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Psicologia dell'Arte, Appunti di Psicologia Della Percezione

Appunti di Psicologia dell'arte presi a lezione relativi all'Antologia di Freud (Saggio su Leonardo, Saggio sul Mosè di Michelangelo, Saggio del Perturbante e Saggio dell'Umorismo), al Libro Freud e la psicologia dell'arte di Gombrich e al Libro Arte e Percezione visiva di Arnheim.

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 03/04/2023

Nicole_Fiordalisi
Nicole_Fiordalisi 🇮🇹

4.7

(46)

15 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Psicologia dell'Arte e più Appunti in PDF di Psicologia Della Percezione solo su Docsity! 1 PSICOLOGIA DELL’ARTE INTRODUZIONE 1. Ernst Gombrich, Freud e la psicologia dell’arte: o Ernst H. Gombrich nasce a Vienna nel 1909 ( anno di particolare fermento con Freud, la psicoanalisi e il movimento secessionista) e diventa uno storico dell’arte sui generis, lavora inoltre negli ambiti della psicologia come quella della percezione e psicanalitica, s’introduce inoltre nei legai tra arte e scienza; o Fu allievo di Julius von Schlosser, ovvero l’esponente della Scuola di Vienna e conservatore del museo principale di Vienna  pubblicò il libro di Letteratura artistica del 1924, ma la pubblicazione più interessante è Storia del ritratto in cera del 1911 in cui riflette sull’effetto che fanno i ritratti in cera. Essendo un materiale malleabile e viscoso, la cera riesce ad imitare l’incarnato in modo realistico, stupiscono proprio per questo effetto indistinguibile dal vero. Schlosser decise di occuparsi di questo campo dell’”arte minore” nonostante fosse uno storico dell’arte, interessato ad occuparsi di questo materiale che non ci permette di distinguere il reale dall’irreale, tanto da farci vivere una sorta di incubo, di inquietudine ( Freud a tal proposito scrisse il Perturbante in cui ci parla proprio di questa sensazione: non saper distinguere se una rappresentazione è una figura, oppure una persona reale; in particolare studia questa sensazione legandosi agli automi, ma si sofferma anche sui ritratti in cera). Nell’avvicinarsi a questi ambiti, ovvero a rappresentazioni vive, visuali, differenti agli effetti suscitati dai capolavori, Schlosser prende spunto anche da Aby Warburg; o Allievo di Schlosser è Ernst Kris, che invece di prendere la via di Gombrich sui generis, si avvicina maggiormente alla psicoanalisi, scrivendo Ricerche psicanalitiche sull’arte e fu anche direttore della rivista di psicanalisi applicata Imago ( tutto questo per dire come quel periodo stesse ribollendo e come nel periodo di Gombrich la psicanalisi ci fosse in pieno). Ernst Kris ci dice che l’artista, quando crea, è in preda ad una “regressione controllata”: controllata perché vuole distinguere i progressi regressivi creativi dai processi regressivi patologici. Nel momento della creazione, quindi, l’artista allenta il controllo delle proprie componenti affettive (emotività) e pulsionali, per non comportarsi secondo le regole della civiltà, quindi si “lascia andare” e fa emergere tutto ciò che fa parte dell’inconscio ( tutto quello che fa parte del processo primario secondo Freud). Questi concetti fanno riferimento al “libero fluire di energia psichica”  Kris afferma che così come l’artista allenta il controllo della dimensione affettiva e attinge alle parti più profonde si sé, allo stesso modo il fruitore – nel momento in cui fruisce dell’opera creata in queste condizioni – riesce ad attingere ai livelli più interiori di sé. L’artista crea l’opera attraverso la “regressione controllata” e allo stesso modo il fruitore la ricrea e attinge ai medesimi livelli; o Gombrich lascia l’Austria con l’avvento del Nazismo per trasferirsi a Londra dove insegnò Storia dell’Arte a Oxford e diresse inoltre l’Istituto Warburg dal 1951 al 1976: rappresenta un centro specializzato nello studio dell’influenza dell’antichità classica su tutti gli aspetti della civiltà europea. L’istituto deve il suo nome a Aby Warburg (1866-1929) che viene considerato il fondatore dell’iconologia ( rappresenta un passo ulteriore rispetto all’iconografia, ovvero va cercare il significato nascosto, con 2 riferimenti culturologici, religiosi, riflessioni del periodo, ecc. quindi quello che non emerge unicamente dalla lettura iconografica) anche se la sua opera viene portata avanti soprattutto da Erwin Panofsky e Fritz Saxl ( Gombrich quindi ha diretto a lungo un istituto legato ad un iconologo, ovvero a qualcuno che non era interessato alla storia dell’arte come forme, ma come significato profondo, quindi doveva interessagli molto la psicanalisi che analizzava il significato profondo delle cose). Warburg non è necessariamente legato alla psicologia dell’arte essendo un personaggio poliedrico, ma in anni recenti venne pubblicato il libro La guarigione infinita che racconta la vita di Warburg all’interno della clinica tramite le sue cartelle cliniche, egli infatti era stato a lungo malato e venne curato dallo psicanalista Binswanger  questo libro non ci parla del Warburg iconologo, ma ci mostra la psichiatria del tempo e quindi ci mostra il suo lato psicanalitico; o Gombrich quindi fin da piccolo respira questo clima di psicanalisi, nonostante non sia prettamente il suo ambito: al centro dei suoi interessi si trova l’idea di metodo, ovvero il modo in cui si affrontano le questioni dell’arte e della storia dell’arte, oppure più in generale il modo in cui affrontiamo il problema dell’immagine. Tra i suoi principali contributi troviamo i concetti di tradizione e imitazione, rifiutando però – per tutta la sua carriera – l’origine romantica dell’artista che lo vede isolato e in solitudine, collocandolo invece all’interno di un contesto, al centro di una rete con tanti nodi di connessione. Quindi quando ci parla di Freud e della psicanalisi, o della parola simbolo, lo fa criticando la vulgata psicanalitica (modo di banalizzare una teoria) in tre saggi che pronuncia difronte ad un pubblico di psicanalisti: 1) Freud e l’arte; 2) Psicanalisi e storia dell’arte ( Freud afferma che la dicitura corretta è psicoanalisi anche se veniva comunque utilizzato il termine psicanalisi, questo però, nell’ambito scientifico, viene utilizzato per distingue il lavoro di Jacques Lacan da quello di Freud); 3) Gli studi sull’arte, strumenti validi per lo sviluppo dei simboli. 2. Sigmund Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio: o Stefano Ferrari insegnò psicologia dell’arte molto a lungo nell’Università di Bologna e nel volume, Nuovi lineamenti di una psicologia dell’arte a partire da Freud, propone una riflessione di stampo freudiano sulla letteratura e la scrittura – i due suoi ambiti di studio – e in seguito anche sull’arte (ritratto e autoritratto), comprenderà anche alcune riflessioni sulla psicologia pre-freudiana; o Nell’introduzione Ferrari riflette sul termine di psicologia dell’arte e dice che è controproducente delimitarla: la difficoltà si trova all’interno del termine psicologia dell’arte, infatti se il nostro focus è sulla parola psicologia, ci sposteremo verso una definizione di ambito scientifico, mentre se ci focalizziamo sull’arte allora la psicologia sarà meno rigida  questo focus però rende delle versioni troppo “soft” della psicologia, tanto da poter mettere in crisi lo statuto stesso della disciplina della psicologia dell’arte. Per questo motivo la proposta di non delimitare un campo o di concentrarsi sulla psicoanalisi dell’arte, impediva delle derive troppo tecniche della psicologia, quindi ha permesso a Ferrari di muoversi in maniera più agevole, nonostante questo il suo libro è denso e si basa soprattutto sui pensieri di Freud; o Dato che Ferrari si basa essenzialmente sulle teorie dello psicanalista è necessario conoscere i suoi pensieri, per questo il libro sarebbe da integrare con l’antologia di 5 una superficie bidimensionale, tuttavia afferma che il cinema ha sentito il bisogno di soddisfare le esigenze della realtà; o Negli anni ’40 – dopo essersi traferito negli Stati Uniti – incontra il suo maestro Wertheimer e altri intellettuali sfuggiti al nazismo, iniziò ad insegnare psicologia alla Columbia e negli anni ’50 pubblicò il suo capolavoro Arte e percezione visiva. Nell’edizione italiana del libro si trova una prefazione di Gillo Dorfles il quale scrive: «Quello che ci vuole dire Arnheim è questo: vedere è un atto creativo e il giudizio visivo non è il contributo dell’intelletto successivo alla percezione, è un ingrediente essenziale della percezione». Il nostro sentire, per esempio l’equilibrio o squilibrio in un’immagine, non è qualcosa che avviene successivamente, ma avviene insieme. «Quanti tuttavia sanno prendere coscienza del giudizio visivo e tradurlo e formularlo, sapere quali sono i principi psicologici che lo motivano e quali sono le componenti del processo visivo che partecipa alla creazione così come alla contemplazione dell’opera, tutto questo significa in realtà che cosa stiamo vedendo. Per vedere l’opera d’arte non occorre essere un’artista o uno psicologo, ma niente può essere prezioso come un avvertimento di uno psicologo che è anche utilissimo critico d’arte come Rudolf Arnheim»; o Arnheim, durante la sua vita, scrisse di artisti quali Kandinsky, Klein, Mondrian, Matisse, Picasso e dichiara di detestare la Pop Art e la Land Art perché li vede come dei giochetti  la sua idea di arte quindi si basa sull’astrazione della realtà, un gioco che viene fatto sulla forma e che ha il suo senso sulla volontà di reinventare la realtà, non cadendo così nel “realismo ingenuo”. Il rapporto dello scrittore con l’arte sua contemporanea è complesso, nonostante si sia dedicato alla percezione dell’arte visiva, nutre un certo disprezzo per l’Op Art, l’Arte Cinetica e l’Arte Programmata  erano artisti che lavoravano sull’idea di percezione, che lavoravano sfidavano il realismo ingenuo creando delle illusioni ottiche e stimolando questa consapevolezza dei meccanismi che sottostanno alla percezione della realtà, arrivando a smuovere questa idea di realismo, ma con un metodo diverso dagli artisti seguiti da Arnheim. La mostra simbolo degli anni ’60 è The Responsive Eye tenutasi al MoMA di New York, dove venne invitato lo stesso Arnheim (Video the responsive eye di Brian de Palma); o Questo atteggiamento che vediamo in Arnheim quando ci parla con sospetto di illusioni ottiche marcatamente illusorie, ovvero quelle rappresentazioni che non sollecitano quello che troviamo nelle teorie della Gestalt che si basano sullo sfidare il “realismo ingenuo”, questo perché nell’Optical Art questa sfida è troppo ovvia, quindi non viene considerata stuzzicante. Questo atteggiamento diffidente verso alcune teorie lo ritroviamo anche in altri filoni, come in quello della relazione tra i Surrealisti e Freud, infatti quest’ultimo non provava simpatia per i Surrealisti, nonostante questi seguissero in maniera esplicita le sue teorie, in particolare hanno tematizzato l’importanza dell’inconscio. I Surrealisti quindi hanno inserito le teorie dello psicanalista nei loro manifesti, ad esempio il termine irrazionale indica ogni libera fantasia dell’artista, una fantasia che deve essere libera da qualsiasi condizionamento, anche interiore. Ernst Kris parlava degli artisti come ciò che procedono ad una sorta di regressione controllata, nel caso di Breton questa regressione ad uno stato 6 primordiale non dev’essere controllata, quindi per arrivare alla realizzazione di un’opera d’arte, l’artista doveva seguire le sue pulsioni irrazionali. Dal punto di vista di Breton, questo è quello che accade anche nelle sedute psicanalitiche. In termini visuali si hanno gli accostamenti irrazionali di Magritte, quello che Freud in psicanalisi chiama condensazione ( condensare insieme elementi differenti che nel contenuto manifesto del sogno possono stare insieme), si hanno inoltre le figure da incubo come in Tanguy, oppure ancora le tele metaforiche di Masson e gli incubi di Ernst; o Nel teorizzare tutto questo, Breton aveva letto sicuramente Freud, ma “non abbastanza” secondo lo psicanalista, infatti diceva che Breton aveva interpretato male le sue teorie. All’interno del manifesto del Surrealismo, Breton definisce il movimento come «automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere verbalmente, o in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale dei pensieri»  l’automatismo psichico è quindi dettato dal pensiero in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione e al di fuori di qualsiasi preoccupazione estetica e morale. Freud non si sente rappresentato da una descrizione di questo tipo, soprattutto nel momento in cui lo psicanalista stava passando alla seconda topica freudiana, ovvero in cui insieme ad io ed es spunta anche una istanza censoria che ha a che fare con la metabolizzazione di una dimensione etica e morale, ovvero il super io  le istanze psichiche, quindi, sono diverse, non si limitano all’inconscio e sono sempre in relazione tra di loro, sono psicodinamiche e dunque tutte insieme partecipano al nostro essere. Freud diceva che le opere dei surrealisti “mancavano di equilibrio”, dove per equilibrio s’intende il materiale inconscio e l’elaborazione preconscia. DEFINIRE LA PSICOLOGIA DELL’ARTE Risulta difficile definire un fenomeno dai confini imprecisi e dalle caratteristiche sfuggenti, ciò non toglie che fin dall’antichità si ha provato a darvi una definizione. Il problema si è posto con l’affermarsi della psicologia sperimentale e delle dottrine della Gestalt, ma il problema fondamentale di ogni psicologia dell’arte è quello di indagare sul comportamento dello spettatore, dell’artista e dell’opera d’arte. (Definizione di psicologia dell’arte dal Dizionario di arte di Gassi e Pepe) Questa definizione introduce tre elementi: 1. Artista; 2. Spettatore; 3. Opera d’arte, anello di congiunzione tra i due. Potremmo dire che tutto si trova nella parola che mettiamo al centro, ovvero se mettiamo al centro la psicologia avremo qualcosa di più vicino allo sperimentale, mentre se mettiamo al centro l’arte ci muoveremo con un passo più da estetologi; ma se apriamo in modo più ampio, come suggerisce il dizionario, si mettono in mezzo altre materie quali la filosofia, la letteratura ecc. quindi “psicologia dell’arte” diventa sempre più qualcosa di meno definibile. Inoltre la psicologia dell’arte durante i secoli si è interessata anche ad altri argomenti, ad esempio ha parlato di ambiti quali la malattia. Il problema dell’interdisciplinarietà non riguarda soltanto la psicologia dell’arte, ma è presente in tutte le discipline, Roland Barthes a riguardo, in Giovani ricercatori (1972), dice «Per fare qualcosa di interdisciplinare non è sufficiente scegliere un soggetto (un tema) e fargli girare attorno due o tre scienze insieme. L’interdisciplinarità consiste nel creare un nuovo oggetto che non appartenga a nessuno». Gli psicologi infatti hanno molta difficoltà ad approcciarsi alla psicologia dell’arte con il 7 linguaggio dei critici d’arte e viceversa, nessuno di noi è disposto, nel campo della sua formazione, ad abbassare il livello del proprio discorso per accogliere il discorso dell’altro. Possiamo affermare che non si trova una definizione di psicologia dell’arte che sia uguale all’atra, ad esempio Wikipedia dice che la psicologia dell’arte è un campo interdisciplinare che studia la percezione, la cognizione e le caratteristiche dell’arte e della sua produzione  capiamo infatti la difficoltà di definire la materia, tutte le definizioni sono visioni generiche e trasversali della psicologia dell’arte. I FILONI DELLA PSICOLOGIA DELL’ARTE Le difficoltà di definizione che affliggono la psicologia dell’arte sono state lette solo dal alcune prospettive: 1. Più volte è stato detto che da un lato la psicologia ha sempre provato un interesse verso i materiali offerti dal mondo dell’arte, ma ben poco ha restituito al pensiero dell’arte in termini di concretezza e di evoluzione; 2. La mancanza di un’identificazione chiara dell’oggetto di studio e la varietà degli approcci di studio, ha polverizzato le nozioni della psicologia dell’arte senza che si creasse una disciplina forte e unitaria.  Davanti a questo tipo di indefinitezza siamo però stimolati a cercarvi delle linee in maniera anche più flessibile rispetto ad altre discipline. I filoni della psicologia dell’arte che sono stati individuati nella volontà di mettere ordine sono quattro: 1. L’artista e la sua personalità  riguarda Freud e la psicoanalisi dell’arte, in particolare si occupa di come la psiche dell’artista influisca in maniera diretta sul suo lavoro e questo tipo di approccio ha riscosso un grande successo; 2. L’opera d’arte da un punto di vista percettivo  riguarda Rudolf Arnheim e la psicologia della Gestalt; 3. L’estetica sperimentale e la misurazione  riguarda Gustav Fechner e Daniel Berlyne; 4. La neuroesteica, la relazione tra esperienza estetica e neuroscienze  viene influenzata dal filone precedente e riguarda Semir Zeki, Vittorio Gallese, David Freedberg e Eric Kandel. Questi filoni hanno sempre a che fare con un triangolo: artista, fruitore e opera  se il filone dell’artista si colloca lungo la linea della psicologia dell’arte, gli altri tre si collocano lungo la linea della psicologia della percezione, estetica sperimentale e neuroscienza. Il modo in cui l’opera si rivolge al fruitore può anche essere letta in maniera opposta, dal momento che nonostante l’opera resti la stessa, dal punto di vista semantico l’opera viene letta in maniera diversa da fruitore a fruitore, parliamo quindi di dinamicità, non si trova un modo univoco di leggere l’opera d’arte. 10 particolare prende a riferimento la mitologia egizia che al tempo di Leonardo era molto diffusa nell’ambiente neoplatonico di Firenze, ma non sappiamo se Leonardo ne fosse ampiamente a conoscenza. Freud, per avvalorare la sua tesi, ci informa che la mitologia egizia aveva una dea della maternità che aveva le sembianze di avvoltoio e che veniva chiamata Mut ( in tedesco Mutter significa madre). Inoltre attraverso un suo seguace, pastore protestante e psicanalista Oskar Pfister, dice che nell’immagine di Leonardo si trovava il simbolo dell’avvoltoio;  Uno scivolone di traduzione porta quindi Freud a basare la maggior parte del suo racconto sul binomio avvoltoio-maternità. Lo storico dell’arte sui generis Meyer Schapiro, negli anni ’50, decise di analizzare il testo di Freud per capire le parti che dovevano essere rivisitate, e pubblicò i suoi studi nel saggio Leonardo and Freud: An Art-Historical Study (1956):  Schapiro dice che prima del testo di Freud non si era discusso così tanto sull’infanzia di Leonardo, in particolare del racconto che si trova nel Codice Atlantico nonostante sia l’unico ricordo presente dell’artista. Ricorda inoltre che Freud avesse l’uso di analizzare le vicissitudini infantili dei suoi pazienti quindi non era strano che lo psicanalista si concentrasse su quel ricordo e che lo associasse alla vita sessuale dell’artista;  Afferma inoltre come per Freud l’assonanza Mut  Mutter non fosse assolutamente casuale, anzi era qualcosa di evidente. Racconta come al tempo si ritenesse che l’avvoltoio fosse unicamente di genere femminile, si riteneva che l’uccello generasse da sé e per questo motivo veniva paragonato alla Vergine Maria, ricorda inoltre che questa credenza sugli avvolti era molto comune ai tempi di Leonardo. Quindi in sostanza quello che racconta Freud si basa effettivamente su qualcosa di fragile, ma allo stesso tempo era qualcosa che si sentiva al tempo (leggendo per esempio Sant’Agostino, Leonardo avrebbe potuto trovare l’assonanza avvoltoio-madre);  Nel finale del suo testo, Freud, sottolinea come solo un artista che avesse vissuto un certo tipo di condizioni sarebbe potuto arrivare a quella determinata opera, Schapiro dice che queste condizioni sono necessarie, ma non univoche, quindi fungono da base di partenza, ma in seguito ci dev’essere aggiunto dell’altro. Lo stesso Freud ammette di non capire determinati aspetti: non capisce ad esempio come mai Leonardo abbia represso questo mondo funzionale e come tutta questa forza fosse stata sublimata (termine centrale all’interno del saggio). All’interno dello scritto si può leggere «la costruzione biologica determina, in alcuni individui, una reazione di forte repressione della propria componente funzionale, in altri invece una componente di sublimazione. Le parti organiche nel carattere giacciono fuori dal dominio della ricerca psicanalitica, il talento e la capacità artistica sono intimamente connessi con la sublimazione, ma dobbiamo ammettere che la spiegazione di questo campo ci è inaccessibile dal punto di vista psicanalitico»;  Uno degli elementi essenziali del discorso è il fatto che anche gli scritti sugli uccelli erano al centro dell’interesse della Firenze del tempo e ci ricorda Schapiro che avrebbero potuto dare spunti a Freud; dice inoltre che questo racconto, considerato un unicum da Freud, era in realtà diffuso al tempo: «Questa fantasia relativa ad un episodio dell’infanzia, letto come auspicio per esempio della Fortuna, non costituisce affatto un caso unico, ma un caso letterario, per esempio Cicerone, nel De Divinatione, ci racconta del re Mida quando era bambino e dormiva, in quel momento molte formiche riempirono la sua bocca con chicchi di grano e in quel momento gli venne predetto che sarebbe diventato un uomo ricchissimo e così fu» ( già nell’antichità quindi si trovavano testi di questo genere riguardo a uomini esemplari). Schapiro 11 ci ricorda che questi testi vennero ripresi da Valerio Massimo, il cui trattato sugli eroi e sugli uomini esemplari era uno dei libri più conosciuti nella Firenze del tempo;  Schapiro conclude dicendo che accoglie alcuni suggerimenti del testo di Freud, tuttavia l’errore è di collocarli come specificità di un singolo individuo, potremmo inoltre dire che questo singolo individuo aveva un suo immaginario e parte di questo poteva essere costituito tramite diverse letture, come quella di Valerio Massimo o di Cicerone. Sottolinea inoltre come nella vita di Sant’Ambrogio, scritta da Iacopo da Varagine nella Legenda Aurea, possiamo leggere: «Mentre Ambrogio dormiva nella culla, uno sciame di api scesero improvvisamente su di lui e le api gli coprirono il sorriso e gli riempirono la bocca, quasi che entrassero e uscissero dal loro alveare e poi volarono via». Cogliamo quindi il medesimo episodio sia in contesto profano che in contesto religioso  una serie di racconti a cui Leonardo potrebbe essersi ispirato anche inconsciamente. Schapiro, oltre all’analisi del testo, va oltre e si domanda come mai Freud non abbia interpretato la figura dell’uccello come forma dello spirito santo dato che spesso veniva rappresentato come una colomba in picchiata che usciva dalla bocca di Dio padre. Inoltre ai tempi di Leonardo era comune la su filioque, variante iconografica della Trinità in cui le ali dello spirito santo si distendono dalle labbra del padre alle labbra del figlio;  Schapiro quindi integra delle interpretazioni che tendono a voler andare nel profondo del significato dell’opera di Leonardo, aggiungendo altri elementi che hanno a che fare con la vita, la storia e la cultura del periodo dell’artista stesso, riconoscendo che le competenze relative all’iconografia di Sant’Anna da parte di Freud non sono sufficienti. Partendo da questo, Schapiro afferma che la conoscenza dell’iconografia da parte di Freud, quindi del contenuto manifesto, è troppo scarsa per poter andare a toccare in maniera riuscita il contenuto latente ( sono termini psicanalitici utilizzati nell’interpretazione dei sogni dove il primo fa riferimento all’iconografia e il secondo si basa sull’iconologia). Con questa affermazione ribadisce anche che per fare psicoanalisi dell’arte bisogna essere molto bravi nell’iconografia, oltre che attuare una ricerca iconologia, quindi quando leggiamo il testo di Schapiro dobbiamo tenere presente lo stesso meccanismo, bisogna conoscere molto bene lo sviluppo di una determinata iconografia per poter attingere in maniera più piena a quello che è il significato culturale di una determinata iconografia in un dato contesto storico. Non possiamo infatti fare iconologia se non abbiamo idea della specialità di una certa iconografia, ed è proprio questo il centro del discorso di Schapiro.  Il contenuto manifesto del sogno è il contenuto del sogno che viene raccontato dal paziente, dove certi racconti non hanno dei passaggi logici perché sono simbolici e stanno ad indicare qualcosa altro quindi ci servono per arrivare al contenuto latente.  Utilizzando i termini della psicanalisi, Schapiro sembra dire a Freud di partire da quello che si sa dell’epoca in tutti i campi scientifici e culturali, quindi di partire da una buona lettura iconografica e da una corretta contestualizzazione di quella determinata iconografia, prima di procedere ad uno studio di psicologia. Schapiro, rispetto all’analisi dell’opera di Leonardo, dice che Freud affronta una delle questioni più vaghe della psicologia dell’artista, ci vuole dire sostanzialmente come nasce una nuova concezione iconografica  Schapiro quindi non attacca Freud dal punto di vista della psicanalisi, gli consiglia però di addentrarsi maggiormente nella storia dell’arte per avere un equilibrio maggiore tra le due discipline;  Schapiro sottolinea come l’originalità del dipinto non sta nel fatto che le due donne si somiglino o che siano in una situazione affettiva/domestica, ma vuole sottolineare in che misura un certo modo di rappresentare un determinato soggetto appartenga ad un modo comune di rappresentare e fino a che punto invece l’artista abbia saputo dare una particolare 12 interpretazione a quella che Schapiro chiama una “materia ereditata” ( problema centrale della storia dell’arte, che cosa si può leggere dell’eredità culturale e come si può interpretare la figura del genio individuale)  rappresenta anche il problema più forte nella psicanalisi dell’arte quando le conoscenze dello psicanalista non sono abbastanza forti in storia dell’arte;  Sant’Anna raggiunse l’apice all’interno del periodo che segna la gestazione del dipinto, tanto da oscurare la fama della figlia, questo è anche correlato al culto della Immacolata Concezione  dottrina dibattuta moltissimo nella storia della religione cattolica e che venne posta al centro di molte controversie proprio nel XV secolo ( così come Maria aveva concepito Gesù senza peccato, allo stesso modo era stata Maria ad essere stata concepita senza peccato dalla madre Anna). Sant’Anna quindi non rappresenta solo la madre di Maria stando alle sue spalle, ma è anche una figura centrale perché è l’origine dell’immacolata concezione. Secondo Schapiro quindi Freud non si rendeva conto della centralità della figura al tempo, ad esempio la festa di Sant’Anna venne voluta da papa Sisto IV nel 1481 e a partire da quel momento ci fu un culto maggiore di Maria;  Nel 1494, poco prima che Leonardo realizzò il cartone di Sant’Anna, il culto ricevette un passo ulteriore dall’abate tedesco Trithemius in un libro dedicato alla santa: la portava a modello per le donne cristiane in difesa dell’immacolata concezione. Il testo venne letto in tutta Europa, ebbe quindi enorme successo, si diceva che le persone che avrebbero recitato le preghiere a Sant’Anna fossero rimessi diecimila anni di purgatorio  le preghiere venivano diffuse su piccoli foglietti con le figure della Vergine e della madre vicine, quindi non è strano che Leonardo crei quell’iconografia. Schapiro ci dice quindi che l’iconografia non è invenzione di Leonardo, che sant’Anna Metterza non ha un solo tipo di rappresentazione e che soprattutto nell’Europa cattolica del tempo aveva acquisito un’importanza enorme (es/ autore ignoto, Pestablattern con Sant’Anna, 1494 dove la Santa tiene in braccio sia la figlia che il nipote);  Contrariamente all’opinione di Freud, la giovinezza di Anna si può leggere come qualcosa di idealizzazione di una figura santa che diviene un doppio della figlia, proprio perché si trova un equilibrio nella fede dei cattolici stessi, inoltre è tipico nel medioevo rappresentare le donne sante o virtuose come belle e giovani. Schapiro dice che è vero che sant’Anna Metterza è ancora la rappresentazione più diffusa, ma che se ne trovano parecchie altre, in particolare fa riferimento all’iconografia che si trova al Bargello di Sant’Anna che sorregge Maria e Gesù bambino, non è quindi una figura austera; oppure all’iconografia di Lucas Cranach il Vecchio dove Anna e la Vergine giocano con il bambino  è questa la circolazione di affetti ad essere alla base del dipinto di Leonardo;  Freud quindi non aveva in mente la rassegna di iconografie che si trovava al tempo, molto probabilmente conosceva solamente l’iconografia di Masaccio e Masolino. 15 alterata, poi ci deve presentare la fantasticheria in una forma che produca un godimento estetico, rendendo quindi tollerabili quegli elementi che la cultura normalmente rifiuterebbe. Il Mosè di Michelangelo (1913) Rappresenta un altro di tipo teorico che ci permette di capire la relazione tra arte-gioco e fantasticheria degli artisti: il testo si occupa di (psico)analisi dell’opera, non di psicobiografia ed è raro che si trovino testi su questo punto, anzi nell’ambito dei testi scritti da Freud rappresenta un unicum. Il saggio in questione è intitolato Il Mosè di Michelangelo (1913) e si focalizza su una delle opere più celebri del rinascimento italiano, il Mosè che venne realizzato tra il 1513-1515:  Il saggio non si basa sulla psicanalisi di Michelangelo e non è neppure un saggio psicanalitico sula figura di Mosè, per quest’ultimo punto Freud ci penserà in un altro saggio intitolato L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1934-38). Rappresenta invece una sorta di saggio su una relazione intima o confidenziale, ovvero Freud ci parla delle sue impressioni difronte a questa specifica rappresentazione di Mosè  procede quindi ad un’analisi attenta dell’iconografia della statua nonostante si definisca un profano del mondo dell’arte. Alessandro Serra diceva che con questo saggio, Freud dimostra di essere stato la prima vittima nota della sindrome di Stendhal visto che continuamente tornava a vedere la statua;  Freud interpreta la posizione del Mosè in modo diverso da come ci viene raccontata nel testo biblico (in particolare nell’Esodo, 32,19): secondo le scritture Mosè si trovava sul monte Sinai per parlare con Dio e quest’ultimo gli dona le tavole della legge, queste erano di pietra e scritte con il dito di Dio ( le ritroviamo nella rappresentazione della statua e nei disegni fatti rappresentare da Freud da un disegnatore), nel frattempo il popolo ebraico non vedendo tornare Mosè, che ci rimase per più giorni, chiesero al fratello di Mosè di creare un Dio, a questo punto Aronne raccolse i gioielli d’oro del popolo ebraico e fondendoli porterà alla creazione del vitello d’oro che verrà adorato dal dalla popolazione. Al ritorno Mosè, arrabbiato, scagliò a terra le tavole della legge e rimproverò il fratello e il popolo ebraico  il testo biblico quindi ci dice che Mosè, per colpa della rabbia, scagliò a terra le tavole della legge che si ruppero, volendo colpire le idolatrie degli israeliti;  Il Mosè rappresentato da Michelangelo ha lo sguardo temibile, ma è rappresentato fermo, uno degli aspetti che colpisce è la presenza dei due “cornini” della sapienza ( tipiche dell’iconografia di Mosè, di cui però Freud non rimane colpito, inoltre deriva da un errata traduzione di San Girolamo, il quale aveva tradotto karan ovvero “raggi” con keren che significa “corna”). Il punto di partenza dell’analisi di Freud è il nodo della barba nella mano sinistra di Mosè, un dettaglio secondario che però può rivelarsi capace di aprire nuove finestre verso nuove letture: contrapponendosi alla rappresentazione accreditata del testo biblico secondo cui Michelangelo avrebbe rappresentato Mosè nel momento precedente alla rottura delle tavole, Freud vede Mosè mentre rinuncia a dar corso alla sua ira, decidendo quindi di non spezzare le tavole  Michelangelo lo avrebbe quindi rappresentato in un momento in cui la ragione ha la meglio sulla rabbia, rinunciando all’atto violento. Questo quindi andrebbe a scontrarsi con quanto raccontato nell’Esodo, secondo Freud infatti questo Mosè trattiene una collera che tuttavia è presente nel suo sguardo; 16  Sorprendete è il modo in cui Freud sia in grado di smontare pezzo per pezzo i movimenti compiuti in successione da Mosè, prima di arrivare nella posizione in cui Michelangelo l’ha immortalato: dapprima un Mosè tranquillo che trattiene le tavole della legge, un Mosè che tarsale e infine, dopo essersi preparato a scattare, desiste e si mette nella posizione raffigurata. Freud in questo caso conosce molto bene la storia di Mosè essendo di origine ebraica, e scrive «Mi rendo conto che si tratta di un’interpretazione puramente intellettuale, deve destarsi in noi la stessa disposizione affettiva, la stessa costellazione psichica che ha spinto l’artista alla creazione perché l’opera funzioni» è quindi necessario che ci sia una sorta di armonia tra l’artista e il fruitore per fare in modo che venga compresa. Sappiamo cosa ci dice il testo biblico, ma nel fruitore si trova anche una lettura di tipo emozionale che devia dall’interpretazione cognitivamente corretta e questa lettura intuitiva può eludere il testo biblico o contraddirlo ( la fruizione non è per forza logica e razionale), occorre che ci sia una capacità empatica del lettore che si ponga in una posizione simile a quella dell’artista che ha creato l’opera. Questa capacità ematica di cui parla Freud è stata letta in relazione ad un momento preciso della storia della psicanalisi: lo psicanalista infatti avrebbe scritto il saggio nel momento in cui aveva un dissidio con i suoi seguaci che stavano per scegliere un’altra via, egli infatti si sarebbe sentito molto vicino a questo particolare Mosè scandalizzato dall’infedeltà dei suoi;  La capacità maggiore del saggio riguarda la bravura di Freud nel dare movimento alla statua che in realtà è rappresentata in un unico fotogramma. Secondo Freud è lo stesso Michelangelo ad averci rappresentato il Mosè in quel preciso istante perché l’aveva immaginato in quella medesima maniera e in questo modo riesce ad entrare in sintonia con l’artista, non è stato quindi Freud ad immaginarsi la scena;  Nel 2003 si concluse il restauro del Monumento a Giulio II di cui il Mosè fa parte, in questa occasione il restauratore, prima di procedere ai lavori, eseguì una ricerca filologica della statua e riuscì a ritrovare una lettera di Michelangelo in cui si evince come inizialmente la testa di Mosè dovesse essere rappresentata in una posizione diversa e che avesse deciso solo in seguito, verso gli anni ’40, di raffigurarla in questa posizione. Una lettura che è stata portata avanti è quella che Michelangelo, 25 anni dopo la realizzazione della statua, avrebbe distolto lo sguardo di Mosè dal transetto della chiesa dove erano disposte le catene di san Pietro che venivano utilizzate per contenere le indulgenze per i pellegrini paganti. Michelangelo aveva una religione del tutto aliena a questo tipo di pratiche e probabilmente aveva fatto in modo che il suo Mosè non guardasse tale scempio. Mentre per quanto riguarda la barba, Mosè è rappresentato mentre la trattiene perché era venuto a mancava il materiale per realizzarla in modo perpendicolare.  Secondo Freud tutti questi aspetti vanno a creare l’assoluta particolarità di questa specifica rappresentazione di Mosè. Riassumendo: oltre a trattare quello che viene definito un unicum, ci si è soffermati sulla psicobiografia e si ha parlato della preferenza della psicanalisi dell’arte difronte al contenuto rispetto a quello che viene rappresentato e abbiamo visto come uno degli elementi maggiormente attaccabili di questa tendenza sia quella di creare degli apparati teorici ingigantiti anche difronte a pochi dati, 17 poi il fatto di rimandare sempre agli stessi concetti, ovvero quelli della psicanalisi, con il rischio di arrivare alla caricatura ( in particolare quando viene trattato dai seguaci di Freud). È emersa inoltre la povertà dell’apparato documentario con cui si muove Freud, si è voluto sottolineare anche come questi testi abbiano in realtà una buona qualità letteraria, qualità che ha garantito la fortuna della psicanalisi. Si trova infine anche una certa relazione tra la psicobiografia e il tradizionale modo di raccontare di un certo tipo di storia dell’arte: gli storici parlano spesso di incontri fra gli artisti o di viaggi, quei momenti eclatanti che ribaltano completamente la vita e il fare degli artisti, non a caso il testo essenziale della storia dell’arte sono le Vite di Vasari. Gli storici dell’arte fanno spesso anamnesi, ovvero una raccolta particolareggiata della storia di vita dell’artista, a tal proposito ebbe molto successo il libro scritto a quattro mani da Ernst Kris – storico dell’arte e psicanalista – e Otto Kurz – allievo di Schlosser – la Leggenda dell’artista (1935):  I due scrittori si mettono sulle tracce delle storie degli artisti, cercando di rilevare degli elementi fissi che ritornano ciclicamente nella storia di più artisti. Arrivano a trovare questi elementi fissi che vengono definiti “formule biografiche”, ovvero caratteri quali il fatto che gli artisti siano trasgressivi, siano bizzarri, che lavorano con foga, ecc.;  Nell’introduzione all’edizione italiana, scritta da Enrico Castelnuovo, si legge come è solo con gli artisti che si accettano le stranezze della società, quindi si ricollega al discorso della sublimazione enunciata da Freud. Sono i biografi che hanno assicurato per secoli la sopravvivenza degli artisti, e che ne hanno trattato i caratteri e come questi siano molto comuni tra di loro, arrivando a scrivere aneddoti simili che si ripetono ciclicamente. Questo libro, dice Castelnuovo, è dunque un’opera seminale nata sotto il segno congiunto di Freud, Schlosser e Warburg, in un momento in cui quell’area dell’Europa, l’Austria, si avventava l’ombra del Nazismo  Castelnuovo in sostanza riconosce come il pensiero di Freud sull’artista rientri in un grande classico del 1900;  Altra introduzione all’edizione italiana viene scritta da Ernst Gombrich, il quale dice «Questo è un libro insolito, d’altra parte gli stessi autori del libro sono insoliti» riferendosi al carattere ibrido della formazione degli scrittori, questo riposta all’idea dell’interdisciplinarietà necessaria alla creazione di un capolavoro della letteratura. Su questa linea si arriva fino agli anni più recenti con Massimo Recalcati che scrive una psicobiografia di Van Gogh nel libro Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh (2009) a partire da un episodio centrale nell’infanzia dell’artista:  La storia inizia il 30 marzo 1853 con la nascita di Van Gogh, lo stesso giorno dell’anno precedente, la madre dell’artista perse il suo primo figlio maschio di nome Vincent, questa perdita la colpì talmente tanto da chiamare anche il secondo figlio maschio nello stesso modo  la sua vita è chiamata a sostituire la vita di un altro, un'altra persona che, proprio perché perduto, viene fortemente idealizzato;  La sostituzione avviene ponendo la figura di Vincent I con la figura ideale di Vincent II, una figura che è destinata a mostrare per sempre la sua inadeguatezza, la sua fondamentale indegnità che è alle base di quella melanconia che accompagnerà Vincent II per tutta la sua vita, e alle quale costantemente riferisce la sua infelicità, la sua difficoltà nel vivere  tutto sembra trovare in questo il suo motivo di fondo. Recalcati arriva ad un’ipotesi clinica: quella che è stata definita la schizofrenia di Van Gogh sarebbe un elemento secondario rispetto alla melanconia di fondo che lui portava con sé, è quindi qualcosa che si aggiunge ad un tratto melanconico che ha una sua origine; 20 famigliarità che tornerà a crescere quando il robot sarà talmente simile all’uomo da diventare indistinguibile dal modello e da evitare dunque quella che si è precedente definita come un’ambivalenza, una somiglianza». Per Freud sono numerosi i motivi del perturbamento:  Il motivo dell’automa;  Il tema del sosia, definito “del doppio” dallo psicanalista, il quale lo riprende da un altro psicanalista di nome Otto Rank che aveva scritto sul tema della doppiezza, ovvero l’idea che ci crea, anche in questo caso, una dissonanza perché non riusciamo a distinguere una cosa dall’altra;  La ripetizione di avvenimenti simili;  La realizzazione di presentimenti;  I dejà vu e i lapsus;  La malattia psichica e la stessa psicoanalisi. Tutto questo, quindi, in che modo ha a che fare con l’arte? Freud dice che il perturbante ha sempre a che fare con l’esame di realtà e che molte cose che sono perturbanti nella vita reale, non lo sono invece nell’arte. Per ottenere effetti di perturbamento esistono nell’arte molti metodi, ma anche in questo caso non ci fornisce delle risposte chiare e definite, dice però che pensando al tema del perturbante, possiamo leggere una buona parte della cinematografia fantastica, l’utilizzo del doppio in letteratura, nelle arti visive invece viviamo questa forma di dissonanza in certe performance, oppure con il concetto di iperrealismo in arte. Quindi si trovano molti modi di applicare il tema del perturbante in arte. L’umorismo (1927) Per comprenderlo al meglio è fondamentale una premessa sull’altro saggio di Freud, ovvero Il motto di spirito (1905):  Rappresenta un testo che non è presente nell’antologia di testi di Freud sull’arte, questo perché il motto di spirito e quindi la battuta e la sua reazione con l’inconscio, è un saggio che sarebbe meglio da leggere in tedesco dato che è pieno di giochi di parole non sempre traducibili, inoltre molti di queste circolavano nella Vienna del tempo;  I motti di spirito sono quini le battute che Freud le distingue tra: 1. Motti di spirito innocenti, in cui la scarica di piacere deriva dalla tecnica verbale, ovvero dalla battuta stessa; 2. Motti di spirito tendenziosi, ovvero le “battutacce”, in cui la scarica di piacere deriva dall’aggressività o dall’oscenità e qualcosa che si fonde su una triangolazione tra l’emittente, il destinatario e il bersaglio (due persone che fanno battute contro una terza persona). Esattamente come per l’Interpretazione dei sogni o la Psicopatologia della vita quotidiana di pochi anni prima, il Motto di spirito ha al centro del suo discorso il processo primario e soprattutto ha al centro il linguaggio dell’inconscio. Freud quindi sostiene che nelle battute, specialmente in quelle aggressive, attinge dall’inconscio, quindi analogie, condensazione, ellissi sono tutti elementi che rientrano nelle battute tendenziose  la battuta manifesta per Freud, una riduzione delle inibizioni e un emergere dell’inconscio, il quale consente di liberare l’energia psichica. Benché sia l’inconscio ad essere il motore, la battuta dev’essere espressa attraverso quello che Freud chiama “processo secondario”, quindi per quale motivo la battuta farebbe ridere? Quando l’ascoltatore sente la battuta, la quale è stata processata dall’inconscio 21 e rielaborata dal processo secondario, lui stesso riesce a fare il percorso inverso, ovvero di tornare a qualcosa di regressivo  l’ascoltatore scenderebbe quindi, inconsciamente e automaticamente, al proprio processo primario. Per poter apprezzare un motto di spirito, occorre che si trovi un’armonia tra chi fa la battuta e chi l’ascolta, quindi è necessario appartenere alla stessa cultura;  Secondo Freud si tratterebbe quindi di parti aggressive-pulsionali che vengono trasformate attraverso il processo secondario e che coinvolgono gli ascoltatori in modo non aggressivo e non traumatico.  Il motto di spirito ci dice in modo diversi, qual è il contributo che l’inconscio fornisce all’umorismo. Quando Freud, nel 1927, pubblica L’umorismo si tratta di un Freud diverso da quello che scrisse il saggio precedente: 1. Prima topica: formulata all’inizio del secolo e consiste nella distinzione tra conscio, preconscio e inconscio. Per comprenderla meglio Freud paragona la mente umana ad un iceberg, dove l’attività cosciente ne rappresenta la punta (conscio), mentre la parte inconsapevole ne rappresenterebbe la parte più rilevante (inconscio). La parola topica significa “localizzazione”, la psiche dunque ha i suoi luoghi, ciascuno dei quali deputati di una certa funzione e organizzazione precisa. Secondo la psicanalisi, queste diverse localizzazioni, sono in relazione dinamica tra di loro; 2. Seconda topica: formulata a partire dagli anni venti e rappresenta la distinzione della psiche umana in es, io e super io. In questo caso le localizzazioni si dovrebbero chiamare istanze (perché le localizzazioni non sempre esistono) che vengono messe in relazioni dinamica tra di loro, oppure di un sistema psiche. Nella nuova sistemazione della psiche si trovano:  L’es che rappresenta il polo funzionale;  L’io che si riferisce alla rappresentazione totale della personalità, dove per Freud è parzialmente inconscio, quindi la metafora dell’iceberg comincia a non funzionare;  Il super io che svolge un ruolo assimilabile a quello di un giudice nei confronti dell’intera totalità psichica e i ruoli che Freud gli attribuisce sono funzioni centrali, cui nei tempi precedenti egli non parla. Si costituisce in buona parte dell’interiorizzazione di richieste o divieti da parte dei genitori, e in parte per le proiezioni delle pulsioni del soggetto stesso (autorità interiorizzata). Anche il super io è in ottima parte inconscio, quindi quest’ultimo diventa qualcosa di pervasivo in tutte e tre le istanze Al centro del saggio sull’umorismo, è il super io ad essere fondamentale e non l’es, ma come fa un’istanza censoria a diventare qualcosa che stimola qualcosa di gradevole come può essere l’umorismo? Freud dice che l’umorismo va innanzitutto distinto dal comico, perché non viola la regola del “vivere assieme” dando sfogo a qualcosa di pulsionale, ma in modo più sottile gioca a violarla. Se la comicità, ovvero il motto di spirito, implica una regressione comportamentale, l’umorismo invece ha altre caratteristiche, come quella di emergere in occasioni di difficoltà e di disagio (es/ umorismo sugli ebrei)  l’umorismo è quindi un meccanismo di difesa che emerge nell’individuo soprattutto in presenza di un io stabile, ovvero che sa gestire le diverse tenzioni tra es e super io, e che serve tanto a dare sollievo nei momenti di difficoltà. Il processo umoristico può compiersi in più modi, per esempio una persona può fare autoironia, oppure si può trovare una persona bersaglio. Freud comincia il saggio parlando dell’umorismo «Prendiamo l’esempio più plateale, si trova un delinquente che viene condannato alla forca di lunedì e sbotta nell’osservazione “comincia bene la settimana”. Quest’uomo fa lui stesso dell’umorismo, ovvero il processo umoristico si compie 22 sulla sua stessa persona recandovi evidentemente un certo sollievo. Quanto a me, ascoltatore non partecipante, vengo colpito dalla prodezza umoristica del delinquente, mi accorgo cioè di ottenere a mia volta un piacere umoristico» questo concetto si trovava già nel motto di spirito, ovvero è giusto supporre che chi faccia dell’umorismo ottenga un piacere e che un piacere analogo si ottenga anche nell’ascoltatore. Qual è la dinamica racchiusa nell’atteggiamento umoristico? La soluzione dev’essere cercata nell’umorista, mentre nell’ascoltatore si registra solamente una copia di questo processo, quindi l’umorismo, secondo Freud «Ha qualcosa di liberatorio come il motto di spirito e la comicità, ma a differenza ha anche qualcosa di grandioso e nobilitante. La grandiosità risiede nel trionfo del narcisismo, nell’affermazione vittoriosa dell’invulnerabilità dell’io. Questo rifiuta di lasciarsi affliggere dalle ragioni della realtà e insiste nel pretendere che i danni del mondo esterno non possono intaccarlo e che anzi questi sono elementi da cui trarre piacere»  elemento centrale dell’umorismo. L’umorismo non è rassegnato, esprime invece un elemento di sfida portando al trionfo dell’io e del piacere che in questo modo si afferma a dispetto delle reali avversità, respingendo la possibilità di soffrire, l’umorismo s’inserisce nella schiera dei metodi costruiti dalla psiche umana per sottrarsi alla costruzione della sofferenza. Freud aggiunge inoltre «Se ora esaminiamo la situazione di chi assume verso altri un atteggiamento umoristico, abbiamo questa impressione: che costui si comporti verso gli altri come l’adulto verso il bambino, in quanto riconosce l’inconsistenza degli interessi o dei tormenti dell’altro a cui l’altro invece dà un’importanza essenziale, dunque li sminuisce e ne sorride». L’umorista deriverebbe quindi la propria superiorità dal fatto di assumere il ruolo dell’adulto, identificandosi con il padre e riducendo gli altri nella parte dei bambini. Sappiamo quindi che il super io rappresenta l’eredità parentale e che quello che fa l’umorismo è un super io gonfiato, robusto, a questo punto afferma «alla base dell’umorismo si trova il super io. Al di fuori di questo ambito il super io è un padrone rigoroso, il lasciarsi andare per rendere possibile all’io di raggiungere un piccolo piacere si concilia male con il suo carattere severo, ma in realtà non è sempre così: il super io ha anche un aspetto di sollievo esattamente come i padri che possono dire al figlio “guarda così è il mondo che ti pare tanto pericoloso, è appena un giochetto, è qualcosa di infantile e va bene per riderci su”». In questo modo Freud ci sta dicendo che il super io è necessario in relazione con le altri parti, conclude infatti dicendo che sulla natura del super io si ha ancora molto da imparare e che quindi non si presenta solo come istanza giudicante. FREUD E LA PSICOLOGIA DELL’ARTE. STILE, FORMA E STRUTTURA ALLA LUCE DELLA PSICOANALISI (2001) È stato spesso detto che la psicoanalisi è intessuta di un linguaggio e da una sintassi figurale, molto è stato detto anche su Freud più come scrittore che come clinico, si sono infatti testi classici su questi temi. La psicanalisi secondo Jean Starobinski, in Psicanalisi e letteratura (1975), viene definita una drammaturgia espressiva, ovvero al centro della parola di Freud è talmente forte da rischiare di essere travolto dalla sua stessa retorica. Freud diceva infatti che le sue storie si leggessero come dei racconti, mentre voleva che fossero letti come dei casi clinici, tuttavia lo stesso Freud pensava che la letterarietà servisse anche come ottimo veicolo delle proprie teorie e idee. Rispetto alla parola quindi, sappiamo che si trova un rapporto stretto con la psicanalisi, mentre quanto alle arti visive si trova un problema: come viene letto questo problema da una persona che non rappresenta un suo seguace, ma che era a diretto contatto con la scuola di Vienna intessuta da elementi della psicanalisi? 25 figure stesse, pensate quindi come, pur essendo un unicum, si sappia soffermare in maniera del tutto adeguata sull’iconografia, sulle espressioni, sulle emozioni di Mosè»;  Si è detto come per l’arte a lui contemporanea non fosse interessato, Gombrich infatti ricorda una lettera che Freud scrisse a Oskar Pfister, in risposta a quest’ultimo il quale gli aveva mandato un opuscolo di disegni espressionisti, uno tra i quali era in cura dallo stesso Pfister: «nei confronti dell’arte contemporanea sono uno di qui zoticoni, filistei e lumaconi, per me non possono arrivare ad essere giudicati degli artisti». Questo però prima dell’incontro nel 1938 con Salvador Dalì, l’artista infatti – volendo conoscere Freud – si recherà a Londra, dove lo psicanalista terminò i suoi anni, portandosi appresso Le metamorfosi di Narciso. A Freud colpì in particolare la maestrai tecnica dell’artista che gli suggerì di valutare diversamente i Surrealisti «Sarebbe interessante esplorare analiticamente le origini di una pittura di questo tipo, eppure penso ugualmente che queste opere non abbiano un equilibrio tra materiale inconscio e materiale preconscio». Gombrich ci dice come il problema centrale di Freud rimaneva il fatto che non riusciva a comprendere come tanta maestrai tecnica, fosse stata messa a servizio di un progetto come quello surrealista in cui si mira a dare all’idea di qualcosa di preconscio (comunicabile) una struttura incasinata come è quella propria dell’inconscio. Quindi in sostanza quanto sia caricaturato e caotico l’inconscio. Nel dipinto Dalì aveva dato forma al suo metodo della paranoia critica, dove paranoia in greco antico significa “follia” e il para- iniziale ha a che fare con l’alterazione della mente, quindi questo metodo, secondo Dalì, era rappresentabile e descrivibile in questo modo: «guardare un oggetto e vederne un altro». Lo stesso sfondo è stato descritto da Dalì come una condensazione di un paesaggio austriaco e un paesaggio catalano, si trovano inoltre tanti altri aspetti tipici della psicanalisi, come la figura del doppio. L’incontro fu talmente noto che l’opera venne portata al Freud Museum a Londra;  In seguito Dalì realizzò delle immagini che si ispiravano ad un celebre saggio di Freud dedicato alla fantasia di un archeologo. A queste immagini Freud rispose «Nei dipinti classici io cerco l’inconscio, in un dipinto Surrealista cerco il conscio», ovvero significa che per Freud l’adeguamento alla realtà, ovvero un buon uso del processo secondario, della dimensione conscia, della maestrai tecnica è assolutamente necessario perché è ugualmente necessario nella vita psichica. Per cui nella sua analisi, Gombrich spiega che spesso il pensiero di Freud sull’arte è stato malinteso, parlando ad esempio dell’Espressionismo: «L’espressionismo e i suoi derivati prendono quasi alla lettera la parola espressione, ritengono che un pensiero inconscio turbi l’artista e quindi che sia espulso verso l’esterno attraverso l’arte, per poi turbare anche lo spettatore. La forma, in questa concezione, è poco più che un involucro per contenuti inconscio che il fruitore a sua volta libererebbe dall’involucro e che poi scarterebbe. La concezione di Freud ci permette di considerare la questione dall’angolo opposto, secondo Freud solo le idee inconsce che possono essere adeguate alla realtà delle strutture formali diventano comunicabili e il loro valore degli altri sta perlomeno altrettanto nella struttura formale quanto nell’idea stessa». Questo significa che solo la messa in forma, attraverso l’arte poetica, può far sì che il preconscio possa essere artistico, in caso contrario una espulsione diretta dell’inconscio è pura follia. L’arte dunque non è sogno o una fantasticheria per Freud, anzi per far si che queste diventino arte, l’artista debba staccarsi dagli elementi personali e 26 dunque sappia staccarsi anche dall’idea di inconscio  è questo che non affascina Freud delle opere surrealiste, il fatto che si carichi l’idea di inconscio;  Gombrich ci parla ora della sua posizione Quello che spesso negli epigoni di Freud possiamo trovare, è che il contesto in cui l’artista opera è assolutamente centrale, in tutta l’arte occidentale si trova un elemento che potremmo chiamare “elemento della culla di spago” ( gioco che in italiano viene chiamato del ripiglino), ovvero passando le dita si cambiano le figure fino a poter creare un racconto. L’arte nasce dall’arte, il giovane artista subentra nel gioco dei suoi predecessori e così facendo vi introduce le sue innovazioni. Lo schema che emerge ad ogni moda deve altrettanto alle mosse compiute in passato, tanto alle ingegnose variazioni introdotte dall’attuale giocatore. Spesso gli artisti parlano di “problema”, ma per quelli che giocano al gioco della culla di spago, questi sono problemi reali che fanno parte della realtà, sono imposti dalla situazione e non già dall’umore o dalle esperienze infantili dell’artista ( considera quindi importanti alcuni fattori, mentre si allontana da altri)»;  In sostanza Gombrich racconta dei gusti conservatori di Freud, ci dice qual era la sua posizione nei confronti del surrealismo, ma fondamentale è che l’arte nasce dall’arte, quindi se vogliamo parlare di psicoanalisi dell’arte non ci possiamo limitare ai traumi infantili dell’artista. 2. Psicoanalisi e storia dell’arte Per quanto riguarda quest’ultimo tema, Gombrich si riallaccia nel suo secondo saggio Psicoanalisi e storia dell’arte che rappresenta una conferenza pronunciata difronte ad un pubblico di psicanalisti e pubblicata per la prima volta sull’International Journal of Psychoanalysis ( questo ci fa capire che Gombrich non ha solamente attaccato in maniera arbitraria la psicoanalisi, ma ha costruito un dialogo con gli psicanalisti):  Gombrich dice che nei primi anni della psicoanalisi l’interesse maggiore era volto all’analogia tra opera e sogno. Puntualizza però che l’analogia è molto più efficace in letteratura che non nelle opere d’arte visive, dice la determinante personale dell’artista è evidentemente presente, ma bisogna capire come la percepiamo. Se non ci interroghiamo sul perché all’artista piace così tanto rappresentare cavalli o mulini non importa, «Ho detto infondo che ce ne importa, chiedercelo sarà forse un’eresia, ma dalla risposta a quella domanda dipende tutto il rapporto tra la psicoanalisi e storia dell’arte, perché per quanto ci sforziamo, noi storici dell’arte, non possiamo far rivivere i morti, non possiamo propinarveli suoi vostri divani da analisti, e nulla può sostituire l’intervista psicanalitica. Perciò questi tentativi che ci sono stati non potrà essere altro che un esercizio, noi storici dell’arte possiamo sempre dimostrare che informazioni dispensabili per l’analista non sono procurabili e voi analisti potete sempre ribattere che senza tali informazioni tanto vale che chiudete botteghe. Per ciò ripeto la domanda: è tanto importante che significato abbia avuto l’opera d’arte per l’artista? Perché ciò sia importante occorre una sola premessa, che il significato privato, personale del dipinto, sia l’unico significato vero e che quindi sia quello che si trasmette alla coscienza o all’inconscio dello spettatore. Se l’opera d’arte ha le caratteristiche di un sogno condiviso con lo spettatore allora diventa urgente precisare più chiaramente che cosa viene davvero condiviso, è questo il problema su cui desidero richiamare l’attenzione»;  A tal proposito Gombrich prende un esempio concreto, ovvero La colomba della pace di Picasso che gli era stata commissionata nel 1949 dal Partito Comunista francese come simbolo del Movimento 27 per la Pace. Picasso traccia la sagoma rapida di una colomba e venne detto dagli psicanalisti che questo simbolo era proprio “come quelle colombe della sua infanzia a Malaga”. Gombrich dice «se dobbiamo parlare di contenuto manifesto è chiarissimo, ovvero la colomba è un simbolo convenzionale per la pace. Può darsi che l’intuizione di Ernest Jones – il quale vedeva la colomba come significato fallico – rinforzi l’attività di successo del manifesto, ma mi chiedo: tutto questo sarebbe altrettanto efficace se questo schizzo fosse opera di un artista da quattro soldi?» Inoltre, proprio in quegli anni era stata pubblicata da un amico di Picasso una serie di scritti sull’infanzia dell’artista, il quale dice che un’opera di questo tipo richiamava i disegni e i dipinti che Picasso vedeva da bambino. Il padre di Picasso, Josè Ruiz y Blasco, infatti era un pittore specializzato nel rappresentare piccioni e piccionaie. Gombrich a questo punto dice che il significato simbolico della colomba si troverebbe nella condensazione di tutti i ferri del mestiere del padre, aggiunge anche che si potrebbe parlare di tanto altro, ma che la sua domanda di partenza rimane senza risposta. È quindi possibile scorgere questo significato personalissimo nelle colombe di Picasso? Sulla base delle sole immagini potremmo pensare la stessa cosa senza i racconti dell’amico di Picasso? Gombrich dice che non riesce a vedere nessun segno esteriore nel significato personale, nulla che faccia vedere che questo significato personale e profondo sia davvero quello che permette di comunicare  non è quindi questo a fare la forza comunicativa dell’opera. Si era nel bel mezzo della rivoluzione, era infatti l’epoca in cui si iniziava a parlare di arte e rivoluzione, Gombrich infatti pensa che l’idea che secondo il quale siano il significato personale e inconscio dell’opera a comunicarsi al pubblico, non sia vera: «io credo che esiste un significato intersoggettivo, ovvero che si possa in qualche modo discernere il significato dell’opera avendone la chiave e non è una chiave necessariamente legata all’inconscio dell’artista, è evidente che il tutto sia più complesso»;  Per spiegare meglio questo concetto prende l’esempio delle Demoiselles d’Avignon di Picasso: «anche in questo caso siamo ben informati sul significato privato del dipinto, sul contenuto manifesto che esso ha per l’artista, intanto sappiamo che il titolo sia un’invenzione di un mercato di quadri e che queste demoiselles sono delle prostitute che lavoravano non ad Avignone città, ma vicino alla casa di Picasso a Barcellona. Questi aspetti potrebbero esserci ignoti se qualcuno non ce lo avesse detto, ma qui volere o non volere siamo difronte ad una delle più grandi opere del Novecento, un’opera che ha avuto innumerevoli ripercussioni, ma di certo non è per quelle ragioni legate alla biografia di Picasso, sono gli elementi formali ad essere stati al centro dell’interesse. Credo che basti formulare questa domanda – perché è diventata un’opera d’arte così importante? – per vedere che la risposta non è nella storia personale di Picasso o il fatto che il bordello si trovasse vicino a casa sua, il quadro ha acquisito un significato differente in un ambito totalmente differente, cioè nell’ordine dell’istituzione che chiamiamo storia dell’arte». Aggiunge che la tradizione influisce sempre nel modo in cui percepiamo qualcosa o esprimiamo qualcosa ( l’arte nasce dall’arte) e questo spiega il perché l’arte ha una storia, che ha degli stili rispetto a delle fantasticherie o dei sogni che non li possiedono;  Se guardiamo le cose dal punto di vista storico, vediamo che anche il simbolo di una donna – che possono essere quelle rappresentata da Picasso – non nasce da un’imitazione pedissequa 30 prima manifestazione, ovvero anche quando parliamo di simboli dobbiamo partire dal noto e non dal “non noto”. Come se i simboli fossero delle rappresentazioni che aiutino a sottolineare la natura della raffigurazione che abbiamo difronte e non un enigma da risolvere. A tal proposito fa un esempio molto efficace: pensando alla statua della liberà tutti riusciamo ad interpretarla facilmente, la fiaccola che tiene tra le mani è il simbolo della libertà, mentre se avesse in mano una bilancia si riferirebbe alla giustizia  ci invita a pensare al simbolo non come qualcosa di sotterraneo, ma come qualcosa che serve alle immagini che, per gran parte della storia delle rappresentazioni, emerge chiaramente alla luce. Continua dicendo che ci sono diverse accezioni del termine simbolo:  Riconoscimento: come nel caso della statua della libertà;  Emblema: si trova anche un’altra accezione del termine simbolo che ha un significato più ristretto e che va al di là del puro segno di riconoscimento. Per il romanticismo tedesco il simbolo è un segno che indica un significato che altrimenti sarebbe ineffabile (non espresso a parole) ed è su questo piano che la psicologia potrebbe aiutare la storia dell’arte. La statua della libertà è diventata un simbolo di dominio pubblico, è un emblema di per sé che fa anche appello al sentimento  è questo l’elemento essenziale, non tanto l’espressione che l’architetto Bartholdi avrebbe fissato nella statua, ovvero il ritratto della madre.  Gombrich ci ricorda che i giochi erano fondamentali nella tradizione sia tra i bambini che tra gli adulti, quindi riporta un gioco che faceva da bambino: il gioco del “se fosse” che si caratterizza con il risolvere un indovinello. Quello che si chiedeva di fare ai bambini era indovinare di cosa si tratta partendo da metafore, da confronti, l’esempio che fa Gombrich è quello di un cardo ( persona spinosa). Se poi i simboli si mescolano tra di loro creando delle figure “cardoorsine” avremo un mescolamento, un sovrapporsi di simboli che lo faranno diventare meno chiaro, ma tutto nasce da un’idea evidente, ovvero con l’intenzione di creare un ragionamento metaforico per spiegare le caratteristiche di quel simbolo. A questo punto di parla di due componenti:  Metafora: deriva dal greco e significa “trasporto”, ovvero quando un termine viene sostituito da un altro termine che ha un’estetica diversa aumentandone la carica espressiva  abbiamo quindi una sorta di condensazione, es/ “un mare di guai”;  Metonimia: ha sempre il suffisso meta- ma a questo si lega “onoma” che si lega al nome, si tratta infatti di una figura retorica che consiste nel sostituire un termine proprio con un altro che appartiene allo stesso campo semantico, che però ha con il primo una relazione di continuità logica, es/ “facile come bere un bicchiere d’acqua”.  Gombrich ci chiede di ragionare laddove parliamo di simbolo sempre secondo l’idea di qualcosa di enigmatico, se si studiano i simboli invece sappiamo che non è così e funzionano come questo tipo di figure retoriche.  Se noi ragioniamo in questi termini abbiamo a che con qualcosa d’interessante, ovvero capire come il simbolo possa essere tradotto e diventare chiaro: si focalizza sul Polittico dell’agnello mistico parlando del simbolo religioso  se trascurassimo il contenuto l’opera ci sarebbe incomprensibile, sappiamo infatti che l’agnello mistico è il simbolo di Cristo. Ricorda che nella nicchia dietro la vergine si trova un’epigrafe in latino che deriva dal libro della Sapienza di Salomone, sappiamo che i gigli e le rose rosse sono simboli di castità e di amore, ci ricorda anche come diverse stampe popolari riportino la stessa simbologia e ogni simbolo può essere corredato da una scritta che chiarisce ancora meglio a cosa faccia riferimento il simbolo presente  ci dice tutto questo per ribadire come un tempo quindi l’arte fosse al servizio del 31 contenuto simbolico, aggiungendo che questa affermazione sarà di difficile comprensione per gli psicologi essendo abituati a scavare per trovare i significati nascosti;  Confronta a questo punto la madonna presente nel polittico e la madonna della raffigurazione di un libro d’ore: i simboli sono i medesimi, ma la maniera formale in cui le cose vengono messe e il modo in cui l’opera ha assunto un significato particolare in quanto opera e non in quanto insieme di simboli, lo vediamo con forza nella rappresentazione dell’Agnello mistico, ma non lo vediamo invece nella rappresentazione del libro d’ore, la quale la madonna non rappresenta nulla di che con il so affastellarsi di simboli a differenza di quello che troviamo nella madonna del polittico. Gombrich in sostanza ribadisce come il linguaggio che deriva dalla psicodinamica e dall’idea più diffusa della psicologia (ovvero come questa aiuti a comprendere i significati reconditi) gioca attorno alla problematicità di quello che è recondito, ricordandoci che nella storia dell’arte è molto più in superfice rispetto a quello che pensiamo di trovare, quindi ci invita a non soffermarci troppo sull’idea di “caccia” al simbolo. Ribadisce inoltre come Freud sia un “romantico” nel senso che la sua interpretazione deriva dal romanticismo tedesco, quindi la sua interpretazione dei simboli è sempre volta all’onirico o para- onirico, ma che tutto questo rischia di far leggere anche il lavoro dello storico dell’arte come un lavoro a caccia del mistero. Dice infine che nessuno più di Freud ha mai sostenuto che per creare un’opera d’arte fosse necessario attingere all’onirico o al simbolo;  La posizione di Gombrich è interessante perché ci suggerisce molte informazioni che hanno a che fare con soluzioni di Freud che sono state rimosse nel corso del 1900. Sottolinea che molto spesso la lettura che è stata fatta di Freud è una lettura “pop”, ma è possibile di fare un uso di quegli strumenti in maniera differente, per esempio se parliamo di gusto o parliamo di qualcosa che non è necessariamente al profondo enigmatico di un singolo individuo. Nel 2015, due artisti, sono stati chiamati ad esporre le loro opere al Freud Museum, quindi hanno deciso di partire dal celebre divano di Freud, simbolo della psicoanalisi: hanno convocato un’equipe di polizia forense e hanno prelevato dei campioni di DNA dal divano di Freud, chiedendosi a chi potessero appartenere, se allo stesso Freud o a dei pazienti diventati iconici. A partire dalle immagini ricostruite dalla diagnostica, hanno realizzato un altro tappeto, e – dopo aver fatto dello studio di Freud una sorta di scena del crimine – hanno ricostituito l’idea da medicina legale  un gioco quindi tra soggettività e oggettività, facendo riferimento alla tendenza della psicanalisi da funzionare come medicina legale, ovvero cercare di capire gli indizi. PSICOLOGIA DELLA PERCEZIONE Se per la psicodinamica – sia nel suo propria sia nel suo essere stata messa in discussione – l’oggetto principale resta il contenuto dell’opera, il simbolo e quindi vengono collocati sullo stesso segmento artista e opere; vediamo invece come per il filone della psicologia della percezione vengano collocati sullo stesso segmento opera e fruitore. La Gestalt ( forma o schema unitario), nata in ambito tedesco, è nota soprattutto per gli studi della percezione, il fondatore della teoria psicologia è Max Wertheimer, insieme a Kurt Koffka e Wolfgang Kohler. 32 La teoria propone più leggi per lo studio dei fenomeni percettivi e dei fenomeni psichici, ci dice ad esempio che i fenomeni psicologici avvengono sempre in quello che chiamano “campo”, concetto mutuato dal campo della fisica: spazio in cui agiscono forze contrapposte. Quello che ci vuole dire è che i nostri processi psichici, all’interno dello stesso campo, cercano di equilibrare le forze presenti all’interno di questo stesso campo. Secondo la gestalt, l’atto percettivo è un comportamento unitario e non è costituito da una somma di elementi, ma è qualcosa che percepiamo come un tutt’uno, da qui la celebre formula “il tutto è il più della somma delle singole parti”. ARTE E PERCEZIONE VISIVA L’esponente maggiore della Gestaltpsychologie, in relazione alla psicologia dell’arte, è Rudolf Arnheim con il suo libro Arte e percezione visiva. Lo studioso considera i cicli di base della percezione, ovvero considera quelle che vengono chiamate le leggi della organizzazione del campo venendo a definire una sorta di grammatica visiva. La gestalt è interessata ad un’organizzazione a livello mentale, in particolare le interessano due punti: 1. Buona forma o Pregnanza:  La buona forma, per la gestalt, indica la tendenza che abbiamo a preferire le forme che ci sembrano equilibrate, ovvero le forme più regolari e simmetriche, quindi tutto ciò che non ci lascia, dal punto di vista percettivo, in una situazione di ambiguità. Si preferiscono le forme che ci conducono ad un’armonia, o ad una pregnanza ( pre- gignere, ovvero qualcosa che non si è ancora compiuto o che non si è ancora generato) che in qualche modo è pregno di qualcosa, è ricco quindi di significato, ma al contempo è un tutto che è percepibile con la massima economia possibile di energia, ovvero qualcosa che percepiamo subito come armonico. Una definizione che viene data della pregnanza: “una di quelle forme in cui le diverse parti si appartengono reciprocamente per mutua necessità”. La parola dà vita alla legge di pragnanz che è stata enunciata nel 1923 da Wertheimer in cui dice che tendiamo ad interpretare le immagini ambigue nella maniera più semplice, tendiamo quindi automaticamente a scomporre immagini difficili in più immagini in modo tale di avere una versione più semplice e ridotta (es/ smile o figure geometriche).  Da studi come questi nascono diverse teorie come la teoria del riconoscimento per componenti teorizzata da Irving Biederman nel 1987. Egli era uno scienziato americano specializzato negli studi sui processi mentali che sottostanno all’abilità che possediamo nel riconoscimento delle forme o dei volti, quest’ultimo lo riconosciamo come un tutt’uno, ovvero come una buona forma. L’area fusiforme facciale (FFA), ovvero l’attività del riconoscimento dei volti avviene in modo olistico e come una configurazione globale, proprio per capire come questo possa avvenire, i neuroscienziati, hanno individuato questa area del cervello che si attiva nel momento del riconosciamo di volto, funziona solamente per i volti non per gli altri oggetti. Biederman ha messo a punto la teoria del riconoscimento per componenti, in cui ogni oggetto che percepiamo, lo percepiamo come consistente in una serie di componenti più semplici che lui chiama geoni o ioni geometrici ( microcomponenti atomiche 35 consisteva nel creare immagini da gocce d’inchiostro messe in un foglio e poi piegato a metà, creando quindi delle macchie e difronte ad immagini di questo tipo, veniva chiesto al paziente che cosa vedeva e, a partire da questo, si ascoltava il racconto associativo-proiettivo). Questo significa che fare scandaglio della personalità dell’artista attraverso l’opera d’arte è ingenuo;  Arnheim riassume in seguito gli obiettivi del suo testo:  Ridiscutere alcune delle qualità della visione e rinfrescarle, soprattutto circa la pittura, il disegno e la scrittura;  Descrivere quali meccanismi percettivi siano sottesi ai fatti visivi.  Ci dice chiaramente che nel libro non ha nessuna intenzione a mettere in luce il ruolo dell’artista all’interno della comunità, dell’incidenza dei rapporti con il suo prossimo e nemmeno s’interessa della psicologia del fruitore, ma si limita a considerare questi elementi di cui si colgono i livelli di astrazione e come, questo tipo di approccio, possa diventare una filosofia attraverso cui guardare l’arte. Arnheim cita il motto della Gestalt, secondo cui il tutto è il più della somma delle singole parti, e dice che in realtà è qualcosa che gli artisti hanno intuitivamente sempre saputo. A proposito del motto, cita in Christian Von Ehrenfels, ovvero uno psicologo in cui nel testo Uber Gestaltqualitaten del 1890 fa comparire in modo significativo la parola gestalt nel titolo che si potrebbe quindi tradurre con “qualità formali della struttura”. Lo psicologo afferma «se dodici persone ascoltano anche solo uno dei dodici suoni della melodia, la somma delle loro esperienze non corrisponderebbe a ciò che è stato percepito da chi ha ascoltato la melodia per intero», questo pensiero ci serve per capire il pensiero di Arnheim sull’arte: quello che verrebbe a mancare se ciascuno di queste connessioni fosse a sé, sarebbe proprio l’organizzazione, la gestalt, la sua qualità formale in quanto struttura unitaria che è costitutiva della melodia. Arnehim aggiunge «ogni percezione è anche pensiero, ogni ragionamento è anche intuizione, ogni osservazione è anche invenzione»  in questa parte riassume per bene l’introduzione, ovvero sottolinea come il percepire sia già di per sé un comprendere, quindi non abbiamo un momento di percezione e comprensione separati, ma le due cose sono un tutt’uno  percepire dunque è già comprendere un’immagine e la comprensione a sua volta è una funzione della percezione. Si voleva sottolineare come ci fosse una connessione tra pensiero e percezione, e come questo fosse assolutamente funzione ad una comprensione “rinfrescata” della realtà. Arnheim dice quindi che «la visione non è una registrazione meccanica di elementi, ma l’afferrare strutture significanti»  questo vale non solo per l’arte, ma per tanti aspetti della nostra vita;  Abbiamo sempre uno scambio vicendevole tra l’oggetto e l’osservatore nella psicologia della Gestalt, ma rimane fuori l’artista e Arnehim dice di non interessarsi a questo aspetto perché è qualcosa che interessa gli storici dell’arte e non gli psicologi della percezione, afferma infatti «Questo libro parla di quello che può essere visto da ognuno e tratta di ciò che può essere letto solo per quel tanto che è servito a me e ai miei studenti a vedere meglio». È sul concetto di “vedere meglio” di Arnehim su cui bisogna soffermarsi: significa andare contro al realismo ingenuo, ovvero il realista ingenuo è colui che davanti ad un fenomeno, dice di vedere le cose come sono, di vedere le cose perché sono così. A questo si contrappone il realismo critico che ha una conoscenza sul fatto che quello che noi percepiamo è in realtà una costruzione attiva, alla quale contribuiscono sia l’ambiente fisico (stimoli a 36 cui siamo sottoposti) sia il sistema percettivo  ovvero la percezione del realista critico fa capire che la percezione è il risultato di una serie di processi di mediazioni tre ciò che è fisico e ciò che è fenomenico;  Arnheim ci dice inoltre che si pensa sempre più che l’arte sia qualcosa di astratto, ovvero che abbia a che fare con lo spirito, l’arte, invece, è la cosa più concreta che esista, perché si basa su questioni che hanno a che fare con il nostro percepire. Prosegue dicendo che se un’insegnate qualsiasi usasse il suo libro per spiegare un’opera di Matisse si chiederebbe quante macchie rosse riusciamo a scovare nell’opera, ma questo non è il modo in cui vuole che leggiamo il suo libro, Arnheim infatti intende che bisogna guardare l’opera d’arte nella sua totalità, bisogna trovare un tema centrale a cui gli elementi si riferiscono, informarsi sul soggetto e cercare di capire che cosa l’artista sapesse su quel soggetto, inoltre cosa volesse dire con quel soggetto tramite l’utilizzo di quella forma specifica ( quindi il suo interesse verso l’artista non è inesistente). Giovanni Matteucci disse che Arnehim elabora una psicologia generale a contatto con l’arte anziché applicare all’arte una teoria psicologica. Nel 2004 si tenne un seminario a Palermo curato da Lucia Pizzo Russo che insegnava psicologia dell’arte, le relazioni di questo seminario sono state pubblicate poi nel libro Rudolf Arnheim: arte e percezione visiva. Nella parte finale del volume si trova una conversazione tra Arnheim e la Pizzo Russo avvenuta nella prima metà degli anni ’80 in occasione di un seminario di Arnheim all’Università di Palermo:  Dalla conversazione si evince che struttura/sfondo per Arnheim è la struttura minima di qualsiasi percezione visiva, ma proprio per risetto a quello che diceva Matteucci, Arnheim elabora una psicologia generale a contatto con l’arte, non applicandole invece una psicologia, si può capire allora come il concetto di figura/sfondo si può applicare bene alla dinamica tra organismo e ambiente, oppure tra soggetto e contesto, quindi ha a che fare con le relazioni umane. La figura quindi è ciò che ha una forma, mentre lo sfondo è qualcosa di indifferenziato, di amorfo e molto si è giocato sul problema delle figure reversibili, secondo cui a partire da un unico stimolo si percepiscono due figure diverse, non si percepiscono in modo in modo simultaneo anche se la loro simultaneità è nella realtà fisica, ma dal punto di vista del fenomeno ne percepiamo una o l’altra (esempio della coppa)  questo dimostra che la percezione è un’attività, quindi non è qualcosa per realisti ingenui, ma per realisti critici per qualcuno che distingue realtà da fenomeno;  Nella conversazione l’intervistatrice gli chiede che cosa fosse per lui la psicologia dell’arte, Arnehim dice «la psicologia s’interessa di tutte le capacità della mente, così come l’arte, allora ci sono tanti settori della psicologia dell’arte quanti sono gli aspetti della mente umana, perché tutti si riflettono nell’opera d’arte»  se si vuole fare giustizia alla psicologia dell’arte, allora l’arte dev’essere l’oggetto primario dell’indagine alla quale si subordinano tutti gli elementi della psicologia. La Pizzo Russo gli risponde dicendo che se si deve partire dall’arte, allora bisogna sapere che cosa sia arte: Arnheim risponde «per me questo problema non esiste, l’arte è un criterio per separare certi oggetti da altri, è una qualità che secondo me è presente in qualsiasi oggetto naturale e artificiale. Ciò che io chiamo dinamica espressiva è ciò che distingue la qualità artistica di qualcosa da altre qualità pratiche». 37 1. Equilibrio (Balance)  Arnheim inizia parlando di quadrati e di tondi, molta arte contemporanea ha giocato proprio dalla purezza di queste forme, quindi non è sorprendente che un libro del 1900 cominci proprio trattando queste forme. Ci informa come il cerchio, all’interno del quadrato, sia lievemente scentrato, prosegue dicendo che vediamo il disco e il quadrato come una struttura unica in cui il disco è in reazione al suo campo, vedere qualcosa significa assegnarli un posto nel tutto ( concetto di campo visivo). Secondo Arnheim il cerchio della figura 1 è “irrequieto” perché lo percepiamo come qualcosa che era stato perfettamente al centro e che vorrebbe tornarci, oppure al contrario che si sta allontanando da esso  all’interno di un campo visivo la nostra percezione è dinamica, ovvero percepiamo le forme in un campo in relazione dinamica fra loro. Ci sono molte tensioni che percepiamo come percetto ( ciò che percepiamo) e che tuttavia non sono rappresentate: all’interno del quadrato sappiamo che si trova una forza invisibile anche se non la vediamo, una forza indotta dal cerchio nero che ci fa percepire il centro del quadrato anche se non è segnato ( induzione percettiva). L’induzione percettiva non ha a che fare con l’intelletto e non è nemmeno inconsapevole, ma deriva spontaneamente dalla nostra percezione del pattern ( termine inglese che non ha un equivalente in italiano, si può tradurre con schema o figura, elemento strutturale). Nella figura 2 invece il cerchio inquieto è andato verso il perimetro del quadrato, Arnheim ci dice che è come se lo spazio vuoto tra il disco e il contorno fosse compresso, percepiamo questa compressione  per ogni rapporto spaziale si trova sempre una distanza esatta, qualcosa che ci fa sentire che qualcosa ha un equilibrio e, al contrario, percepiamo quando qualcosa non ce l’ha;  La figura a cui fa riferimento Arnheim in seguito è lo scheletro strutturale del quadrato: si trova una sorta di complesso stimolante che serve da schema di riferimento e sappiamo che qualsiasi sia la posizione di un eventuale disco, quel cerchio sarà più o meno in uno stato di tensione o di quiete (al centro). Il centro è il massimo della quiete, ma si trovano altri punti in cui la tensione si allenta, ad esempio nel vertice  un pattern visivo è un campo di forze cui al suo interno si trovano dei punti di riposo, questi per Arnheim non sono punti di assenza di tensione, ma sono punti in cui non si trova ambiguità. Arnheim a questo punto ci fornisce la definizione di equilibrio: «l’equilibrio è vivo e carico di tensione, pensiamo ad una corta immobile mentre due uomini di forza uguale la turano in direzione opposta, la corda è ferma, ma è ugualmente carica di energia»  questo riguarda il fatto che in una composizione, tutto deve avere un carattere di necessità e non di accidentalità per diventare una struttura di buona forma secondo la legge della pragnanz;  Nel caso di un’opera d’arte l’equilibrio si crea attraverso molto modi, come il colore, la direzione, la dimensione ecc. e Arnheim si basa su un dipinto di scuola fiamminga di 1400 dove si trova San Michele che pesa le anime: l’artista rappresenta il santo con la bilancia in mano di cui un piatto presenta un’anima nuda e sola, mentre l’altro piatto presenta quattro 40 forma d è semplicemente un triangolo adiacente ad una linea verticale, ma se vediamo la figura dopo averla vista in sequenza alla a, b e c, allora il significato del triangolo è scombussolato, a questo punto lo percepiamo come un quadrato che si nasconde dietro la parete  questo è un effetto del contesto spaziale, le lettere si susseguono come un film d’animazione e l’effetto si ha perché le figure sono legate da una somiglianza strutturale che via via noi vediamo perdersi tra la a e la b, ma che attraverso il film d’animazione sentiamo la somiglianza, la coerenza. Lo stesso vale per la figura 21, la sua forma cambia se ci viene detto che rappresenta una giraffa che passa davanti ad una finestra, questo porta in noi una memoria non tanto dell’episodio in sé, ma ci ricordiamo la maculatura del manto della giraffa ecc.  è la descrizione a permetterci di vedere le cose in maniera diversa. Inoltre se continuiamo a guardare la figura più volte ormai questa immagine è talmente forte che facciamo fatica a non vederla più;  Arnheim, partendo da un’immagine, ci ricorda inoltre la legge della semplicità spiegando che la semplicità può essere definita come l’esperienza e il giudizio soggettivo dell’osservatore che non trova difficoltà a capire ciò che gli viene presentato, per esempio in una serie di figure quali si ricordano per prime? Quali si ricordano più facilmente? Quali sono più semplici da descrivere? La semplicità non è dovuta al numero di elementi che si trovano all’interno di un’immagine, ma da numero delle caratteristiche strutturali, ad esempio la linea retta tratteggiata della figura è la versione più veloce per mettere in comunicazione a e b, ma quel segno retto è talmente diverso dal punto di vista strutturale, che il nostro occhio unisce i punti tramite un’altra linea per coerenza visivo strutturale. Questo perché il nostro sistema percettivo ha bisogno di economia, concetto a cui si riferiva anche Freud in ambito psicologico;  Le grandi opere d’arte sono complesse, ma riescono ad organizzare una ricchezza di significati e di forme dentro ad un significato globale, questa maniera di organizzare una struttura necessaria nel modo più semplice possibile è quello che possiamo definire un ordine. È qualcosa che è coerente ad un altro concetto della Gestalt, l’isomorfismo, ovvero una corrispondenza tra una struttura (forma tangibile) ed il suo significato ( questione sviluppata nel capitolo 3). Sempre relativamente alla semplicità e all’economia che dev’essere isomorfica, Arnehim ci parla di un elemento legato alla semplicità: prendendo le due figure a sinistra, vediamo come queste possiedono delle lievi ambiguità, difronte a questo tipo di immagini lo spettatore ha due reazioni: rappresentare o descrivere le immagini. Questa lieve ambiguità e molto dispendiosa dal punto di vista dell’energia, quindi dobbiamo fare economia ed entrambi i modi di reazione hanno come obiettivo la semplificazione: 1. Alcuni reagiscono con il livellamento, ovvero facendo sparire le ambiguità; 2. Al contrario si può avere l’accentuazione, ovvero l’ampliamento delle ambiguità.  Entrambe rispondono alla legge della semplicità o alla legge della buona forma, attraverso una semplificazione: eliminano l’ambiguità; Tutto questo può essere trasposto nell’arte: gli storici dell’arte risponderebbero che dalla parte del livellamento troveremmo il classicismo, mentre dalla parte dell’accentuazione vi troveremo l’espressionismo (che non si riferisce solamente a quello contemporaneo, ma 41 s’intende il tipo di raffigurazione in cui si trovano accentuazioni, le ombre sono molto profonde e dunque tutto è estremamente accentuato);  Altra legge di cui ci parla Arnheim è legge della segmentazione e si riferisce a quando percepiamo le cose tramite un tutt’uno, ma ci sono molti modi di percepirlo. Spesso vediamo le cose come masse indivise e compatte, ad esempio vedendo Gli amanti di Brancusi dove le figure degli amanti rappresentano un blocco unito, in questo caso quindi la forma predomina sulla raffigurazione; rispetto ad esempio al Bacio di Rodin, dove il soggetto è lo stesso, ma l’idea è resa in maniera diversa: l’idea di unione è resa in maniera coerente con il proprio significato da Brancusi ( siamo nell’isomorfismo). Il simbolismo evidente nell’opera di Brancusi è in netto contrasto della medesima rappresentazione data da Rodin, dove l’indipendenza indomabile delle due figure trasmette la futilità dell’unione, ovvero non si uniscono mai del tutto  l’aspetto di ogni parte dipende sempre dalla struttura del tutto;  Altro esempio significativo è come le teste delle statue staccate sono spesso deludenti, anche perché se fossero state espressive da sé, non sarebbero state parte di un corpo, quindi da sole ci dicono troppo poco e fa degli esempi in questa linea, come i volti dei ballerini, dove la ballerina classica è sempre inespressiva perché parla con il corpo, al contrario dei ballerini di arte contemporanea. Ecco perché in una struttura così potente come Guernica, Picasso inizialmente avesse reso i suoi volti estremamente espressivi, mentre nella forma finale del dipinto, questi stessi volti hanno delle forme più purificate e lineari, meno espressive  questo serve a bilanciare al meglio le forze nella struttura complessiva;  Altro principio affrontato da Arnheim è il principio della coerenza formale o della buona continuazione che lo spiega a partire da una figura ricavata da un dipinto di Picasso. La gamba destra della donna ci appare come una forma continua nonostante sia interrotta dalla gamba sinistra  per Arnheim l’occhio esiste solo per coloro che hanno rinunciato al realismo ingenuo, solo per coloro che hanno rinfrescato la vista. Altro esempio riportato è La parabola dei ciechi di Pieter Bruegel il Vecchio: troviamo il ruolo svolto tra le parti, il dipinto illustra il detto biblico “se un cieco guida gli altri ciechi, tutti cadranno nel fosso” e lo leggiamo da sinistra verso destra, le teste formano una curva discendente e Arnehim dice che abbiamo la presentazione degli stadi successivi di un solo processo. La somiglianza delle figure non è quella della ripetizione, ovvero le figure sono tutte diverse, ma comunque sono una solo figura, un principio cinematografico applicato ad un’opera d’arte. 3. Forma (Form)  Arnheim ci dice che per forma dobbiamo intendere la configurazione visibile di un contenuto, ovvero essa è il contenuto visivo della rappresentazione, che cosa rappresenta e perché è riconoscibile in quanto tale, quali condizioni deve avere per fare in modo che sia chiara e riconoscibile. Ci ricorda che non tutte le configurazioni si comportano nello stesso modo, ma dipende dal loro scheletro strutturale rispetto al quale una determinata inclinazione può incidere o meno sul loro significato. Se un triangolo e un quadrato sono incrinati (figura a), non ci appaiono come un’oggetto nuovo, ma ci appaiono come un triangolo e un rettangolo appoggiati sul loro vertice. Se invece prendiamo un quadrato (figura b) non 42 abbiamo lo stesso effetto, inclinandolo abbiamo un rombo che però non ci dà la stessa idea di instabilità, anzi girandolo ci appare talmente stabile tanto da diventare un’altra figura. Il volto è qualcosa di particolare, lo continuiamo a percepire come volto, ma allo stesso tempo lo vediamo come qualcosa di mostruoso;  Tuttavia ci sono delle configurazioni che faticano a diventare forma, ovvero ci sono immagini insufficienti per poter dare l’idea di contenuto. Arnheim ci mostra un’immagine: si tratta delle più semplici rappresentazioni di un messicano che porti sulla testa un grosso sombrero, ma è del tutto inadeguata per la maggior parte dei suoi scopi rappresentativi, perché non crea differenza tra un messicano, una macchina da mulino o una ciambella  lo scheletro strutturale di questa figura è troppo in scarsa relazione al suo contenuto per essere una buona forma. Che cosa bisogna rappresentare per fare in modo che sia soddisfacente? Prendendo una sedia, riporta quattro differenti rappresentazioni: la vista dall’alto (a), la vista difronte (b), la vista di profilo (c) e la veduta dal basso (d). Queste quattro informazioni le riusciamo a rendere in una sola figura? questa è la grande sfida delle avanguardie ed è infatti un’impresa difficile. Un pedagogista tedesco, Georg Kerschensteiner, aveva chiesto ad un gruppo di bambini di disegnare una sedia, il risultato mostrò al pedagogista quanto fosse difficile rappresentare una sedia, trovare una giusta configurazione per far sì di arrivare ad una forma che fosse non insufficiente  ciascuna di queste immagini ci portano a rinfrescare il nostro modo di vedere una sedia;  Collegata alla rappresentazione delle sedie, Arnehim ci parla del metodo egiziano, riportando le parole di un filosofo e fisico di nome Ernst Mach il quale si occupava di fisiologia della percezione: diceva che gli egizi è come se avessero pressato le figure sul piano come se facessero un erbario. Arnheim precisa che per molti secoli, raffigurazioni come queste, furono viste come delle immagini imperfette, ma in pieno novecento queste idee non possono più essere viste. Il modo di rappresentare degli egizi era una soluzione ai problemi che sempre abbiamo quando trasponiamo un’immagine tridimensionale su un piano bidimensionale. Arnheim prosegue dicendo che per molto tempo le raffigurazioni egizie sono state considerate scelte fatte per adesione ad una determinata convenzione rappresentativa, non da artisti che non sapevano rappresentare altro, ma da artisti che avevano scelto quel determinato modo per rappresentare figure tridimensionali su un piano tridimensionale. L’esempio riportato da Arnheim s’ispira al Fregio della tomba di Ankmahor (figura 85), rappresenta due scultori che stanno scalpellando una statua di pietra: le spalle dei due uomini sono rese frontalmente nonostante gli uomini siano di profilo, mentre la statua è resa con una venuta di lato, quindi considerata prospetticamente esatta  per dare l’espressione alla rigidità, gli egizi la rappresentano come prospetticamente corretta, quindi di qualcosa più vicino a noi. Gli egizi quindi non usano la tipologia di rappresentare di spalle per incapacità, ma solamente perché lo preferivano, quel modo era isomorfico rispetto al loro modo di rappresentare il mondo, il loro metodo era uno dei possibili per la rappresentazione tridimensionale, non migliore o peggiore di quello definito “fotografico”; 45 facendo attenzione a certe qualità dell’azione, notiamo che la posizione del braccio è innaturale, quindi è un’opera figurativa che però non ci dà naturalezza. Attraverso una serie di passi che Arnheim fa attraverso una serie di analogie formali, giunge a definire l’opera come un’opera che mostra una “sensualità trattenuta” ( arriva a questa affermazione dopo aver fatto un’analisi minuziosa di ogni singolo elemento presente all’interno del dipinto). L’opera funziona proprio in ragione di questa ambiguità della forma, in cui un copro in apparenza organico è reso attraverso degli stratagemmi particolari;  Arnheim salta ad un altro ambito, dicendo che l’idea di cogliere le proprietà essenziali, lo si ha anche quando è necessario che la rappresentazione sia incredibilmente realistica ( quanto di più lontano ci possa essere da una rappresentazione fotografica, ad esempio nei libri scientifici non possiamo avere una realtà fotografica perché avremmo poca chiarezza, l’illustratore infatti si deve focalizzare sugli aspetti essenziali e specifici). Ogni riproduzione è in realtà sempre un’interpretazione visuale, talvolta è necessario allontanarsi dalla rappresentazione fotografica e per dircelo ricorre all’esempio noto della mappa della metropolitana di Londra  per essere efficace ricorre rinunciare a tutti i particolari di tipo accidentali, fermarci su quelle proprietà che sono pertinenti, ricucendo tutti i percorsi in delle linee rette che possono essere a 90° o a 45°. Per Arnheim, quindi, ogni rappresentazione è sempre un’interpretazione, questo perché ci dev’essere una coincidenza isomorfica tra rappresentazione e contenuto. 4. Sviluppo (Growth)  Nel capitolo tratta soprattutto della produzione grafica dei bambini che trova coincidenze con la produzione grafica primitiva. Arnehim dice che per la prima fase della rappresentazione grafica, il bambino ha bisogno di poco per rappresentare la figura di un uomo. In precedenza aveva già parlato dell’ideogramma cinese rén (uomo) che paragona a diverse rappresentazioni dell’uomo (es/ Alberto Giacometti, uomo che cammina), tuttavia questo tipo di esempio potrebbe portarci fuori strada e ci consiglia di rivedere la teoria intellettualistica, relativa allo sviluppo dell’arte nei bambini, ovvero quella secondo cui i bambini disegnano dei simboli, ovvero dei concetti astratti. Secondo Arnehim, che si basa sugli studi pedagogici, la vita intellettuale dei bambini dipende dalle loro esperienze sensoriali e che si basano proprio su queste. Che cosa differenzia quindi un’opera d’arte da uno schizzo di un bambino? Quest’ultima è meno differenziata da un’opera di Rubens, l’idea di differenziazione è molto importante: dice che i bambini disegnano ciò che vedono e che la loro percezione non parte dai particolari, ma da un’idea generale, esattamente come la “caninità” è percepita prima del riconoscimento specifico del cane. I bambini vedono più di quello che disegno, ma quando si rappresenta tramite un insieme di cerchi e raggi, non è perché si vede in quella maniera, ma perché quello schema risponde alle esigenze del bambino stesso  il bambino pensa di essere una persona che ha un corpo e dei capelli e tramite queste è in grado di fare delle azioni, è questo modo di rappresentare che soddisfa il bambino;  Arnehim distingue ciò che è percetto e ciò che è raffigurazione, vedere la sagoma di una testa umana significa vederne la rotondità, ovvero se voglio rappresentare la rotondità di qualcosa non possono valermi di tutti i tratti della testa, ma devo trovare una forma che dia veste materiale a quel carattere percettivo, a questo il bambino arriva dopo molti tentativi  gli scarabocchi dei bambini rappresentano anche la loro abilità motoria, il loro è un 46 movimento di tipo descrittivo, esattamente come nel mondo dell’arte si vede in Pollock. La prima cosa che un bambino cerca di realizzare è il “cerchio primordiale”, ovvero la forma più semplice perché ha una simmetria in tutte le direzioni, per tanto anche l’adulto usa il cerchio o la sfera per rappresentare convenzionalmente una configurazione di cui non abbiamo un ritratto particolare  il cerchio dunque è una buona gestalt. Il bambino poi ricorre alla forma circolare per rappresentare la “cosità”, ovvero qualsiasi cosa sia una cosa  abbiamo l’idea di qualcosa di compatto che ha una forma e occupa uno spazio all’interno di uno spazio più ampio. A partire dalla figura circolare il bambino inizia ad arricchire facendolo evolvere, arrivando a differenziarlo, si hanno in particolare due modi:  Il contenimento: far contenere ad una forma circolare altre forme circolari;  La raggiatura: tutto ciò che va all’esterno:  La differenziazione si muove rispetto a due leggi: 1. Ogni forma resta indifferenziata fintanto che lo permette l’idea che il disegnatore ha dell’oggetto a cui mira, ovvero fintanto che la forma non differenziata basta ad esprimere quello che vuole; 2. Finché una caratteristica visiva non è ancora differenziata, l’intera gamma delle sue potenzialità viene rappresentata. Arnheim ci parla della difficoltà di conquistare la linea retta, questo non è difficile solo per un bambino, ma anche per l’adulto  riporta una frase di Eugene Delacroix che diceva che la linea retta non esiste in natura, per questo è difficile da rappresentare, anzi dove l’uomo la usa, la natura via via la rode via. Nei bambini più piccoli la linea retta rappresenta tutti gli elementi allungati, quindi parti diverse tra loro ( es braccia, gambe, collo, paolo semaforo). Il pattern orizzontale-verticale è molto significativo nella rappresentazione del secolo scorso, ha a che fare con una diversa concezione di mondo, un rinfrescare il nostro modo di vedere. Stefano Bartezzaghi scrisse il libro L’orizzonte verticale dove intende il cruciverba come un enorme simbolo del nostro modo di concepire attraverso lo sviluppo del 1900. L’autore ci ricorda inoltre che la griglia orizzontale-verticale era già una forma tipicamente novecentesca, gli esempi sono moltissimi, rappresenta quindi l’emblema del modernismo. Se invece abbiamo a che fare con un’idea di conquista del dinamismo, ecco che si arriva ad una conquista difficile per i bambini, ovvero l’obliquità  arricchimento consapevole della convenzione rappresentativa, si percepisce come deviazione dall’idea di griglia, quindi come idea di movimento (figura 129);  Arnheim sottolinea come la voglia di differenziazione arriva a tempo debito quindi non bisogna sforzare il bambino a raggiungerla, così come negli adulti la conquista dell’obliquità non è scontata, per molto tempo infatti si ha avuto a che fare con tavoli realizzati con angoli retti. I tavoli per ufficio realizzati da una Corporation americana, avrebbero aiutato parecchio per trovare un clima di lavoro più dinamico e soprattutto accostati danno vita a delle configurazioni  Arnheim liquida la questione dicendo che nelle questioni pratiche come l’arredamento restiamo legati a forme ad angolo retto esattamente come i bambini. Arnheim pone l’attenzione sui tavoli a grappoli della nostra contemporaneità, cosa significa quindi 47 rinunciare ad un’immagine di questo tipo? Nella serie Scissione si vede la rappresentazione dei tavoli in modo squadrato, quindi hanno eliminato tutto ciò che è obliquo  una volta che il nostro livello di adattamento è obliquo, per rappresentare un qualcosa di chiuso, dove ci dev’essere una scissione, si ricorre di nuovo ad una convenzione antecedente che però assume in questo modo tutt’altro significato;  Altro argomento affrontato da Arnheim è quello della grandezza degli oggetti, ne parla relativamente allo sviluppo del disegno infantile: per quanto riguarda la legge della differenziazione, la dimensione degli oggetti rimane tale finché non sentiamo il bisogno di differenziarli. Perché si dà una misura diversa agli oggetti? La gerarchia ci dà via via un’importanza dimensionale a ciò che noi rappresentiamo, ad esempio nelle raffigurazioni dell’antico Egitto le raffigurazioni dei Faroni erano grandi rispetto a quelle dei sudditi  Arnheim cita l’immagine Aesopus moralisatus con la rappresentazione del corvo e della volpe che deriva dalle favole di Esopo. Arnheim dice che la volpe e il corvo, nella storia, hanno lo stesso peso, si trova infatti un dialogo costante e dunque loda chi, in una rappresentazione di questo tipo, pur avendo già in sé la possibilità di rappresentare le dimensioni, sceglie di rappresentare corvo e volpe nella stessa dimensione. Questo lo percepiamo parecchio dalla pittura medievale, ad esempio in Giotto i personaggi possono avere le medesime dimensioni di un edificio  siamo pieni di rappresentazioni nella storia dell’arte che ci dicono che le dimensioni mettono sullo stesso piano l’importanza in una narrazione di oggetti anche diversi tra di loro;  Arnehim ci parla della difficoltà della rappresentazione volumetrica, fa riferimento al libro Flatlandia di Edwin Abbott, dove si trova la rappresentazione di una casa in questo “paese piatto”. Venne scritto da un reverendo e pedagogo inglese, il quale conduce il lettore, attraverso la geometria, in un viaggio dove la vita scorre in maniera regolare, ma su superfice piana. Il suo narratore è un quadrato e gli abitanti sono delle figure geometriche che però non sono tutte uguali: il quadrato ci racconta quali sono le gerarchie, dove troviamo i triangoli, gli esagoni, fino ad arrivare al cerchio. Altra legge di Flatlandia vuole che i figli maschi devono avere un lato più del padre e quindi più lati possono permettergli di raggiungere la nobiltà, ma questa regola non vale per tutti, ad esempio i triangoli isosceli possono generare raramente una progenie che possa avere un lato in più ( satira sociale), le donne invece vengono rappresentate da dei segmenti. Quello che ci vuole trasmettere è che siamo schiavi dei nostri pregiudizi dimensionali, anche il lettore parte da un’idea di superiorità essendo tridimensionale, ma il libro si chiude con l’idea di una quarta dimensione che avrà la sua eguale esplosione con la teoria della relatività. Arnheim utilizza questo esempio per dire che nel paese di Flatlandia le pareti delle case sono semplicemente dei contorni e che un visitatore che giunge da un altro paese, combina guai se dice che le loro case sono aperte e che non sono realmente delle case. A questo proposito Arnheim ci mostra un disegno di un bambino dove anche in questo caso si trova l’equivalente bidimensionale di una casa dove la figura sta al suo interno ed è perfettamente protetta. In un tipo di rappresentazione basato su questo modello si vede anche l’operato di Durer: Arnheim dice che le facciate sono esattamente come quelle di un bambino, è il medesimo principio che permette al palcoscenico di funzionare  questo per dire che i bambini mettono, nel loro sviluppo, le loro figure in una bidimensione che non è banale o retrograda, ma è una loro scelta;  Arnheim chiude il capitolo sullo sviluppo parlando anche della rappresentazione tridimensionale: Arnehim trova oltre al cerchio primordiale, anche la sfera primordiale  in
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