto. Nel primo caso i due termini si autoescludono, nel secondo caso solo in linea teorica ci troviamo di fronte alla stessa contraddizione inconciliabile, mentre nella pratica dell’arte il bello ed il brutto, intese come esperienze sensoriali, possono presentarsi insieme. Inoltre, la funzione di un’opera d’arte, non esaurisce lo scopo per cui è stata concepita, nel senso che la sua funzione non è l’unico obiettivo per la quale quell’opera è stata creata. La disciplina filosofica che si occupa del bello dell’arte è l’estetica, termine introdotto da Baumgarten nella metà del ‘700 nella sua teoria della conoscenza sensibile, la quale si occupa sia della mera conoscenza sensibile, sia della teoria del bello. Essa parla di bello come assolutizzato, nel senso che è astratto: ha sede ovunque e da nessuna parte al tempo stesso. Non definisce chi e che cosa sia bello, mentre il bello come aggettivo è l’incontro fra un’opera e un fruitore. ♥ Quali sono le Del brutto; Mentre il bello è astratto e ha sede ovunque e da nessuna parte, ciò che è brutto è molto concreto: ha sempre un nome ed un cognome, riferibili sia alla cosa che al giudice. Ciò che fa bella un’opera d’arte non è ciò che viene rappresentato (cosa si osserva con gli occhi), ma ciò che essa vuol rappresentare (il messaggio che vi sta dietro, non osservabile ma deducibile) e soprattutto come lo rappresenta. Si potrebbe quindi pensare che un’opera sia bella grazie alla sua esecuzione tecnica, ma non è così, infatti l’opera d’arte può essere tale indipendentemente dalla perfezione tecnica della sua esecuzione. Il brutto, perciò, non sta nemmeno in una cattiva esecuzione. Dove sta quindi il brutto? Si può dire che il brutto sia mobile, che sia variabile, in quanto gli unici a sapere con certezza che cosa sia il brutto sono i critici d’arte, e i critici d’arte cambiano e si succedono velocemente. Con ciò, si può anche definire che ciò che venne descritto come brutto in un’epoca, viene considerato bello in un’altra e così pare proprio che non esista brutto che non possa diventare bello. Viene definito un cattivo dipinto un dipinto in cui la tecnica pittorica e/o l’abilità dell’esecutore sono mediocri, oppure inadeguati al compito. Il bello ed il brutto sono quindi qualità estetiche (percettive) che si possono raccogliere mediante vista ed udito, mentre buono e cattivo sono sia qualità morali (determinate dall’individuo e dalla società), sia qualità materiali (la fattura), sia qualità edonistiche (poiché si possono percepire tramite tutti i sensi). Inoltre, non esiste brutto che non possa diventare bello. In tempi ormai lontani, ciò che era considerato brutto aveva anche scarse qualità morali. Talvolta il brutto era in tutto e per tutto considerato immorale, cioè privo di una condotta morale e quindi qualche cosa che si avvicinava di più al regno animale (contrapposto cioè all’umano). Il Male, per esempio, era perlopiù rappresentato come una figura grottesca, orrida, mezzo uomo e mezzo animale, deforme, ecc. Solo in anni più recenti il Male è stato raffigurato tramite sembianze piacevoli, per esaltare la sua forza di seduzione in una società dove l’apparenza sembra contare più della sostanza (pensa, ad esempio, ai vampiri di Twilight!) ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- La psicologia e l’arte Ogni psicologo che si è interessato di arte si appoggiava al suo bagaglio di convinzioni e teorie, così invece che affrontare la questione arte in maniera aperta e problematica, quasi tutti gli psicologi sono andati a ricercare nell’arte prove a conferma delle proprie ipotesi e convinzioni psicologiche, ed essendo l’arte un campo ampio e ricco, hanno tutti trovato qualcosa ritenendolo ciò che stavano cercando. Il risultato è stato che l’arte ha fornito rassicurazioni alla psicologia, mentre la psicologia non ha contribuito che in modo trascurabile a spiegare l’arte. Il vero fallimento, però, risiede nel fatto che la psicologia dell’arte non è autonomamente riuscita a stabilire con chiarezza nè il suo oggetto di studio, nè il proprio metodo nè i metodi con cui affrontarne l’oggetto. Difatti, la psicologia dell’arte non è una scienza definitivamente integrata, con specifici metodi, limiti ed obbiettivi. Diversi settori della psicologia si sono interessati all’arte: 1) Psicologia clinica e dinamica (Freud): si è focalizzata sulla personalità dell’artista e le spinte motivazionali dell’atto creativo. Così, comprendendo le dinamiche psicologiche dietro la produzione di un’opera, arrivò anche a verificare le influenze che le opere potevano avere sui loro fruitori, mossi dalla loro empatia. 2) Psicologia generale: in particolare quella della percezione, che si è interessata al tipo di rapporti che il fruitore intrattiene con l’opera (fruizione estetica). Analizzavano sia la forma-contenuto dell’opera sia il contesto in cui era stata realizzata (sia personale dell’artista, sia sociopolitico, sia storico). 3) Neuropsicologia: si occupa dei processi e dei meccanismi cerebrali che entrano in gioco nella valutazione di un’opera. 4) Psicologia dello sviluppo: interessata all’espressività del disegno infantile e alle sue potenzialità diagnostiche ed educative. 5) Psicofisica, intesa come estetica sperimentale (Fechner): si occupa della misura quantitativa del piacere estetico del fruitore, o del grado di bellezza di un’opera. In particolare, l’approccio psicoanalitico sostiene che le forme scelte o inventate dall’artista sono il risultato di una condensazione delle proprie nevrosi e pulsioni a livello inconscio. La creazione artistica diventa quindi una risposta dell’Grande Artista a drammi interiori inconsci e la sua opera è una forma di catarsi. Così tramite empatia il fruitore, guardando l’opera, trova catarsi anche ai suoi drammi interiori simili. Così l’approccio psicoanalitico si è concentrato sulla forma (quadro) come veicolo del contenuto (disagio inconscio, il vero significato dell’opera). Solo il Grande Artista è capace di rendere globalmente tollerabili contenuti psichici rimossi ed inaccettabili. La forma diventa il contenuto solidificato, nelle arti plastiche. In letteratura, invece, è il contenuto l’oggetto principale di analisi: ciò che lo scrittore ha inteso rappresentare è letta come metafora o insieme di simboli che permetterebbero di individuare pulsioni e drammi personali, perlopiù inconsci, dell’autore. Gombrich: “Il significato privato, personale, psicologico del quadro, è l’unico significato vero. Un significato vero che viene trasmesso, se non alla coscienza, almeno all’inconscio dello spettatore”. È a questo punto, però, che dobbiamo osservare le preoccupazioni di Massironi:  È necessaria una nevrosi per produrre un’opera d’arte?  Aver constatato la nevrosi in alcuni casi consente di generalizzare il principio?  In che rapporto sta la nevrosi dell’artista con quello del critico?  In che rapporto stanno queste due nevrosi con quello che caratterizza gli spettatori? La rappresentazione di figure umane nelle opere d’arte è spesso accompagnata da un tentativo di riprodurre stati d’animo ed emozioni. Questi sono oggetti di studio della psicologia. Tuttavia, risalire dalla rappresentazione di stati d’animo ed emozioni alla scoperta delle motivazioni profonde ed inconsce che sottostanno all’atto creativo dell’artista è un’operazione assolutamente tosta. Il rischio di mistificazioni sarebbe altissimo! Per questa ragione la psicoanalisi non è forse il metodo migliore per indagare le personalità degli artisti, e come approccio per spiegare l’arte, oppure l’atto creativo, ha indubbiamente più limiti che pregi. Tuttavia, proprio la psiche, malata e no, diviene un motivo, quando non proprio un tema, analizzato dagli artisti. Come capita moltissimo nel surrealismo, che Breton descrisse come: “Automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente che in ogni altro modo, il funzionamento reale del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale”. Il Surrealismo si fonda sull'idea di un grado di realtà superiore connesso a certe forme d'associazione finora trascurate, sull'onnipotenza del sogno, sul gioco disinteressato del pensiero. Tende a liquidare definitivamente tutti gli altri meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella risoluzione dei principali problemi della vita. ♥ Quali sono le Il ruolo dello stile: accenni di impressionismo; La pura forma, intesa come oggettivizzazione della rappresentazione, è una chimera. Le forme scelte da un artista sono ampiamente condizionate dallo stile dell’artista, che a sua volta è condizionato dallo stile imperante che caratterizza la società in cui l’artista si trova a vivere, nonché il suo periodo storico. Lo stile è una caratteristica complessa, che contribuisce sia a modulare che a creare il contenuto, cioè il significato dell’opera. Osserviamo lo stile come incide sull’interpretazione dell’opera in questo caso: “Le tre grazie” di Ernest Cortois de Bonnencontre.  Pittori: inaffidabili, non puntuali, impazienti, smaniosi di libertà.  Scultori: ligi al dovere, costanti nelle abitudini, seri, puntuali, meno comunicativi, riservati, concreti e non sognatori. • Ernst Kretschmer: seguì le ombre di Lombroso.  Generalizzazioni pretenziose, per cui l’uomo del rinascimento era realistico, gioioso, non mondano, carattere più ciclotimico dei gotici. Sono conclusioni storiche del tutto illusorie.  Classificazione temperamenti in ciclotimici e schizofrenici. 4) La dialettica psicanalitica nell’analisi dell’artista. Freud, Schapiro ed Ernest Jones. Pur rivoluzionaria rispetto al contesto ottocentesco, neppure la psicanalisi fu in grado di interpretare l’artista sotto una nuova luce. (Da artista pazzo ad artista nevrotico) Ciononostante:  Prima, nell’opera, si ricercavano caratteri tipici del gruppo a cui aderiva l’artista. Si ignorava la sua individualità.  Ora, si ricerca quali tratti nevrotici egli esprima con la sua opera. Son i suoi tumulti inconsci a spingerlo alla creazione artistica. E quel che esprime, molto spesso, è un elemento così inconscio e respinto che cozza completamente con la personalità mostrata dall’artista. Un carattere apparentemente schivo può produrre un’opera colma di audacia! Per capire al meglio come la psicanalisi si sia approcciata al mondo dell’arte, possiamo citare l’analisi freudiana di Leonardo da Vinci. Seppur altri studiosi prima di lui non citarono affatto quanto stiamo per dire, Freud scoprì dalle fonti che Leonardo fosse un figlio illegittimo, e con tendenze omosessuali. Secondo lui era fondamentale sottolineare questi aspetti, chiave di lettura dell’intelligenza e dell’opera dell’artista. Come tutti i suoi lavori, anche questo trattò di tematiche così sconvolgenti da abbattere le convenzionali barriere morali, diventando un vero e proprio classico. Solo 46 anni dopo qualcuno osò approfondire quest’analisi leonardiana: Schapiro. Secondo lui, le ipotesi proposte da Freud erano basate su errori di fatto, rivelando alcune deficienze metodologiche nella tecnica psicanalitica applicata allo studio di personaggi storici. Come possiamo immaginare, simili osservazioni sono state poi fortemente criticate, anche se illegittimamente. Anche Ernest Jones analizzò il lavoro freudiano, arrivando a concludere che la sua preziosità stesse nel fatto che, con ogni probabilità, le conclusioni freudiane fossero state tratte dalla propria psicanalisi, rendendo l’opera un vero e proprio studio della personalità di Freud. Ci dice che le spiegazioni psicanalitiche, come tutte le altre, dipendono dalle disposizioni personali dell’interprete. Per Freud essere nati fuori dal vincolo matrimoniale comportava delle complicazioni psicologiche mentre, a tutti gli effetti, è stato osservato che a Leonardo non pesò mai. Questo perché mentre nell’epoca freudiana i figli fuori dal matrimonio erano visti come uno scandalo, in quella di Leonardo i figli illegittimi godevano della stessa classe, cura e spesso diritti dei figli legittimi. Per di più, Leonardo fu addirittura adottato dal padre, che lo portò a vivere con sé. Ciononostante, non bisogna screditare del tutto il lavoro freudiano. Come disse Shapiro stesso, d’altro canto, fu un omaggio reso a un grande maestro, ed una rappresentazione indimenticabile dei conflitti interiori di due uomini di genio. 5) Le arpie di Andrea del Sarto: un abbaglio psicanalitico. Tre anni dopo la comparsa del saggio del Freud, Ernest Jones pubblicò uno studio sull'influenza avuta dalla moglie di Andrea del Sarto sull'arte del marito. La donna fu descritta dapprima dal Vasari nel Vire come una donna di pessima indole, per poi non venir più diffamata in una seconda edizione. Jones diede peso alla prima versione, e formulò una sua teoria: pensava che Andrea fosse un omosessuale represso, dal carattere femminile, che aveva bisogno di una moglie difficile e più dominante del consueto. Questo avrebbe spiegato perché un’artista tanto brillante non avesse mai raggiunto la gloria che avrebbe dovuto spettargli. Portò due prove a sostenere questa deduzione:  La Madonna delle Arpie: che ci fanno lì, in bella vista, le arpie? Sono un simbolo pagano, l’unico nelle opere di Andrea. Che stesse a simboleggiare inconsciamente la moglie difficile, interpretata come un’arpia? No. E non sono affatto un soggetto fuori luogo. Le arpie, e così le sirene e le sfingi in simile positura, sono piuttosto comuni dell'iconografia religiosa dell'epoca. Basti pensare alla “Vergine e santi di Prato” di Filippino Lippi. Simboleggiano il paganesimo sopraffatto dalla religione cristiana, la purezza che vince sul peccato. Se anche volessimo supporre che fossero state l’unico motivo pagano nelle opere di Andrea, allora che problema ci sarebbe? Fu un’opera commissionatagli. Lui crea ciò che il cliente desidera, figuriamoci se ha modo di inserire qualcosa perché inconsciamente lo desidera.  Era convinto del fatto che Andrea andasse ogni giorno a prendere generi alimentali al mercato, esprimendo la femminilità del suo carattere e la sua omosessualità repressa. Ma si sbagliava: era costume dell’epoca che se ne occupassero gli uomini. 6) Il "Sesamo apriti” psicanalitico. Purtroppo, malgrado Freud fosse conscio dei limiti della psicanalisi, persone che vennero dopo di lui non ebbero la stessa accortezza. Parole come nevrosi, repressione e sublimazione furono accolte come l’apriti sesamo alle porte che avrebbero spiegato il potere creativo dell’artista. Gli artisti furono ridotti a semplici tavole illustrative dei complessi conosciuti, distorcendo la loro identità e ignorando il contesto storico in cui vissero, così come l’intero significato dell’arte occidentale.  Michelangelo, privo di una figura paterna, non sarebbe stato in grado di dipingere nella Cappella Sistina una degna raffigurazione di Dio, ma solo un “vecchio con la barba”. E, consapevole della sua mancanza, avrebbe provato a dargli un senso divino arricchendo lo sfondo con angeli e temi cristiani.  I disegni anatomici di Leonardo trattati dal maestro Freud non erano inesatti per mancanza di corpi (cadaveri, principalmente) da cui trarre ispirazione, come diceva lo psicanalista. C’erano infatti anche molti disegni anatomicamente esatti. Tutto dipendeva dallo scopo a cui erano designati: avrebbero fatto parte del progetto atlantico? Servivano a interpretare il funzionamento di una parte del corpo? 7) Esiste il "tipo costituzionale" dell'artista? Riformulo la domanda per essere più chiara: “Esistono dei tratti che definiscano l’archetipo dell’artista?” La risposta è: no. Non c'è mai stata e non ci sarà mai una risposta all'enigma della personalità artistica. Se la psicanalisi ci ha insegnato qualcosa, è l’infinita complessità della persona umana. Come ormai avremo capito, poi, è che il carattere di una persona risente tantissimo delle influenze culturali. L’artista è sempre figlio del suo tempo. Non esiste un “archetipo artista” che prescinda dal suo contesto. Nonostante, certamente, ci saranno stati condizioni e periodi in cui gli artisti vissero effettivamente secondo i moduli di quell'immagine con cui erano dipinti. Come fare però a cogliere la figura dell’artista nel suo contesto? Un buon punto d’inizio è considerare la storia degli ultimi cinquecento anni, dominata da una fervida disputa circa la supremazia della ragione o della sfera emotiva. L’Es freudiano, serbatoio inconscio controllato dall’Io, è ciò che muove l’uomo, e di rimando l’artista? O il super-io, redine morale, aspiratrice di virtù? Tutto dipendeva dalla cultura condivisa dalla comunità dell’epoca. Quando la sorgente delle energie creatrici era posta nell'intelletto e nella razionalità, la gente cercava nelle opere degli artisti la manifestazione delle facoltà riflessive; l’artista, allora, si adattava a queste esigenze. Quando invece regnavano sovrani il sentimento e la sensibilità, queste erano le qualità di cui si andava in cerca, e che si trovavano.  Nel periodo rinascimentale la cultura godeva d'un prestigio senza confronti, e le responsabilità intellettuali assunte dagli artisti ebbero non poco peso nel dar loro una disciplina mentale. Tant’è che, con Michelangelo, essi credettero che un uomo dipingesse con il cervello.  Con Leonardo, invece, convenirono che la pittura aveva a che fare con la filosofia naturale, che essa era una scienza e che il pittore doveva prima studiare la scienza, e poi imparare la tecnica.  Federico Zuccari rivendica all’artista la libertà di raffigurare tutto quel che la mente, la fantasia o il capriccio dell'uomo possa inventare. Ma fu soltanto nella seconda metà del 18° secolo che il comportamento (della persona) e il concetto d’artista (come la popolazione li vedeva) mutò radicalmente con l’avvento del romanticismo. Era in corso una vera e propria ribellione: l’artista ingenuo e intuitivo, contro il classico artista intellettuale. L’artista si vantava di conoscere la psiche (subconscio = fantasia) e, brandendo una terminologia del tutto nuova, era pronto a esprimere tutta la sua immaginazione in assoluta libertà. Era un nuovo modo di essere artista: umile e dallo spiccato acume. Picasso: “L’artista è un serbatoio di sensazioni venute da chissadove”. Chagall: “Io non ci capisco nulla. Non sono letteratura. Sono soltanto delle composizioni pittoriche che mi ossessionano”. Esaltano e coltivano l’elemento irrazionale della creazione artistica, abbandonandosi consciamente all’inconscio. È così che, nel bene o nel male, la psicanalisi ha influenzato il modo in cui l’artista dipinse sé Arnheim sostiene che le imposizioni del metodo scientifico avevano costretto l’estetica sperimentale nei panni stretti di un’estetica edonista, così facendo non spiegano perché preferiamo i rapporti aurei e non spiegano abbastanza cosa accade quando osserviamo un oggetto estetico. Inoltre, ci sono 2 punti che rendono poco attendibili l’estetica sperimentale:  Limite metodologico : sono stati raccolti solo casi positivi di conferma e non sono state effettuate delle controprove. Inoltre, non si è verificato se esistono opere di basso valore estetico che rispettano la sezione aurea;  Instabilità del gusto e delle preferenze estetiche : Kermode classifica le opere in base al destino di successo: - Opere che vengono apprezzate sin da subito e che conservano il grado di apprezzamento nel tempo; - Opere apprezzate sin da subito ma poi abbandonate; - Opere apprezzate sin da subito, poi dimenticate e poi rivalutate in modo definitivo; - Opere minimamente apprezzate al loro apparire e che poi assumono una rilevanza molto vasta (tipo Van Gogh); Recentemente Hoge effettuò due esperimenti: 1) Due gruppi di soggetti, un gruppo doveva disegnare rettangoli in base alla bellezza, nell’altro la bellezza non viene menzionata —> Risultati: Istruzione influenza le proporzioni dei rettangoli disegnati; 2) I soggetti devono scegliere i rettangoli in base alla preferenza —> Vengono scelti principalmente quelli disegnati facendo riferimento alla bellezza; In entrambi gli esperimenti non è emersa alcuna preferenza per la sezione aurea. Potremmo spiegare il tutto se ricordassimo un importante dettaglio: Fechner, come altri prima e dopo di lui, nel cercar di dimostrare che un sistema di proporzioni è stato deliberatamente applicato da un'artista, è stato facilmente portato a trovare in una data opera proprio i rapporti che stava cercando. Non c’era in realtà alcuna supremazia della sezione aurea! ♥ Quali sono le Dopo Fechner; Dopo Fechner, e in seguito agli sconvolgimenti nel mondo dell’arte legati sia all’invenzione e all’affermarsi della fotografia, sia alla nascita delle avanguardie artistiche, il concetto di esperienza estetica subisce una lenta, ma decisa mutazione, in particolar modo quando si riferisce al campo delle arti: da esperienza legato al bello e al sublime diviene nel tempo esperienza che dona piacere a livello affettivo e/o a livello intellettuale. Tentiamo quindi di formulare una nuova definizione di “estetica” applicata alle arti, o meglio di una “esperienza estetica-artistica”. Prima però cerchiamo di definirne le caratteristiche. Per esperienza estetica-artistica ci si riferisce ad una particolare sensazione di piacere legata alla fruizione di opere d’arte. Questa sensazione di piacere non è determinata in modo esclusivo da rappresentazioni del “bello”, e di norma si caratterizza come una modifica di stati affettivi e cognitivi nel fruitore. In sostanza, il fruitore esperisce a livello cognitivo/intellettuale una sensazione di accrescimento/arricchimento quando entra in contatto con un prodotto il cui contenuto è imprescindibile dalla sua struttura formale. Riassunto: l'esperienza estetica-artistica è un piacere insieme affettivo e intellettuale emergente dalla fruizione di opere d'arte. La definizione è nuova, e non la troverete altrove per chi pratica l’estetica empirica di norma non distingue tra esperienza estetica (piacere estetico di kant) ed esperienza estetica-artistica inteso come piacere emergente dalla fruizione di opere d’arte. Ma la vera potenzialità dell’esperienza estetica-artistica sta nel fatto che, almeno a livello teorico, se si fosse in grado di definire i parametri che inducono un'esperienza estetica-artistica, si riuscirebbe anche a definire alcuni dei parametri che costituiscono l'essere “opera d'arte”! George David Birkhoff (1884-1944) propone un approccio matematico all’estetica, con una formula che esprime il valore estetico (1932): M = O/C M = misura estetica, cioè il grado di piacere estetico suscitato da un’opera d’arte O = il grado di ordine di un oggetto C = il grado di complessità di oggetto Tanto maggiore è il grado di ordine rispetto al grado di complessità, tanto maggiore è l’esperienza di piacere con l'oggetto. L’assunto base della formula proposta da Birkhoff è che il valore estetico di un’opera d’arte dipende dall’esatta misura delle sue componenti. Quando si valuta sul piano estetico un’opera d’arte bisogna considerare 3 fattori di natura psicologica: 1) Lo “sforzo”, che l’osservatore di un oggetto artistico compie per coglierne percettivamente la struttura. Lo sforzo sarebbe direttamente proporzionale al numero delle componenti elementari di quell’oggetto. Dato che Birkhoff identifica con il numero delle componenti la misura della complessità di un’opera, lo sforzo sarebbe direttamente proporzionale alla complessità dell’opera. 2) La “percezione dell’ordine”, inerente alla configurazione o alla struttura dell’oggetto e alle sue componenti elementari. Anche l’ordine, come la complessità, sarebbe quantificabile. 3) La “sensazione di piacere”, che la percezione dell’oggetto provoca, compensando lo sforzo compiuto, tramite la percezione di ordine. Ma c’è un problema: Birkhoff attribuisce del tutto soggettivamente i valori numerici ai parametri individuati per stabilire la quantità di ordine e di complessità delle opere d’arte! Proveremo a risolverlo rielaborando il concetto di complessità. Kolgmorov ne parla nella sua teoria algoritmica dell’informazione: la complessità di un oggetto assumendo che possa essere rappresentato come una sequenza di bit, per esempio un pezzo di testo), è la lunghezza del più breve programma informatico (in un linguaggio di programmazione) che produca l’oggetto come output. La definizione della complessità di Kolmogorov suppone che si possa descrivere, e quindi riscrivere, un'opera d'arte come una sequenza di bit (in teoria dell'informazione il bit è definita come la quantità minima di informazione che serve a discernere tra due eventi equiprobabili). Eysenk, poi, corresse la formula di Birkhoff facendo passare la complessità da dividendo a moltiplicatore, perciò la formula divenne M= O*C; Ricordiamo: si legge: “la misura estetica è cioè determinato dal prodotto di Ordine per Complessità”. ♥ Quali sono le Ma che cosa s’intende per Ordine? L’ordine potrebbe essere definito come un assetto, disposizione o sistemazione razionale e armonica di qualcosa nello spazio o nel tempo secondo esigenze pratiche o ideali. Alcuni esempi di ordine comprendono:  Bibliografia e citazioni: opere sono citate in ordine alfabetico in base all’elenco degli autori;  Indice: mostra l’ordine di esposizione di un testo scritto. Quando l’indice è fatto bene, permette di comprendere la macrostruttura degli argomenti trattati.  Collezionismo: di solito il vero collezionista ci mette del metodo nella raccolta ed esposizione della propria raccolta. Ma in che modo possiamo misurare l’ordine? Ossia, quali sono i fattori che ci possono informare circa l’ordine che tiene insieme, in una struttura logica o percettiva, un gruppo di elementi? Un fattore principale nella percezione di ordine è data da regolarità sottostanti la struttura ordinata. Principi organizzativi sul piano visivo (e anche uditivo) possono essere, per esempio, le leggi di segmentazione del campo studiati dalla psicologia della Gestalt. Anche la simmetria è un fattore che introduce regolarità all’interno di strutture, ed è quindi un fattore che crea ordine. Tuttavia, è bene tenere presente che l’ordine percepito è anche una condizione contestuale, spesso determinato da schemi di riferimento. Un esempio di ordine dato da simmetrie e ripetizioni, può essere Alcazar in Siviglia, laddove prevale una ripetizione uniforme (AAAAAA). Nel caso della Loggia d'onore, la ripetizione dà luogo ad un ritmo (BAABAA). Se a ciascuna raggruppamento di elementi e interruzioni ritmate dessimo dei suoni, avremo un perfetto ritmo acustico che si ripete. Anche se nessuno lo ha mai detto prima d'ora, queste pareti sono come uno spartito. ♥ Quali sono le E che cosa s’intende per Complessità? Viene comunemente descritto come ciò che risulta dall’unione di diversi elementi, diventando qualcosa difficile da comprendere. O, comunque, è un concetto più facile da comprendere se associato a quello di “semplicità”. Se riuscissimo a definire la semplicità forse potremo definire in modo rigoroso il grado di complessità di un oggetto, una scena, un evento. Definire in che cosa consista la semplicità non è però così facile, proprio come non è facile definire il suo opposto, la complessità. La tentazione è di concepire le due dimensioni contrapposte come un continuum, con semplicità a un estremo e complessità all’altro. Anche così, resta comunque da definire quali siano le caratteristiche del continuum. Molti possono essere indotti a concepire il continuum semplicità-complessità in termini numerici: meno sono gli elementi in gioco maggiore è la Ci sono criteri oggettivi in grado di definire la “semplicità”? John Maeda, artista visivo, grafico, designer, ha scritto un agile libretto in cui elenca e spiega 10 leggi della semplicità che possono essere applicate alla progettazione, alla tecnologia, agli affari e alla vita. 1) Riduci: il modo migliore per ottenere la semplicità è mediante una riduzione ponderata. 2) Organizza: l’organizzazione semplifica l’immagine di un sistema. 3) Tempo: il risparmio di tempo appare come un guadagno in semplicità. 4) Apprendi: la conoscenza rende tutto molto più semplice. 5) Differenze: semplicità e complessità sono necessari l’uno all’altro. 6) Contesto: ciò che sta alla periferia della semplicità non è affatto periferico. 7) Emozioni: più emozioni sono meglio di poche emozioni. 8) Trust: ci fidiamo della semplicità. 9) Fallimento: alcune cose non possono essere rese semplici. 10) Vera Legge della semplicità: sottrarre l’ovvio e aggiungere significato. I principi di segmentazione del campo visivo ed il modo in cui essi interagiscono tra loro sono in accordo con la prima legge della semplicità: una riduzione degli elementi a favore di una coesione delle parti costituenti una struttura. Consideriamo però la differenza tra le figure geometriche tracciate sotto. Provate a ordinarle da destra a sinistra in base alla loro semplicità (destra più semplice, sinistra più complessa). La semplicità di una figura non dipende tanto dal numero degli elementi costituenti, bensì dal numero delle caratteristiche strutturali presenti, cioè del rapporto tra il tutto e le sue parti in relazione al contesto entro cui sono osservate. Non solo. Il sistema visivo è sintonizzato sulla terza dimensione: la soluzione tridimensionale è favorita quando tale esito semplifica la struttura dell’oggetto visivo. Gli psicologi di indirizzo gestaltista chiamano il principio del minimo pregnanza e affermano che il campo visivo viene segmentato in funzione di una massima omogeneità e una minima eterogeneità. Quando consideriamo strutture più complesse, quali sono per esempio le opere d’arte, entrano in gioco dinamiche e tensioni visive che possono semplificare o complicare la scena visiva. La lode alla semplicità emerge soprattutto nell’ambiente del design, della tecnologia (usabilità) e dell’economia. Ma la semplicità è una categoria fondante della ricerca artistica? Se sì, in quali termini? Le arti mirano forse ad una semplicità relativa più che ad una semplicità assoluta. Secondo Arnheim, la semplicità relativa implica economia e ordine. L’artista non deve andare oltre a quanto è necessario per lo scopo che vuole raggiungere. In altre parole, un’opera d’arte non deve essere più complessa di quanto necessario nella rappresentazione del proprio contenuto. Ecco, dunque, il terreno della sfida su cui si gioca il valore intrinseco di un’opera d'arte: una giusta compenetrazione di semplicità e complessità. Le grandi opere d’arte sono complesse, eppure sono lodate per la loro semplicità. Il dosaggio di questi aspetti avviene mediante il principio dell’ordine. Gli oggetti artistici hanno tutti un significato: figurativo o astratto, l’opera d’arte è un’asserzione. Il problema della semplicità si annida tra la forma e il significato dell’opera. La discrepanza tra forme semplici e significati complessi può generare opere molto complesse. Tale complessità non è però necessariamente negativo in arte. Anzi, è spesso la calamita che attira l’attenzione del fruitore. (Piccola parentesi sull’iperrealismo) A livello figurativo, l’iperrealismo (ultrarealismo, superrealismo) è una corrente che si caratterizza per una aderenza alla realtà che va oltre la rappresentazione fotografica. L’eccesso di fedeltà al reale crea una tensione psicologica particolare nel fruitore che a stento riesce a vincere un innato senso di imbarazzo di fronte ad un atto di voyeurismo pubblico. La complessità, quindi, s’insinua tra la componente tutto sommato semplice della fedele resa visibile del soggetto e la confusione instaurata nel fruitore chiamato a giocare il ruolo del voyeur. Ambiguità e semplificazione;♥ Quali sono le Che cosa ci ricordiamo dopo aver osservato e studiato una configurazione complessa? È probabile che il sistema cognitivo, nella codifica in memoria, semplifichi la configurazione in modo tale da massimizzare o l’omogeneità strutturale (simmetria, regolarità), oppure l’eterogeneità (asimmetria, disomogeneità). Una tendenza alla massima omogeneità può essere un metodo per economizzare la trascrizione nella memoria di immagini geometriche e di caratteristiche ambientali, per cui si può ipotizzare che la regolarità dello spazio permette di semplificare i rapporti tra gli oggetti ivi collocati e gli oggetti e lo spazio stesso. La tendenza invece alla massima eterogeneità, o meglio alla accentuazione di caratteristiche distintive può invece risultare più conveniente quando si devono immagazzinare immagini altamente significative sotto il profilo della vita sociale ed emotiva. "♥ Quali sono le Il tutto è più della somma delle sue parti”; Questa affermazione può indurre in inganno: molti, infatti, intendono che una unità percettiva è data dalla somma delle sue parti + un qualche cosa di misterioso. In realtà il motto gestaltista indica che esiste un rapporto molto stretto tra il tutto e le sue parti: l’aspetto del tutto influenza il modo in cui le parti appaiono, e l’aspetto del tutto è a sua volta influenzato dalla conformazione delle parti. Provate ad immaginare cosa significhi questo sul piano creativo: ogni volta che si aggiungono o si tolgono elementi da un’opera in fieri l’artista, almeno a livello di possibilità sul piano teorico, si ritrova con un’opera “diversa”. Chi ha avuto la possibilità di assistere ad atti creativi (cioè alla lavorazione di un’opera non ancora compiuta) si sarà chiesto come mai l’artista non si ferma a un certo punto, ma prosegua nella lavorazione. È evidente che l’artista guarda l’opera in fieri con occhi diversi dai nostri. Ha un obiettivo da raggiungere, e l’interazione “tutto-parti” assume un aspetto diverso. Diviene quindi interessante soffermarsi sulla definizione di “parte”. Una parte non è una suddivisione arbitraria di una struttura. Una parte intesa come elemento strutturale è un qualche cosa che ha caratteristiche figurali sue proprie. Un viso umano, per esempio, è composto da molte parti, tra cui guancia, mento, fronte, eppure queste “parti”, sebbene abbiano un nome, sono di riempimento, non hanno una conformazione oggettuale precisa che li rende immediatamente riconoscibili. Gli egiziani hanno usato l’occhio nei loro ideogrammi; Gogol ha scritto un capolavoro satirico creando un personaggio sfrontato, ovvero il Naso di un assessore; le labbra diventano divani; le gote, invece, al massimo possono arrossire, non avendo in sé caratteristiche "oggettuali". ♥ Quali sono le Le leggi del tutto; Nel 1923, lo psicologo gestaltista Wertheimer individuò le leggi di segmentazione (o di unificazione) del campo visivo. Oltre venti anni più tardi Cesare Musatti argomentò che i principi individuati da Wertheimer possono essere ridotti ad uno solo, il principio di omogeneità. • Tesi 1: per comprendere il fenomeno “arte” bisogna conoscere il funzionamento del cervello, perché come qualsiasi altra attività umana, anche l’arte dipende da - e obbedisce a - le leggi del cervello. La tesi è forte e su alcuni punti è indubbiamente inattaccabile. Per esempio, ad ogni attività umana corrisponde una serie di correlati neurali. L’arte, essendo un’attività, sia nella sua creazione, sia nella sua fruizione è governata dal modo in cui funziona il cervello. Conoscere le leggi del cervello può quindi indubbiamente aiutare a comprendere il fenomeno “arte”. Il problema però è comprendere se l’identificazione dei correlati neurali (non) esaurisce la spiegazione di un qualsiasi fenomeno cognitivo. È il problema mente-corpo: per comprendere come funziona la mente (la psiche) è sufficiente conoscere come funziona il cervello (corporale)? Il comportamento umano modula la plasticità della rete neurale, e il comportamento è a sua volta governato dal cervello, sulla base però dell’interpretazione dei dati in ingresso che è operazione mentale, compiuto tramite il cervello. • Tesi 2: arte e cervello hanno una funzione comune: acquisizione di conoscenza. La funzione dell’arte è dunque un’estensione della funzione del cervello. Questa tesi pone 2 problemi su cui vale la pena riflettere: 1) La funzione dell’arte è in modo inequivocabile sempre quello di acquisire conoscenza? Tutte le arti hanno come scopo ultimo incrementare la conoscenza dell’uomo? 2) Che tipo di conoscenza può essere fornita dall’arte? Cosa ha in comune e quanto è diversa questa conoscenza da quella fornita dalla ricerca scientifica? La funzione dell’arte è piuttosto variegata e fluida. Una delle funzioni di cui poco si parla è che l’arte “intrattiene”, dona piacere al fruitore. Una delle funzioni peculiari dell’arte è quello di stimolare l’intelletto, fornendo quindi un piacere ed una esperienza estetica che si estende ben oltre il semplice, ma potente, piacere fornito dal bello. Infine, attraverso la lettura di un giornale una persona indubbiamente può acquisire conoscenza. Anche attraverso la lettura di un romanzo uno può acquisire conoscenza, ma la funzione del romanzo non è quello di incrementare la nostra conoscenza del mondo, bensì quello di calarci in un mondo non nostro che però agisce sulla nostra coscienza (se il romanzo funziona). • Tesi 3: l’arte riflette la capacità di astrazione che è caratteristica di ogni sistema efficiente di acquisizione di conoscenza. Tutta l’arte è astrazione. Secondo questa tesi l’arte vola al di sopra del particolare per mostrare l’universale (le forme ideali), ottenuto mediante un’operazione di astrazione. • Tesi 4: la conseguenza del processo di astrazione è la creazione di concetti e ideali. L’arte è la traduzione su tela di questi ideali formati dal cervello. Approcciando questa tesi, dobbiamo porci una domanda: l’arte coincide con la rappresentazione di concetti ideali, ovvero universalmente riconosciuti e accettati? Ogni civiltà ha definito in modo più o meno esplicito i canoni della bellezza, tramite cui si possono fare confronti. Ma come si traduce la bruttezza “ideale”? Come si determina il grottesco perfetto? Il “brutto”, che è una deviazione dal cammino verso il bello, è comunque una categoria insistente sull’esperienza estetica. Come lo so idealizza? • Tesi 5: l’artista è un neuroscienziato in quanto comprende in modo istintivo il funzionamento del cervello per quanto concerne le componenti comuni dell’organizzazione visiva ed emotiva. Ne segue che il perché e il come le creazioni artistiche suscitano un’esperienza estetica può essere intesa pienamente soltanto in termini neurali. A prescindere da un feroce neuroriduzionismo, il problema qui è che si è dato per scontato il significato di esperienza estetica, tra l'altro facendola coincidere spesso con l'esperienza del bello, quando l'esperienza estetico-artistica è ben più complessa. Questa linea di pensiero conduce nuovamente l’estetica sperimentale (di cui la neuroestetica è una delle ultime evoluzioni) a considerare soltanto casi limite, a porre barriere piuttosto rigide nei confronti dell’arte, definendo ciò che funziona sul piano estetico da ciò che non funziona. Scritto così, il piano scientifico sembra importante, ma è nei dettagli che si annida il diavolo. Nel suo libro Zeki afferma, per esempio, che il cubismo è stato un fallimento perché ha operato delle scelte formali non basate sul modo di funzionamento del cervello. L'affermazione ha del ridicolo... Un altro punto debole, reminiscente di un’idea ‘romantica’ dell’arte e dell’artista, è l’insistere sul carattere istintivo dell’artista, come se l’artista non avesse piena consapevolezza dei propri mezzi e del proprio operato. La conseguenza di questo tipo di ragionare non è quello di alzare l’artista al rango di “neuroscienziato”, bensì di svilire il suo apporto intellettuale nella creazione dell’opera. L’artista avrebbe delle abilità, ma per lo più opererebbe in modo inconscio. ♥ Quali sono le Articolo di Philip Ball; Citando il pensiero di Zeki, Ball ricorda il gigantesco apporto delle neuroscienze nello spiegare il comportamento, la produzione e il pensiero dell’uomo, tra cui anche l’attività artistica. Ciononostante, ci ricorda come neuroscienziati come Conway o musicologi come Rehding siano guardinghi nello studiare il reale potenziale della neuroscienza. Loro affermano che sembra decisamente improbabile che sia in grado di spiegare in maniera esauriente la risposta emotivo- cognitiva ad un’opera d’arte del suo fruitore. Le persone, infatti, possono reagire diversamente di fronte alla stessa opera. Se si va a catalogare come “giusta” un particolare tipo di risposta, e sbagliata qualsiasi altra risposta diversa, si commette un errore. Ma questa è una tendenza comune facendo ricerca in questo campo. È Difficile resistere alla tentazione di tracciare regole nel giudizio critico di un’opera d’arte. Ma l’individualità, sia nella fruizione che nella produzione, resta un valore da dover difendere. Esempio: Ostwald che accusa Titian di aver usato un blu sbagliato. Ma non lo era... l’uso di forme, così come di colori, è impresso dallo stile deciso da un pittore. Non bisogna soffocarlo questo stile! Anche se le neuroscienze cercano di non fare gli stessi errori di Ostwald, o simili, sono molto vicini a farne uno lo stesso. Conway e Rehding cercano di capire come il cervello risponda alla bellezza, ma la bellezza non è un concetto scientifico ed oggettivo... quindi, se davvero la analizzassero cadrebbero nella stessa trappola di Ostwald. E se non lo facessero, allora... cosa davvero starebbe studiando la neuroscienza nel campo dell’arte? Ma il problema è ancora più radicato. Non si può comparare l’apprezzamento del bello con l’apprezzamento dell’arte. Il concetto di bellezza, mentre era importante per alcuni periodi storici come il Rinascimento, nell'arte contemporanea non lo è più. Per di più, nemmeno il concetto di estetica è così intrinsecato con quello della bellezza. Ci troviamo a domandarci se una persona che comprende e apprezza la bellezza possa offrirci nuovi modi di vederla, ascoltarla e viverla. Che poi, l’amore per un aestethic dipende anch’esso, più che dal cervello, dalla cultura della persona e dalle sue circostanze. Pensare che il concetto di “estetica” (uno che abbia caratteristiche X, Y e Z) sia condiviso tra tutte le persone, ci porta a credere che esista un quadro o una canzone perfetti: basta che rispecchi le caratteristiche X, Y e Z. Ma nulla potrebbe essere più sbagliato. Inoltre, ci domandiamo che spiegazioni possa darci, a conti fatti, la neuroestetica. Certo, può spiegarci come ascoltare un brano attivi i circuiti neuronali connessi ai premi ed al piacere, tra cui l’amigdala, una risposta simile al sesso e alla droga, ma se non è in grado di differenziarci l’ascolto di Bach da quello di una canzoncina... allora capiamo che i suoi apporti saranno sempre limitati. Conclusione: l’apporto della neuroscienza allo studio dell’arte è limitato. Può provare a spiegare la nostra esperienza artistica, ma senza arrivare al nocciolo del tutto. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Origine e dinamiche cognitive nell’arte ♥ Quali sono le Leon Battista Alberti e le immagini somiglianti: l’arte come reinterpretazione; Ogni prodotto artistico ha sempre un corpo materiale, di fatto noi reinterpretiamo la materia in funzione della forma che ha assunto, ed è probabilmente questo ciò che i greci chiamavano mimesis. Con molta semplicità il problema delle origini dell’arte viene posto già nel Rinascimento da grandi artisti come Leon Battista Alberti. Egli sostenne che l’arte della verosimiglianza sia originata da coloro che in oggetti inanimati videro tratti che potevano rappresentare aspetti reali della natura, rendendosene conto cominciarono a fare dei tentativi aggiungendo o togliendo qualcosa in modo che l’oggetto potesse esprimere il vero aspetto dell’immagine. Fu così che, ad un certo punto, arrivarono a ricavare la figura che volevano nonostante il materiale non avesse somiglianza con nulla. Alberti si sofferma sul fatto che pochi cambiamenti bastano a trasformare una forma inanimata e imprecisa nella rappresentazione di aspetti reali della natura, ciò venne abbandonato dall’arte occidentale ma pienamente coltivata dall’arte cinese e giapponese. ♥ Quali sono le Pareidolia: È stata definita in diversi modi: “processo automatico della mente”, “una tendenza subconscia”, “un’illusione subconscia”, “una tendenza soggettiva”. È un fenomeno normale ed automatico di organizzazione del campo visivo - scissione fenomenica figura-sfondo, leggi di organizzazione gestaltiche, comparazione con templates (cioè macro modelli di entità percettive e rilevanti, come la faccia umana) - che dà luogo alla percezione di raffigurazioni di oggetti, cui è aggiunta una volontà associativa-riconoscitiva conscia e proiettiva che attribuisce un L’inizio di questa classificazione di qualità è dovuto a Locke, il quale aveva definito qualità primarie quelle oggettive, reali, misurabili e indipendenti dal soggetto, e come secondarie quelle che si rivelano grazie al contatto tra il soggetto e i suoi organi di senso. Aggiunge poi un terzo tipo di qualità per la quale una cosa risulta adatta a un determinato compito o al raggiungimento di uno scopo. La versione gestaltista di Metzger parla di 3 qualità gestaltiche: 1) La struttura, propria degli insiemi ordinati che presentano una forma spaziale; 2) Le qualità e caratteristiche globali, che sono le qualità del materiale; 3) Il modo di essere, ovvero l’espressività. ♥ Quali sono le Michotte e il movimento; Michotte fu il primo psicologo a studiare in modo sistematico la causalità fenomenica, rivelando che fra le forme in movimento si instaurano con facilità relazioni reciproche di dipendenza causale che tutti vedono allo stesso modo. Sostiene che il modo in cui si svolgono gli eventi cinetici costituisce una fonte di informazione importante per la comprensione degli stati emotivi e per l’interpretazione delle azioni altrui. Michotte insiste sul ruolo fondamentale del movimento, è infatti sufficiente che se ne vedano gli effetti (movimento rappresentato e non reale) perché si colgano chiaramente le relazioni di causalità. Sulla base di ciò ci si rende conto che è prassi normale dei pittori e dei disegnatori (soprattutto i fumettisti) dar vita alle azioni dei loro soggetti sfruttando le condizioni che favoriscono la percezione di relazioni di causalità fenomenica fra gli elementi della scena. È però importante sottolineare che non percepiamo la causalità perché conosciamo gli oggetti e sappiamo come vanno le cose nel mondo, noi non rileviamo la causalità fenomenica grazie alla nostra esperienza passata. In una scena statica si possono instaurare delle relazioni di causalità fenomenica fra le figure disegnate quando in una struttura complessivamente regolare sia presente una zona circoscritta di irregolarità. Se vicino a questa irregolarità è, inoltre, presente una figura con una forma adatta funzionalmente a produrre la deformazione, allora essa apparirà come elemento attivo. È vero anche il contrario, nel senso che se una struttura complessivamente disomogenea e irregolare appare regolarizzata in una sua limitata porzione, questa regolarizzazione è vista come prodotta da un agente causale che ha messo ordine. Così la causalità fenomenica implica movimento e conseguentemente il movimento implica una componente temporale. ♥ Quali sono le Alla ricerca di senso; L’arte informale è una corrente artistica diffusasi a partire dagli anni 50 del secolo scorso che nega ogni forma. All’interno del programma dell’arte informale vi era anche l’idea di una perdita di valore della forma a favore della materia stessa di cui è fatta l’opera. Si potrebbe quindi concludere che per l'arte informale il contenuto è la materia stessa di cui sono composte le opere. Viene meno, spesso, anche la nozione di stile classicamente inteso. E tuttavia, anche se priva di una "forma" riconoscibile, l'arte informale è pur sempre la rappresentazione di una istanza in quanto ricerca artistica. E lo stile emerge sia dal gesto dell'artista che dalla scelta dei materiali. In questo senso, nell'arte informale, forma, stile e contenuto sono un tutt'uno. ♥ Quali sono le La percezione pittorica; La percezione pittorica è quella abilità di vedere oggetti e scene derivanti da condizioni di stimolazione che però non sono i corrispettivi fisici degli oggetti e delle scene raffigurate. Lo psicologo american James J. Gibson, che coniò il termine, parlò di un rapporto conflittuale a livello percettivo tra la natura propriamente fisica di un’immagine (per esempio, la materiale piattezza del supporto) e ciò che dentro di essa si è in grado di vedere. Egli ha definito questo rapporto come un paradosso. Prima di approcciarci alla Teoria Ecologica di Gibson, però, ci serve fare una piccola introduzione a come il ruolo dell’esperienza passata venga visto da diverse correnti come:  Fondamentale: strutturalismo, comportamentismo e cognitivismo.  Trascurabile: psicologia della gestalt e teoria ecologica. ♥ Quali sono le Teoria ecologica di Gibson; Secondo Gibson, il compito del sistema visivo è quello di rilevare strutture che sono già perfettamente organizzate in forma di informazione ottica che viaggia nella luce. In altre parole, la stimolazione prossimale (ovvero la stimolazione a livello della retina) conterrebbe in sé tutta l’informazione necessaria, già strutturata, che deve essere soltanto registrata dal sistema senza ulteriori elaborazioni. Gibson giustifica l’adozione del termine “ecologico”, affermando che esso serve a far comprendere l’importanza sia dell’adesione attiva dell’osservatore all’ambiente, sia della necessità di comprendere l’ecologia della luce e la struttura fisica del mondo per spiegare i fatti percettivi. Infatti, secondo questo approccio, l’informazione ottica che viaggia nella luce è già perfettamente strutturata e pronta all’uso. Il sistema visivo diventa, quindi, una specie di rilevatore di segnali (caratteristiche invarianti) in mezzo ad un mare necessario di rumore (le variazioni nel flusso ottico). Secondo questo approccio teorico, la luce che viaggia verso l’occhio possiede una struttura che le deriva dall’azione di riflessione degli oggetti fisici. È una struttura che subisce continue variazioni sia a causa del movimento di cui sono suscettibili gli oggetti stessi nella scena, sia a causa dei movimenti continui dell’osservatore. Queste variazioni sono essenziali, perché è per mezzo di esse che emergono le invarianti di struttura. Le invarianti di struttura sono senza nome e senza forma, perché sono strutture complesse date dal rapporto tra gli elementi costitutivi degli stimoli. In tale ottica, il rapporto aureo, sempre identico a sé stesso, sarebbe l’invariante di struttura sottostante la percezione di bellezza. Rispetto al cognitivismo classico, il sistema visivo non crea una “rappresentazione” del mondo, bensì registra il mondo così come si presenta nella sua veste macrofisica, trasmessa a noi come struttura complessa, ma non ambigua, tramite la luce. Ma anche questa teoria ha i suoi problemi: 1) Se così fosse non sarebbero possibili le illusioni, poiché esse non fanno parte del mondo fisico. Di fatto, Gibson tratta le illusioni alla stregua di eccezioni, fenomeni che emergono soltanto in laboratorio dove le condizioni di stimolazioni sono particolarmente impoverite, e quindi con pochi invarianti di struttura. Gibson, infatti, ha sottolineato la necessità di condurre studi sperimentali al di fuori dai laboratori, in condizioni appunto “ecologiche”. Si possono fare due importanti obiezioni a questi argomenti:  “In una corretta teoria scientifica non vi deve essere posto per le eccezioni: esse devono poter essere spiegate dalla teoria o la teoria va messa in crisi. (…) Molto più produttivo mi sembra considerare questi fenomeni come preziosi indicatori del reale funzionamento del sistema, cioè come «situazioni sperimentali naturali» che possono consentire di scoprire la «logica» secondo la quale funziona quel sistema” (Kanizsa, 1980). Alan Gilchrist, psicologo americano, concepisce le illusioni con una firma del sistema visivo.  Il sistema visivo funziona sempre allo stesso modo, sia dentro che fuori di un laboratorio. Il vantaggio del laboratorio è quello di permettere un maggiore controllo su variabili non pertinenti ma che nondimeno potrebbero influire sull’esito dell’esperimento stesso. 2) Esistono immagini pittoriche (disegni, dipinti, fotografie), che hanno un assetto ecologico congelato che è suscettibile solo ai movimenti dell’osservatore, che però muovendosi non determina l’acquisizione di una nuova informazione in forma di invarianti di struttura. Un’immagine è infatti una superficie piatta; scostamenti dal punto ideale di osservazione possono indurre effetti di distorsione nella percezione della scena raffigurata, ma non apportano necessariamente nuova informazione circa la scena raffigurata. Gibson tentò di ovviare a quest’ultimo problema epistemologico introducendo l’ipotesi di una peculiare abilità percettiva: la percezione pittorica, ovvero la facoltà di vedere cose diverse dagli stimoli realmente presenti sul piano fisico, perciò è l’abilità di vedere oggetti e scene derivanti da condizioni di stimolazione che però non sono i corrispettivi fisici degli oggetti e delle scene tensioni presenti nel contemporaneo. Difatti, gli artisti di ogni periodo storico, almeno fino al 1800, hanno tentato di superare in “realismo” le rappresentazioni pittoriche e scultoree di coloro che li hanno preceduto. In questo senso lo stile, che comunque caratterizza l’artista, è una dotazione per così dire “naturale”, anche quando espresso in termini manieristici. Lo stile diverrà oggetto di ricerca con le avanguardie del ‘900. Anzi, in molti casi lo stile soppianta il contenuto, che diviene solo l’occasione per, appunto, un nuovo esercizio di stile. Com’è che il concetto di unicorno si è trasformato? Dall’essere un animale piccolo, simile a un capretto ed aggressivo, con questo corno in mezzo alla fronte... pur con una connotazione religiosa (la connessione alla vergine, e simbolo del Cristo), ad un animale nobile e puro, simile a un cavallo? Avvenne nel 15° secolo (post 1450). Il fascino delle opere, secondo i più, prescinde da quanto esse siano verosimili (dal fatto che rappresentino solo ed esclusivamente il reale, il vero). Sta, piuttosto, nella loro capacità d’evocare esperienze fenomeniche, una capacità evocativa. Non bisogna difatti scordare che spesso a immagini (comprese sculture e oggetti) – in particolar modo scene religiose, ritratti, rappresentazioni figurative – sono state attribuite effetti taumaturgici, apotropaici, e di protezione in generale contro le forze del male o eventi avversi. Il potere evocativo è immediatamente riconoscibile nell’arte della musica, ma è anche un fenomeno molto importante nella sensazione odorifera (un particolare odore può richiamare alla mente particolari esperienze del vissuto personale di un individuo). Le immagini figurative, invece, data la loro immediatezza e intrinseca “completezza” come esperienza visiva, possono essere evocative? Oppure ciò che in esse è rappresentato ha una consistenza fenomenica tale per cui non possono essere definite evocative in quanto si costituiscono come esperienza completa? La verità è che non si ha esperienza sensoriale collegata alla fruizione artistica che non sia infine anche evocativa sul piano cognitivo e/o affettivo. In altre parole, ogni esperienza sensoriale legata all’arte, che superi la soglia della coscienza, produce una nostra reazione, sia questa fisica (es. allontanamento, avvicinamento), cognitiva (es. attenzione, pensiero, ricordo), emotiva (es. gioia, paura, rabbia), o una combinazione di reazioni. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Figurativo vs Astratto Figurativo: nell’arte, rappresentazione o interpretazione della realtà esterna per mezzo di figure. Astratto: ciò che non ha rapporti empirici con la realtà empirica. Assenza di qualsiasi riferimento alla realtà oggettiva. Ricordiamo la terza tesi di Zeki, secondo cui tutta l’arte è astrazione in quanto l’artista astrae dal particolare per rappresentare l’ideale. ♥ Quali sono le Il figurativo; La definizione di “figurativo” sembra non lasciare scampo: l’arte figurativa non può prescindere da un’istanza di “realismo”. Ma che cosa s'intende per realtà oggettiva? Che cosa significa "realismo"? L'arte può rappresentare la realtà oggettiva? È evidente che le definizioni fornite su arte figurativa e arte astratta, sebbene siano quelle ufficiali, sono del tutto insufficienti. Il concetto di rappresentazione "oggettiva" finisce per collidere con il concetto di stile. Si definisce figurativa quell’arte che appunto rimanda ad una figura o insieme di figure, ad una realtà quindi non astratta. Una composizione artistica fatta con quadrati, cerchi, triangoli e/o altre qualsivoglia figure geometriche, che non dia luogo al riconoscimento di una figura o di una scena che rimandi ad una realtà diversa da quella geometrica, è astratta perché le figure geometriche sono entità astratte. Per definire il concetto di realtà, facciamo riferimento allo psicologo tedesco Wolfgang Metzger, che individua 5 significati per la parola realtà: 1) La realtà del mondo fisico, di cui si occupano appunto i fisici, che ha carattere strettamente metaempirico, in quanto è al di là dell’esperienza diretta. 2) La realtà del mondo fenomenico. Questa è la realtà dell’ambiente comportamentale, ovvero la realtà fornita dai nostri sistemi sensoriali. È questa una realtà che in molti sensi è indipendente dal nostro io. Fanno parte di questa realtà non solo il mondo percepito, gli oggetti fenomenici, ma anche i dolori “fisici” e quelli “psicologici”, i sogni, i ricordi che ci assalgono all’improvviso, le allucinazioni dotate di vivacità sensoriale. Metzger chiama questa seconda realtà anche realtà incontrata, immediata. È questa una realtà di grande interesse per lo psicologo. 3) La realtà rappresentata. Questa realtà lo si capisce meglio in contrapposizione alla precedente. Mentre la realtà del mondo fenomenico resiste a qualsiasi nostro tentativo di alterarla, la realtà rappresentata si trasforma a nostro arbitrio. È la realtà creata, per esempio, dalla nostra immaginazione. Anche questa è una realtà di grande interesse per lo psicologo. Anche questa realtà è di natura fenomenica, ma è vissuta come dipendente interamente dall’io. 4) La realtà del nulla, che se vogliamo è un vero e proprio paradosso. Infatti, il nulla è dal punto di vista logico ciò che non esiste, e in quanto non esistente, non ha nessuna qualità che lo rende “reale”. Eppure, per la nostra mente il nulla ha una sua sostanzialità, dei suoi modi di essere e anche di apparire, che influiscono sia sul nostro mondo percettivo che su quello cognitivo (pensato per esempio allo zero). Va da sé che anche questa realtà è di grande interesse per lo psicologo. 5) La realtà del fenomenicamente apparente. Ci sono cose che vediamo o che proviamo, e che tuttavia non ci appaiono “veri”. Un esempio tipico è il sogno in cui siamo coscienti di sognare. Un altro esempio riguarda gli specchi. Un esempio riguardante proprio gli specchi ci fa comprendere che la realtà apparente non dipende dalla realtà fisica in sé. Per esempio, se siamo dinanzi ad uno specchio che riflette un ombrello accanto a noi, noi vediamo due ombrelli che appaiono uguali, eppure soltanto l’ombrello accanto a noi, fuori dallo specchio, ci apparirà reale, mentre l’ombrello riflesso ci apparirà irreale, immateriale. Per contro, se entriamo per esempio in un salone un poco buio con uno specchio gigantesco a muro, e vediamo delle cose riflesse, come delle poltroncine, queste ultime ci appariranno come vere e solide, e anche la stanza ci sembrerà molto più grande. La realtà sarà del tipo “incontrato”, almeno fino a quando non ci renderemo conto dell’esistenza dello specchio. “Realtà che ci “sembra” reale, ma che non esiste.” Ma quali di quei significati attribuiti al termine realtà sono vincolanti ai fini di una definizione di “arte figurativa”? I fenomeni visivi come le illusioni (espressi nella Op art, 900) sono sicuramente fatti incontrati, anche se non sempre riconosciuti. Utilizzare un'illusione ottica significa intrufolarsi tra le arti figurative o le arti astratte? La verità è che il confine tra astratto e figurativo è sfumato. Ci sono, però, dei punti fermi:  Che sia astratta o figurativa, un’opera d’arte intende sempre rappresentare qualche cosa d’altro del semplice materiale utilizzato per creare l’opera. Anche nel caso della corrente Informale.  Il modo con cui si guarda un’opera può determinarne l’esito in termini di classificazione in astratto/figurativo. Tale classificazione è quindi mutabile e legato sia allo stile di osservazione adottato, sia alle conoscenze pregresse del fruitore. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Arte e scienza ♥ Quali sono le Una separazione necessaria; Si postula la separazione tra arte e scienza intorno al 1600, in seguito alle pubblicazioni di Galileo e l’introduzione del metodo sperimentale, che affiancò il metodo dell’osservazione che aveva caratterizzato lo sviluppo delle scienze naturali. Si può, tuttavia, assegnare a Da Vinci (1400-1500) l’idea che l’osservazione da sola non basti, e che bisogna “sperimentare” per capire come funziona la realtà. Il metodo Vinciano, tuttavia, era ancora largamente legato ad interpretazioni del reale basate sull’osservazione. I primi esperimenti erano infatti guidati da domande e non da ipotesi, le quali sono alla base della formulazione di teorie, cosa che invece caratterizza le scienze moderne. La formulazione di ipotesi non è legata a domande generiche (“Come funziona?”), ma a domande strutturate (Perché succede una cosa? È a causa di A o di B?). Fu Galileo, che contrapponendo il “dubbio” al “dogma”, va oltre la semplice sperimentazione, adoperando in modo sistematico l’osservazione sperimentale, ponendo così le basi allo sviluppo del metodo sperimentale. Tutti i rapporti umani sono mediati dalla comunicazione, e dunque dal passaggio di informazione. Così come altri esseri viventi, però, comunica diversamente dalle macchine (che si passano informazioni per mezzo di meccanismi per cui, ad un imput A, seguirà un output B in maniera prevedibile). Proprio per questa ragione capiamo come le problematiche inerenti ai processi di comunicazione non risiedano tanto nel contenuto o nella natura dell’informazione, quanto piuttosto nel modo in cui l’informazione è definita, trasmessa, riconosciuta, orientata e utilizzata. ♥ Quali sono le I gradi di libertà della comunicazione; 1) Rigida: la comunicazione di tipo meccanica; un solo mezzo, un solo modo. Questo vale anche per tutti gli apparecchi digitali. 2) Vincolata: la comunicazione di tipo biologico; numero finito di elementi informativi, risultati virtualmente infiniti ma parzialmente prevedibili. 3) Aperta: la comunicazione che caratterizza i rapporti umani; numero infinito di elementi che si rinnovano continuamente. Ma forse non è l’informazione che deve necessariamente rinnovarsi, ma le modalità mediante cui essa è trasmessa (forma, stile, simbolismo implicito ed esplicito...). Una comunicazione aperta ♥ Quali sono le intesa come interpretazione; Ma la comunicazione di tipo aperta non è libera da regole. Obbedisce a quelle interpretative, in quanto viene sfruttata per spiegare a posteriori degli eventi (sì potere interpretativo, no potere predittivo). Nessuna scienza è in grado di predire il futuro al 100%. Al massimo si possono delineare possibili percorsi di eventi. I processi che guidano l’interpretazione sono successivi ai processi che raccolgono l’informazione e la strutturano. Gli organismi viventi raccolgono l’informazione attraverso i sensi. I dati sensoriali sono organizzati in forme in maniera automatica, secondo modalità largamente indipendenti dalla volontà dell’organismo senziente. Comprendere il modo in cui l’informazione sensoriale è organizzato in unità significative può essere un passo importante nella comprensione profonda delle dinamiche di comunicazione tra organismi viventi. ♥ Quali sono le Quindi, cerchiamo di capire come organizziamo il campo visivo per capire come funzioni la comunicazione; L’esperienza passata è un fattore di tipo empirico: a parità di altre condizioni, il campo visivo si strutturerebbe anche in funzione delle nostre esperienze passate, in modo che sarebbe favorita la costituzione di oggetti con i quali abbiamo familiarità. Il ruolo dell’esperienza passata risulta essere marginale (rispetto a principi di segmentazione), se messa in conflitto con altri fattori quali la buona continuazione, la chiusura, ecc. Sotto vedrai una figura modificata da Michotte. Pur sapendo che uno solo di quelle tre strutture è un triangolo, non riuscite a fare a meno di vedere tre triangoli completi quando la figura è parzialmente occlusa nelle sue parti critiche da una striscia. Il fenomeno illustrato da questa figura si chiama completamento amodale. La figura non necessita di interpretazione: vediamo tre triangoli senza dover pensare. È vero che i triangoli sono a noi figure note. Il fatto è che anche quando sappiamo che una sola delle di quelle strutture occluse è un vero triangolo, una volta occlusa di nuovo non riusciamo a non vedere i tre triangoli. Con lo sviluppo delle scienze informatiche, della teoria dell’informazione, e degli studi sull’intelligenza artificiale, si è andato delineando un nuovo approccio alla comprensione di come funzioni il sistema visivo. Il più autorevole tra questi approcci è stata la teoria computazionale di David Marr (1982). La teoria di Marr comporta 4 stadi, oltre all’acquisizione dei dati sensoriali (stimolo prossimale): 1) Image-based stage: consiste nell’analisi dello stimolo prossimale per estrarre caratteristiche tipo i contorni. Questo stadio porta alla formazione di uno “schizzo primario”. 2) Surface-based stage: il sistema visivo recupera proprietà inerenti alle superfici, determinando anche la distribuzione delle superfici (surface layout). In questa fase il sistema crea quello che Marr definiva uno schizzo a due dimensioni e mezzo (2.5 D sketch). 3) Object-based stage: il completo recupero delle proprietà tridimensionali delle superfici, che avviene attraverso la ricomposizione e l’integrazione di informazione presentata dal 2.5 D sketch. 4) Category-based stage: recupero di proprietà funzionali degli oggetti che servono a guidare l’azione nell’ambiente e a decidere le strategie future. Il laboratorio delle forme;♥ Quali sono le L’arte è continuamente attiva nel ridefinire, ridisegnare, esplorare i confini della comunicazione, i punti cardine di questo processo sono: • Il nostro sistema cognitivo percepisce, riconosce, ricorda soprattutto le forme; • La vita sociale e culturale è il risultato di scambi ed interazioni chiamati comunicazione; • La comunicazione aperta rimane attiva solo se alimentata da continua invenzione ed immissione di nuove forme; quanto più una forma viene usata, tanto più perde il suo potere comunicativo; • L’ambito principale di scoperta, invenzione e verifica delle potenzialità comunicative delle forme è l’arte; • L’esistenza e la frequentazione di luoghi deputati all’arte identificano il bisogno e la curiosità per le forme che hanno consentito e che possono consentire scambi comunicativi; • L’esistenza di uno “stile” comune ad un’epoca artistica identifica l’importanza della forma; • Forma e contenuto sono due aspetti indissolubili e interconnessi nell’unità di un’opera (la pura forma non esiste. Ogni forma veicola anche un contenuto ...se non altro perché innesca un processo di interpretazione), che tuttavia, nella sua fase esecutiva, possono essere temporaneamente separati e trattati individualmente; I vissuti che ogni persona può esperire durante la propria esistenza, nonché le esperienze emotive, sono spesso molto simili tra loro, ma allo stesso tempo diversi sia per il contesto che caratterizza l’esperienza, sia in base al modo in cui sono rappresentate (o ricordate). In arte è soprattutto la FORMA che si carica della diversità, e quindi del processo di innovazione. Tra le forme “peggiori” e quelle più “sublimi” vi è una continuità di realizzazioni che soddisfano una richiesta generalizzata e scalare di modelli da cui attingere le forme del comunicare. Tutte le epoche ed i periodi storici sono caratterizzati da una certa unità di stile che non riguarda solo l’arte, ma tutte le manifestazioni dell’attività umana. Lo stile riguarda anzi tutto la scelta di forme, e non necessariamente di contenuto. In tal senso l’arte di un determinato periodo storico tende a fornire modelli utili alle attività in cui la componente della comunicazione è rilevante. Ovvero, l’arte nutre lo stile di un’epoca, nutrendosi a sua volta di contenuti emergenti dall’epoca in cui è nata l’opera. ♥ Quali sono le Rappresentazione di piante ed animali nel secondo Rinascimento; Aldrovandi era convinto della necessità di sfruttare l’arte come mezzo per “fare inventario della natura”, classificandola grazie all’osservazione diretta e al suo trasporto oggettivo su tela, rinunciando ad ogni forma di stile (stilizzazione) per essere quanto più oggettivi possibili e superare i limiti delle descrizioni scritte. Opera di cui, anche in passato, persino da Vinci fu portavoce. Tramite l’osservazione diretta si accede alla conoscenza, così la pittura rappresenta quindi il mezzo adatto non solo a fissare e verificare le nuove conoscenze, ma anche come lo strumento necessario alla trasmissione di conoscenze. Si va quindi a rafforzare quel sodalizio comunicativo dell’integrazione fra testo ed immagine che dà luogo ai libri illustrati. Gli artisti coinvolti erano pittori e disegnatori estremamente scrupolosi e avevano come obiettivo la resa realistica delle cose osservate. Il più importante fu Jacopo Ligozzi, poi Prospero Fontana e Bartolomeo Passarotti. Questi nuovi interessi per gli aspetti decorativi ed estetici del mondo naturale favorirono la nascita e lo sviluppo in Olanda dello “still-leven”, che in Italia assumerà un secolo dopo il nome di “natura morta”. L’arte, dunque, non importò aspetti o contenuti della conoscenza scientifica, bensì orientò nella direzione del suo ambito di ricerca le sollecitazioni e le curiosità che gli scienziati instillarono al suo interno. Mentre l’arte esplora ed espande i confini del mondo della comunicazione, la scienza esplora ed espande quelli del mondo naturale. La comunicazione è volta alla scoperta e alla continua reinvenzione delle forme che costituiscono il materiale per il suo funzionamento, mentre la scienza deve necessariamente prescindere dalla forma e tuttavia ha bisogno di comunicare le proprie conoscenze ed informazioni. Le scoperte della struttura e delle leggi del mondo naturale si costituiscono e vengono verificate prima e indipendentemente dalla loro comunicazione, a differenza dell’arte nella quale i nuovi percorsi comunicativi sono tentati, sperimentati e proposti, prima e indipendentemente dal costituirsi di nuovi contenuti da comunicare. Nella scienza, quindi, è primario il problema di giungere a sapere e poi quello della comunicazione, nell’arte, invece, è primaria la forma di comunicazione e il “che cosa comunicare” è successivo. “A Milano, ha proseguito il writer, definito dall’ex assessore milanese Vittorio Sgarbi il “Giotto moderno” Il writer si contraddistingue per le scritte illeggibili, un’evoluzione del lettering, ovvero della trasformazione delle lettere per finalità estetiche: le lettere diventano oggetti morbidi, gommosi, duri, metallici, ecc, e la parola, da segno puramente semantico, si carica di dinamicità visiva. Twen e Bros sono forse due stadi di un’evoluzione che da writers porta ad essere artisti urbani. Quasi tutti gli street artists nascono con i tags, ovvero con quelle firme veloci e molto elaborate che si ritrovano un po’ ovunque negli spazi urbani. Scopo di questo tagging ossessivo è quello di farsi notare, dichiarare la propria esistenza, segnare il “proprio” territorio. Pare che la cosa abbia avuto inizio a Philadelphia nel 1967, quando un certo Darryl McCray, in arte Cornbread, ha iniziato a segnare tutta la città per farsi notare da una ragazza di cui s’era innamorato. Lo sviluppo successivo è forse quello che siamo più propensi a considerare forma d’arte. Ovvero la creazione di opere visive in cui alla forma figurativa è associato un contenuto che va oltre una mera dichiarazione di esistenza da parte di un writer, per quanto elaborato questo sia. Una delle caratteristiche degli artisti della street art, o dell’arte urbana, è la riconoscibilità, che talvolta coincide con il segno grafico stesso, ma il più delle volte riguarda il modo di creare i personaggi. I detrattori di queste forme espressive, infatti, affermano che i prodotti visivi sono simili al mondo del fumetto. Ma se guadiamo un Picasso, un Otto Dix, un Klee, o uno Chagall, non possiamo forse affermare la stessa cosa? La cifra della differenza sta invece nella globalizzazione del fenomeno, con lo sviluppo di un linguaggio specifico benché ancora filtrato dalla cultura autoctona. Uno degli aspetti più interessanti è la formazione di sodalizi artistici di breve o lungo respiro. Questo aspetto della condivisione è piuttosto raro tra gli artisti dell’arte ufficiale e forse sta ad indicare l’aspetto più sociale dell’arte urbana. Il ♥ Quali sono le muralismo; Il modello di riferimento più famoso di muralismo è quello messicano, nato intorno agli anni ‘20 come espressione di quelli che erano gli ideali circa la politica, l'arte e il ruolo svolto dalla cultura. I "tre grandi" furono Diego Rivera, Josè Clemente Orozco e Alfaro David Siqueiros. Questi credevano in un'arte collettiva che potesse essere goduta da larghi strati di società. Infatti, collocavano le loro opere in luoghi pubblici di larga frequentazione. I temi principali riguardano la narrazione del mondo precolombiano e delle sue tradizioni, che non bisognava dimenticare, e il periodo che va dalla conquista spagnola fino all'avvio dell'epoca moderna, culminata nella rivoluzione del 1910. “La pittura murale è pittura sociale per eccellenza. Essa opera sull'immaginazione popolare più direttamente di qualunque altra forma di pittura, e più direttamente ispira le arti minori. L'attuale rifiorire della pittura murale, e soprattutto dell'affresco, facilita l'impostazione del problema dell'Arte Fascista. Infatti: sia la pratica destinazione della pittura murale, siano le leggi che la governano, sia il prevalere in essa dell'elemento stilistico su quello emozionale, sia la sua intima associazione con l'architettura, vietano all'artista di cedere all'improvvisazione e ai facili virtuosismi. Lo costringono invece a temprarsi in quella esecuzione decisa e virile, che la tecnica stessa della pittura murale richiede: lo costringono a maturare la propria invenzione e a organizzarla compiutamente. A ogni singolo artista poi, s'impone un problema di ordine morale. L'artista deve rinunciare a quell'egocentrismo (farsi portavoce di una morale) che, ormai, non potrebbe che isterilire il suo spirito, e diventare un artista “militante”, cioè a dire un artista che serve un'idea morale, e subordina la propria individualità all'opera collettiva. Non si vuole propugnare con ciò un anonimato effettivo, che ripugna al temperamento italiano, ma un intimo senso di dedizione all'opera collettiva. Noi crediamo fermamente che l'artista deve ritornare a essere uomo tra gli uomini, come fu nelle epoche della nostra più alta civiltà.” Ma quanta strada separa gli artisti di graffiti dall’arte murale? Perché la pubblicità è arredo urbano ma non è arte? Eppure, le si riconosce una valenza estetica. Perché i graffiti non sono considerati arredo urbano? Chi decide quale opera di graffiti è arte, e in base a quali criteri viene presa una simile decisione? Il caso di Bansky, fusione perfetta tra semplicità sul piano visivo e complessità sul piano semantico. “♥ Quali sono le The bad artist imitate, the great artist steal” *cancella firma di Pablo Picasso, mette firma Bansky*; La frase attribuita a Picasso ha origine in un articolo intitolato “Imitators and Plagiarists”. L’autore parlava del poeta Alfred Tennyson, dimostrando come il poeta avesse costruito i propri versi basandosi sugli sforzi di poeti antecedenti a lui. Nota bene, però: questa affermazione può avere un suo valore, e quindi essere giustificabile, soltanto nel dominio delle arti, avendo un significato molto profondo che investe sia le componenti semantiche che quelle estetiche delle opere d’arte. In sostanza, si tratta dell’abilità di determinare nuove visioni (valori) partendo da elementi già noti, raggiungendo quindi nuovi significati che si aggiungono a quelli precedenti senza peraltro sostituirsi ad essi, ma anzi spesso in pieno dialogo con essi. Quelle stesse affermazioni, invece non alcuno alcun senso nel dominio delle scienze, dove il furto è furto intellettuale, e chi lo compie rischia la seria e diffamante accusa di plagio. Troppo spesso correggendo capitoli di tesi ho trovato traduzioni letterali di articoli scientifici spacciate per idee e riflessioni del tesista (plagio), oppure brani interi, quando non addirittura capitoli, ricopiati di sana pianta da libri o altre tesi di laurea (plagio). Un aspetto abbastanza comune nelle tesi di laurea è quello di non trovare citazioni delle fonti consultate. È come se il pensiero espresso fosse sgorgato in modo autonomo. Nelle scienze, invece, si procede definendo in modo chiaro ed evidente quelle componenti del proprio pensiero che sono frutto della considerazione di altri colleghi, citando i colleghi con il cognome e la data di pubblicazione in cui il pensiero può essere letto nella sua forma originale (Zavagno, 2013). Il riferimento in testo andrà poi riportato in bibliografia nella sua completezza. La riflessione personale del tesista si appoggia quindi su considerazioni che condivide oppure a cui si oppone, che sono chiaramente espresse ed individuate prima. Se, per esempio, l’affermazione di Zavagno (2013) non mi convince, prima esporrò il suo pensiero e poi esporrò le mie ragioni, eventualmente supportate dalle ragioni di altri autori citati nel testo in ordine alfabetico, per es. (Maravita, 2010; Stucchi, 1998;). Ogni autore citato in testo va riportato in bibliografia. Infine, può risultare comodo riportare un brano di un autore. Questo lo si fa SOLTANTO SE IL BRANO È UN PUNTO NODALE E CRITICO RISPETTO ALLE VOSTRE ARGOMENTAZIONI. NON HA SENSO RIPORTARE UN BRANO PER DESCRIVERE QUELLO CHE UN AUTORE DICE. Si deve invece saper riassumere il pensiero degli autori: NON SIATE INTELLETTUALMENTE PIGRI. Infine, quando si riporta un brano si fa in modo che questo sia chiaramente identificabile mediante virgolette, oppure un carattere più piccolo in un paragrafo dedicato appunto al brano. Alla fine del brano deve essere riportato tra parentesi il cognome dell’autore, la data di pubblicazione, il numero di pagina dove si può reperire il brano. Se autore e data compaiono immediatamente prima della citazione letterale del brano, allora basta il numero di pagina tra parentesi alla fine del brano. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- La robustezza delle immagini pittoriche ♥ Quali sono le Configurazione vs forma; La configurazione riguarda le caratteristiche strutturali di oggetti, ma non di un oggetto in particolare, bensì di una classe cui un oggetto particolare appartiene. In tal senso ogni configurazione è semantica in quanto è una dichiarazione su generi o classi di oggetti. La configurazione è un dato mentale costruito sulla moltitudine dei nostri percetti; è, per così dire, un pensiero visivo. La forma, invece, è un caso particolare: è il punto di vista rivolto ad un oggetto specifico. La forma è una percezione. E infatti si parla di “riconoscimento di forme” (pensa alla figura “Anatra o coniglio?”). Forma, ♥ Quali sono le orientamento e schemi di riferimento; Nella Thatcher illusion, vediamo l’ex primo ministro britannico sempre sorridente quando l’immagine è capovolta. Quando invece i visi sono orientati secondo la loro posizione canonica, allora una delle due raffigurazioni ci appare grottesco. Allo stesso modo, un quadrato appare tale se uno dei lati è orizzontale rispetto al piano pittorico. Se il quadrato è ruotato di 45° si vede un rombo, ovvero un’altra figura geometrica. L’orientamento dello scheletro strutturale può modificare il modo in cui noi vediamo una forma, anche per quanto riguarda aspetti quali equilibrio e tensioni. Nel caso del quadrato che si trasforma in rombo, lo scheletro strutturale emergente è valido e stabile quanto quello del quadrato: i rapporti di simmetria sono mantenuti. L’ex quadrato, trasformatosi in rombo, perde in equilibrio ma acquista in dinamicità. L’orientamento spaziale presuppone uno schema di riferimento. In uno spazio vuoto, lo schema diventa l’orientamento retinico (Primo schema di riferimento). La compresenza di forme può invece determinare il modo in cui viene inteso anche lo schema strutturale di una forma; nel caso sotto, quando il rettangolo che fa da sfondo al rombo è orientato a che lo sguardo ci fissa di continuo, o il dito si muova per puntare sempre noi. Diversi autori indichino il fenomeno come sostanzialmente diverso dalla robustezza delle immagini pittoriche, come Goldstein (1987) che ritiene il fenomeno un’eccezione alla robustezza, in quanto la struttura rimane rigida, ma la direzione cambia. Altri, come Gerbino (1989) ritengono che i due fenomeni siano invece da tenere distinti. Tuttavia, i due fenomeni sono invece profondamente relati tra loro. La robustezza dell’immagine, invece che farci percepire l’immagine come distorta, fa sì che ne percepiamo la struttura in modo costante quando ci muoviamo dinnanzi ad essa. Resta immutata, invariata, la direzionalità dello sguardo o del dito non rispetto all’ambiente esterno, ma rispetto a noi. Il fenomeno dell’inseguimento è anch’esso una forma di resistenza alla deformazione geometrica, che ben si accorda con l’egocentrismo del nostro mondo, di cui noi siamo, appunto, il centro. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Percezione della luce La ♥ Quali sono le riflettanza (reflectance) e la luminanza (luminance); La percentuale (%) di energia riflessa da una superficie (ad esempio, un foglio di carta). Più la superficie tende al bianco, maggiore è questa %. La riflettanza è una proprietà invariante di una superficie fisica ; riguarda soltanto la percentuale di energia riflessa, e non la sua composizione spettrale. La luminanza è la quantità assoluta di energia elettromagnetica emessa oppure riflessa da una superficie fisica. È una misura intensiva di una sorgente di radiazione o riflessione di energia luminosa, e viene solitamente espressa in nit. Un nit corrisponde alla quantità di luce di una candela riflessa ortogonalmente da una superficie opaca (cd/m2). Mentre la riflettanza è una proprietà fisica caratterizzante una superficie opaca che riflette energia luminosa, la luminanza è una misura dell’energia riflessa oppure emessa da una superficie fisica in un dato momento. La luminanza di una superficie è quindi suscettibile di sensibili variazioni nel tempo, legate alla natura fisica della sorgente di emissione (per esempio, certe lampade a incandescenza emettono più luce quando sono nuove), oppure alla quantità di illuminazione nell’ambiente per quanto concerne le superfici di riflessione. La luminanza si misura con un fotometro. La ♥ Quali sono le bianchezza (o chiarore dei grigi, lightness) e la intensità percepita (brightness); La bianchezza è il colore acromatico di superficie. La lightness di una superficie corrisponde a un certo livello di grigio su una scala acromatica di grigi che comprendono il bianco e il nero, i limiti di detta scala. Come la riflettanza è una proprietà invariante di una superficie fisica, così la lightness è una proprietà costante di una superficie percettiva che appare riflettere luce. In questo senso, si usa anche il termine riflettanza percepita per indicare la lightness, anche se non vi è una correlazione diretta tra la percentuale di luce riflessa da una superficie e il grigio di cui sembra essere fatto quella superficie stessa. Il termine brightness viene utilizzato per parlare di diverse cose.  Alcuni intendono indicare con questo termine la supposta esperienza percettiva della luminanza, ovvero l’intensità assoluta apparente di uno stimolo. In altre parole, alcune teorie (perlopiù cognitiviste) ritengono che il sistema visivo renda disponibile per la valutazione cosciente il dato sensoriale immediato sulla quantità di stimolazione proveniente da una regione del campo stimolatorio. In tal senso, con il termine brightness si vuole indicare una esperienza sensibile concettualmente simile a quella di vedere le grandezze angolari delle superfici (cioè quanto spazio occupano sulla retina). Così si trova spesso nella letteratura la luminanza apparente (apparent luminance) come sinonimo di brightness.  Con il termine brightness, altri studiosi intendono riferirsi in modo generico all’esperienza percettiva sia dell’illuminazione, sia della emissione di luce. In tal senso, brightness corrisponderebbe al vissuto percettivo della quantità di luce che appare illuminare una superficie o un ambiente. Inoltre, il termine si riferirebbe all’intensità percepita di una sorgente di illuminazione. Se tuttavia è chiaro il significato del termine con riferimento all’illuminazione, ci si può chiedere invece che cosa cambi rispetto al concetto di “luminanza apparente” quando si usa il termine per riferirsi al vissuto di luminosità. La differenza sta tutta nella luce percepita, ovvero nel modo in cui la si intende a livello di esperienza fenomenica. ♥ Quali sono le Rappresentare l’incorporeo; Come è stato tradotto in termini figurativi l’esperienza di un oggetto caratterizzato da una assenza di corporeità, qual è appunto la luce? L’esperienza percettiva della luce può essere categorizzata in due modi principali: 1) L’esperienza di sorgenti di luce, come il sole, una lampadina al tungsteno accesa, una lampada al neon, la fiamma di una candela, ecc. 2) L’esperienza della luce riflessa dalle superfici, dove la luce emerge come presenza in virtù del contrasto con le ombre. Senza poi considerare la simbologia con cui i più piccoli rappresentano il sole: una presenza rassicurante contro i mostri (che non appaiono alla luce), associata ad emozioni positive (giocare fuori con amici quando c’è il sole). O la rappresentazione della luce nel corso della storia (persino dalla Mesopotamia, 3k anni prima di cristo). Ma come rappresentare la luce? Ossia, quali sono i suoi indici visibili? L’esperienza visiva della luce si presenta in tre modi:  L’esperienza dell’illuminazione, ovvero la chiarezza delle superfici appare dipendere da un agente esterno che si manifesta sulle superfici medesime.  L’esperienza della luce ambientale (la luce di un giorno di sole vs la luce di un giorno nuvoloso).  L’esperienza della luminosità, ovvero di oggetti che appaiono emettere luce propria. E i suoi indici visibili sono sei:  Irraggiamento : un punto luminoso appare diffondere raggi di luce in tutte le direzioni.  Diffusione rettilinea : i raggi di luce hanno un percorso che appare sempre rettilineo, a meno di non subire effetti di diffrazione.  Effetti di diffrazione : modificazioni nel percorso della luce in seguito alla presenza di superfici opache: lungo i margini i raggi appaiono deflettere e producono frange di luce e buio e fasce colorate (iridescenza).  Gradienti di luminanza e ombreggiature : sono gli stessi indici usati per creare gli effetti di tridimensionalità.  Riflessione : superfici opache riflettono la luce, interrompendo il percorso dei raggi luminosi.  Intercettazione : un oggetto solido non trasparente interrompe il percorso dei raggi producendo una zona d’ombra “portata”. In particolar riferimento agli ultimi due punti, consideriamo la luce in rapporto alle superfici. La luce può emergere come entità oggettuale sovrastrutturale, in grado unificare zone omogenee di illuminazione anche se dalle forme diverse e ben distanti le une dalle altre, oppure può essere dispersa nell’ambiente, finendo per non possedere una qualità oggettuale. Per comprendere perché in alcune scene visive la luce emerge come un vero e proprio oggetto visivo, mentre in altre scene la sua presenza è molto diluita, se non addirittura nulla dal punto di vista oggettuale, bisogna considerare che la scena visiva può possedere diversi set di margini. Nell’esperienza quotidiana siamo consapevoli di 2 tipi diversi di margini: 1) Quelli determinati dalla segmentazione del campo di stimolazione in: a) oggetti discreti aventi una certa forma; b) uno spazio che contiene tali oggetti (segmentazione figura-sfondo); 2) Quelli determinati dall’illuminazione. I corpi opachi intercettano la luce, e tale intercettazione determina zone di ombra sul corpo dell’oggetto stesso (ombre proprie) e la “proiezione” di ombre sopra altre superfici limitrofi (ombre portate). Per l’emergenza della luce come oggetto visivo è cruciale il rapporto tra il set di margini del primo tipo e il set di margini determinate dalla presenza di ombre proprie fortemente strutturate. Quanto più questo set di margini si intersecano senza dar luogo a sovrapposizioni completi, tanto più probabile la luce emergerà come caratteristica oggettuale della scena. Tanto più quei due set di margini si sovrapporranno, invece, tanto maggiore è la probabilità che la luce scompaia nel gioco di ombreggiature determinata dalle ombre proprie. Inoltre, un buon uso delle ombre può rivelarci la struttura tridimensionale della figura che abbiamo di fronte. ♥ Quali sono le Può una immagine pittorica mostrare luminosità? Le rappresentazioni antiche del sole e della luna sono di tipo simbolico, e I raggi raffigurati sono quello che Kennedy definirebbe una “metafora visiva” per indicare l’irraggiamento. Ma queste metafore sono in grado di mostrare effettivamente luminosità? Per rispondere adeguatamente alla domanda precedente è necessario considerare le teorie concernenti l’esperienza percettiva della luminosità. La percezione di luminosità appare quasi spiegarsi da sola: una superficie appare luminosa quando emette o riflette una certa quantità di energia luminosa. Se le cose stanno così, allora lo studio della percezione di luminosità si riduce alla individuazione della soglia assoluta per tale percetto. Ullman (1976) fu il primo a indagare empiricamente la percezione della luminosità. Egli analizzò 5 possibili risposte, dimostrando che nessuna di esse esauriva del tutto il problema: 1) Una sorgente di luce è sempre l’intensità più elevata nella scena visiva. Tale affermazione è falsa perché si possono dare casi in cui l’intensità di energia riflessa da una superficie vista come opaca e quindi non luminosa sia maggiore dell’intensità di energia proveniente da un altro oggetto visto come luminoso. Si provi ad immaginare, per esempio, la seguente scena: è una splendida giornata di sole, ma voi vi trovate all’interno di una stanza con le persiane accostate, sicché penetra una lamella di luce che cade sopra un foglio di carta bianca. Nella stanza, sullo stesso tavolo ma posto all’ombra, vi è una candela accesa. La fiammella della candela appare luminosa, mentre il foglio bianco illuminato dalla luce del sole, per quanto brillante, non appare luminoso. È ben possibile che in una simile situazione la quantità di energia riflessa dal foglio di carta sia maggiore di quella emessa dalla candela, senza peraltro che il primo appaia luminoso. 2) Una sorgente apparente di luce è sempre associata con un’area di intensità assoluta elevata. Anche questa affermazione è falsa, e basta considerare l’esempio della luna fatto anche da Wallach (1976). Quando la luna è vista in piena luce, e cioè di giorno, essa appare bianca; quando calano le tenebre, di notte, essa appare luminosa. Eppure, di giorno l’energia proveniente dal punto dove il disco della luna viene osservato è pur sempre maggiore dell’energia che proverrebbe di notte dallo stesso punto occupato dalla luna, in quanto all’energia riflessa durante il giorno deve essere aggiunta pure l’energia dispersa nell’atmosfera e che determina la parvenza di azzurro del cielo attraverso cui la luna viene vista. In altre parole, la luna appare luminosa proprio quando dalla postazione in cui viene vista vi è una minore quantità di energia a disposizione per stimolare l’organo fotorecettore, e cioè di notte. 3) Quando il contrasto tra un certo stimolo e il suo sfondo immediato è di una certa grandezza, allora lo stimolo in questione apparirà luminoso. Anche questa affermazione è falsa perché sono troppi in natura i rapporti di luminanza tra aree contigue (contrasti locali) che potrebbero soddisfare questa condizione senza peraltro dar luogo al percetto di luminosità. 4) Quando la differenza di contrasto tra la regione con energia più intensa e un’altra regione con energia meno intensa della precedente e localizzata in un qualsiasi altro punto della scena visiva eccede un certo valore (contrasto globale), allora nella zona più intensa vi è una sorgente di luce. Anche se questa spiegazione ha il vantaggio di estendere i rapporti da superfici contigue a superfici non contigue, è sempre falsificata dall’esempio riportato nel punto 1, ovvero possono sussistere rapporti di contrasto che vanno addirittura in direzione opposta e si ha lo stesso la percezione di luminosità. 5) Quando la luminanza di una regione supera di un certo valore la luminanza media della scena visiva, allora quella regione è vista come una sorgente di luce. Ullman si è chiesto se, a parità di contrasto sia locale che globale, variazioni di illuminazione possano influenzare le soglie fotometriche per la detezione della luminosità. Un esperimento da lui condotto sembra deporre contro una simile ipotesi. Se Ullman smontò diverse ipotesi, si dimenticò di considerare quella di Hering (1879), il quale propose che la soglia di luminosità stava in un certo rapporto con la percezione del bianco (il limite superiore della scala delle lightness): affinché una superficie appaia luminosa, la sua intensità deve essere superiore a quella di un’altra superficie che appare bianca. Nei loro studi sulla percezione di luminosità, Bonato & Gilchrist (1994, 1999) trovarono effettivamente che una superficie comincia ad apparire luminosa quando la sua luminanza è 1.7 volte la luminanza di un’altra superficie che apparirebbe bianca se osservata nelle stesse condizioni di illuminazione. Quello che Bonato e Gilchrist affermano è che la percezione di luminosità è subordinata alla percezione di lightness, nel senso che una superficie appare luminosa soltanto se la sua luminanza è almeno 1.7 volte maggiore di quella di un’altra superficie che, se vista nelle stesse condizioni di illuminazione, apparirebbe bianca (colore acromatico di superficie). La soglia di luminosità costituirebbe quindi il limite superiore della scala delle lightness. Qualsiasi cosa più “chiara” del bianco apparirà luminosa. Qualsiasi cosa più scura del bianco apparirà grigio. Se la risposta fornita da Bonato e Gilchrist fosse l’ultima parola sulla faccenda, allora potremmo in tutta tranquillità concludere dicendo che non è possibile mostrare luminosità in un’opera pittorica. Infatti, in un dipinto fatto con pigmenti normali, che hanno una gamma di riflettanze compresa in un rapporto di 30:1 (il bianco più bianco rifletterebbe 30 volte più luce del nero più nero ottenibile con pigmenti), non si può avere niente di più “brillante” del bianco. Perciò, quando vediamo raffigurato un oggetto luminoso in un dipinto (o anche in una fotografia, un film, ecc.), saremmo in realtà di fronte ad una metafora visiva (Kennedy, 1982), cioè ad un costrutto cognitivo derivato da esperienze percettive pregresse, e non a un percetto di luminosità vera e propria. Ma l’ipotesi di Bonato e Gilchrist fu smentita da alcuni studi sul glare effect, detto anche effetto di abbagliamento. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ Riassunto Freud e la Psicologia dell’arte - E.H. Gombrich Capitolo 1: Frued e l’arte L'interesse di Freud nei confronti dell'arte ebbe inizio dopo una visita alla Pinacoteca di Dresda, 1883. Prima di questo episodio, Freud credeva che l'arte potesse essere oggetto d'interesse della sola gente semplice, senza veri interessi, superficiale. A fargli cambiare idea fu l'esperienza con alcune opere, in particolare: la Madonna di Holbein (grandissima abilità nel rappresentare la santità della Vergine che, nonostante le sembianze molto terrene, riesce ad incarnare pienamente l'immagine di Regina del Cielo. Bruttezza di tutte le figure rappresentate, Gesù è un bambino malformato e malaticcio), la Madonna di Raffaello (bellezza ed estremo fascino del dipinto in sé, nonostante la Vergine rappresentata sembri una semplicissima bambinaia), Cristo della moneta di Tiziano (forza comunicativa della rappresentazione: dall'immagine di un uomo non bello, riescono a trasparire tutti i valori e le caratteristiche che la religione attribuisce a Cristo). Quello che colpisce Freud è la capacità comunicativa e l'abilità di rappresentazione di un concerto attraverso l'arte, ovvero i parametri che i critici d'arte del XX secolo usavano per valutare il valore e la grandezza di un'opera. Freud, non appena possibile, comincia a collezionare opere e visitare luoghi antichi come l'Acropoli di Atene. Lo stesso Freud, anni avanti, dichiarerà in alcune lettere che quello che davvero cercava in un'opera d'arte era la vera bellezza più pura (non tanto l'ossessione di interpretare il significato di alcuni simboli presenti nei dipinti). Freud, analisi di "Sant'Anna" di Leonardo: l'analisi di quest'opera si basa su un presupposto errato: un'informazione proveniente da un testo mal tradotto relativa all'infanzia di Leonardo. L'artista raccontava di essere stato colpito alla bocca dalla coda di un nibbio quando ancora bambino; nella traduzione dall’italiano al tedesco, però, questo animale è diventato un avvoltoio. Freud è entrato in contatto con questa traduzione e da questo presupposto ha avanzato un'interpretazione dell'opera (che lui stesso riconosce come "romanzata") collegandosi al valore simbolico che l'avvoltoio ha nel simbolismo egizio. Fu così che, nelle pieghe della veste di Sant'Anna, Freud ci vide l'immagine di un grande condor. Alcuni sostengono che l’avvoltoio sia un simbolo di omosessualità, la presenza di questo animale celerebbe tendenze omosessuali di Leonardo stesso. Freud nel modo di rappresentare Sant'Anna e la Vergine, ci vede una proiezione dell'infanzia di Leonardo. Le due donne, infatti, sono fuse insieme come fuse erano, agli occhi di Leonardo, la matrigna e la mamma biologica (la matrigna, infatti, era sterile ed era vista più come una nonna che una madre a causa della sua anziana età). Leonardo, figlio di una relazione illegittima, vedeva la madre naturale di nascosto). Nell'opera, Freud ricerca il massimo contenuto psicologico delle figure. Freud, analisi di "Mosé" di Michelangelo: grandissima passione nei confronti di questa scultura, si dice che durante il suo soggiorno romano, andò tutti i giorni per vederla. Freud era ebreo e molto legato alle tradizioni, forse questa scultura era di suo interesse anche perché rappresentava un episodio del Vecchio Testamento (fondamentale per la religione ebraica). Pensava che il Mosé rappresentato fosse quello appena disceso dalla montagna, che ha trovato il suo popolo in adorazione di un vitello d'oro. Alcuni pensano che Freud si identifichi nella figura di Mosè: Freud percepisce una somiglianza poiché anche lui era stato inizialmente respinto e rifiutato dai contemporanei per la sua teoria psicanalitica, così come Mosè aveva inizialmente incontrato un’avversione inaspettata nei suoi confronti da parte del suo stesso popolo ebraico. Il carattere conservatore e tradizionalista di Freud emerge anche nel rifiuto verso i movimenti artistici moderni, l'arte del dopoguerra. Lo psicanalista Pfister aveva invitato Freud a psicanalizzare le nuove forme d’arte così eccessive e drastiche). Questo è il motivo per cui l’artista decide di rinunciare, attraverso uno sforzo improbo, alla sua estrema abilità nell’ambito della pittura accademica a favore di questo tipo di rappresentazione. Il piacere dell’osservatore verso questo tipo di rappresentazione risiede nel maggiore sforzo mentale che deve compiere osservando l’opera, tuttavia, è bene precisare che lo sforzo non deve essere eccessivo, altrimenti l’attenzione e l’interesse calano. Deve esserci un buon equilibrio: alla richiesta di un maggiore dispendio di attività da parte dell’osservatore su un fronte deve corrispondere una semplificazione su un altro.  Questo equilibrio perfetto, secondo alcuni critici, si ritrova nella pittura impressionista . L’Impressionismo ricoprirebbe il ruolo di spartiacque fra l’appagamento di un piacere di tipo contemplativo della perfezione pittorica ed un piacere dato dallo sforzo mentale dell’osservatore. L’impressionismo, infatti, è in grado di colpire l’attenzione dell’osservatore riducendo il suo rapporto con la pittura alla semplice interpretazione di macchie di colore. L’Impressionismo è visto sia come l’inizio di un primitivismo e di un’arte regressiva sia come l’apice del processo di fusione fra perfezione pittorica ed apparenze. Quello che accade nell’arte impressionista potrebbe essere tradotto in termini psicanalitici con quello che accade nella lotta fra Id e Super-Io all’interno dell’Io.  L’invenzione del Cubismo da parte di Picasso nasce dal desiderio di esprimere attraverso l’arte l’aggressività e la ferocia che gli ribollivano dentro tormentandolo. Il gioco del cubismo, basato su rappresentazioni scheggiate e frantumate, nascerebbe dall’incontro del suo stato interiore con il modo di rappresentare tipico degli espressionisti. Picasso avrebbe riconosciuto sé stesso nell’arte espressionista, si sarebbe ispirato a questa ed avrebbe poi applicato a questo modo di dipingere delle modifiche proprie. Riassumendo, questo esempio di opera d’arte spiegherebbe come l’arte stessa sia un incontro fra contesto storico/sociale/ artistico e personalità/vissuto personale dell’artista. Quello che conta non è solo l’artista in sé con il suo vissuto personale, così come non è neppure solo il contesto artistico circostante con la sua evoluzione; fondamentale è l’interazione fra questi due elementi. Quello che conta è che proprio quel preciso artista (con il suo vissuto e con le sue abilità) si sia trovato in una situazione in cui i suoi conflitti privati hanno acquistato importanza artistica. Senza i fatti sociali (lo stile e le tendenze artistiche di quella precisa epoca), però, le tendenze private del creatore non sarebbero state realmente stimolate e forse non sarebbero neppure mai emerse davvero, impedendo così la trasformazione di queste in arte. In questa trasformazione, è come se il significato più privato sparisse quasi completamente, lasciando l’arte (l’arte sarebbe quindi la fusione di tutti questi aspetti; è vero che il significato più intimo e personale dell’artista è come se sparisse causando l’illusione dello stile artistico in primo piano, ma è anche vero che senza questo l’opera d’arte non sarebbe mai stata creata). Capitolo 3: Gli studi sull’arte, strumenti validi per lo sviluppo dei simboli 1) Iconologia e psicologia. La simbologia è oggetto di interesse di: psicologia, estetica, storia dell’arte. Negli ultimi anni c’è stata una “caccia al significato simbolico” nascosto dietro ogni opera; questo atteggiamento potrebbe essere legato alla psicanalisi ed alla sua diffusione. Oggi però sembrerebbe esserci una vera e propria ossessione per i significati simbolici che vengono ricercati anche dove non ci sono enigmi da risolvere. La simbologia studia i simboli. L’iconologia è quella disciplina, nata dall’interesse generato dagli scritti di Freud, che ha come scopo decifrare le forme simboliche dell’arte. 2) Due concetti del simbolo. Due significati dati alla parola “simbolo”: simbolo con significato immediato ed universale (segno di riconoscimento immediato, non è oggetto della psicologia dato che il suo significato è manifesto o spiegato palesemente) e simbolo che è più di un nudo segno (è un’estensione del concetto di simbolo, è oggetto della psicologia). 3) Il gioco delle metafore. Un tempo, il simbolo veniva creato da cortigiani ed eruditi per rappresentare concetti ed idee determinate, era una sorta di gioco volto a tradurre in simboli concreti vizi, virtù, persone oppure pensieri. Problema della traducibilità del simbolo: alcuni sostengono che i segni sono sempre traducibili, ma non sempre il significato simbolico può essere spiegato a parole; questo perché il simbolo svolge completamente la sua funzione solo all’interno di complesse strutture. 4) Il simbolo religioso. L’arte ed il simbolismo hanno sempre avuto un rapporto ben stretto con la religione, un tempo infatti l’arte era al servizio del contenuto simbolico (non il contrario). In passato, spesso un’opera era apprezzata per la sua forma per il semplice fatto che si venerava il suo contenuto simbolico e religioso; lo studio dei simboli ha così portato, in alcuni casi, a trascurare la bellezza e l’armonia della forma stessa. 5) Simbolo e segno. Bisogna distinguere fra simbolo e segno: per il comune segno vale il “principio della rilevanza astrattiva” di Bunler: ampiezza di variazione riscontrabile in certi tratti di ogni segno convenzionale; i segni sono fondati su una convenzione che permette alla forma di variare all’infinito purché precise caratteristiche strutturali rimangano invariate. Anche oggi, in alcuni casi, la forma del segno è rilevante (i simboli della fede e quelli del potere, ad esempio, non possono essere rappresentati con una forma indegna poiché sarebbe una profanazione); infatti, scegliere una forma piuttosto che un'altra (la gamma di toni e forme possibili prende il nome di “espressione”) a seconda della circostanza può essere letta come una manifestazione simbolica. In casi come questi, il segno/espressione diventa un simbolo che non può essere tradotto e spiegato con le parole. 6) Forma e simboli nella musica. Si potrebbe dire che la musica esprima il senso delle parole, che abbia quindi una “funzione comunicativa”. Quando noi diciamo “comprendere”, però, non intendiamo capire l’autore (come l’estetica ci ha erroneamente indotti a credere con il passare del tempo), ma la sua opera. Comprendere un’opera significa quindi saper giustificare la scelta di precise metafore musicali per esprimere precise idee/sensazioni. Comprendere l’autore, d’altro canto, è impossibile dato che lo stato d’animo del compositore nell’atto di scrivere e le sue convinzioni sono per noi inaccessibili. 7) Simboli sonori e poesia. Alexander Pope diceva che nel suono deve riecheggiare il senso, è un eco e non un veicolo indipendente del significato. Nelle poesie, la pura comprensione del significato delle parole ha la precedenza sull’armonia fra suono delle parole e significato; se non si capisce il significato di una poesia, non si può cogliere la presenza di armonia fra contenuto del testo e capacità delle parole scelte di esprimerlo attraverso il loro suono. Lo studio dei simboli, quindi, nell’ambito della poesia (ma anche in quello della pittura e della musica) potrebbe consistere nella ricerca di armonia fra suoni/forme/colori/ritmi e significati a questi connessi. Questa armonia è ben spiegata dall’antica parola “decorum” che indica la scoperta della forma adeguata al contenuto. Osgood, Teoria del differenziale semantico: è possibile assegnare ad ogni impressione un posto determinato all’interno dello spazio semantico; la collocazione è fatta attraverso coordinate basate su tre dimensioni: buono/cattivo, forte/debole, attivo/passivo. Secondo Osgood attraverso il posizionamento dato da queste quattro variabili si può arrivare a comprendere appieno un’idea/un concetto anche dietro ad un simbolo; gli oppositori di questa teoria accusano Osgood di aver semplificato troppo le variabili d’inquadramento nello spazio semantico. 8) Molteplicità delle forme simboliche. Metodo delle matrici nella molteplicità della metafora: l’insieme delle sensazioni nate in un dato contesto spiegano un significato, nessuna sensazione ha questa capacità se considerata isolatamente. Neisser, elaborazione successiva e simultanea: normalmente nel pensiero umano c’è un filo principale che si schiarisce a poco a poco secondo una determinata materia. Secondo Neisser questo filo principale corrisponde al normale contenuto della coscienza che non è in grado di pensare a più cose contemporaneamente. A volte, però, questa coscienza si trova a dover affrontare più aspetti contemporaneamente dovendo così distribuire l’attenzione (questo avviene quando la materia principale è accompagnata da uno svolgimento polifonico multiforme del pensiero). Un esempio di elaborazione simultanea (opposta a quella per gradi) è la comprensione del significato di una parola: il significato di una parola, infatti, non avviene sulla linea successiva del senso letterale, ma è simultanea al suono delle parole. 9) La “profondità” del simbolo. Bruner, meccanismo della cateratta (principio di economia attuato in precise condizioni percettive): quando non vogliamo più ottenere informazioni chiudiamo la cateratta passando ad altro; questo chiuder la cateratta è tipico dell’attività mentale e del suo progredire del pensiero logico. L’opera d’arte è un “segno aperto” che non ha limiti definiti e può essere compresa solo quando si smette di chiudere la cateratta. Chiudendo la cateratta si rischia di interrompere il filo principale dell’attività mentale ed il suo pensiero logico, rendendo così impossibile la completa chiarezza della comprensione. Forse, però, l’intensità dell’esperienza artistica non coincide con la chiarezza della comprensione; l’incompressibile esercita un fascino particolare proprio perché non vincola ad una determinata elaborazione di idee consecutive. 10) Il simbolo del neoplatonismo – Marsilio Ficino. Esistono simboli con un valore estremamente profondo, anche più intenso di quello delle parole stesse. I sacerdoti egizi, ad esempio, scrivevano i misteri divini in figure anziché in lettere questo perché pensavano che il sapere divino potesse essere colto solo nella totalità e non nel corso di una conoscenza razionale. Marsilio Ficino riporta l’esempio del serpente che si morde la coda come simbolo del tempo. questo è un “simbolo mistico” che è diverso da un “simbolo artistico”. Il primo racchiude in sé un paradosso che sprona il mistico a trascendere i limiti della ragione ed inoltrarsi in una sfera dove la contraddizione perde ogni valore poiché il principio di consonanza convive con quello di dissonanza. nel simbolo artistico, invece, vige solo il principio di consonanza. 11) La simbologia romantica – Creuzer. Per Cruezer, il simbolo è un’incongruenza continua che serve a spronare l’osservatore a cercare sotto la forma il vero significato. L’incongruenza si trova nel rapporto fra sostanza e forma oppure nell’esuberanza del contenuto nei confronti dell’espressione. Il simbolo, proprio per questo aspetto, è incomparabile con il segno e la sua chiarezza. Questa definizione di simbolo risente anche del pensiero freudiano che considera il simbolo come una “pre-arte” che richiama un simbolismo inconscio. Contrasto fra la concezione classica dell’arte e la concezione mistica del simbolo: la prima, infatti, mira a quella consonanza dei significati che la seconda rifiuta. Così, la concezione classica sostituisce l’immagine del tempo data attraverso il serpente che si morde la coda con una divinità.
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