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La Formazione degli Educatori in Comunità: Il Ruolo della Supervisione e dell'Empatia, Sintesi del corso di Psicologia dell'Adolescenza

Il modello di formazione per gli educatori in comunità, che riconosce la necessità di lavorare sulla formazione emotiva degli educatori e sulla supervisione. Il ruolo della supervisione nella prevedibilità, nella rappresentazione simbolica e nella significazione della genitorialità. Viene inoltre discusso il ruolo della comunità nella riparazione delle ingiustizie familiari e nella accettazione della rabbia dei ragazzi.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 08/03/2019

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Scarica La Formazione degli Educatori in Comunità: Il Ruolo della Supervisione e dell'Empatia e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia dell'Adolescenza solo su Docsity! COMUNI-CARE IN COMUNITA’ PER MINORI PARTE PRIMA- Comprendere e comunicare in comunità Capitolo 1 Comunicare le dimensioni latenti della comunità: il setting di formazione/supervisione integrata L’obbiettivo di questo capitolo è presentare gli aspetti del modello di formazione/supervisione integrata di matrice relazionale alla base dell’approccio adottato nella presentazione dei casi raccontati nei 3 capitolo successivi. L’approccio considera le comunità come contesti che possono fornire un’esperienza emozionale e relazionale correttiva, orientata a fornire occasioni di sostegno alle funzioni evolutive. Lo sviluppo dei minori in comunità è stato spesso minato, infatti, da dinamiche familiari che non hanno garantito protezione, cura, tutela, normatività e condivisione emotiva. In questa accezione, le comunità possono configurarsi come contesti specificamente strutturati per favorire l‘esercizio di funzioni protettive che contrapponendosi ai fattori di rischio iniziali, mettano in atto una costruzione di relazioni in cui la figura dell’adulto/educatore, gestendo processi di format, tutoring e scaffolding accompagna il minore nel processo di cambiamento. All’interno del cotesto “comunità” è possibile individuare due dimensioni strettamente connesse tra loro: un setting esterno costituito dal contesto di vita quotidiana nel quale si estrinseca la vita comunitaria e un setting interno, ossia lo spazio simbolico-dinamico definito dai vissuti emotivo- affettivi, dai modelli culturali, dalle rappresentazioni mentali dei soggetti. La comunità si configura quindi come l’esito delle complesse processualità co-costruite dai soggetti che condividono lo stesso spazio fisico. Il modello a cui facciamo riferimento che la sovrastimolazione emotiva a cui sono sottoposti gli educatori in comunità porti molto spesso a lavorare principalmente sui vissuti degli adulti, sui loto conflitti interiori, sulle loro storie famigliari ma questo può finire per ridurre al minimo il lavoro sul minore. Risulta perciò necessario adottare un modello che superi la dicotomia tra spazio di lavoro sui vissuti dell’adulto e riduzione al silenzio della parola del minore e viceversa spazio di lavoro sul caso (minore) come evitamento del lavoro sui vissuti emotivi dellìeducatore. Questa terza via riconosce la necessità di lavorare sull’integrazione di due momenti strettamente correlati: la formazione, come spazio di esplicitazione dei vissuti emotivi dell’educatore che indirizzano consapevolmente o non la sua azione educativa e la supervisione che mira a ridefinire un’alleanza simbolica con il minore partendo da una corretta analisi della domanda dell’inviante il caso (servizi sociali, tribunale ecc.) e proseguendo con una costante comunicazione con la rete, un’accurata valutazione del progetto educativo e la realizzazione di un ambiente flessibile e di cura. Il lavoro di formazione consente di produrre interpretazioni sugli impliciti alla base degli interventi degli educatori; potremmo definire “ancoraggio motivazionale” quell’insieme di credenze sia esplicite, ma soprattutto implicite, alle quali l’educatore fa riferimento nella giustificazione del suo operato. Per esempio il lavoro sugli ancoraggi motivazionali potrebbe svelare un attaccamento ad un ruolo normativo/istituzionale che orienta interventi educativi centrati principalmente sul meccanismo regole-punizioni, piuttosto che sulla relazione. La formazione deve soffermarsi anche sui modelli culturali che orientano i sistemi di alleanza degli educatori con i minori, sia a livello pratico che a livello simbolico; a tal proposito è fondamentale il supporto del formatore rispetto all’acquisizione di una specifica metodologia: l’analisi della domanda. L’analisi della domanda è una dimensione metodologica (a cavallo tra formazione e supervisione) che facilita l’instaurazione di una relazione realmente terapeutica per il minore e mette l’educatore nella condizione di riflettere sulle reali esigenze dell’altro, monitorando anche i suoi vissuti legati alla situazione stessa. Si rende infatti necessario il lavoro sui processi intrapsichici degli educatori, attivati nella relazione con il minore; la relazione educativa in comunità attiva la dimensione del Sé educatore (caratterizzato dall’ancoraggio alle funzioni e al ruolo), del Sé bambino e del Sé genitore simbolico. Se l’integrazione intesa come equilibrio tra queste parti non è realizzata, gli sbilanciamenti possono determinare meccanismi difensivi inconsci, primitivi ed espulsivi. La formazione si configura pertanto coma un lavoro di notevole complessità, volto ad analizzare oggetti diversi, collocati su diversi livelli e tesi a contenere angosce e conseguenti difese inconsce per favorire l’adozione da parte degli educatori, di modelli culturali relazionali e non istituzionalizzanti, in grado di determinare adeguati sistemi di alleanze, azioni, agiti e interpretazioni. La supervisione invece rappresenta un livello di lavoro in cui le energie del gruppo vengono canalizzate dal supervisore sull’apertura di spazi di riflessione tesi ad elaborare strategie di intervento centrate su una forte alleanza con il minore e con le sue reali aspettative ed esigenze. Il supervisore aiuta l’educatore a prevedere il raggiungimento di tappe evolutive del minore (funzione predittiva della funzione genitoriale simbolica), a favorire la costruzione di schemi dell”essere con” (funzione rappresentativa della funzione genitoriale simbolica), a dare un contenuto pensabile alle percezioni e alle sensazioni che all’inizio sono prive di spessore psichico (funzione significante della genitorialità simbolica) e infine a costruire una storia condivisa in cui il minore stesso possa sentirsi parte attiva inclusa e dinamicamente proiettata nella continuità tra passato, presente e futuro. Utilizzando i modelli di lettura proposti dall’Infant Reasearch (Beebe, Lachmann 2002) e dalla psicopatologia evolutiva, con particolare riferimento all’applicazione della teoria dell’attaccamento, è possibile affermare che in comunità troviamo minori traumatizzati, per i quali l’esperienza della mentalizzazione si configura come fortemente compromessa, dal momento che non hanno avuto la possibilità di costruire modelli operativi interni di Sé, dell’altro e della relazione, improntati sulla sicurezza. Si tratta principalmente di minori che hanno subito violenze a maltrattamenti proprio dalla figure d’attaccamento , divenendo così ragazzi insicuri, che esposti al trauma dell’esperienza con una figura accudente spaventante e spaventata , hanno sperimentato il fallimento nell’organizzazione del sé e nella capacità di modulare i propri stati affettivi per giungere ad una “regolazione affettiva” fondamentale per la costruzione di un autentico senso di se coeso e integrato. La supervisione assuma, quindi, il compito fondamentale di portare gli educatori all’imprescindibile costruzione di dinamiche e processi relazionali ed emotivo-affettivi che consentano la realizzazione di un ambiente che intervenga in modo riparatoriamente regressivo sui casi di deprivazione e maltrattamento, ricreando un setting teso a recuperare, ricostruire, attualizzare le primarie funzioni strutturanti fallite. La relazione educativa infatti può facilitare la riattivazione delle capacità di mentalizzazione inibita da processi evolutivi disfunzionali e fornire un’esperienza emozionale correttiva; questa permetterà di instaurare un nuovo tipo di relazione con l’altro la quale potrà diventare nuova base sicura attraverso cui dare nuovi contenuti all’organizzazione e rappresentazione del proprio sé. Il supervisore dovrà supportare ed incentivare l’equipe affinchè prediliga e sostenga scelte organizzative elastiche e flessibili che consentano al minore di sentirsi accolto e di “regredire” senza dover inevitabilmente adattarsi a ritmi ed esigenze istituzionali. Capitolo 2 Meglio amica o educatrice?(pag 58) Ritroviamo in questa narrazione uno scenario molto frequente: l’adulto cerca di favorire la confidenza e la fiducia accattivandosi la simpatia dell’adolescente a giocando al ruolo di amico per facilitare a comunicazione. Il rischio è quello di minimizzare i confini generazionali e di ruolo per poi scoprire l’importanza e la funzione relazionale e regolatoria di norme quotidiane che possono meglio supportare l’adolescente. Laddove la funzione di ascolto e le norme regolatorie vengono integrate ed esercitate costantemente, il ruolo educativo dell’educatore viene svolto al meglio e può essere riconosciuto dall’adolescente che riesce a valutarne a sua indispensabile portata formativa. Io mi riconosco in te(pag 66) La quotidiana esposizione al dolore di chi ricerca uno sguardo amorevole e attento da un genitore distratto e distaccato o da un caregiver alternativo troppo centrato sulle proprie esigenze, non può che essere evocativo di altrettanto dolore rimosso dalla propria consapevolezza in età altrettanto infantile, quando anche il bambino, ora educatore, si trovava a fronteggiare in completa solitudine emotiva lo stesso disperato tentativo di catturare l’attenzione di un genitore troppo distratto, generando in lui/lei rabbia. Nell’identificazione proiettiva dell’educatore con il bambino attuale che subisce la sua stessa delusione infantile non ancora riparata, prende spazio il conflitto interno tra le diverse parti de sé dell’educatore e la richiesta di protezione del bambino reale; questo non si accontenta del poco spazio affettivo concessogli dai genitori distinguendosi così dal bambino che l’educatore è stato e che si è accontentato pervenendo al salvataggio delle sue figure genitoriali. In questo processo interno all’educatore, il sentimento della rabbia, rimosso in età infantile può aprire ad una risignificazione; se la rabbia venisse accettata il bambino di allora potrebbe riconoscere le mancanza del suo genitore affrancandosi dalla responsabilità di sentirsi colpevole per il poco affetto ricevuto. Questo movimento potrebbe riportare equilibrio al conflitto tra il sé genitore e il sé figlio, restituendo nella realtà uno sguardo amorevole verso il proprio genitore ormai anziano, ora in posizione di figlio richiedente affetto e abbasserebbe il fastidio provato verso la non rassegnazione del bambino in comunità, avvertita come minacci all’equilibrio interno raggiunto con la sua rassegnazione nell’infanzia. Ciò inoltre consentirebbe al bambino reale di ricevere un’alleanza emotiva sulla legittimità della rabbia che sta provando , senza la richiesta collusiva con parti del sé non risolte dall’educatore, che suggeriscono di accontentarsi dell’affetto ricevuto dalla nonna. Capitolo 4 La giusta vicinanza In questo capitolo rifletteremo su quali possono essere i diversi dilemmi che affliggono spesso gli educatori in comunità in relazione a come essere accoglienti ed empatici riuscendo a mantenere una giusta vicinanza emotiva , un giusto equilibrio nel gruppo e una giusta risposta sintonica ai bisogni del bambino/adolescente. Accogliere il dolore(pag 81) come si evince da questa narrazione la giusta distanza sta nell’osservare e comprendere quale modello relazionale il bambino ha interiorizzato e mantenersi vigili ed emotivamente attenti per avvicinarsi a lui senza intimorirlo o invaderlo. Il movimento che parte da un bambino esposto ripetutamente a violenza diretta e assistita ha necessità di tempo, di attenzione e di rispetto; il suo è un movimento lento interiormente pur se agito tramite azioni veloci e dirompenti. Richiede il tempo della verifica della non pericolosità del luogo relazionale nel quale si vive, che solo da avvio ai presupposti del processo che conduce alla fiducia. Sostituire le funzioni preservando il legame(pag 85) La deprivazione cognitiva di un genitore sufficientemente sintonizzato sui bisogni emotivi del figlio assume spesso il tratti di un’incompetenza funzionale relativa ad alcune funzioni specifiche della genitorialità, piuttosto che relazionale, che tende a manifestarsi nel corso della crescita dei figli. Le alleanza che questi genitori stabiliscono con gli educatori sono connotate prevalentemente da collaborazione e gratitudine, sono genitori che riconoscono i propri limiti e mantengono l’obiettivo dell’interesse del figlio. Un contesto relazionale così caratterizzato consente una considerevole riduzione del trauma connesso alla separazione, sia essa transitoria o permanente. Se piangi troppo ti lascio solo(pag87) Il tema proposto in questa narrazione ha a che fare con la frustrazione e l’impotenza di un educatore davanti al dolore inconsolabile di un bimbo di 5 anni che viene lasciato solo affinchè il pianto cessi. Tuttavia questa solitudine nel dolore non è prospetticamente un’esperienza positiva per un bambino traumatizzato di 5 anni anche se nel beve periodo il sintomo cessa di manifestarsi. Perché quel bambino è inconsolabile? Una separazione comporta sempre per un figlio in tenera età, un vissuto traumatico connesso all’evento in sé e al profondo sentimento di ingiustizia ad esso collegato, che può volgere in rabbia, protesta e infine, se il ricongiungimento con la figura significativa non avviene in un tempo contenuto, in astenia depressiva. Come gli studi di Bowlby e Spitz hanno dimostrato il sintomo depressivo cessa nel momento in cui la diade torna a ricongiungersi. Quindi un bambino così sofferente non può essere lasciato solo nel suo dolore, il dolore non si estingue nella solitudine, al contrario danneggia profondamente la psiche umana minando alla base il sentimento di sé e la fiducia nell’altro. Un bambino traumatizzato ha bisogno della giusta distanza, di parole che diano voce al suo dolore, di abbracci che contengano le sue paure, di esperienze di gioco che lo “distraggano” dal dolore, ma ha anche necessità di accessibilità alle figure significative dalle quali è stato separato. Di un’accessibilità che sia prevedibile, che non renda la perdita definitiva ma assicuri una distanza accettabile. Ed è l’accettabilità della distanza uno dei compiti principali della comunità; questa si realizza nel contato fisico e telefonico con i propri genitori, nel sostenere il bambino nella rappresentazione del legame e nella narrazione di storie condivise che si intrecciano e rassicurano dove ciò che si fa oggi in comunità, piò essere visto domani dai propri genitori. Un bambino viene così sostenuto nella vita quotidiana lontana dai suoi genitori a perseguire i suoi obiettivi evolutivi (giocare, esplorare ecc) e allo stesso tempo mantenere e costruire il legame con i familiari senza doversi “congelare” affettivamente e senza dover rinunciare all’esperienza vitale, diritto innegabile di ogni individuo. Capitolo 7 La progettazione educativa partecipata: l’impiego della scheda informatizzata per la realizzazione del progetto educativo individualizzato 1.Introduzione La narrazione di storie aiuta a trovare un senso agli avvenimenti; le narrazione riguardanti l’autobiografia e la storia della propria famiglia sono costituita dal patrimonio interiorizzato di parole, script, schemi mentali e comportamentali, esperienze vissute nel corso dei processi evolutivi relativi la costruzione del sé. Secondo Stern i modelli narrativi possono riguardare anche elementi che non hanno mai fatto parte dell’esperienza diretta della persona, ma vengono tramandati attraverso le narrazioni familiari, i miti, i segreti, i racconti. Dagli anni 6°, Sandler e Rosenblatt mettono in luce come il bambino si costruisca e strutturi le rappresentazioni provenienti dalle diverse fonti, organizzandole in modo che abbiano un significato per lui accessibile; la modalità con cui il bambino costruisce la rappresentazione del proprio mondo interno è stato oggetto di molti studi negli anni successivi: ancora Stern evidenzia come la costruzione di un sé narrativo sancisca un’importante tappa dello sviluppo infantile e l’acquisizione del linguaggio faccia maturare la capacità di narrare la propria storia, creando così una distinzione tra l’azione del pensare e quella del narrare. Nel contesto delle comunità la progettazione educativa offre ai bambini ed ai ragazzi un’opportunità per narrare e ri-narrare a se stessi la propria storia e fornisce all’educatore la possibilità di costruire insieme a loro uno spazio di ascolto delle esperienze vissute, dei propri desideri e delle proprie necessità creando l’occasione per trovare nuove soluzioni e vie d’uscita dalle avversità che la vita pone lungo il cammino. La metodologia di lavoro presentata in questo capitolo si basa sul concetto di scaffolding ovvero consente di predisporre un’impalcatura mediante la quale poter facilitare il raggiungimento di compiti ed obiettivi a medio o lungo termine, tramite la co-costruzione partecipata del percorso e la possibilità di rimodulare in itinere i piccoli obiettivi; questi all’inizio devono essere più possibile perseguibili, con un’alta probabilità di successo al fine di far raggiungere al soggetto la consapevolezza di riuscire a raggiungere uno scopo prefissato e il senso di autostima. La co-costruzione di un progetto educativo individualizzato e tutti i momenti di colloquio ad esso correlati legati rappresentano un momento di cura per eccellenza: è il momento in cui “la comunità si ferma per me” e rappresenta in sintesi il momento in cui il bambino o il ragazzo è posto al centro dell’attenzione e dell’ascolto. L’utilizzo delle scheda informatizzate inoltre consente di rendere la progettazione con modalità efficaci e intuitive che ne permettono la comunicazione degli andamenti. 2. La costruzione della progettazione educativa 2.1 Con l’adolescente La prima fase è costituita da un momento di co-costruzione degli obiettivi, svolta attraverso alcuni passaggi fondamentali. Inizialmente deve avvenire un colloquio profondo tra l’educatore e il ragazzo, per definire insieme quali obiettivi il ragazzo si prefigge e come pensa di raggiungerli grazie al suo impegno e a quello che, nell’opinione del ragazzo, può essergli necessario da parte dell’educatore. Gli obiettivi selezionati devono rispondere ad alcuni criteri necessari: devono essere pertinenti, perseguibili attraverso azioni osservabili e raggiungibili nel tempo che si trascorre in comunità. Questo primo processo consente di incrementare la capacità di planning dell’adolescente, il suo esame di realtà in una condizione interpersonale (la condivisione di impegni reciproci con gli educatori) che gli consente di sentirsi supportato (funzione di scaffolding) e di valere agli occhi di qualcuno che si impegna con lui per il suo futuro (funzione di rispecchiamento). A ciò segue la lista delle azioni predisposte appositamente per raggiungere ciascun obiettivo da parte del ragazzo e la lista delle azioni facilitanti da parte degli educatori per sostenerlo. In questa fase è importante domandarsi “Quali sono i fatti e i comportamenti che permettono di dire che il ragazzo sta perseguendo un obiettivo o se ne sta allontanando?” L’educatore stilerà insieme al ragazzo una lista di atti professionali, ovvero le azioni, messe in atto dall’educatore, che aiutano il raggiungimento dell’obiettivo, chiedendosi insieme a lui: “ Che cosa posso fare io educatore e noi equipe educativa per facilitare il raggiungimento di questo obiettivo che tu ti sei dato e che assieme abbiamo definito come pertinente, raggiungibile e osservabile?”. Dopodichè l’educatore che ha condiviso il processo
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