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“PSICOPATOLOGIA DELLO SVILUPPO. MODELLI DI INTERVENTO CON BAMBINI E GENITORI NELLA PRATICA PSICOANALITICA” (Angeli, Panarello, 2018), Sintesi del corso di Psicopatologia

Riassunto “PSICOPATOLOGIA DELLO SVILUPPO. MODELLI DI INTERVENTO CON BAMBINI E GENITORI NELLA PRATICA PSICOANALITICA” (Angeli, Panarello, 2018)

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 09/12/2019

Laura19942
Laura19942 🇮🇹

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Scarica “PSICOPATOLOGIA DELLO SVILUPPO. MODELLI DI INTERVENTO CON BAMBINI E GENITORI NELLA PRATICA PSICOANALITICA” (Angeli, Panarello, 2018) e più Sintesi del corso in PDF di Psicopatologia solo su Docsity! “PSICOPATOLOGIA DELLO SVILUPPO. MODELLI DI INTERVENTO CON BAMBINI E GENITORI NELLA PRATICA PSICOANALITICA” (Angeli, Panarello, 2018) Capitolo 1 Modelli e definizioni della psicopatologia dello sviluppo Studiamo la psicopatologia della prima infanzia perché viene considerata un’epoca centrale per comprendere le patologie che emergono dopo. Infatti questi sono anni centrali per i processi evolutivi dell’individuo. Fin dalla nascita, il benessere e i processi evolutivi si fondano su due aspetti, cioè le caratteristiche dell’individuo e il contesto di appartenenza. Premesso questo si possono quindi identificare tre modelli evolutivi differenti, quali il modello del tratto, il modello ambientale o contestuale e il modello interazionale.  Il modello dei tratti si fonda sul presupposto che un tratto di personalità evidenziato durante l’infanzia dell’individuo permetta di prevedere il suo sviluppo successivo. Questo tratto potrebbe avere base innata oppure genetica o ancora potrebbe essere acquisito dall’individuo attraverso l’apprendimento. Il tratto non ha un carattere interattivo e non è influenzato dall’ambiente. questo modello porta con sé una serie di problemi metodologici però perché per risalire al tratto di personalità ci si affida a ricerche retrospettive, inoltre i gruppi di ricerca sono ridotti e infine la definizione dei costrutti non è unitaria ma molteplice. Inoltre è impossibile in questo modello riconoscere una relazione causale tra il tratto e il successivo esito psicopatologico perché entrano in gioco molteplici fattori che si inseriscono nella relazione: si parla quindi di interazione tra questi fattori e non di relazione causa-effetto. Per poi rapportare lo stato psicopatologico rivelabile nell’infanzia e l’esito psicopatologico rilevabile nel corso della vita bisogna prendere in causa due situazioni distinte: ci si riferisce a una continuità omotipica nel momento in cui le manifestazioni hanno le stesse caratteristiche cliniche nei due diversi momenti, mentre ci si riferisce a una continuità eterotipica nel momento in cui il quadro clinico si modifica nel tempo.  Il modello ambientale si sviluppa sul presupposto che l’ambiente influenzi lo sviluppo dell’individuo e provochi l’insorgenza della psicopatologia. L’ambiente influisce sullo sviluppo dell’individuo attraverso due meccanismi, quali i rischi prossimali e i rischi distali. Quando si parla di rischi prossimali s’intendono dei meccanismi direttamente implicati, come le dinamiche familiari e la relazione madre-bambino; quando invece si parla di rischi distali s’intendono dei meccanismi che aumentano la probabilità di avere dei rischi prossimali, come i fattori sociali quali la povertà ad esempio. Le influenze ambientali - in termini di rischi prossimali - intervengono nello sviluppo cerebrale, quindi considerevolmente nel periodo prenatale e nei primi anni di vita. A proposito dell’influenza ambientale sullo sviluppo cerebrale possiamo distinguere le expectant experiences dalle dependent experiences: le prime sono iscritte nel nostro patrimonio genetico e sono dei possibili circuiti cerebrali che vengono stabilizzati dalle esperienze ambientali (ad esempio possiamo parlare in questo caso della predisposizione del neonato all’attaccamento che però si stabilizza solo nel momento in cui il bambino interagisce con l’altro e che ha base nella corteccia orbito-frontale), mentre le seconde sono esperienze nuove e impreviste (ad esempio potremmo parlare delle esperienze con i pari che comportano la creazione di nuovi circuiti cerebrali). Per quanto riguarda le influenze ambientali sul comportamento individuali si possono distinguere le influenze condivise (shared) da quelle non condivise (not shared): le prime riguardano le influenze familiari sui figli (come il clima affettivo, la condizione economica, le regole familiari) mentre le seconde riguardano le influenze vissute in modo specifico dal singolo individuo (come la frequenza scolastica, i compagni e gli amici, un trauma specifico o un ricovero in ospedale). Resta da stabilire quali di queste esperienze influenzino maggiormente lo sviluppo dell’individuo e quindi abbiano un peso maggiore nell’insorgere di una psicopatologia: per il momento non c’è una risposta unitaria, si pensa più che altro a un’interazione tra le varie esperienze, anche se la maggior parte delle ricerche ha privilegiato lo studio delle influenze condivise e solo recentemente si è pensato maggiormente a quelle non condivise.  Il modello transazionale o interazionale si fonda sul presupposto secondo il quale lo sviluppo del bambino è determinato sia dalla caratteristiche dello stesso bambino sia dall’ambiente. Avviene quindi una sorta di trasformazione: infatti i tratti e l’ambiente interagiscono e producono comportamenti nuovi e che si trasformano (modello trasformazionale). Si definisce modello trasformazione perché ci si riferisce a un pattern interazionale circolare per cui il bambino influisce sull’ambiente e a sua volta l’ambiente influisce sul bambino. Un esempio di questo modello è la comunicazione madre-lattante: i pattern interattivi costituenti sono il continui e reciproco adattamento degli interagenti, la co-regolazione, la condivisione delle espressioni emozionali e i comportamenti ripetuti. La co-regolazione diadica consiste in pattern d’interazione condivisa che tendono a ricorrere e a divenire relativamente stabili, acquisendo un significato condiviso dai due partner. Queste cornici di significato dell’esperienza intersoggettiva costituiscono i frame che sono definiti dalla direzione dell’attenzione di ciascuno dei due partner, dal luogo in cui avviene l’interazione, dalla distanza o lontananza fisica tra i due partner, dall’orientamento posturale reciproco dei partner e dall’attività congiunta. La qualità dell’esperienza soggettiva dipende dalla flessibilità dei frame. Infatti se i frame sono flessibili, i partner possono adattarsi a situazioni diverse e affrontare i cambiamenti che caratterizzano le diverse fasi dello sviluppo; se invece i frame non sono flessibili. Quando si violano le aspettative che si verificano tra i due partner e i fallimenti interattivi che ne possono derivare interviene il principio di rottura e di riparazione. I fallimenti che adulto che comprende diverse sfumature e struttura il set di sfumature del bambino. Una sensibilità poco adeguata genera il fatto che il bambino non strutturi adeguate competenze che riguardano le proprie sfumature di bisogno: ciò quindi è un problema anche a livello del sé del bambino. Dicevamo che alcuni autori hanno definito alcune delle caratteristiche che soprattutto l’adulto deve avere quando entra in interazione con un bambino. o La prima caratteristica è la sensitivity cioè la sensibilità ovvero la capacità di cogliere le richieste del bambino e di comprenderne il significato. Il concetto di sensibilità rimanda all’idea di un adulto come una sorta di lettore accurato dei segnali provenienti dal bambino, cioè qualcuno che sa capire quando il bambino sta facendo delle richieste. È una delle basi centrali della qualità dell’interazione adulto-bambino: se l’adulto non comprende il significato del segnale, l’interazione avrà delle caratteristiche difficili. Il bambino, in risposta a questa mancanza di sensibilità, potrebbe scegliere una strada in cui continua costantemente a segnalare e a enfatizzare i propri bisogni: si tratta però di una strada che può essere rischiosa perché la presenza di un adulto insensibile potrebbe far sentire il bambino inadeguato a ricevere le cure di cui necessita. Un bambino che ha un adulto poco sensibile potrebbe invece scegliere un’altra strada, cioè arrendersi e smettere di mandare segnali. Il fatto che il bambino non lanci più segnali potrebbe far pensare che il bambino non abbia più bisogno ma non è così, semplicemente si adegua alla mancanza di un adulto che non risponde alle sue richieste. Il problema di questa strada intrapresa dal bambino è che, differentemente dall’adulto, egli se smette di segnalare non può rivolgersi a qualcun altro e quindi può provare e dovrà farcela, cavarsela da solo. La domanda clinica è perché l’adulto non è sensibile, cioè non è in grado di cogliere i segnali del bambino e di rispondere? I motivi possono stare nella storia affettiva della mamma, nella relazione di coppia mamma-papà, nelle caratteristiche del bambino. Certo è che la carenza di sensibilità è un importante fattore di rischio sia per l’interazione adulto-bambino sia per lo sviluppo del bambino stesso. o La seconda caratteristica adattiva che dovrebbe possedere un adulto che interagisce con un bambino è la responsivity cioè la responsività ovvero la capacità dell’adulto di rispondere adeguatamente alle richieste del bambino. L’adulto può provare a rispondere se ha capito la domanda, quindi se c’è una carenza di sensibilità, la responsività non sarà buona. Ma cosa significa essere capaci a rispondere?  Una delle caratteristiche adeguate a rispondere al bambino è la capacità dell’adulto di fornire una risposta adeguata all’età del bambino, quindi è come se l’adulto nella sua mente dovesse avere un’idea di cosa ha bisogno e di ciò che sa fare un bambino di quell’età.  L’età anagrafica però non è l’unico punto di riferimento. Infatti l’adulto responsivo deve avere, sì, una rappresentazione della competenze di un bambino di una certa età, ma anche una rappresentazione delle competenze del bambino in quanto tale, di quel bambino tenendo conto del suo livello evolutivo.  E ancora la buona responsività non si calibra solo sull’età e sullo sviluppo del bambino ma anche sulle sue caratteristiche individuali. Quanto più i bambini sono piccoli tanto più le differenze individuali possono essere marcate e non si tratta soltanto di differenze dal punto di vista delle prestazioni e delle competenze evolutive ma anche di differenze nelle caratteristiche specifiche (psichiche e relazionali) del bambino.  L’ultimo aspetto della responsività riguarda il temperamento: il temperamento riguarda una serie di caratteristiche a base innata, biologicamente determinate, che rimangono stabili (in qualche modo) per tutto l’arco della vita - infatti sono le caratteristiche che meno si modificano attraverso l’incontro con l’ambiente. A grandi linee la letteratura ci indica le caratteristiche dei bambini facili e di quelli difficili dal punto di vista temperamentale. E in base a questa distinzione, non si può trattare un bambino difficile come uno facile e viceversa. o La sintonizzazione degli affetti o affettiva è l’altra caratteristica centrale per definire l’adeguatezza delle interazioni adulto-bambino: è un concetto introdotto da Stern e si tratta della capacità dell’adulto di mettersi in sintonia con gli affetti e le emozioni espressi dal bambino. Il concetto di sintonizzazione non è sinonimo di contagio emotivo. La sintonizzazione è la capacità di rimandare al bambino una corretta percezione di quello che gli sta accadendo e una corretta tonalità emotiva: ha a che vedere con la capacità di mettersi in linea con l’altro. La sintonizzazione è importante perché il bambino capisce meglio ciò che gli è successo e la portata dell’accaduto, capisce come si sente e anche se è adeguato a quello che gli sta accadendo, quindi comincia a creare associazioni tra l’esperienza, la percezione di questa, le emozioni legate all’esperienza e il nome delle emozioni. Ci sono però delle emozioni con cui l’adulto fa più fatica: a proposito di queste, sarà più difficile che l’adulto le identifichi e le gestisca in altri, nel bambino in questo contesto. Ma ognuno di noi ha una gamma emotiva che può essere più difficoltosa di un’altra. La difficoltà nella sintonizzazione infatti sta in queste emozioni e anche nelle emozioni negative che l’adulto tenderà a tenere distanti dal bambino. Ma un buon adulto di riferimento si sintonizza su tutta la gamma di emozioni. o Anche alcune caratteristiche spazio-temporali sono importanti: una di queste è il timing cioè il rispettare le tempistiche di dialogo nell’interazione con il bambino. Il timing ha a che vedere con la capacità di alternare i turni di dialogo, ha a che vedere con una sorta di circolarità. Il timing è un aspetto temporale dell’azione nel qui e ora. C’è il turno nell’interazione, nelle coccole, negli sguardi e nella comunicazione. C’è un tempo per stare nell’interazione. Essere in interazione può significare anche solo essere presenti e ascoltare, non necessariamente fare qualcosa. L’altra variabile è lo spazio, la distanza: una buona interazione si fonda su una buona posizione e distanza specifica tra i partecipanti all’interazione. La posizione adeguata per un’interazione adulto-bambino è una posizione faccia a faccia, meglio se alla stessa altezza - è l’adulto ad abbassarsi al livello del bambino, in particolare sarebbe meglio se l’adulto non s’inchinasse ma si accucciasse. La posizione reciproca è un aspetto strutturante della qualità dell’interazione: se si sbaglia la posizione reciproca potrebbero esserci in futuro dei problemi interattivi sul piano della comunicazione. Per un neonato la distanza è quella di allattamento. Noi abbiamo quindi degli aspetti di base e strutturanti dell’interazione che sono rappresentati dallo spazio e il tempo al primo livello, poi dalla sensitivity e dalla responsivity al secondo livello e come terzo livello dalla sintonizzazione degli affetti. Per una buona interazione dovrebbero funzionare tutti questi livelli: quando qualcosa va storto, in qualsiasi livello o in più di uno, noi assistiamo a una rottura interattiva, quindi la circolarità delle interazioni s’interrompe. Il tentativo di ripristinare l’interazione che va a buon fine viene chiamato riparazione, in pratica si tratta di risolvere una situazione di difficoltà con l’altro. In tutte le interazioni siamo partecipi di momenti di rottura, però la differenza tra una buona interazione e una che non andrà a buon fine è proprio la capacità di riparare agli errori. Consideriamo le interazioni una delle basi fondamentali dei processi evolutivi a lungo termine dell’individuo: l’ipotesi centrale di questo approccio (interattivo-relazionale) è che la qualità di queste interazioni sia uno dei fattori predominanti che influenza i processi evolutivi a breve e a lungo termine, prendendo in considerazione anche le caratteristiche individuali. Chi ha sperimentato un modello interattivo-relazionale inadeguato tenderà a riprodurlo ogni volta in cui si troverà in interazione con chi ha bisogno di cure. Questo è importante perché sposta il focus dalla patologia dei genitori alle relazioni patologiche che hanno sperimentato i genitori: l’idea centrale con cui venivano studiate le interazioni adulto-bambino fino a 20 anni fa era che adulti con patologie dovessero essere cattivi genitori; indipendentemente dall’individuo si possono trovare adulti che hanno sviluppato relazioni patologiche. Anche adulti che non esprimono una patologia ma che abbiano un funzionamento individuale adeguato non sono al sicuro riguardo al fatto di stabilire un legame non patologico con il bambino. Quindi un genitore con una patologia può essere un buon genitore e un genitore senza patologia potrebbe sviluppare relazioni non adeguate con il dell’adulto, quindi è strettamente dipendente dalla qualità delle cure ricevute precocemente dall’adulto quando lui era bambino. La qualità delle cure fornite alle altre persone, in particolare al bambino molto piccolo - si parla di funzione genitoriale -, dipende strettamente anche dal funzionamento di alcune aree dell’adattamento sociale dell’individuo: alcuni studi, ad esempio, ci dicono che le mamme che percepiscono una buona soddisfazione nell’ambito lavorativo migliorano nel rapporto con il bambino. Infatti una sensazione di competenza e di autoefficacia dal punto di vita personale sembra supportare la qualità delle cure che i genitori forniscono ai bambini: questa è una prima area dell’adattamento sociale che influenza la funzione genitoriale. L’altra area che riguarda l’adattamento sociale è il costrutto che ha a che vedere con la percezione che ognuno di noi ha della disponibilità di una rete sociale, riguarda cioè quanto ci sentiamo inseriti in una rete di riferimento che può essere attivata al bisogno. È una caratteristica che sembra legarsi allo svolgimento della funzione di cura perché ha a che vedere con la percezione del fatto che se c’è bisogno sappiamo a chi rivolgerci; infatti essere isolati ed estranei al contesto è un fattore di rischio. Lo svolgimento della funzione di cura, soprattutto verso i figli, dipende anche dalla qualità della relazione di coppia: la qualità della relazione con il partner potrebbe essere un fattore protettivo per lo sviluppo del bambino, infatti agisce come mediatore. Inoltre lo svolgimento della funzione di cura e lo sviluppo del bambino non si sovrappongono alla composizione del nucleo familiare: la capacità del prendersi cura del bambino prescinde dall’appartenenza di genere, eventualmente è legata all’appartenenza di ruolo - non è quindi importante se un bambino sia figlio di una coppia gay o lesbica o se lo sia di una coppia eterosessuale. Quando parliamo di qualità della relazione di coppia dobbiamo avere in mente due livelli: il primo è la funzione coniugale che ha a che vedere con la relazione tra i partner. La relazione coniugale dovrebbe essere una relazione simmetrica e reciproca e l’asse motivazionale che conduce a stabilire relazioni di coppia e a mantenerle è biologicamente l’asse della sessualità e della riproduzione: si tratta appunto dell’asse coniugale. Quando invece una coppia cede alla genitorialità introduce nella configurazione della relazione di coppia l’asse co-genitoriale: in questo caso i due adulti devono convergere entrambi verso il bambino. La funzione co-genitoriale è una funzione irreversibile, a differenza della funzione coniugale che è reversibile. La co-genitorialità è molto studiata perché sembra avere un impatto importante sullo sviluppo del bambino a breve e a lungo termine e soprattutto viene studiata nella transazione alla prima genitorialità. I conflitti della co-genitorialità infatti sono quelli che hanno più incidenza nello sviluppo del bambino. Capitolo 4 Psicopatologia genitoriale e implicazioni per lo sviluppo La ricerca ha indagato soprattutto alcuni gruppi clinici perché i gruppi studiati di genitori clinici hanno una serie di fattori di rischio che possono intervenire e colpire la capacità di prendersi cura del bambino. Queste ricerche hanno alcuni limiti: uno di questi è che si occupano quasi esclusivamente delle mamme e non hanno dato grande spazio ai papà e un altro limite è che si sono focalizzate su gruppi di genitori con patologie individuali e non che hanno relazioni patologiche e non sempre esistono dati che, a fianco della patologia individuale del genitore, abbiamo indagato la qualità dell’interazione mamma-bambino. Ci sono molte ricerche che hanno come campioni le mamme con depressione e quelle con dipendenza da sostanze.  Abuso di sostanze - Mamme tossicodipendenti. La tossicodipendenza è l’abuso di una o più sostanze che abbiamo un impatto sul funzionamento del nostro corpo, nello specifico sul funzionamento del sistema nervoso e quindi sul comportamento, sulle emozioni, sulla percezione. La tossicodipendenza ha a che vedere con due componenti: una ha accezione psicologica ed è la dipendenza, l’altra ha a che vedere con una sostanza che altera il funzionamento cerebrale dell’individuo, quindi tutto il suo funzionamento. Una caratteristica delle donne tossicodipendenti (prevalentemente dipendenti da eroina e un po’ da cocaina) è un’alterazione del sistema ormonale, che causa loro assenza di ciclo mestruale e assenza della percezione del funzionamento del proprio corpo dal punto di vista ormonale. Questa assenza a livello mestruale aveva generato il pregiudizio che le donne tossicodipendenti fossero sterili: si tratta di una falsa credenza perché le alterazioni ormonali esistono ma non sono tali da compromettere l’incidenza della gravidanza. L’assenza di ciclo mestruale però non allerta queste donne riguardo alla gravidanza. Siamo di conseguenza di fronte a donne che scoprono lo stato di gravidanza in un momento della gravidanza molto avanzato, oltre il limite che la legge pone rispetto all’interruzione volontaria e legale della gravidanza, quindi non è più possibile scegliere se tenere o meno il bambino. Siamo di fronte a gravidanze che per lungo periodo sono andate avanti sotto l’uso di sostanze, quindi siamo di fronte a gravidanze ad alto rischio. Siamo di fronte a gravidanze in cui non è riconosciuto o riconoscibile il padre perché spesso le donne tossicodipendenti fanno uso e abuso della prostituzione. Si tratta quindi di gravidanze troppo brevi nel senso che il tempo che corre tra il riconoscimento della condizione di gravidanza e l’evento del parto - cioè l’incontro con il bambino reale - è poco. L’uso di sostanze in gravidanza genera nel bambino l’assunzione di sostanze: si tratta quindi di bambini che nascono tossicodipendenti, cioè dipendenti dalle sostanze che ha assunto la madre durante la gravidanza. Esiste, a tal proposito, la sindrome di astinenza neonatale: i bambini hanno delle vere e proprie crisi di astinenza da sostanze perché l’assunzione di sostanze s’interrompe con la nascita e loro quindi risentono dell’astinenza. Grazie a questo assorbimento di sostanze, i bambini nascono con una fragilità e con caratteristiche comportamentali differenti, legate all’assunzione di sostanze da parte della madre durante la gravidanza. Si tratta di bambini che sono stati sensibilizzati alle droghe nella costruzione stessa della vita; persino dal punto di vista biologico sono diversi. Si tratta da subito di gravidanze a rischio e bambini ad alto rischio: ciò non vuol dire che tutto andrà perduto però da un punto di vista biologico, relazionale e contestuale siamo di fronte a bambini con caratteristiche peculiari. Il disturbo da tossicodipendenza nel DSM-IV TR è nell’asse I, si tratta quindi di un disturbo sintomatologico; questo disturbo è però sottostante a un disturbo di personalità. La prima patologia, che è la dipendenza, si colloca nell’asse I e la seconda patologia in comorbilità, cioè in associazione (parliamo del disturbo di personalità) si colloca nell’asse II. Quando la comorbilità o doppia diagnosi coinvolge patologie nell’asse II siamo di fronte a persone con un disturbo di personalità, quindi un disturbo strutturale, e un disturbo sull’asse I. I disturbi di personalità, siccome definiscono la struttura stessa dell’individuo, sono i disturbi più complessi e sono anche tra i più gravi disturbi, quindi se una persona ha anche questo disturbo siamo di fronte a una costellazione psicopatologica molto complessa e difficile da curare. Un tema centrale in queste psicopatologie è la storia psicopatologica della madre. I ricercatori hanno trovato nella storia in età scolare di questi soggetti (sia maschi - padri - che femmine) due costellazioni di fattori importanti: da una parte fattori traumatici o abusi e dall’altra disturbi legati al comportamento di iperattività (vicini al disturbo ADHD) o all’area scolastica. Nella storia di questi individui precocemente ci sono racconti che fanno pensare a un disturbo diagnostico della regolazione: i disturbi della regolazione sono disturbi a insorgenza precoce perché vengono classificati da 0 a 3 anni e hanno a che vedere con la difficoltà del bambino relativa alla regolazione del flusso di informazioni tra l’interno e l’esterno, valido sia a livello psichico sia a livello del comportamento sia a livello corporeo. Si parla di bambini con una reattività mal regolata rispetto agli stimoli ambientali e che quindi forniscono risposte a livello ambientale mal regolate. L’idea è che esista una classe di bambini che, nati con caratteristiche di mal regolazione non riconosciute nei primi tre anni di vita, portino in età scolare a possibili sintomi che riguardano il comportamento, l’attenzione e l’apprendimento. Da disturbo precoce di regolazione si transita attraverso disturbi del comportamento, dell’attenzione/iperattività e dell’apprendimento e si arriva a disturbi legati alle sostanze e a disturbi più complessi legati alla personalità. Tant’è vero che i ricercatori ipotizzano che l’uso di sostanze venga utilizzato da questi soggetti come un tentativo esterno di regolazione. Questa ipotesi non è stata ancora verificata però. Siccome i processi evolutivi che si riferiscono a donne e uomini sono diversi, occorre capire se nell’evoluzione sana o psicopatologica ci sono degli aspetti che derivano dal genere. Alcune differenze sono legate al fatto che le donne presentano spesso quadri clinici molto più complessi, più spesso presentano esperienze precoci di trauma e di abuso sessuale (più frequentemente rispetto al trauma). Inoltre c’è un accesso all’uso delle droghe differente tra i due sessi nel senso che uno dei meccanismi più tipici con cui le ragazze accedono all’uso di sostanze è il legame con un partner tossicodipendente, partendo con una sorta di meccanismo “Io ti salverò” che significa che Non esiste in questo contesto un senso di autonomia che prepari a prendersi cura di un bambino e a peggiorare la situazione c’è anche una mancata indipendenza economica da parte della giovane coppia o della giovane mamma. E non prendendosi cura di sé è difficile prendersi cura degli altri. Si sviluppa quindi, tra i genitori e il bambino o tra la singola madre e il bambino, una relazione paritaria e simmetrica, come se si trattasse di due bambini. Date tutte queste caratteristiche, i rischi sono le condizioni in cui nasce il bambino e la relazione con la mamma (in questo caso il rischio è che si sviluppi un modello relazionale scorretto, cioè simmetrico dove la mamma o entrambi i genitori si pongono alla pari del bambino). Il bambino rischia di essere un “gioco” di una bambina un po’ più grande: la mamma può essere anche molto affettiva, ma è come se il figlio fosse un bambolotto che se piange non viene tollerato. Il rapporto però funziona fino a quando le richieste non superano le possibilità della madre di farvi fronte (ad esempio lo stare sveglia tutta la notte). Il bambino e la mamma devono entrambi svilupparsi: si è nel caso in cui ci sono due sistemi evolutivi con bisogni e necessità che l’altro non può soddisfare. La coppia madre-bambino ha quindi bisogno di un terzo che si prenda cura di loro. Il tema centrale di questa situazione è però la difficoltà di protezione che esperisce il genitore nel prendersi cura del bambino perché i processi di crescita devono ancora svilupparsi. Quindi cosa fare? Esistono comunità, case-famiglia oppure si può vagliare l’ipotesi del riassorbimento da parte della famiglia di origine della madre, ma solo se la situazione è mediamente buona e se questa famiglia è valida e presente. Inoltre il periodo post- parto è spesso caratterizzato da depressione a causa dei nuovi ritmi che mettono in difficoltà la madre sia fisicamente che mentalmente. Si tratta più che altro di difficoltà dovute ad esempio a mancanza di sonno o ad aspetti ormonali. Queste mamme hanno anche grande difficoltà a comprendere le richieste del bambino che variano in ogni momento dal giorno alla notte. L’investimento fisico e psichico è molto importante: l’allattamento necessita di investimento di questo tipo perché comporta sforzo e stanchezza. La mamma depressa manca nella funzione del rispecchiamento: la mamma depressa ha infatti un rallentamento dei movimenti, la voce bassa, lo sguardo cupo e un’emotività appiattita (tutto ciò rispecchia la stanchezza a livello non solo fisico). Il bambino percepisce le difficoltà della mamma: infatti a lui ritorna una lettura attutita delle sue emozioni. In sostanza le caratteristiche della madre passano nell’interazione, che a sua volta diventa depressiva e attutita (il che è un fattore altissimo di rischio): si parla appunto di valenza depressiva della relazione. Si parla a questo proposito di paradigma dello stillface (ovvero “volto immobile”). Il bambino dimostra di capire il cambiamento tra quando la mamma interagisce normalmente e quando invece rimane con il volto immobile. I figli di madri depresse, invece di arrabbiarsi quando vedono il volto immobile, cercano inizialmente di “svegliare” la madre e di (ri)attivare l’interazione, ma se la madre persiste immobile il bambino si arrende e viene ingaggiato nel modello interattivo depressivo. Il bambino che non si sente rispecchiato - come in questo caso, quando si è di fronte a una mamma depressa e di conseguenza a una relazione depressiva - entra in inversione dei ruoli (cioè cerca lui di rispondere in modo da riportare la mamma a “uno stato normale) e, se non basta alla fine, si allinea: questo costituisce il principale fattore di rischio per la relazione madre-bambino e per lo sviluppo del bambino stesso. Capitolo 9 Disturbi dell’attaccamento Il sistema dell’attaccamento è un sistema relazionale orientato al raggiungimento di un importante traguardo evolutivo, cioè quello della salvaguardia e della protezione. Il legame di attaccamento serve all’essere umano per garantirsi la protezione dai pericoli, per proteggersi dai pericoli fisici e ambientali: il sistema dell’attaccamento non è un legame affettivo ed emotivo - o meglio non lo è al principio -, ma un legame che ha basi biologiche e si fonda sulla vicinanza fisica, sulla protezione fisica. Gli aspetti emotivo- relazionali si inseriscono dopo, in un momento successivo; dapprima è un legame che si stabilisce per garantire al bambino la sopravvivenza. Per cui è indipendente dal legame biologico e affettivo tra il bambino e l’adulto che deve proteggerlo, l’importante è che l’adulto svolga il suo ruolo di protezione, a prescindere che si tratti della madre o del padre o di un altro caregiver che non ha legame biologico con il bambino. La prima forma di sopravvivenza è la sopravvivenza fisica: in primo luogo abbiamo bisogno di essere vivi, poi - ma solo poi - ci possiamo chiedere come ci sentiamo. Il bambino da subito, dalla nascita ha bisogno di mandare segnali al suo ambiente di riferimento tutte le volte in cui la sua sopravvivenza fisica è a rischio e quindi ha bisogno di una o più figure di riferimento che lo proteggano: di conseguenza ci troviamo di fronte a un bambino piccolo che segnala il pericolo e uno o più adulti che proteggono il bambino. La protezione è fisica e avviene tramite la vicinanza spaziale. I pericoli fisici sono una sorta di anticipazione dei pericoli psichici degli adulti. Una figura di attaccamento per essere tale dev’essere in grado di capire il segnale del bambino (potremmo dire essere sensibili), cogliere il senso del pericolo e rispondere a questo proteggendo il bambino (potremmo dire essere responsivo). Questo in sintesi riguarda la costruzione del legame di attaccamento: cioè il legame di attaccamento si stabilisce ogni volta che il bambino si sente in pericolo. Il legame di attaccamento inizialmente era definito come un costrutto tutto o niente: o c’era o non c’era perché o il caregiver rispondeva oppure no. Tant’è che Bowlby inizialmente aveva ipotizzato che tutti quei bambini che non costruivano legami di attaccamento avrebbero poi sviluppato in età più adulta una psicopatologia. Noi invece oggi sappiamo che l’attaccamento non è un costrutto tutto o niente, ma che, a seconda della segnalazione del bambino e della risposta dell’adulto, adulto e bambino costruiscono uno specifico legame di attaccamento. Il legame di attaccamento ha caratteristiche diverse a seconda del bambino e dell’adulto, cioè a seconda delle differenze individuali: in sostanza il legame di attaccamento si costruisce con delle differenze che dipendono dal bambino e dall’adulto che deve proteggerlo. Lo stesso bambino può costruire legami di attaccamento diverso con i diversi adulti che si occupano di lui, come lo stesso adulto può costruire legami di attaccamento diversi con i differenti figli o con le differenti persone di cui si prende cura. La qualità del legame di attaccamento dipende da quegli specifici bambini e adulti in relazione: si tratta infatti di una qualità intrinsecamente relazionale. La qualità del legame di attaccamento ha un impatto di rischio o di protezione che è strettamente connessa all’ambiente in cui genitore e bambino si trovano, perché ai cambiamenti di contesto una certa qualità di attaccamento potrebbe non avere le stesse buone caratteristiche che aveva nell’altro ambiente.  Attaccamento sicuro. I comportamenti dell’adulto fanno sì che il bambino si senta di nuovo al sicuro, dopo aver vissuto l’esperienza del pericolo. Se questo schema si ripete la gran parte delle volte in cui il bambino si trova in pericolo, il bambino si sentirà sicuro che l’adulto interverrà per toglierlo dal pericolo. Così si sviluppa l’attaccamento sicuro. Infatti l’attaccamento sicuro si costruisce da un’esperienza del bambino di protezione ripetuta tutte le volte che lui ha segnalato un pericolo. In questo modo il bambino inizia a imparare che tutte le volte che lui si sente in pericolo c’è qualcuno che lo protegge: in generale inizia a imparare che nella vita quando si chiede protezione in qualche modo la si ottiene. Il bambino comincia anche, da una parte, a crearsi un modello mentale che guida la sua idea di relazione e, dall’altra parte, inizia a costruirsi un modello mentale di sé: della serie “io sono un bambino che merita di essere protetto quando ne ho bisogno”. Questo è il motivo per cui l’attaccamento sicuro è quello preferibile perché da una parte veniamo protetti e quindi il legame favorisce lo sviluppo e dall’altra parte perché consente all’individuo di costruire l’idea di se stesso e anche dell’altro, - quest’ultimo come qualcosa che dà benessere. Questo schema però ha una funzione protettiva solo in una condizione di ambiente stabile. L’attaccamento sicuro è il modello di attaccamento più adattivo e protettivo dentro a un contesto affettivo-relazionale stabile: se il contesto invece si stravolge non è detto che le aspettative del bambino di protezione siano soddisfatte e quindi non è detto che l’attaccamento sicuro sia il modello migliore.  Attaccamento evitante. Ci sono altri modi per adattarsi al contesto, diversi da quello costituito dall’attaccamento sicuro. Infatti il bambino se l’adulto non risponde in maniera adeguata può continuare a segnalare andando incontro al rischio che l’adulto diventi una fonte di pericolo perché si spazientisce, intraprendendo una strada negativa. La strada positiva invece viene intrapresa quando il bambino impara a segnalare sempre meno e impara in sostanza a cavarsela da solo. In questo caso si tratta di bambini che di fronte alla segnalazione di pericolo hanno ricevuto da parte dell’adulto un messaggio che indica il fatto di cavarsela da soli. Sono quindi bambini che imparano a non segnalare troppo e a cavarsela da soli: sono bambini con attaccamento evitante, che manifestano presto un’autonomia di fronte al pericolo. In realtà sembra che questi bambini se la I disturbi (patologici) dell’attaccamento. Sono disturbi che insorgono al di sotto dei cinque anni di vita perché la relazione d’attaccamento è precoce (si struttura entro il primo anno di vita e tra il primo e il secondo anno di vita). Le patologie dell’attaccamento sono a insorgenza precoce perché quella è la fascia critica di sviluppo del legame di attaccamento. Sono disturbi tipici di una relazione specifica, cioè si possono verificare soltanto dentro a una relazione con una specifica figura adulta. Infatti non possiamo generalizzare le caratteristiche di una relazione a tutte le relazioni. La definizione dei disturbi dell’attaccamento va a individuare due classi: una classe caratterizzata dall’assenza di attaccamento, cioè dal fatto che il bambino non mostra i segnali tipici di un legame specifico con qualcuno (per esempio non piange alla separazione, non cerca la figura di attaccamento quando ha bisogno) quindi non ha le reazioni che fanno pensare che lui sia legato a qualcuno - parla di pattern inibito; l’altra classe riguarda le situazioni in cui il bambino in situazione di rischio è indiscriminato nella richiesta di protezione, cioè chiede a tutti la protezione, ovvero non ha l’esclusività della relazione con nessuno - si parla di pattern indiscriminato o disinibito. L’idea generale è che il bambino non abbia stabilito un legame con un interlocutore che dovrebbe garantirgli protezione ogni volta che sente di averne bisogno.  Area indiscriminata: attaccamento indiscriminato. Il bambino è indiscriminato nella richiesta di protezione, non manifesta i comportamenti tipici del legame esclusivo con una persona (per esempio la ricerca dell’altro, la mancanza, la protesta alla separazione). È un disturbo dei bambini che non hanno punti di riferimento: questi bambini si attaccano a tutti, ma a nessuno di specifico. Ciò diventa un fattore di rischio quando questi bambini incappano in adulti mal intenzionati! I bambini con attaccamento indiscriminato non hanno una relazione vera e propria con nessuno, ma perché succede questo? Una delle ragioni potrebbe essere che il bambino non ha avuto sufficientemente tempo per costruire un legame intimo e significativo con qualcuno, che non abbia sperimentato cure significative durature nel tempo sempre dalla stessa persona. Insomma nella relazione che questo bambino ha costruito mancano la ripetitività e la continuità: ne sono un esempio i bambini istituzionalizzati e i bambini che cambiano spesso la situazione familiare. Il bambino in sostanza si lega a tutti e a nessuno per non soffrire della perdita. Però se non ci si è mai legati a nessuno, non si sarà capaci di instaurare relazioni e nuovi legami con la crescita. Il tema centrale di questo disturbo è il tempo: solo chi sperimenta l’attaccamento potrà perdere i legami e costruirne di nuovi. L’attaccamento indiscriminato è paradossalmente la scelta più adattiva in un contesto pericoloso che cambia sempre, il costo però di questa scelta è non avere un legame fisso. Questo attaccamento è un fattore di rischio in quanto espone il bambino alla probabilità che persone a cui egli chiede protezione siano per lui un ulteriore fattore di rischio (ad esempio le brutte compagnie in adolescenza). Questi bambini si espongono troppo facilmente, non mostrano segni di diffidenza verso gli sconosciuti, si fanno proteggere da chiunque: diventa così troppo facile trovare anche adulti mal intenzionati! È inoltre un fattore di rischio per maltrattamenti e abusi. Maltrattamento Maltrattamento. Si parla di maltrattamento nel momento in cui il bambino è posto in pericolo fisico e/o psicologico da parte del suo adulto di riferimento: si tratta di adulti che dovrebbero proteggere il bambino e che o non lo fanno oppure addirittura costituiscono la fonte di pericolo.  Maltrattamento fisico. È il caso di bambini che vengono picchiati o puniti eccessivamente. È molto in voga adesso il tema del maltrattamento come pratica educativa in famiglia. Bisogna però tenere conto che in alcune culture queste pratiche sono previste e consentite. Nell’ambito del maltrattamento fisico, si parla di sindrome da shakeramento (dal termine shake, shaker in inglese), con cui s’intende il bambino che viene scosso (ad esempio per farlo smettere di piangere): nei bambini molto piccoli questa azione provoca gravi danni al collo e alla colonna vertebrale che possono anche portare alla morte. Questo tipo di maltrattamento è una forma di maltrattamento attivo.  Maltrattamento psicologico. É connesso al maltrattamento fisico, anche se non in tutti i casi. Nel momento in cui un adulto maltratta un bambino vengono lese l’autostima e le caratteristiche del bambino: il bambino viene screditato e messo all’attenzione degli adulti in modo negativo, anche senza azioni fisiche (ad esempio il bambino viene deriso). Anche in questo caso (come il quello del maltrattamento fisico) si tratta di una forma di maltrattamento attivo. o Maltrattamento assistito. Si parla di maltrattamento assistito quando il bambino è spettatore di altre forme di maltrattamento in famiglia (ad esempio nei casi in cui il padre picchia la madre). È una forma di maltrattamento psicologico che prevede che il bambino sia l’unico “salvo” in un contesto di maltrattamento. Il bambino coltiva in questo situazione una forma d’impotenza perché chi viene maltrattato è qualcuno a cui tiene: da una parte il bambino non può fare nulla per aiutare il maltrattato quindi si sente impotente, dall’altra è contento di non essere coinvolto nella pratica del maltrattamento. Però essere “prescelti” per assistere a una condizione traumatica genera trauma: ciò accade ad esempio ai sopravvissuti ai campi di concentramento o ai sopravvissuti di guerra che manifestano l’insorgenza di patologie nel momento in cui ritornano a una vita normale. Nel caso del maltrattamento assistito, il bambino si sente in colpa per essere scampato al maltrattamento nonostante questo senso di colpa sia inadeguato in quanto deriva da una condizione altamente patogena, cioè una condizione che ha la capacità di provocare fenomeni morbosi. Può infatti generare condizioni psicopatologiche. Bisogna sempre tenere conto che dentro a un carnefice vi sia una vittima! Questa forma di maltrattamento, a differenza del maltrattamento fisico e di quello psicologico, è una forma passiva di maltrattamento, nel senso che il bambino è una vittima indiretta del maltrattamento, quindi il “carnefice” non agisce direttamente sul bambino. Trascuratezza (neglect). È una delle condizioni di crescita dei bambini a più alto impatto psicopatologico, anche rispetto al maltrattamento. Si tratta di una condizione altamente invalidante in cui nessuno si occupa del bambino. È come se il bambino non ci fosse, non esistesse per nessuno. Si tratta di una condizione in cui il bambino non riceve le cure necessarie: ci si riferisce ad esempio ai bambini lasciati a scuola spesso oltre l’orario, ai bambini a cui danno da mangiare in maniera sbagliata, ai bambini che non vengono tenuti puliti. Diversamente da quanto si potrebbe pensare, oltre alla mancanza di cure, anche l’ipercura (quindi l’esagerazione di cure) può diventare trascuratezza: questo succede ad esempio quando al bambino viene dato troppo da mangiare o quando gli viene dato un farmaco per prevenire una malattia di cui in realtà non è affetto. Quando parliamo di trascuratezza o neglect intendiamo tutte le situazioni in cui i bisogni del bambino non vengono letti correttamente, in cui l’adulto fa poco e in modo sbagliato, in maniera duratura e continuativa per prendersi cura del bambino. È come se l’adulto non avesse le capacità di prevedere i bisogni del bambino e quindi di attrezzarlo per quando l’adulto stesso non ci sarà più (ne sono un esempio i bambini che non hanno mai il fazzoletto). Insomma questi bambini crescono in un contesto che non dà loro il materiale per cavarsela da soli. L’intersoggettività nel primo anno di vita L’intersoggettività è una forma di condivisione affettiva che avviene nel momento in il bambino e il caregiver entrano in interazione tra loro. Secondo le ipotesi degli ultimi anni, si è passati da una visione classica dell’intersoggettività (la quale accentuava il carattere meta rappresentazione) a una visione che privilegia il carattere motorio di questa condivisione affettiva. Oltre ad essere cambiato il paradigma relativo all’intersoggettività, è cambiata anche la prospettiva relativa alla partecipazione attiva del bambino alle interazione con il caregiver: se prima si pensava che fosse principalmente l’adulto a dirigere l’interazione, adesso si riconosce il ruolo attivo anche del bambino all’interno dell’interazione. Si parla a questo proposito di un paradigma interazionale sempre più bidirezionale, nel senso che entrambi gli interagenti partecipano attivamente all’interazione. L’interazione infatti si svolge su tre basi: prima di tutto l’adulto fornisce stimoli al bambino, in secondo luogo il bambino risponde all’adulto e infine l’adulto cervello ha un funzionamento non strettamente legato alle azioni del proprio organismo ma un funzionamento che consente a un organismo di capire le azioni di un altro organismo. Sono dei neuroni che servono perché in qualche misura è come se ci dessero la possibilità di capire le intenzioni di altre persone: è come se noi pensassimo che nel nostro cervello ci sono aree che funzionano per farci capire il motivo e le intenzioni delle azioni altrui. Sembrano neuroni che hanno un coinvolgimento in tutte le situazioni in cui dobbiamo cogliere le intenzioni all’interno delle interazioni con qualcuno. I neuroni specchio sembrano una delle aree inerenti all’intersoggettività e sembrano contemporaneamente essere mal funzionanti in tutti i bambini che hanno patologie che coinvolgono l’area dell’interazione. I neuroni specchio ad esempio hanno un cattivo funzionamento nei disturbi dello spettro autistico. Questo cattivo funzionamento è anche uno dei motivi per cui i soggetti con disturbi dello spettro autistico non possono guarire: il fatto è che il mal funzionamento è a livello neurale, organico quindi non riparabile. Le scale della disponibilità emotiva Le scale della disponibilità emotiva danno una misura un po’ standardizzata degli scambi emotivi all’interno delle interazioni. Questo strumento è stato costruito pensando a quanto fosse importante il fatto di vivere bene all’interno di una relazione. Il presupposto di base è di misurare i fattori resilienti, di benessere, le riparazioni dell’interazione, la condivisione emotiva, invece che misurare gli errori interattivi (come succedeva in passato - sta cambiando il modo di vedere la psicopatologia e stanno cambiando i paradigmi): questo perché se misuriamo solo l’aspetto psicopatologico avremmo solo una visione parziale dell’individuo. Si sta quindi passando da una visione della psicopatologia che prende in considerazione gli aspetti negativi e disadattivi a una che guarda principalmente a quelli positivi e adattivi. Questo è importante anche in un’ottica di intervento nel senso che se vogliamo fare un intervento non possiamo non considerare gli aspetti positivi di ciò che andiamo a misurare, perché il nostro scopo è potenziare ciò che funziona, ciò che è efficace nell’individuo e non è possibile fare questa operazione se ci si concentra solo sugli aspetti disadattivi. Inoltre l’aspetto disfunzionale ci caratterizza come unici e prima di essere un sintomo è un modo che abbiamo trovato per adattarci all’ambiente, cioè inizialmente l’aspetto disfunzionale ha anche una funzione protettiva per l’individuo. Si parla infatti di vantaggio secondario del sintomo e ci si riferisce al fatto che ogni volta che esperiamo una situazione negativa c’è sempre anche un vantaggio, una valenza positiva: c’è qualcosa che ci torna utile nello stare male. Anche nella sofferenza psichica c’è un vantaggio, qualcosa di buono. Il costrutto della disponibilità emotiva comunque si focalizza sulla teoria dell’attaccamento, fa riferimento inoltre all’approccio sistemico perché il bambino è all’interno di un sistema (quando parliamo di approccio sistemico non parliamo solo del sistema ambientale ma anche dell’individuo visto come un sistema) e fa riferimento infine al modello transazionale/trasformazionale dello sviluppo. Capitolo 7 - Sindromi disregolative Si parla di disfunzioni dello sviluppo dei sistemi di regolazione. La regolazione consiste in processi biologici e psicologici che si occupano della gestione che ogni individuo ha dello scambio di informazioni tra interno ed esterno. L’autoregolazione in particolare consiste in processi messi in atto per regolare i processi interni: il bambino mette in atto un processo autoregolativo nel momento in cui, ad esempio, sposta lo sguardo se la mamma è troppo vicina a lui. Si parla invece di eteroregolazione quando l’individuo manda segnali all’esterno, verso l’ambiente, creando una comunicazione con l’esterno. Fin dai primi giorni di vita il bambino ha una forte spinta ad autoregolarsi e organizzare la propria esperienza percettivo-esperenziale. In questo processo s’interconnettono pattern caratteristici di regolazione di stato e organizzazione delle risposte comportamentali. La regolazione è importante, quindi, perché coinvolge fin dalla nascita i processi biologici e psicologici. Addirittura nelle primissime fasi i processi biologici e psicologici coincidono. La psiche e il soma (il corpo) coincidono per alcune funzioni: il corpo infatti esprime in maniera diretta ciò che pensa la mente. Da piccoli non si riesce infatti ad esprimere a parole quello che si pensa o che si prova, quindi è il corpo ad esprimerlo. La capacità di esprimere i propri stati interni (come l’individuo si sente ad esempio) compare solo dai 2-3 anni, nonostante il linguaggio compaia prima ed è un processo molto lungo che termina in adolescenza. Questo perché bisogna acquisire la capacità di esprimere ciò che si prova: il processo di acquisizione di tale capacità passa attraverso il fatto di provare qualcosa, di riconoscere quello che si sta provando, di definirlo ed etichettarlo e infine di comunicarlo all’altro. Vista la difficoltà di tale acquisizione si capisce perché, nonostante la crescita, per alcuni individui sia comunque complicato riconoscere ed esprimere certe emozioni. Le funzioni compromesse nei disturbi della regolazione sono il sonno, l’alimentazione e il processamento delle informazioni dal contesto, funzioni fortemente connesse nel processo mente-corpo.  Disturbi della regolazione della processazione sensoriale. Questi disturbi sono recenti nella Classificazione Diagnostica 0-3 (CD 0-3). Quando parliamo di compromissione del processamento delle informazioni dal contesto chiamiamo in causa i sistemi sensoriali perché questi sono implicati nella percezione e nella processazione delle informazioni percettive. Vengono quindi coinvolte le aree che processano le informazioni dall’ambiente: ciò significa anche che sono coinvolti tutti e cinque i sensi (tatto, vista, gusto, olfatto e udito) ma anche la sensazione di movimento nello spazio e la posizione del corpo nello spazio. Si tratta di risposte costituzionalmente determinate agli stimoli sensoriali. Ma a che livello i bambini sono colpiti da questa compromissione? In pratica i bambini hanno un deficit nel processamento delle informazioni sensoriali e nella regolazione delle risposte comportamentali: a volte vengono coinvolti tutti e cinque i sensi ma non sempre è così. Questo deficit può influenzare lo sviluppo cognitivo, emotivo e motorio del bambino perché interferiscono con la possibilità di partecipare alle attività tipiche della sua età. I compiti evolutivi critici per l’adattamento del bambino alle situazioni ambientali sono la precoce regolazione dell’arousal, la capacità di padroneggiare e processare le esperienze sensoriali, la modulazione degli stati fisiologici e della responsività emozionale e la capacità di auto-calmarsi. La sindrome si caratterizza per difficoltà nella processazione sensoriale, difficoltà motorie e uno specifico pattern comportamentale: in base ai pattern comportamentali e alla sensibilità agli stimoli del contesto riconosciamo tre sottotipi della sindrome o Tipo I: ipersensibile, nel momento in cui il bambino è eccessivamente eteroregolato e l’ambiente è troppo intrusivo. Nel bambino ipersensibile il sistema sensoriale è troppo allertato, quindi gli stimoli ambientali lo colpiscono troppo perché egli ha un’alta reattività, è iper-reattivo. Per questi bambini ad esempio le luci delle aule potrebbero essere troppo forti, inoltre è iper-reattivo anche agli stimoli tattili leggeri, ai rumori forti, agli odori o ai gusti non familiari, ai tessuti ruvidi e al movimento nello spazio. Le stimolazioni assumono quindi una valenza negativa. Questi bambini avrebbero bisogno che il mondo intorno a loro abbassasse la soglia della stimolazione: avrebbero bisogno di un mondo a loro misura. A questi bambini sono necessari stimoli intermedi perché essi non si sentano troppo “attivati” e affinchè l’attivazione non sia continua. Questi bambini hanno difficoltà a modulare le risposte agli stimoli sensoriali e hanno anche un’alta tendenza a essere stressati quando cercano di affrontare le proprie risposte “esagerate” agli stimoli. Hanno infatti delle risposte avversive secondo due pattern comportamentali  Tipo A: pauroso/cauto. Il bambino con il comportamento di tipo A risponde agli stimoli sensoriali con paura, freezing (congelamento), grida, tentativi di fuga, aumento della distraibilità, aggressività, scoppi di rabbia e crisi di collera, agitazione motoria, reazioni di sussulto eccessive, tolleranza ristretta alla varietà di consistenza di cibi, odori e gusti. Il bambino è eccessivamente cauto, inibitore e pauroso con pattern comportamentali che mostrano una gamma ristretta di comportamenti esplorativi e assertivi , distress di fronte ai cambiamenti nella routine e tendenza a essere impauriti rispetto alle situazioni nuove.  Tipo B: negativo/provocatore. Questi bambini hanno pattern di reattività identici ai bambini con comportamento di tipo A, però si differenziano per i pattern comportamentali: infatti questi bambini manifestano comportamenti negativisti, diretti a controllare il comportamento degli altri e a provocarli, mostrando comportamenti oppositivi a ciò che è richiesto o atteso. I lattanti presentano persistente irritabilità, difficoltà e resistenza ai cambiamenti; i bambini più grandi mostrano risposte negative ai genitori, frequenti scoppi di rabbia con crisi di collera, con difficoltà di adattamento alle situazioni di transizione, preferendo la ripetitività e l’assenza di cambiamento. o Tipo II: iposensibile/iporesponsivo, nel momento in cui il bambino è eccessivamente autoregolato e ha una bassa percezione degli stimoli ambientali. Ai bambini iposensibili non parte dell’esterno facendolo diventare parte di sé. I disturbi alimentari (un disturbo alimentare è ad esempio l’anoressia che esiste anche nei bambini e prende il nome di anoressia infantile) hanno a che vedere con il rifiuto del bambino a introiettare ciò che è esterno: questo rifiuto si traduce nel fatto che il bambino o si rifiuta di ingerire il cibo oppure lo ingerisce e poi lo espelle (questa ultima modalità ha a che vedere con il rifiuto di “tenere dentro di sé” e non di introiettare nello specifico). Questo rifiuto riflette un’aggressività (passiva) verso l’altro (nel caso del bambino, aggressività rivolta ai genitori che lo assistono durante il pasto), un rifiuto di ciò che proviene dall’altro. Da neonato infatti il bambino rifiuta l’allattamento e di conseguenza la mamma. Difetto di accrescimento (legato all’alimentazione). Il bambino non cresce raggiungendo gli standard previsti per la sua età, il suo peso, il suo genere. Questa mancanza di standard però non è dovuta a un motivo organico. Inoltre non è nemmeno dovuta a una mancanza di cibo perché assumono di questo una quantità adeguata. Probabilmente invece questo difetto è legato all’assunzione delle sostanze presenti nel cibo. Capitolo 8 - I disturbi del comportamento I disturbi del comportamento sono una categoria di patologie molto importante da studiare e da comprendere perché molta letteratura si sta rivolgendo al tema e alle connessioni in senso evolutivo dei disturbi del comportamento nel senso che alcuni lavori di ricerca stanno cercando di individuare delle traiettorie evolutive per cui da precoci manifestazioni che riguardano per lo più disturbi o disfunzioni del sistema regolatorio del bambino si giunge in una fase intermedia dell’infanzia alla manifestazione di disturbi del comportamento con poi esiti anche a lungo termine che riguardano sia alcuni aspetti della strutturazione della personalità sia alcune sintomatologie sul versante antisociale, tossicomane e dei comportamenti di abuso. Quindi i disturbi del comportamento stanno rivestendo una grossa importanza non solo come patologie in sé ma anche come possibili predittori di altre patologie in età successiva e come possibile risultato di problemi riscontrati nella prima infanzia. Il DSM-IV TR definisce queste categorie di disturbi in sei categorie che hanno dentro delle sottocategorie. I disturbi da deficit dell’attenzione e comportamento dirompente (disturbo della condotta e disturbo oppositivo-provocatorio) riguardano dal 50 al 75 % delle consultazioni richieste nell’infanzia, quindi la metà o i tre quarti delle consultazioni che vengono richieste da genitori o insegnanti per i bambini al personale psicologico o neuropsichiatrico riguardano o i temi dell’attenzione o i disturbi del comportamento. Sembra che questi dati siano frutto di una sovrastima quindi dobbiamo pensare che all’interno di questi bambini ci sono bambini che non hanno questa classe di patologie ma che hanno qualcos’altro però che apparentemente noi leggiamo come patologie di questo tipo. È invece il contrario per le patologie riguardanti il disturbo post traumatico da stress nell’infanzia e nell’adolescenza nel senso che noi abbiamo una sottostima del fenomeno perché questi disturbi hanno manifestazioni sintomatologiche diverse che nell’età adulta e manifestazioni che possiamo confondere in certi aspetti con temi che riguardano il comportamento, l’iperattività/attenzione. Noi abbiamo alcune definizioni per quelli che sono i diversi disturbi che rientrano nella classe diagnostica dell’attenzione e del comportamento dirompente.  La prima area diagnostica è quella del disturbo da deficit di attenzione/iperattività. Il primo criterio diagnostico è che si tratta di una manifestazione che compare nei primi 7 anni di vita, cioè prima dei 7 anni perché questo disturbo ha anche una base biologica. L’altro aspetto (secondo criterio diagnostico) è che le manifestazioni (di disattenzione o iperattività che sia) si devono manifestare almeno in due contesti di vita, quindi non vale se si tratta di bambini disattenti o iperattivi solo nel contesto scolastico. Il terzo criterio diagnostico dice che si deve trattare di un livello sintomatologico che interferisce con altre attività, cioè il disturbo deve avere caratteristiche che compromettono gli apprendimenti e la buona relazione del bambino con i contesti sociali in cui bisogna stare seduti, portare attenzione, stare fermi sul banco, stare sul posto. il fatto è che questa è una categoria diagnostica che implica due aspetti, da una parte l’attenzione e dall’altra l’iperattività e quindi ci sono le tipologie combinate: una prima tipologia è contraddistinta da un bambino con attenzione e iperattività combinate, la seconda da un bambino con caratteristiche predominanti di disattenzione, di deficit dell’attenzione oppure ancora la terza da un bambino con caratteristiche predominanti d’iperattività e d’impulsività comportamentale. Questa categoria diagnostica riveste un importante interesse perché questa caratteristica sintomatologica (s’intende l’inattenzione/iperattività) compare nella storia pregressa di soggetti tossicodipendenti, caratteristica sintomatologica molto spesso non diagnosticata. Infatti il tema dell’impulsività del comportamento riguarda l’area dei bambini che chiamiamo “incidentosi” cioè i bambini che cascano, si spaccano: sono bambini che hanno una sorta di comportamenti impulsivi, è come se non avessero un sufficiente controllo e autocontrollo del comportamento e che quindi si espongono a situazioni rischiose/pericolose anche da un punto di vista fisico e di conseguenza vanno incontro a una serie di rischi. Questi sono bambini che molto spesso in età adulta sono soggetti a dipendenze, a tutti i generi di dipendenze. È come se queste persone non avessero un buon funzionamento delle aree cerebrali e degli aspetti comportamentali che riguardano il meccanismo del premio e della punizione: la punizione non funziona come un’inibizione del comportamento e come un incentivo al premio.  Dall’altra parte noi abbiamo il disturbo della condotta (fa parte dei disturbi da comportamento dirompente) che riguarda il fatto che il bambino mette in atto comportamenti aggressivi (e non) e lesivi contro persone, cose, animali e diritti altrui. Devono essere comportamenti ripetuti, azioni che il bambino ripete (se si tratta di azioni isolate bisogna pensare a una diagnosi di comportamento antisociale): in particolare devono essere stati registrati più comportamenti di questo tipo negli ultimi 12 mesi e almeno uno negli ultimi 6 mesi. All’interno dei disturbi della condotta abbiamo due sottotipi che è importante distinguere in base all’età di esordio, cioè quanto prima si evidenzia questo tipo di caratteristica. o Disturbo della condotta nella fanciullezza. Se questo tipo di caratteristica si esprime nel bambino al di sotto dei 10 anni siamo dentro a un livello patologico più grave e andiamo incontro a un fattore di rischio sull’area del disturbo oppositivo o del disturbo antisociale di personalità: quanto prima il bambino esprime un disturbo della condotta tanto è più probabile che in adolescenza o in età adulta avremo una caratteristica nella strutturazione della personalità sul versante antisociale. Le personalità antisociali sono quei disturbi della personalità che riguardano il fatto che l’individuo non ha rispetto e quindi mette in atto comportamenti lesivi di regole, leggi, diritti e desideri degli altri. Però come disturbo antisociale della personalità siamo dentro a un’area psicopatologica che riguarda disturbi della personalità a struttura stabile e a minore possibilità di guarigione, di recupero. Il tema del disturbo antisociale della personalità è importante perché si tratta di soggetti difficili da trattare perché sono individui che, avendo una componente antisociale, non hanno senso di colpa e di vergogna rispetto al comportamento messo in atto, quindi è come se non avessero la percezione della gravità del comportamento che esibiscono e di conseguenza non hanno neanche motivazione al cambiamento. Questi possono essere infatti soggetti che nella vita continuano e reiterano i comportamenti antisociali, quindi la cura o l’intervento di natura psichiatrica, psicologica e psicoterapeutica non è per loro deterrente rispetto all’inibizione di tali comportamenti. Tant’è vero che esistono i classici malviventi recidivi i quali sono persone che hanno questo tipo di caratteristica e la cui storia evolutiva sembra essere costituita da una precoce manifestazione del disturbo della condotta. Si tratta di persone ad alto impatto sociale, perché per tutta la vita continuano a delinquere, a fare cose contro se stessi e contro gli altri, e anche ad alto costo sanitario, perché dovranno avere interventi per tutta la vita, che questi siano di natura carceraria o riabilitativa o ancora terapeutica. o Disturbo della condotta in adolescenza. Se il disturbo della condotta compare in età successiva ai 10 anni, quindi intorno alla prima adolescenza, il rischio rispetto a una successiva evoluzione psicopatologica si abbassa. Quindi la precocità del disturbo della condotta è un fattore di rischio rispetto allo sviluppo successivo di patologie. A livello prognostico avere una condizione precoce di disturbo della condotta è grave rispetto ad avere esiti psicopatologici successivi (il concetto di prognosi si riferisce alla previsione delle conseguenze relative alla patologia).  Dall’altra parte abbiamo il disturbo oppositivo provocatorio (fa parte del disturbo da comportamento dirompente) che riguarda i comportamenti di opposizione all’adulto e di opposizione rispetto a regole, relazioni, limiti cioè situazioni in cui il bambino attua comportamenti, prese di posizione e atteggiamenti di oppositività nei confronti dell’adulto. Questo disturbo è anche descritto nella prima infanzia nel senso che può essere una patologia anche a insorgenza molto precoce. aggressivi che desidera, anche se il desiderio aggressivo può restare tutta la vita. Quindi l’aggressività, dopo i 4 anni, da aperta diventa modulata dalle regole sociali. E poi con lo sviluppo si diventa più capaci a cercare di realizzare in prima persona quelli che sono i propri desideri senza necessariamente andare sul versante antisociale. Alcuni autori hanno però trovato che in alcuni bambini questo passaggio alla compromissione tra il comportamento aggressivamente aperto e la mediazione sociale non avviene alla maniera auspicata ma avviene attraverso il passaggio che riguarda quelli che vengono chiamati comportamenti aggressivi covert cioè il bambino non impara la regola sociale e non impara a modulare i suoi desideri e i suoi comportamenti aggressivi con le richieste e con i diritti dell’ambiente di riferimento ma semplicemente attua gli stessi comportamenti aggressivi solo in maniera mascherata, senza farsi beccare, ovvero mette in atto comportamenti non visibili e quindi non sanzionabili dal mondo, per cui trova una via per continuare a mettere in atto comportamenti aggressivi in un modo tale da non ricevere la punizione. Questi comportamenti aggressivamente covert non rappresentano una trasformazione della normale aggressività del bambino in una modalità prosociale, per cui si comincia a patteggiare con gli altri ciò che si vuole e quando lo si vuole, ma sembrano costituire il passaggio che prelude al tema del comportamento antisociale. Quindi per essere antisociale mi attrezzo per continuare a mettere in campo comportamenti aggressivi che spero non vengano sanzionati. Quindi, per riassumere, quando parliamo di disturbi del comportamento nell’infanzia parliamo di un’area psicopatologica grave perché siamo in un’area psicopatologica in cui la regolazione delle emozioni, la regolazione del comportamento e l’acquisizione delle regole sociali non subiscono i normali processi di sviluppo per cui si tratta di bambini che hanno un’alta probabilità, in adolescenza e poi nella vita adulta, di perseverare con questo tipo di patologie sfociando però in un’area psicopatologica ancora più grave perché si tratta dell’area dei disturbi della personalità, delle dipendenze patologiche, dell’antisocialità, della delinquenzialità che secondo tutta la letteratura sono le aree a più alto rischio psicopatologico ma anche a più alto rischio sociale perché i disturbi della personalità, in particolare il disturbo antisociale della personalità, è un’area di patologie a scarso impatto di cura, a scarse possibilità di modifica nell’arco della vita e quindi questi sono pazienti, in termini di servizi, che hanno bisogno di interventi plurimi e reiterati nel corso della vita e che costituiscono un’alta fonte di frustrazione per i professionisti perché sono pazienti che tendono a essere recidivi, a volte modificando o sovrapponendo il tipo di manifestazione comportamentale ma ritornando sempre a esprimere lo stesso tipo di disagio. Di conseguenza l’area dei disturbi del comportamento è un’area dove occorre molto fare prevenzione precoce perché altrimenti questi sono i primi ragazzini che a 14-15 anni ritroviamo con i primi comportamenti apertamente antisociali e devianti perché questa è l’area della devianza, è l’area del carcere precoce, è l’area dei comportamenti a rischio e del rischio in sé sui quali molta letteratura ci dice che gli interventi spessissimo falliscono e quindi poi ritroviamo queste persone nell’arco della vita ad avere bisogno di interventi che però non hanno spesso un buon esito. Per cui l’area dei comportamenti precoci è un’area molto importante. Capitolo 10 - Disturbi pervasivi dello sviluppo e disturbi dello spettro autistico Disturbi dello spettro autistico. L’autismo all’interno del DSM IV-TR è collocato nella categoria dei Disturbi pervasivi dello sviluppo e sempre secondo il Manuale Diagnostico ha tre aree di deficit: la prima riguarda lo sviluppo sociale, la seconda la comunicazione e il gioco e la terza i comportamenti e gli interessi distretti. Grazie alla pubblicazione del DSM 5 noi sappiamo che non esiste l’autismo ma esiste tutta una serie di manifestazioni che appartengono a quel tipo di patologia: per questo all’interno del nuovo Manuale Diagnostico si parla di disturbi dello spettro autistico (DSA, in questo caso non disturbi specifici dell’apprendimento). L’area deficitaria riguarda lo sviluppo delle capacità sociali e relazionali. Questi bambini nella prima infanzia possono essere confusi con bambini con sindromi disregolative, soprattutto con disturbo della regolazione di natura inibita, cioè con bambini iposensibili. In realtà la differenza riguarda il fatto che le caratteristiche del bambino inibito riguardano lo sviluppo dei sistemi regolatori rispetto allo scambio tra interno ed esterno; nel disturbo dello spettro autistico abbiamo come problema primario un deficit nella relazione e nella comunicazione. L’aspetto primario di una patologia o di un sintomo è il fattore base, è la patologia principale; poi noi possiamo avere patologie anche con aspetti secondari che derivano dagli aspetti primari ma che non sono quelli principali. A questo proposito, il tema centrale delle patologie dello spettro autistico è il tema della comunicazione e della relazione. Di solito la diagnosi di disturbo dello spettro autistico è valida a partire dai tre anni; noi però sappiamo che questo disturbo ha una base biologica. Se siamo di fronte a una tipologia di patologia a base biologica è chiaro che dobbiamo pensare a caratteristiche più precoci, al di sotto dei tre anni, che rispecchiano la patologia. Le manifestazioni sono precoci ma è difficile incasellarle dentro quei disturbi definiti dal sistema della classificazione diagnostica 0-3 perché all’interno di essa c’è una categoria simili ai disturbi dello spettro autistico che però mette il punto sul tema della regolazione. Infatti il sistema di classificazione 0-3 ha una categoria che richiama i disturbi dello spettro autistico che si chiama Disturbo Mutisistemico dello Sviluppo, nonostante questo richiami l’attenzione sulla regolazione. È necessario quindi avere migliori modelli e migliori definizioni diagnostiche per inquadrare bene questi bambini. In ogni caso sembra possibile fare diagnosi di Disturbi dello spettro autistico a partire dai 2 anni di età perché a partire da questo momento sembra che il quadro clinico sia sufficientemente stabile. Il disturbo dello spettro autistico colpisce maggiormente i maschi rispetto alle femmine (proporzione di 4 a 1) e ha una prevalenza di 10 casi su 10’000. Intorno ai 2 anni di età, emergono le caratteristiche centrali del disturbo. (1) Una delle caratteristiche è il ridotto contatto oculare e l’assenza della preferenza visiva delle persone, quindi di oggetti animati, piuttosto che degli oggetti inanimati. La preferenza verso l’essere umano ha un importante significato sia da punto di vista evolutivo che relazionale, ma se per l’individuo è poco importante egli fallirà nell’istaurare relazioni sociali. (2) Un altro aspetto è l’anomalia o assenza dell’attenzione condivisa e del pointing spontaneo: i bambini non accedono alla capacità di porre l’attenzione su un oggetto e di condividere questa attenzione con qualcun altro. (3) Un ulteriore aspetto importante è il ritardo nel linguaggio espressivo e comunicativo: anche quando il bambino raggiunge una sorta di sviluppo linguistico parla ripetendo qualcosa che gli è stato detto (ecolalia) o per comunicare aspetti molto semplici della vita, quindi non parla per comunicare agli altri qualcosa. Le aree di compromissione sono quindi molto importanti. La pervasività di una patologia è il grado in cui questa patologia compromette il numero, la quantità e il funzionamento delle diverse aree di sviluppo del bambino: tanto più una patologia è pervasiva tanto più è grave. Questa è la motivazione per cui, nel DSM IV-TR, si parla di disturbi pervasivi dello sviluppo. Stiamo parlando di patologie che non hanno risoluzione: siamo nell’area di patologie che rimangono, nonostante ci possano essere dei cambiamenti, dei miglioramenti come anche dei peggioramenti. Ci troviamo in un’area in cui questi bambini non arriveranno allo sviluppo tipico: di conseguenza ci saranno aree deficitarie che rimarranno per tutta la vita. Vi sono numerosi modelli che tentano di spiegare le aree deficitarie di questi soggetti.  Il modello più studiato è il modello del fallimento della Teoria della Mente di Baron-Cohen. L’attenzione condivisa e il pointing sono considerati due importanti precursori dello sviluppo della Teoria della Mente e sappiamo che già a livello precoce questi due importanti step nel raggiungimento della Teoria della Mente non sono raggiunti da questi bambini. La Teoria della Mente, in generale, riguarda la capacità di ognuno di noi di avere consapevolezza dei propri processi mentali e del fatto che nelle menti degli altri ci sono processi non uguali ma analoghi ai nostri. Questa teoria è importante perché il sapere che nella mia mente ci sono cose e il presupposto che ci siano altrettante cose anche nella mente degli altri è la base fondamentale per sviluppare il linguaggio, la comunicazione; la Teoria della Mente è importante anche perché l’individuo può mettere in atto delle attività di previsione rispetto alle intenzioni dell’altro. E ancora la Teoria della Mente ci può servire nel dirigere i nostri comportamenti. Infatti grazie alla Teoria della Mente possiamo esercitare una buona capacità di previsione nei confronti dei contesti in cui siamo inseriti. Avere buone previsioni ci protegge, ci fa trovare al posto giusto nel momento giusto. La nostra Teoria della Mente è un meccanismo implicito che ci serve in tutte le relazioni sociali. Pare che i bambini affetti da disturbo dello spettro autistico abbiano gravi deficit nello sviluppo della Teoria della Mente, cioè sono bambini che crescono senza sviluppare la previsione e la consapevolezza dei propri contenuti mentali. Molti autori definiscono questo linguaggio della mente come “linguaggio degli stati interni”, il quale non è un linguaggio operatorio bensì attiene all’area delle emozioni. La Teoria della Mente deficitaria compromette questa area del linguaggio. Ma questa area è una delle basi dell’intersoggettività. Quindi il fallimento della Teoria della Mente è molto studiato perché questi bambini falliscono nella comprensione dei propri e altrui contenuti mentali, quindi è come se loro vivessero in un mondo imprevedibile che li espone a diversi rischi.  Di conseguenza il tema che si collega è quello del deficit dell’intersoggettività: i bambini con disturbi dello spettro autistico, non comprendendo i loro stati affettivi, non comprendono di conseguenza quelli degli altri. Il modello in questione è quello del deficit dell’intersoggettività primaria. Secondo tale modello, questi soggetti non traggono utili informazioni dagli aspetti non verbali e dagli aspetti emotivi della comunicazione. Questi aspetti in cui è deficitario il bambino con disturbo dello spettro autistico sono però i più informativi. Questi sono quindi bambini che vivono in un mondo in cui non colgono il modo: riescono a capire gli aspetti comunicativi ma non colgono la componente emotiva delle comunicazioni. La componente emotiva è però quella che ci dice se il tono di voce è falso o autentico, se la battuta è seria o meno. Si tratta di conseguenza di bambini molto vulnerabili, indifesi e quindi abbastanza a rischio.  Un altro modello che tenta di spiegare le problematiche di questo disturbo è quello del deficit imitativo e di orientamento sociale. Secondo questo modello, i bambini con disturbo dello spettro autistico sarebbero deficitarii nell’area dell’imitazione e dell’orientamento sociale, cioè nell’area che riguarda i meccanismi innati che garantiscono il legame interpersonale e l’orientamento verso la figura umana. Il tema dell’imitazione è centrale in questo modello perché fornisce informazioni che genera comportamenti, cognizioni ed emozioni di connessione con gli stimoli provenienti dall’ambiente. Quindi in qualche misura la condizione di stress riguarda l’esposizione dell’individuo a condizioni che richiedono cambiamento, un’importante attivazione psicofisiologica e, dal punto di vista cognitivo e affettivo-relazionale, l’elaborazione della situazione che sta accadendo e ancora, dal punto di vista comportamentale, la messa in campo di comportamenti in risposta alla condizione di stress. C’è però un importante tema in merito allo stress che riguarda i fattori psicofisiologici perché tutte le volte che siamo chiamati a far fronte a una percezione che richiede cambiamento c’è una forte attivazione a livello fisiologico, a livello corporeo: in qualche misura è come se il nostro organismo, prima ancora della nostra psiche, si mettesse in moto, si mettesse a lavorare per far fronte alla situazione stressante. È un aspetto molto importante perché sono gli stessi processi o comunque processi simili che rientrano anche nell’elaborazione delle informazioni di fronte a eventi traumatici, in cui le persone esposte a trauma hanno un’iperattivazione dei sistemi fisiologici di risposta allo stress come se fossero sempre esposti a eventi stressanti, come se vivessero in una condizione costante di stress. La letteratura ci indirizza sul fatto che esistono stress assoluti e stress percepiti. Questo è un aspetto molto importante perché (1) gli stress assoluti sono quegli eventi, quelle condizioni su cui tutti possiamo concordare rispetto alla loro portata: si tratta per tutti di una condizione stressante. Il tema che a noi interessa come psicologi clinici riguarda (2) gli stress percepiti, nel senso che esiste tutta una serie di situazioni, una gamma di situazioni a cui sono esposte le persone che non hanno un valore stressante in assoluto ma che possono funzionare come eventi stressanti a seconda delle condizioni della persona che li vive: si tratta quindi di eventi sui quali non c’è un accordo o un’intesa universale in merito al loro ruolo stressante, ma questi eventi diventano fattori di stress in connessione con la percezione che la persona ha dell’evento stesso. Chiaramente la percezione che la persona ha può dipendere dall’età, dalla sua condizione di salute, dal suo livello socio-economico; questo non riduce il ruolo di stressor a questi eventi ma richiede al clinico che va a valutare una maggior attenzione perché di per sé potrebbero essere eventi che non sono unitamente intesi come eventi stressanti, quindi bisogna avere più attenzione perché dobbiamo valutare la percezione soggettiva che quella situazione, quell’esperienza, quell’evento hanno nella vita di quella persona. Un altro tema importante, soprattutto quando parliamo di bambini, riguarda la capacità di capire alcune caratteristiche degli stressor cioè delle situazioni stressanti. (1) La prima caratteristica è la natura dell’evento stressante. Una regola fondamentale quando valutiamo la natura dell’evento stressante riguarda la vicinanza con il soggetto, soprattutto se in età evolutiva, perché tanto più l’evento stressante avviene o deriva dalla persona o da una condizione vicina alle relazioni fondamentali del bambino tanto più l’impatto di questo evento sarà potenzialmente traumatico e stressante per il bambino, cioè la connessione stretta tra l’evento stressante e la vita del bambino o le relazioni del bambino alza l’impatto dell’evento stesso come fattore di stress a livello del trauma perché il bambino recepisce il tema del l’impatto è ancora più forte nei bambini). Accanto alla natura e alla vicinanza dell’evento stressante, c’è (2) il timing, cioè il momento della vita, il momento dello sviluppo del bambino in cui l’evento si verifica. Infine abbiamo (3) la durata della condizione o dell’evento stressante. Questo è un tema molto importante perché diverso è se dobbiamo far fronte a degli stress acuti, diverso è se dobbiamo far fronte a delle condizioni stressanti croniche. Di fronte allo stress acuto il bambino può mettere in atto la risposta di “attacco o fuga”: è un momento specifico in cui il bambino o si difende o scappa. Questo può essere fatto solo se la condizione è acuta cioè se succede un fatto o una situazione e io scelgo di attaccare quindi cerco di vincere oppure scelgo di scappare e quindi mi metto in salvo e così finisce l’esposizione allo stress. Diverso è se la condizione stressante è cronica che perdura nel tempo e che il bambino non può attaccare e da cui non può fuggire, quindi non è possibile in questa situazione mettere in campo quelle risposte rapide e protettive che gli consentono di uscire in qualche modo dalla condizione stressante, ma deve stare nella condizione cronica. La permanenza in una condizione di stress cronico è una condizione molto pericolosa proprio perché crollano quei dispositivi di difesa che noi abbiamo rispetto alle condizioni della vita. Ma cosa succede nel passaggio dallo stress al trauma? Un conto è essere esposti a uno stress, un conto è essere esposti a un evento stressante che diventa traumatico. Gli eventi stressanti nella vita sono molti ma non tutti sono eventi potenzialmente traumatici. Cosa fa sì che noi passiamo da una gamma di eventi stressanti a definire quegli eventi come traumatici? Il passaggio dallo stress al trauma riguarda due aspetti che la letteratura mette in evidenza. (1) Il primo aspetto che denota il fatto che l’evento non è solo stressante ma è traumatico riguarda la violazione di questo evento rispetto agli assunti fondamentali della sopravvivenza, cioè siamo di fronte a un evento traumatico se stiamo rischiando di morire o se abbiamo comunque la percezione che potremmo morire. La gradazione riguarda il fatto che il primo criterio è la violazione degli assunti di sopravvivenza cioè essere esposti a condizioni estreme che ci fanno pensare che potremmo morire, cioè la psiche si ferma di fronte alla sopravvivenza fisica, prima ancora della sopravvivenza psicologica. (2) Il secondo aspetto denota che si parla di evento traumatico (e non solo stressante) se ci pone di fronte a un crollo delle nostre strategie di far fronte all’evento stesso, cioè ci sentiamo incapaci di contrastare, di organizzare, di rispondere a quello che ci sta capitando. (1 & 2) Quindi un evento viene definito traumatico e quindi può generare sintomi post-traumatici nella misura in cui espone l’individuo al pericolo della vita e al crollo totale delle proprie strategie di far fronte all’evento stesso. Non si tratta quindi di eventi eccezionali, ma sono eventi che possono impattare nella vita delle persone, anche più volte. Non in tutti i casi si assiste a una manifestazione sintomatologica di natura post- traumatica, però la letteratura ci dice che quanto più l’individuo è esposto all’evento traumatico tanto più è possibile che possa manifestare dei sintomi in questa direzione: non stiamo parlando di qualcosa che raramente capita a qualcuno, stiamo parlando di eventi che capitano a tante persone e che possono capitare più volte nella vita di una persona. Stiamo introducendo nella rosa degli eventi traumatici anche eventi particolari che coinvolgono anche popoli interi, nazioni e anche generazioni successive rispetto a quella esposta al trauma: questo è molto importante perché significa che ci sono molte persone esposte a situazioni che possono avere un impatto post-traumatico. Che succede quando abbiamo o viviamo in condizione di stress che poi si può trasformare in una situazione di trauma? Si attiva il sistema, il circuito dello stress, che riguarda l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Questo asse è così importante perché è un circuito, un insieme di alcune aree cerebrali, corticali e sottocorticali, che si attivano particolarmente e funzionano in una maniera a più alto regime del solito tutte le volte in cui siamo esposti a una condizione che richiede attivazione perché questa è l’asse che negli esseri umani presiede alle risposte di attacco o fuga, cioè attiva i nostri sistemi sensoriali e motori e quindi fa funzionare l’organismo perché dobbiamo decidere se attaccare e quindi abbiamo bisogno di forza per vincere o se scappare ed essere quindi lesti per metterci in salvo. In particolare lo stimolo che fa tutto questo giro arriva in un’importante parte del nostro corpo che sono le ghiandole surrenali: il surrene è un’area molto importante perché sono contenute le ghiandole surrenali che producono l’ormone cortisolo che è definito l’ormone dello stress. Ciò significa che quando le persone sono molto attivate c’è un’alta concentrazione di questo ormone nel loro organismo. Il cortisolo è un ormone che ci serve, e che ha un circuito e un ritmo di profusione nell’arco della giornata che ci serve, non solo per gli eventi negativi come ormone dello stress ma anche come ormone dello stress proattivo cioè l’ormone che attiva l’organismo per fare cose durante la giornata perché appartiene alla famiglia di sostanze che il nostro organismo metabolizza per la produzione e per l’utilizzo degli zuccheri e di parte delle proteine, quindi ci serve a dare risposte immediate, a essere attivi, a essere up. Quindi il circuito del cortisolo è un circuito sano che ci serve tutte le volte in cui abbiamo bisogno di rispondere a stimoli ambientali in una maniera adattiva. Se lo stimolo che proviene dall’ambiente è di natura stressante o addirittura traumatica, l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene si attiva in maniera più elevata del solito perché deve fare ancora più forza nella produzione di cortisolo perché dobbiamo decidere se scappare o se attaccare, dobbiamo difenderci. Quindi le persone che sono esposte ad alti livelli di stress e in particolare ad alti livelli di stress cronico sono persone che hanno alto livello di cortisolo nel sangue come se il loro circuito dello stress andasse sempre, non avesse mai un momento di quiete o di calma o di arresto che ci serve perché nella vita non sempre dobbiamo reagire. La produzione di cortisolo va in due tipi di strade: da una parte attiva le risposte corporee allo stress; dall’altra, una parte di cortisolo prodotto ritorna in circolo e ricomincia il giro. Questo è uno dei motivi per cui ci sono molti studi sulla salute fisica delle persone esposte a stress o traumi cronici e questi studi ci dicono che nell’arco della vita questi sono individui che non solo sono esposti potenzialmente a un disturbo post-traumatico da stress ma che rispetto alla popolazione normale hanno più patologie fisiche, in particolare patologie cardiovascolari ma anche patologie che riguardano l’area delle ghiandole surrenali e l’ipofisi che producono questo tipo di sostanza nell’organismo (il cortisolo) e in linea generale sono persone che vanno in maggior misura e in maniera ripetuta nella vita incontro a patologie fisiche: quindi l’esposizione a stress cronici o traumatici espone l’individuo non solo a manifestazione psicopatologiche ma anche a vulnerabilità rispetto a malattie fisiche. Nel circuito dello stress abbiamo ancora una volta coinvolte delle strutture centrali cerebrali: (1) la prima è la corteccia prefrontale ed è importante perché è implicata nella funzioni cognitive superiori di primo livello cioè tutte quelle funzioni che ci servono, se siamo esposti a eventi stressanti, a stare attenti (l’attenzione), a selezionare le informazioni, a ricordare con accuratezza (la memoria), a pianificare il comportamento e anche a dire a qualcuno cosa ci è successo (il linguaggio). È importante questo aspetto perché nei bambini esposti a trauma si è visto che ci sono dei disfunzionamenti che riguardano proprio l’area delle funzioni cognitive a carico della corteccia prefrontale, come se ci fosse una sorta di difesa a livello cerebrale rispetto al trauma per cui l’area prefrontale non elabora adeguatamente le informazioni legate all’evento stressante che il bambino sta vivendo. Questi sono studi molto importanti perché l’area della memoria attiva è un’area importantissima nelle persone esposte a trauma nella misura in cui tendono a denunciare la condizione a cui questi individui sono stati esposti, cioè devono attivare i loro sistemi di memoria (e anche del linguaggio) per dire a qualcuno cosa è successo loro. Il racconto di ciò che è accaduto e il ricordo preciso di ciò che è successo è un tema molto delicato perché spesso questi sono considerati testimoni non attendibili. (2) Un’altra struttura cerebrale coinvolta nel circuito dello stress è l’amigdala: l’amigdala è quella piccola area del nostro cervello che dà un significato emotivo agli eventi che stiamo vivendo, cioè ci aiuta a decidere se l’evento che stiamo vivendo è buono o cattivo per noi. Gli eventi traumatici o stressanti, che sono eventi molto cattivi per l’individuo e per il suo funzionamento, vengono processati dal funzionamento dell’amigdala. Ci sono delle ricerche molto importanti che ci dicono che bambini istituzionalizzati in età molto precoce hanno un rallentamento dello sviluppo delle aree cerebrali della corteccia prefrontale dell’amigdala che riprende fino ad arrivare alla normalità una volta che il bambino viene allattato. Quindi non solo i comportamenti del bambino ma addirittura lo sviluppo cerebrale cambia e viene influenzato a seconda del contesto in cui il bambino cresce, come se il cervello si proteggesse, interrompesse la crescita in un momento in cui c’è troppo pericolo intorno e riprendesse la crescita solo nel momento in cui le condizione si siano ristabilite. Disturbo post-traumatico da stress Il disturbo post-traumatico da stress è un disturbo che insorge a seguito dell’esposizione dell’individuo a un evento stressante o traumatico. È l’unica patologia per cui il trauma, cioè l’esperienza reale, è inserita nei una condizione traumatica solo dopo tempo: ad esempio il bambino non capisce subito che il papà non sta “giocando” ma sta avendo dei rapporti sessuali con lui, nel caso di un abuso sessuale. Quindi il problema è identificare l’evento traumatico. Infatti a causa della componente soggettiva, inconsapevolmente il bambino può comprendere il pericolo ma per esternarlo o capirlo consapevolmente ha bisogno di tempo e di confrontarsi con altre situazioni. Il criterio A2 dovrebbe essere quindi ridimensionato per bambini in età prescolare o includere un range più alto di reazioni come preoccupazione, tristezza, pianto, torpore e confusione. o Il criterio B enuncia che “L'evento traumatico viene rivissuto persistentemente in uno (o più) dei seguenti modi 1) ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi dell'evento, che comprendono immagini, pensieri, o percezioni; 2) sogni spiacevoli ricorrenti dell'evento; 3) agire o sentire come se l'evento traumatico si stesse ripresentando; 4) disagio psicologico intenso all'esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell'evento traumatico; 5) reattività fisiologica o esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell'evento traumatico.” Esistono diversi tipi di manifestazioni della sintomatologia traumatica. Il soggetto può infatti rivivere il trauma attraverso sogni e ricordi spiacevoli o attraverso una reazione a eventi che ricordano quello traumatico. Queste sono manifestazioni e comunicazioni di disagio che cambiano in base al livello di sviluppo: ad esempio il bambino non può comunicare di avere tachicardia. Per questo c’è difficoltà nella comprensione e per questo il criterio B1 dovrebbe essere ampliato in modo da includere altre reazioni emozionali durante i ricordi oltre al distress o Il criterio C enuncia che vengono messi in atto dal soggetto dei comportamenti per evitare l’evento traumatico. Le manifestazioni comportamentali però dovrebbero essere specificate in modo da illustrare quelle di bambini in età prescolare. o Il criterio D, infine, enuncia l’attivazione di arousal successiva al trauma (degli esempi sono i disturbi del sonno, l’ipervigilanza, l’iperattività). Nonostante sia stata pubblicata l’ultima versione del DSM, il DSM 5, anche in questa ci sono ancora delle imprecisioni in merito ai criteri diagnostici del PTSD. Nella CD 0-3, nonostante i criteri diagnostici per il PTSD siano più generali rispetto a quelli del DSM, ancora si potrebbero apportare delle modifiche. Questo sono i quattro criteri per la diagnosi  “Il bambino è stato esposto a uno (o più) eventi traumatici che minacciano l’integrità fisica e psicologica del bambino o di un’altra persona.  Il bambino mostra segno di rivivere l’evento traumatico.  Il bambino sperimenta un ritardo della responsività o interferenze con il periodo di sviluppo.  Comparsa, dopo il trauma, di segni di aumentato arousal.” Il disturbo traumatico dello sviluppo - DTD (Developmental Trauma Disorder) Ci sono però dei casi che non vengono spiegati dalla diagnosi di PTSD in età evolutiva. In questi casi si parla di bambini esposti a trauma cumulativo, ovvero a un insieme di traumi accumulati nel corso dello sviluppo, o addirittura si parla di trauma complesso, ovvero si parla di bambini che hanno fatto esperienza di eventi traumatici molteplici, cronici e prolungati, soprattutto di natura interpersonale e a esordio precoce, spesso nel loro sistema di accudimento primario. Ciò che ci da l’idea dell’interpersonalità è il fatto che non sempre è direttamente colpa degli adulti se il bambino è esposto a queste condizioni: nonostante questo però gli adulti rendono insicuro un contesto che invece dovrebbe essere sicuro, infatti se c’è un bambino esposto a un trauma significa che c’è un contesto che favorisce l’insorgenza del trauma. Quindi per far fronte a questo trauma complesso è necessario trovare un nuovo contesto sicuro per il bambino, diverso da quello di appartenenza. A partire dal concetto di trauma complesso si è sviluppata la diagnosi (anche se non riconosciuta dal DSM) di Disturbo Traumatico dello Sviluppo (DTD). Si tratta di un disturbo che si manifesta in bambini che hanno subito un’esposizione molteplice/cronica a uno o più traumi interpersonali evolutivamente dannosi. Si parla di disturbo di natura interpersonale perché siamo all’interno della categoria dei traumi complessi e quindi se il bambino è esposto a queste esperienze è a causa del fatto che non è adeguatamente tutelato dagli adulti. L’esperienza di questi bambini è soggettiva e ognuno di loro reagisce con diversi sentimenti agli eventi traumatici (paura, rassegnazione, rabbia, tradimento, sconfitta, vergogna). In questi bambini si osservano pattern attivati di disregolazione ripetuta in risposta a indicatori traumatici dove i cambiamenti persistono e non c’è ritorno alla baseline; si osservano inoltre attribuzioni e aspettative alterate in modo persistente e disturbi funzionali in ambito scolastico, familiare, amicale e professionale. Questa nuova diagnosi muove infatti dall’assunto che molteplici esposizioni a trauma interpersonale comportino chiari e prevedibili conseguenze su diverse aree del funzionamento: troviamo compromissioni nelle aree dell’attaccamento, del livello biologico (somatizzazione e problemi biologici nel ciclo della vita), della regolazione dell’affetto, della dissociazione (quale alterazione dello stato di coscienza), del controllo del comportamento (con conseguenti aggressività e scarso controllo degli impulsi), della cognizione (con conseguenti difficoltà nell’attenzione, nell’apprendimento e nella pianificazione) e del senso di sé (con conseguenti sentimenti di vergogna e di colpa e bassa autostima). Capitolo 11 Strategie di valutazione e interventi preventivi nella psicopatologia dello sviluppo Ai singoli sintomi che subiscono spesso in età evolutiva continui cambiamenti non è possibile attribuire un significato definito se non nell’ambito di una valutazione del funzionamento e dell’adattamento generale della personalità dell’individuo. Inoltre, mentre le prospettive tradizionali concettualizzano i disturbi come interni all’individuo, la psicopatologia dello sviluppo si colloca nella relazione dinamica tra l’individuo e il contesto e li considera come il prodotto dell’interazione tra aspetti biologici, psicologici e sociali, tenendo presente al contempo la storia pregressa dello sviluppo e i compiti specifici che l’individuo deve affrontare in ciascuna fase evolutiva. L’adattamento individuale va considerato rispetto alla capacità dell’individuo di affrontare lo specifico compito evolutivo di una determinata fase e costituisce un vincolo per l’organizzazione dei processi adattivi nei periodi successivi, determinando così delle traiettorie evolutive. I percorsi evolutivi possono essere determinati dall’influenza di fattori di rischio e fattori protettivi: per fattori di rischio s’intendono tutte quelle condizioni interne all’individuo o relative al contesto che interferiscono con l’adattamento e aumentano la probabilità di comparsa della psicopatologia; i fattori protettivi sono tutte le caratteristiche individuali o ambientali che rappresentano una fonte di resistenza alla patologia e riducono l’impatto dei fattori di rischio, consolidando le capacità di coping e resilience da parte del bambino. Secondo il principio di equifinalità, diverse condizioni di rischio possono portare a uno stesso esito disadattivo, così come, secondo il principio di plurifinalità, uno stesso fattore di rischio può essere considerato come determinante per traiettorie evolutive differenti. Il rapporto tra fattori di rischio e protettivi deve essere inquadrato all’interno di un modello evolutivo ecologico-transazionale. Dal momento che la psicopatologia è più probabile che sia determinata da molteplici processi, piuttosto che da una singola causa, è necessario assumere una prospettiva non deterministica, che permetta tuttavia di inquadrare i processi che influenzano in maniera probabilistica una determinata condizione. Naturalmente le precedenti organizzazioni limitano i processi di riorganizzazione che hanno luogo nelle fasi successive. I processi della plasticità cerebrale, inoltre, implicano che con il passare del tempo, e a partire dall’adolescenza, le possibilità di riorganizzazione divengano sempre più limitate. Strategie di valutazione in età evolutiva Infanzia e adolescenza sono periodi di grandi cambiamenti fisici e psicologici, in cui la comparsa di un sintomo può essere letta come l’espressione di una transazione evolutiva normale o al contrario come il segno di un’emergente psicopatologia. Da una parte dobbiamo quindi identificare e descrivere quadri specifici che compaiono solo in certe fasce d’età o che richiedono criteri diagnostici definiti per la fascia d’età e tenere anche conto che la discontinuità evolutiva della sintomatologia potrebbe nascondere una continuità dei processi psicopatologici sottostanti (continuità eterotipica); dall’altra parte abbiamo bisogno, per comprendere queste traiettorie o per inquadrare un sintomo, di considerare la specificità delle diverse fasi evolutive e i compiti adattivi che il bambino o l’adolescente sta affrontando in quel momento. Passi fondamentali per la diagnosi e la valutazione  Innanzitutto è necessario che l’inquadramento diagnostico della sintomatologia da un punto di vista diagnostico tenga conto degli aspetti evolutivi e relazionali, non dimenticando peraltro la necessità di far riferimento a sistemi diagnostici predefiniti  Inoltre si pone come centrale la valutazione del peso dei fattori di rischio e protettivi che incidono sull’adattamento individuale e sulla possibile evoluzione della psicopatologia, inquadrando le aree di vulnerabilità ma anche le risorse che potrebbero influire su tale evoluzione  La valutazione degli aspetti evolutivi e relazionali deve inoltre considerare sia le diverse caratteristiche dei processi di sviluppo che possono sottendere la psicopatologia sia i diversi ambiti e contesti in cui tali processi si esplicano, ampliando quindi il setting di valutazione all’area della famiglia, della scuola, del gruppo dei pari. dividono in osservazione in laboratorio e osservazione naturalistica: nel caso della situazione in laboratorio è possibile mettere il bambino in una condizione che lo spinge a manifestare dei dati comportamenti che si vogliono osservare quindi condurre un’analisi strutturata, dall’altra parte invece è possibile utilizzare dei metodi osservativi liberi, cioè aspettare che il bambino metta in atto il comportamento che si vuole osservare senza che indurlo a farlo; nel caso dell’osservazione naturalistica invece il clinico si reca nei contesti di vita del bambino a osservare i comportamenti che il bambino mette in atto senza intervenire. L’osservazione diretta del bambino è sempre un passaggio fondamentale per il clinico, a cui sarebbe preferibile non sostituire l’uso di tecniche standardizzate come l’uso di test o questionari ma integrare i diversi metodi. (2) La seconda area che bisogna analizzare per capire se vi è una manifestazione sintomatologica nel segnale derivante dal bambino o dalla famiglia è il linguaggio, inteso come la capacità del bambino di esprimere a parole il disagio o il segnale che sta mostrando. Il bambino nella misura in cui viene confrontato con adulti che si occupano di lui non può essere tenuto fuori dal processo diagnostico: non bisogna mai fare l’errore di non chiedere al bambino cosa sta succedendo, come si sente e perché è lì a chiederci “aiuto”. (3) La terza area di analisi è la famiglia: i genitori parlano del bambino dal loro punto di vista ma il loro punto di vista può essere relazionale, cioè legato alla relazione che hanno con il bambino, di conseguenza potrebbe essere soggetto a “valutazioni soggettive”, quindi potrebbe risultarci utile avere anche un punto di vista istituzionale, cioè avere un confronto con la maestra che può parlare del bambino dal punto di vista scolastico, che dovrebbe apparire maggiormente oggettivo - più punti di vista si hanno a disposizione migliore può essere la valutazione. La quarta area che andiamo a indagare per rilevare se esiste il processo di trasformazione del segnale in sintomo è quella della comunicazione con i contesti di vita del bambino. L’area dei simboli, l’area dei giochi e l’area del disegno risultano fondamentali in fase di assessment, insieme al colloquio (con il bambino stesso, con la famiglia e con il contesto) e all’osservazione (sia naturalistica sia tramite misure standardizzate). Tutte queste aree vengono indagate e tutte queste informazioni vengono raccolte per fare il passaggio tra il segnale e il sintomo, cioè il passaggio che ci consente di attribuire al segnale del bambino un valore sintomatologico, cioè di una manifestazione di un disagio che necessita di un interesse clinico e non solo evolutivo. Quando invece il clinico avrà verificato la natura sintomatologica del segnale entreremo nell’area subclinica o clinica.  Per quanto riguarda la prima infanzia e l’età scolare devono essere inclusi nel processo di valutazione o Colloqui clinici e interviste con i genitori  In questo ambito va raccolta innanzitutto l’anamnesi relativa alle tappe di sviluppo del bambino, contestualizzando anche l’emergere della sintomatologia rispetto al percorso evolutivo. È importante da questo punto di vista che il clinico possa iniziare a definire traiettorie evolutive che tengano conto delle risorse del bambino come anche delle aree di vulnerabilità.  Di particolare rilievo è inoltre la valutazione della qualità delle rappresentazioni che i genitori hanno costruito relativamente al bambino e a se stessi come genitori. Per esplorare la qualità di tali rappresentazioni possono essere utilizzati colloqui liberi o interviste semistrutturate che valutano le rappresentazioni genitoriali e l’esperienza soggettiva dei genitori rispetto alla relazione con il bambino; è inoltre importante considerare la qualità della funzione riflessiva del genitore, cioè la sua capacità di riconoscere gli stati mentali del bambino in relazione ai suoi bisogni e desideri e alle sue intenzioni e aspettative.  Infine attraverso i colloqui è anche possibile esplorare la qualità delle dinamiche familiari e di coppia considerando il loro possibile impatto sullo sviluppo del bambino. o Valutazione del funzionamento psicologico del bambino. A seconda dell’età del bambino e delle sue competenze, il livello e la qualità dello sviluppo motorio, cognitivo, linguistico, affettivo e relazionale potranno essere indagati attraverso tecniche di osservazione che possono andare dal gioco libero alle osservazioni strutturate, attraverso sedute di gioco, colloqui clinici o uso di scale di valutazione e test tra cui quelli proiettivi, grafici e tematici. (1) Nella prima infanzia è molto importante anche valutare la reattività e l’elaborazione dell’informazione sensoriale, del tono motorio e della capacità di pianificazione motoria. (2) Nella seconda infanzia è necessario approfondire la qualità delle rappresentazioni delle relazioni che il bambino ha costruito nell’ambito della sua storia affettiva. Quest’area può essere approfondita attraverso tecniche narrative o proiettive. o Osservazione delle dinamiche familiari e dei pattern di interazione. In questo ambito possono essere utilizzate osservazioni non strutturate o procedure strutturate che valutano la relazione o specificatamente i modelli di attaccamento (Strange Situation della Ainsworth).  Per quanto riguarda l’adolescenza, la metodologia di valutazione deve tenere conto della specifica fase evolutiva che vede contrapposte le spinte verso l’autonomia e la dipendenza ancora presente dalla famiglia. Per questa ragione può essere utile prevedere due setting paralleli: (1) uno che consideri l’intero nucleo familiare o la coppia genitoriale e (2) l’altro che permetta all’adolescente di sperimentare uno spazio personale e privato in cui parlare della sua sofferenza. Per quanto riguarda la famiglia è importante considerare l’impatto che l’adolescenza del figlio ha avuto sulle dinamiche familiari. Per quanto riguarda il colloquio clinico con l’adolescente è necessario esplorare, oltre alla capacità di impegnarsi e collaborare alla relazione con il clinico, le capacità di sperimentare e mantenere relazioni familiari e amicali, le rappresentazioni di sé e dell’altro, le modalità difensive prevalenti e la qualità degli affetti. Il funzionamento scolastico, il gruppo dei pari, le relazioni amicali e quelle sentimentali possono essere indagate sia nel colloquio individuale con l’adolescente come anche attraverso osservazioni e resoconti forniti da genitori, insegnanti o altre figure significative. Alla fine dell’iter diagnostico il clinico deve attuare il cosiddetto processo di restituzione, ovvero restituire agli interlocutori tutto ciò che gli hanno dato: la restituzione è quel momento in cui il clinico si mette insieme al bambino e alla sua famiglia, ripercorre con loro la storia dell’iter diagnostico e restituisce loro ai cosa ha visto. La restituzione è fondamentale perché tutti noi vogliamo indietro una parte di ciò che abbiamo dato all’altro. Il clinico deve restituire al paziente una parte elaborata di ciò che ha osservato. La restituzione è la base per il progetto terapeutico, quindi sulla base della restituzione il clinico lavora con la famiglia e il bambino per decidere cosa fare. La prevenzione e gli interventi in età educativa Il progetto terapeutico è sempre un incontro tra cosa il clinico pensa di poter fare e cosa il paziente e la famiglia tollerino che si faccia: è necessario quindi che il clinico interagisca con il bambino e la famiglia per costruire insieme a loro il progetto terapeutico, perché questo è qualcosa che va costruito con la famiglia e il bambino. Un buon percorso diagnostico deve prevedere sempre la messa in atto di strumenti che misurino la componente clinica ma anche di strumenti che misurino quello che nel bambino sta progredendo e quindi non è oggetto di intervento. Le basi su cui appoggiare l’intervento infatti sono le risorse del bambino, ciò che in lui funziona bene. Gli interventi preventivi nella prima infanzia rappresentano attualmente una risorsa fondamentale per la promozione della salute e per la riduzione dei rischi che possono intervenire precocemente nello sviluppo determinando percorsi evolutivi disadattivi verso la psicopatologia. Possiamo distinguere in questo senso  Interventi di prevenzione primaria che cercano di ridurre le probabilità di insorgenza di una psicopatologia infantile attraverso programmi che sostengono i fattori protettivi e riducono i fattori di rischio e che interessano la popolazione generale.  Interventi di prevenzione secondaria che identificano precocemente una patologia o i fattori di rischio specifici in grado di determinare alterazione nei percorsi evolutivi e intervengono per prevenire la progressione e ridurne gli effetti.  Interventi di prevenzione terziaria che sono messi in atto quando una psicopatologia è già presente, anche se non strutturata, ed è necessario ridurne l’impatto negativo a lungo termine, ripristinando gli aspetti funzionali.  La psicopatologia e il disturbo vanno letti in chiave evolutiva, come esito della deviazione dal percorso normativo e come processi che si dispiegano nel tempo.
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