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Puskin Aleksandr Sergeevic - La Figlia del Capitano (integrale), Dispense di Lingua Russa

Puskin Aleksandr Sergeevic - La Figlia del Capitano (PDF integrale in italiano) Corso: Lingua / Cultura Russa

Tipologia: Dispense

2018/2019

In vendita dal 27/09/2023

GianlucaStival
GianlucaStival 🇮🇹

4.7

(6)

27 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Puskin Aleksandr Sergeevic - La Figlia del Capitano (integrale) e più Dispense in PDF di Lingua Russa solo su Docsity! Alexander Puskin LA FIGLIA DEL CAPITANO Custodisci l'onore fin da giovane Proverbio CAPITOLO PRIMO IL SERGENTE DELLA GUARDIA Sarebbe della guardia doman stesso capitano "Non occorre: servizio presti nell'esercito". Ben detto! Che si travagli un po'... [...] Ma chi è suo padre? KNIAZNIN (1) Il padre mio, Andréj Petrovic' Griniòv, nella sua gioventù aveva servito sotto il conte Minich, e era andato in pensione da primo maggiore nel 17... Da allora era vissuto nella sua campagna di Simbìrsk, dove aveva anche sposato la signorina Avdotia Vasìlievna Ju., figlia di un nobile povero del luogo. Eravamo nove figli. Tutti i miei fratelli e sorelle morirono nell'infanzia. Io fui iscritto nel reggimento Semiònovski come sergente, grazie al maggiore della guardia principe B., nostro prossimo parente. Fui considerato in licenza fino al termine degli studi. A quel tempo non ci si cresceva al modo di oggi. Dall'età di cinque anni fui messo in mano allo staffiere Savelic', datomi come precettore per la sua sobria condotta. Sotto la sua vigilanza, nel dodicesimo anno, imparai a leggere e scrivere il russo, e potevo assai correttamente giudicare delle qualità di un levriero maschio. A quel tempo il babbo prese per me un francese, "mossié" Beaupré, che fecero venire da Mosca con l'annuale scorta di vino e d'olio d'oliva. La sua venuta spiacque molto a Savelic'. "Grazie a Dio", egli bofonchiava tra sé, "il bimbo è, sembra, lavato, pettinato, nutrito. Che bisogno c'era di spendere denaro d'avanzo e prendere un 'mossié', come se ci mancasse gente nostra!". Beaupré nella patria sua era stato parrucchiere, quindi in Prussia soldato, poi era venuto in Russia "pour être outchitel" (per fare il precettore), senza capire molto il significato di questa parola. Era un buon figliuolo, ma sventato e sregolato all'estremo. Sua principale debolezza era la passione per il bel sesso; non di rado a causa delle sue tenerezze riceveva spintoni per i quali gemeva per ventiquattr'ore intere. Inoltre non era nemmeno, secondo la sua espressione, "un nemico della bottiglia", cioè, a dirla in russo, gli piaceva vuotarne un goccio di troppo. Ma poiché il vino si serviva da noi solo a pranzo, e eziandio un bicchierino a testa, in occasione di che il precettore di solito lo saltavano, il mio Beaupré si abituò prestissimo all'acquavite russa, e cominciò perfino a preferirla ai vini della sua patria, come senza confronto più salutare per lo stomaco. C'intendemmo subito, e, mio entusiasmo. Il pensiero del servizio militare si fondeva in me coi pensieri della libertà, coi piaceri della vita pietroburghese. Mi figuravo ufficiale della guardia, il che, secondo la mia opinione, era il colmo della felicità. Al babbo non piaceva né mutare i propri disegni, né differirne l'esecuzione. Venne fissato il giorno della mia partenza. Alla vigilia il babbo dichiarò che intendeva scrivere per mio mezzo al futuro mio superiore, e chiese penna e carta. - Non dimenticare, Andréj Petrovic', - disse la mamma, - di salutare anche da parte mia il principe B.: io poi spero che lui non priverà Petruscia dei suoi favori. - Che sciocchezza! - rispose il babbo, aggrottando le ciglia, a che proposito mi metterò a scrivere al principe B.? - Ma se hai detto che volevi scrivere al superiore di Petruscia! - Ebbene, che cosa ci trovi? - Ma il superiore di Petruscia è il principe B. Sai bene che Petruscia è iscritto al reggimento Semiònovski. - Iscritto! E che mi fa, ch'è iscritto? Petruscia a Pietroburgo non andrà. Che cosa può imparare, servendo a Pietroburgo? A scialacquare e fare il rompicollo? No, faccia servizio nell'esercito, e tiri la carretta, e senta l'odore della polvere, e sia un soldato e non un damerino nella guardia! Dov'è il suo passaporto? Dallo qua. La mamma cercò il mio passaporto, custodito nel suo scrignetto con la camicina nella quale mi avevano battezzato, e lo consegnò al babbo con mano tremante. Il babbo lo lesse con attenzione, lo pose davanti a sé sulla tavola e cominciò la sua lettera. La curiosità mi tormentava. Dove mi mandavano, se non più a Pietroburgo? Non toglievo gli occhi dalla penna del babbo, che si moveva abbastanza lentamente. Infine egli terminò, suggellò la lettera in un piego col passaporto, si tolse gli occhiali e, chiamatomi, disse: - Eccoti una lettera per Andréj Kàrlovic' R., mio vecchio camerata e amico. Vai a Orenbùrg a servire sotto i suoi ordini. E così tutte le mie brillanti speranze rovinavano! Invece dell'allegra vita pietroburghese mi aspettava la noia in una contrada sperduta e lontana. Il servizio militare, a cui un minuto prima pensavo con tanto ardore, mi parve una dura infelicità. Ma non c'era da discutere! La mattina del giorno dopo fu condotta all'ingresso la carretta da viaggio; vi misero su una valigia, una cassetta col servizio da tè e fagotti con panini e pasticcini, ultimi segni dei domestici vezzi. I miei genitori mi diedero la benedizione. Il babbo mi disse: - Addio, Piotr. Servi fedelmente colui al quale avrai giurato; obbedisci ai superiori; non correre dietro alla loro benevolenza; non cercare tu stesso il servizio: dal servizio non esimerti; e ricorda il proverbio: "Bada al vestito fin da nuovo, e all'onore fin da giovane". - La mamma in lacrime raccomandò a me di aver cura della mia salute, e a Savelic' di vegliare sul ragazzino. Mi misero un pellicciotto di lepre, e una pelliccia di volpe sopra. Sedetti nel carro con Savelic' e mi posi in cammino, sciogliendomi in lacrime. Quella stessa notte arrivai a Simbìrsk, ove dovetti passare tutta una giornata per l'acquisto di cose di necessità; del che era stato incaricato Savelic'. Mi fermai in una locanda. Savelic' fin dalla mattina andò in giro per le botteghe. Annoiatomi di guardare dalla finestra nel sudicio vicolo, me n'andai vagando per tutte le stanze. Entrato nella sala del biliardo, vidi un signore alto, sui trentacinque anni, dai lunghi baffi neri, in veste da camera, con la stecca in mano e la pipa tra i denti. Giocava col pallaio, il quale a ogni vincita beveva un bicchierino di vodka, e a ogni perdita doveva ficcarsi carponi sotto il biliardo. Presi a guardare il loro giuoco. Più a lungo durava, più le gite carponi si facevano frequenti, finché in ultimo il pallaio restò sotto il biliardo. Il signore pronunciò sopra di lui alcune energiche espressioni a guisa di orazione funebre e mi propose di fare una partita. Rifiutai adducendo che non sapevo giocare. Ciò parve riuscirgli strano. Mi guardò quasi con compassione; tuttavia attaccammo discorso. Seppi che si chiamava Ivàn Ivànovic' Zurin, ch'era capitano del reggimento ussari a cavallo di... e si trovava a Simbìrsk per ricevere le reclute, e alloggiava all'albergo. Zurin mi offerse di pranzare con lui, con quel che il convento passava, da soldati. Acconsentii volentieri. Ci mettemmo a tavola. Zurin beveva molto e faceva bere anche me, dicendo che bisognava assuefarsi al servizio, mi raccontava aneddoti militari, per i quali poco mancava non schiattassi dalle risa, e ci alzammo da tavola amici perfetti. Qui si offrì d'insegnarmi a giocare al biliardo. - Per noialtri soldati, - diceva, - è indispensabile. In marcia, per esempio, arrivi in un sito; di che vuoi che ci si occupi? Non si possono mica sempre picchiare gli ebrei. Te ne vai per forza all'albergo e ti metti a giocar al biliardo; e per questo bisogna saper giocare! Fui convinto perfettamente e intrapresi con grande assiduità lo studio. Zurin m'incoraggiava a gran voce, stupiva dei miei rapidi progressi, e dopo qualche lezione mi propose di giocare a soldi, a quattrini. Ai tuoi servizi. "Ivàn Zurin". Non c'era che fare. Assunsi un'aria indifferente e, rivolgendomi a Savelic', che "e dei soldi, e della biancheria e degli affari miei aveva cura", ordinai di consegnare ai ragazzo i cento rubli. - Come! perché? - domandò sbalordito Savelic'. - Glieli devo, - risposi con la maggior freddezza possibile. - Li devi! - replicò Savelic', piombando in un sempre maggior sbalordimento, - ma quando, signore, facesti in tempo a indebitarti con lui? C'è qualcosa che non va. Come vuoi, signore, ma i soldi non li darò. Pensai che, se in questo minuto decisivo non la vincevo sull'ostinato vecchio, con l'andar del tempo mi sarebbe stato difficile liberarmi della sua tutela,e,guardandolo orgogliosamente, dissi: - Io sono il tuo signore, e tu sei il mio servo. I denari sono miei. Li ho perduti giocando perché così mi saltò in mente; ti consiglio di non ragionare tanto e di fare quel che ti si ordina. Savelic' fu così colpito dalle mie parole che batté le mani e rimase stordito. - Perché te ne stai lì? - gridai irosamente. Savelic' si mise a piangere. - "Bàtiuska", Piotr Andreic', - disse con voce tremante, - non mi fare morire di dispiacere. Luce mia, dà retta a me, che sono vecchio, scrivi a quel brigante che scherzasti, che tali somme noi nemmeno le si vede. Cento rubli! Dio misericordioso! Di' che i genitori ti hanno rigorosamente proibito di giocare, fuorché a noci... - Basta ciarlare, - lo interruppi severo, - da' qua i soldi, o ti metterò fuori per le spalle. Savelic' mi guardò con profonda tristezza e andò a prendere la somma da me dovuta. Mi rincresceva per il povero vecchio; ma volevo affrancarmi e dimostrare che non ero più un bambino. Il denaro fu recapitato a Zurin. Savelic' si affrettò a trarmi fuori della maledetta locanda. Comparve con la notizia che i cavalli erano pronti. Con la coscienza inquieta e un tacito pentimento partii da Simbìrsk, senza accomiatarmi dal mio insegnante e pensando di non rivederlo mai più. NOTE: Poeta e drammaturgo (1742-1791). CAPITOLO SECONDO LA GUIDA O paese mio, paesello, Paese sconosciuto! Perché mal non venni lo stesso, Perché un buon destrier non mi portò? Mi portar, me bravo giovine, La sveltezza, un franco ardire E i fumi della bettola. CANZONE ANTICA. Le mie meditazioni di viaggio non erano molto piacevoli. La mia perdita, secondo i prezzi di allora, non era di poco conto. Non potevo non riconoscere nell'anima che la condotta mia nella locanda di Simbìrsk era stata sciocca, e mi sentivo colpevole verso Savelic'. Tutto ciò mi tormentava. Il vecchio sedeva cupo sulla sponda del carro, voltandomi il dorso, e taceva, solo gemendo a tratti. Io volevo assolutamente far pace con lui, e non sapevo da che cosa cominciare. Infine gli dissi: - Via, via, Savelic'!; basta, facciamo la pace, ho torto; vedo io stesso che ho torto. Ieri commisi molte pazzie e ti offesi per nulla. Prometto di comportarmi d'ora in poi più saggiamente e di darti ascolto. Su, non essere in collera, facciamo pace. - Eh, "bàtiuska" Piotr Andreic'! - rispose lui con un profondo sospiro, - sono in collera con me stesso: ho torto io in pieno. Come potei lasciarti solo alla locanda? Che fare? Fui indotto in peccato: mi venne in mente di dare una capatina dalla sagrestana, di vedere la comare. Proprio così: dalla comare mia passai, e in prigione mi fermai. Un vero guaio! Come mi mostrerò agli occhi dei signori? Che diranno essi, quando sapranno che il ragazzo beve e giuoca? Per consolare il povero Savelic', gli diedi la parola di non disporre in avvenire di una sola copeca senza il suo consenso. A poco a poco egli si calmò, sebbene borbottasse pur sempre ogni tanto fra sé, scotendo la testa: cavalli stavano ritti, con le teste chine, e tremando ogni tanto. Il vetturale andava in giro, aggiustando i finimenti, visto che non sapeva che fare. Savelic' brontolava; io guardavo da tutte le parti, sperando di scorgere almeno un indizio di focolare o di strada, ma nulla potevo distinguere, salvo il vortice nevoso. A un tratto vidi qualcosa di nero. - Ehi, vetturale! - gridai, - guarda: che è quel nero laggiù? Il vetturale scrutò attentamente. - Solo Dio lo sa, signore, - disse, sedendo al suo posto, carro non è, albero non è, ma sembra che si muova. Un lupo o un uomo, dev'essere. Ordinai di dirigersi verso l'oggetto sconosciuto, che subito cominciò a spostarsi incontro a noi. Di lì a due minuti fummo di fronte a un uomo. - Ehi, buon uomo! - gli gridò il vetturale, - dimmi, non sai dov'è la strada? - La strada è qui; io sto sulla traccia dura, - rispose il viandante, - ma a che serve? - Stammi a sentire, contadinotto, - gli dissi, - conosci questo paese? Ti prendi l'impegno di condurmi a un alloggio? - Il paese mi è noto, - rispose il viandante, - grazie a Dio, l'ho percorso e ripercorso in lungo e in largo. Ma guarda che tempo: in men che non si dica, perdi la strada. Meglio fermarci qui, e aspettare; chi sa che non troviamo il cammino, regolandoci sulle stelle. Questo sangue freddo mi diede coraggio. M'ero ormai risolto, rimettendomi al volere di Dio, a pernottare in mezzo alla steppa, quando all'improvviso il viandante sedette lesto sulla sponda e disse al vetturale: - Be', grazie a Dio, il ricovero non è lontano, volta a dritta, e va'. - E perché devo andare a dritta? - domandò il vetturale con tono di malcontento, - dove la vedi la strada? Non ci pensare: se i cavalli sono d'altri e la bardatura non è tua, frusta e non fermarti. Mi sembrava che il vetturale avesse ragione. - Infatti, - dissi, - perché pensi che un asilo non sia lontano? - Ma perché il vento ha tirato di là, - rispose il viandante, e ho sentito che sapeva di fumo; senza dubbio c'è un villaggio vicino. La sua sagacia e la finezza del fiuto mi sbalordirono. Ordinai al vetturale di andare. I cavalli avanzavano pesantemente nella neve alta. Il carro procedeva adagio, ora entrando in un mucchio di neve, ora sprofondando in un borro e sbandando un po' da un lato, un po' dall'altro. Somigliava alla navigazione di un bastimento nel mare in tempesta. Savelic' gemeva, urtandomi a ogni istante nei fianchi. Io abbassai la stuoia, mi ravvolsi nella pelliccia e presi a sonnecchiare, cullato dal canto della tempesta e dal dondolio del lento viaggio. Feci un sogno che mai potei dimenticare, e nel quale tuttora vedo un che di profetico, quando lo associo alle strane circostanze della mia vita. Il lettore mi scuserà, perché probabilmente saprà per esperienza come sia proprio dell'uomo l'abbandonarsi alla superstizione, nonostante ogni possibile sprezzo dei pregiudizi. Mi trovavo in quello stato dei sensi e dell'anima in cui la realtà, cedendo alle fantasticherie, si fonde con esse nelle indistinte visioni del primo sonno. Mi sembrava che il turbine di neve tuttora infuriasse e noi vagassimo ancora per il nevoso deserto... D'un tratto scorsi un portone e entrai nella corte padronale della nostra fattoria. Primo mio pensiero fu il timore che il babbo non si adirasse con me per l'involontario ritorno sotto il tetto paterno, e non lo prendesse per una meditata disobbedienza. Con inquietudine balzo fuori del carro e vedo: la mamma mi viene incontro sul terrazzino con aria di profondo dispiacere. "Piano", mi dice, "il babbo è malato, in punto di morte, e vuole dirti addio". Preso da terrore, la seguo nella stanza da letto. Vedo che la stanza è debolmente illuminata; vicino al letto gente in piedi con visi mesti. Mi accosto pian piano al letto; la mamma solleva la cortina e dice: "Andréj Petrovic'! E' arrivato Petruscia; è tornato, avendo saputo della tua malattia; benedicilo". Mi posi in ginocchio e fissai i miei occhi sull'infermo. Ma che è?... Invece del padre mio, vedo che in letto giace un contadino dalla barba nera, guardandomi lietamente. Perplesso, mi girai verso la mamma, dicendole: "Che significa ciò? Non è il babbo. E a che proposito dovrei domandare la benedizione di un contadino?". "Fa lo stesso, Petruscia", mi rispose la mamma, "è il tuo padrino: baciagli la mano, e che egli ti benedica...". Io non acconsentivo. Allora il contadino saltò giù dal letto, cavò fuori una scure da dietro il dorso e prese a brandirla in tutti i sensi. Io volevo fuggire... e non potevo; la stanza si riempì di cadaveri; inciampavo nei corpi e scivolavo nelle pozze di sangue. - Taci, zio, - ribatté il mio vagabondo, - vi sarà la pioggia; ci saranno pure i funghi, e ci sarà il paniere; e ora - (qui egli strizzò nuovamente un occhio) - ficca la scure dietro il dorso: c'è in giro il guardaboschi. Vostra nobiltà! alla vostra salute! A queste parole prese il bicchiere, si segnò e bevve di un fiato, poi mi fece un inchino e tornò sul soppalco. Nulla potei allora capire di quella conversazione furbesca, ma poi mi accorsi che si trattava di faccende dell'esercito del Jaìk, in quel tempo appena sottomesso dopo la rivolta del 1772. Savelic' aveva ascoltato con aria di grande malcontento. Aveva guardato con sospetto ora il padrone, ora la guida. La locanda, o, come si dice laggiù, l'"umiòt", si trovava fuori mano, nella steppa, lontano da ogni villaggio, e somigliava molto a un rifugio di briganti. Ma non c'era niente da fare. Non si poteva neppure pensare a continuare il viaggio. L'inquietudine di Savelic' mi divertiva parecchio. Nel frattempo mi disposi a pernottare e mi coricai su una panca. Savelic' si risolse ad andarsene sulla stufa; il padrone si stese per terra. Ben presto tutta l'isba prese a russare, e io mi addormentai come morto. Svegliatomi la mattina abbastanza tardi, vidi che la tempesta si era calmata. Il sole splendeva. La neve giaceva a guisa di accecante lenzuolo sull'immensa steppa. I cavalli erano attaccati. Saldai il conto al padrone, il quale ci prese uno scotto così modesto che perfino Savelic' non attaccò briga con lui e non si diede a tirare sul prezzo, secondo il suo solito, e i sospetti del giorno prima si cancellarono totalmente dalla sua testa. Chiamai la guida, la ringraziai per l'aiuto prestatoci e ordinai a Savelic' di darle mezzo rublo di mancia. Savelic' si accigliò. - Mezzo rublo di mancia! - disse, - perché ciò? Perché tu stesso hai voluto portarlo alla locanda? Come vuoi, signore: non abbiamo mezzi rubli soverchi. A dar la mancia a tutti, toccherà presto a te stesso patire la fame. Non potevo litigare con Savelic'. I denari, giusta la mia promessa, erano a sua piena disposizione. Mi rincresceva però di non potere ringraziare un uomo che mi aveva tratto, se non da un malanno, almeno da una spiacevole situazione. - Va bene, - dissi con flemma, - se non vuoi dar il mezzo rublo, tiragli fuori qualcosa del mio vestiario. E' vestito troppo leggero. Dagli il mio pellicciotto di lepre. - Per carità, "bàtiuska" Piotr Andreic'! - disse Savelic', perché dargli il tuo pellicciotto di lepre? Lui se lo berrà, il cane, alla prima bettola. - Questo, vecchio, non è impiccio tuo, - disse il mio vagabondo,- se me lo berrò oppure no. Sua nobiltà mi favorisce la pelliccia togliendola dalle spalle sue: tale è la sua volontà di padrone, e è dover tuo di servo non discutere, ma ubbidire. - Non hai timore di Dio, brigante! - gli rispose Savelic' con voce stizzita, - vedi che il ragazzino ancora non capisce, e ti fai un piacere di spogliarlo, per via della sua semplicità. Che ti serve il pellicciotto del signorino? Non ci entreranno nemmeno le tue dannate spallacce. - Prego di non far lo spiritoso, - dissi al mio precettore, porta qui subito il pellicciotto. - Signore Iddio! - gemé il mio Savelic', - un pellicciotto di lepre quasi nuovo! E pazienza a chiunque altro, ma ad un ubriacone e malandrino! Tuttavia il pellicciotto di lepre comparve. Il contadino prese a misurarselo lo stesso. Effettivamente il pellicciotto, non più comodo nemmeno per me, era un po' stretto per lui. In qualche modo però egli s'ingegnò e se lo mise indosso, scucendone i punti. Savelic' per poco non urlò, sentendo come si rompevano i fili. Il vagabondo era straordinariamente contento del mio regalo. Mi accompagnò al carro e disse con un profondo inchino: - Grazie, vostra nobiltà! Vi compensi il Signore del vostro beneficio. Finché campo, non scorderò la vostra bontà. Egli se n'andò dalla sua parte e io mi avviai oltre, senza far caso a Savelic', e ben presto dimenticai la tempesta di neve del giorno prima, la mia guida e il pellicciotto di lepre. Giunto a Orenbùrg, mi presentai difilato dal generale. Vidi un uomo di statura alta, ma già incurvata dalla vecchiezza. I suoi lunghi capelli erano completamente bianchi. La vecchia uniforme stinta rammentava un guerriero dei tempi di Anna Ioànnovna , e nella sua parlata si sentiva fortemente la pronuncia tedesca. Gli porsi la lettera del babbo. Al nome di lui mi gettò una rapida occhiata. - Tio mio! - disse, - non mi sembra molto che Andréj Petrovic' era ancor tella tua età, e ora ecco che ciofinotto ha cià!... Ah, il tempo, il tempo! Dissuggellò la lettera e si mise a leggerla sottovoce, facendo le sue osservazioni: - "Egregio signor Andréj Kàrlovic', spero che vostra eccellenza...". Che cerimonie sono cveste ? oipò, come non si fa per lo più malinconiche. La vita di guarnigione aveva per me scarsa attrattiva. Cercavo di figurarmi il capitano Mironov, mio futuro superiore, e lo immaginavo un vecchio severo, collerico, che nulla conosceva fuorché il suo servizio, e pronto per ogni bagattella a mandarmi agli arresti a pane e acqua. Nel frattempo cominciò a imbrunire. Si andava abbastanza velocemente. - E' lontana la fortezza? - domandai al mio vetturale. - Non è lontana, - rispose, - eccola, si vede già. Guardai da tutte le parti, aspettandomi di scorgere minacciosi bastioni, torri e un terrapieno, ma nulla vidi, tranne un villaggetto, circondato da un recinto di travi. Da una parte stavano tre o quattro mucchi di fieno mezzo coperti di neve; dall'altra un mulino storto, dalle ali rozze, pigramente abbassate. - Ma dov'è la fortezza? - domandai con meraviglia. - Ma eccola, - rispose il vetturale, indicando il villaggetto, e a queste parole vi entrammo. Presso la porta scorsi un vecchio cannone di ferro fuso; le vie erano strette e storte; le isbe basse e per la maggior parte coperte di paglia. Ordinai di andare dal comandante, e di lì a un minuto il carro si fermò davanti a una casetta di legno, costruita su un rialto, vicino alla chiesa, pur essa di legno. Nessuno mi venne incontro. Passai nell'ingresso e aprii la porta che dava in anticamera. Un vecchio invalido seduto sulla tavola, cuciva una toppa turchina sul gomito di una vecchia divisa. Gli ordinai di annunciarmi. - Entra, "bàtiuska", - rispose l'invalido, - i nostri sono in casa. Entrai in una stanza pulita, arredata all'antica. In un angolo stava un armadio con stoviglie; sulle pareti pendeva un diploma d'ufficiale in cornice con vetro; lì vicino facevano bella mostra quadretti di poco prezzo, raffiguranti la presa di Kustrin e di Ociakov, nonché la scelta della sposa e i funerali del gatto (...celebrati dai topi. Stampa satirica diffusa in Russia. Nota dei curatori). Presso la finestra sedeva una vecchina in mantelletta foderata di pelo e con un fazzoletto in testa. Dipanava una matassina che un vecchietto guercio, in divisa d'ufficiale, teneva distesa sulle mani. - Che desiderate, "bàtiuska"? - domandò, continuando la sua occupazione. Risposi ch'ero venuto a prendere servizio e a presentarmi come di dovere al signor capitano, e a queste parole fui per rivolgermi al vecchietto guercio, prendendolo per comandante; ma la padrona di casa interruppe il discorso da me mandato a memoria. - Ivàn Kuzmìc' in casa non c'è, - rispose, - è stato invitato da padre Gherassim; ma fa lo stesso, "bàtiuska", io sono la sua massaia. Prego di volerci bene e favorire. Siedi, "bàtiuska". Diede una voce a una ragazza e le ordinò di chiamare il sottufficiale. Il vecchietto col suo occhio solitario mi guardava con curiosità. - Oso domandare, - disse, - in che reggimento avete servito? Soddisfeci la sua curiosità. - E oso domandare, - continuò: - perché siete passato dalla guardia in una guarnigione? Risposi che tale era stato il volere dei superiori. - Sarà per atti non convenienti a un ufficiale della guardia, immagino? - continuò l'instancabile interrogatore. - Smettila di dire insulsaggini, - gli disse la moglie del capitano, - lo vedi, il giovane è stanco dal viaggio; non ha la testa a te... tieni dunque le mani più dritte... - E tu, "bàtiuska" mio, - continuò rivolgendosi a me, - non t'affiiggere che ti abbiano spedito in quest'angolo remoto. Non sei il primo, non sarai l'ultimo. Prima si sopporta, poi ci si affeziona. Svabrin, Aleksiéj Ivanic', sono ormai cinque anni che fu trasferito da noi per un'uccisione. Sa Dio come fu indotto in peccato; egli, vedi, andò fuori di città con un tenente, e avevano preso con loro le spade, e giù a colpirsi l'un l'altro, e Aleksiéj Ivanic' infilzò il tenente, e ancora davanti a due testimoni! Che vuoi farci? Tutti si può peccare. In quel momento entrò un sottufficiale, un cosacco giovane e ben fatto. - Maksimic'! - gli disse la moglie del capitano, - assegna al signor ufficiale un alloggio, ma il più pulito possibile. - Ubbidisco, Vassilissa Jegòrovna, - rispose il sottufficiale, non metteremmo sua nobiltà da Ivàn Polezaiev? - Vaneggi, Maksimic', - disse la moglie del capitano, - da Polezaiev sono già allo stretto; poi mi è compare e si rammenta che siamo suoi superiori. Conduci il signor ufficiale... com'è il vostro nome e patronimico, "bàtiuska" mio ? trattò come se mi avesse sempre conosciuto. L'invalido e Palaska mettevano la tovaglia. - Cos'è che il mio Ivàn Kuzmìc' oggi si strapazza così? - disse la moglie del comandante: - Palaska, chiama il padrone a pranzare. Ma dov'è Mascia? Qui entrò una fanciulla sui diciotto anni, dal viso tondeggiante, colorita, dai capelli di un biondo chiaro, pettinati dietro le orecchie, che aveva tutte arrossate. A prima vista non mi piacque molto. La guardavo con prevenzione: Svabrin mi aveva descritto Mascia, la figlia del capitano, come una perfetta sciocchina. Maria Ivànovna sedette in un angolo e si mise a cucire. Intanto servirono la minestra di cavoli. Vassilissa Jegòrovna, non vedendo il marito, mandò una seconda volta Palaska a chiamarlo. - Di' al padrone: gli ospiti aspettano, la minestra si raffredda; grazie a Dio, gli esercizi non scapperanno; avrà tempo di sgolarsi. Il capitano di lì a un po' comparve, accompagnato dal vecchietto guercio. - Che è ciò, "bàtiuska" mio? - gli disse la moglie, - il mangiare è servito da un pezzo, e non si riesce a farti venire. - Ma senti, Vassilissa Jegòrovna, - rispose Ivàn Kuzmìc', - ero occupato col servizio, istruivo i soldatini. - Ih, smetti! - ribatté la moglie del capitano, - è solo una chiacchiera che istruisci i soldati: né loro riusciranno a imparare il servizio, né tu ci sai fare. Se te ne stessi a casa a pregare Dio, sarebbe meglio. Cari ospiti, favorite a tavola. Sedemmo a pranzo. Vassilissa Jegòrovna non stava zitta un momento e mi tempestava di domande: chi erano i miei genitori, erano vivi, dove abitavano e qual era la fortuna loro? Sentendo che il babbo aveva trecento contadini servi: - Vi par poco! disse; - di gente ricca ce n'è al mondo! E noi, "bàtiuska" mio, abbiamo in tutto e per tutto la serva Palaska; ma, grazie a Dio, tiriamo avanti. Un sol guaio: Mascia è una ragazza da marito, e che dote ha? Un pettine fitto, lo scopettino, e tre soldini (Dio, perdonami! ), il necessario per andare al bagno. Fortuna, se si troverà un brav'uomo; se no, stattene per sempre zitella. Diedi un'occhiata a Maria Ivànovna; lei arrossi tutta, e le gocciolarono perfino delle lacrime nel piatto. Ne ebbi pietà, e mi affrettai a cambiare discorso. - Ho sentito, - dissi, abbastanza fuor di proposito, - che la vostra fortezza si preparano ad assaltarla i baschiri. - Da chi, "bàtiuska", hai sentito questo? - domandò Ivàn Kuzmìc'. - Così mi dissero a Orenbùrg, - risposi. - Frottole, - disse il comandante, - da noi è un pezzo che non si sente nulla. I baschiri sono gente spaurita, e i chirghisi hanno avuto una lezione. Non credo che ci verranno addosso; ma se verranno, darò loro una strigliata che li calmerò per un dieci danni. - E non avete paura, - continuai, rivolgendomi alla moglie del capitano, - di rimanere in una fortezza esposta a tali pericoli? - E' l'abitudine, "bàtiuska" mio, sono vent'anni che dal reggimento ci trasferirono qui, e Dio ne scampi, come temevo questi dannati infedeli! Quando vedevo berretti di lince, e quando sentivo le loro grida, credi, padre mio, mi mancava il cuore addirittura! E adesso sono talmente abituata, che non mi muovo dal posto, quando vengono a dirci che i malviventi girano nei pressi della fortezza. - Vassilissa Jegòrovna è una signora valorosissima, - osservò in tono d'importanza Svabrin, - Ivàn Kuzmìc' ne può far fede. - Ma senti, - disse Ivàn Kuzmìc', - la donna non è poi di razza timida. - E Maria Ivànovna, - domandai, - è ardita come voi? - Ardita Mascia? - rispose sua madre, - no, Mascia è una paurosona. Tuttora non può sentire un colpo di fucile: non fa che tremare. E quando due anni fa a Ivàn Kuzmìc' saltò in mente, il giorno del mio onomastico, di far sparare il nostro cannone, lei, la mia colombella, per poco dalla paura non se n'andò all'altro mondo. Da allora non spariamo più il maledetto cannone. Ci alzammo da tavola. Il capitano e la capitanessa andarono a dormire; e io mi recai da Svabrin, col quale passai l'intera serata. CAPITOLO QUARTO IL DUELLO Tal sia, mettiti or dunque in positura. Vedrai com'io trapasserò la tua figura. dispetto, Svabrin, di solito condiscendente, dichiarò reciso che la mia canzone era brutta. - Perché poi? - domandai, celando il mio dispetto. - Perché, - rispose, - simili versi sono degni del mio maestro Vassili Kirillic' Trediakovski, e mi rammentano parecchio le sue strofette amorose. Qui egli mi prese il quaderno e cominciò ad esaminare spietatamente ogni verso e ogni parola, canzonandomi nel modo più pungente. Io non ressi, strappai dalle sue mani il mio quadernetto, e dissi che mai più in vita mia gli avrei mostrato le mie composizioni. Svabrin rise anche di questa minaccia. - Vedremo, - disse, - se manterrai la tua parola; ai poeti occorre un ascoltatore, come a Ivàn Kuzmìc' una caraffetta di vodka prima di pranzo. E chi è questa Mascia verso la quale esprimi tenera passione e amoroso duolo? Non sarà Maria Ivànovna? - Non è affar tuo, - risposi accigliato, - chiunque sia questa Mascia. Non domando né il tuo parere, né le tue congetture. - O-oh! Poeta d'amor proprio e amante discreto! - continuò Svabrin, irritandomi sempre più, - ma ascolta un consiglio d'amico: se vuoi riuscire, ti suggerisco di non agire con le canzoncine. - Che significa ciò, signore? Spiegati. - Volentieri. Significa che, se vuoi che Mascia Mirònovna venga da te sul far della sera, invece di teneri versetti, devi regalarle un paio di buccole. Il sangue mi ribollì. - E perché hai di lei un simile concetto? - domandai, trattenendo a stento la mia indignazione. - Ma perché, - rispose con un sogghigno infernale, - so per esperienza usi e costumi suoi. - Tu menti, mascalzone! - gridai in un impeto di rabbia, - menti nel modo più spudorato. Svabrin cambiò faccia. - Questa non t'andrà liscia, - disse, stringendomi la mano, - mi darete soddisfazione. - Sia pure; quando vuoi! - risposi contento. In quell'istante ero pronto a farlo a pezzi. Mi avviai subito da Ivàn Ignatic' e lo trovai con l'ago in mano; per incarico della moglie del comandante, infilava funghi da seccare per l'inverno. - Ah, Piotr Andreic'! - disse, vedendomi, - benvenuto! Com'è che Dio v'ha mandato? per che faccenda, oso domandare? In brevi parole gli spiegai che avevo rotto con Aleksiéj Ivànovic', e pregavo lui, Ignatic', di farmi da padrino. Ivàn Ignatic' mi ascoltò con attenzione, sgranando il suo unico occhio. - Volete dire, - mi disse, - che vorreste infilzare Aleksiéj Ivanic', e desiderate che io vi faccia in ciò da testimone? E' così? oso domandare. - Proprio così. - Misericordia, Piotr Andreic'! Che avete ideato mai! Avete litigato con Aleksiéj Ivanic'? Gran guaio! Le parole non hanno odore. Lui ve ne ha dette, e voi cantategliele; lui ve le darà sul grugno, e voi su un'orecchia, sull'altra, su una terza a lui... e separatevi; ma già vi faremo riappacificare. Se no, è forse una buona cosa infilzare il prossimo, oso domandare? E pazienza se voi infilaste lui! Dio l'abbia in gloria, Aleksiéj Ivanic'; per lui non sono io stesso troppo tenero. Be', ma se sarà lui a infilarvi? S'è mai vista una cosa simile? Chi ci lascerà le penne, oso domandare? I ragionamenti del saggio tenente non mi scossero. Rimasi fermo nel mio proposito. - Come vi piace, - disse Ivàn Ignatic', - fate come vi sembra. Ma perché poi dovrei fare qui da testimone? Che c'entra? Uomini che si battono, che rarità è mai, oso domandare? Grazie a Dio, ho marciato contro lo svedese e contro il turco: ho visto di tutto. In qualche modo presi a spiegargli l'ufficio di padrino, ma Ivàn Ignatic' non poteva in alcun modo capirmi. - Come volete, - disse, - giacché devo mischiarmi in codesta faccenda, sarà meglio andare da Ivàn Kuzmìc', e riferirgli, per dovere di servizio, che in fortezza si va meditando un delitto, contrario all'interesse della corona: chi sa che il signor comandante non pensi bene di prendere i provvedimenti del caso. Mi spaventai e mi diedi a pregare Ivàn Ignatic' di non dire nulla al comandante; lo persuasi a stento; egli diede la sua parola e io Il giorno dopo, all'ora fissata, stavo già dietro i mucchi, aspettando il mio avversario. Ben presto comparve. - Ci possono sorprendere, - disse, - bisogna spicciarsi. Ci togliemmo le divise, rimanemmo nei soli giubbetti, e snudammo le spade. In quel momento, da dietro un mucchio di fieno, comparve di un tratto Ivàn Ignatic' con quattro o cinque invalidi. Egli c'ingiunse di presentarci al comandante. Ubbidimmo con dispetto; i soldati ci attorniarono e ci avviammo sulle orme di Ivàn Ignatic', che ci condusse in trionfo, procedendo a grandi passi, con mirabile gravità. Entrammo in casa del comandante. Ivàn Ignatic' aprì la porta, proclamando solennemente: - Li ho condotti! - Ci venne incontro Vassilissa Jegòrovna. - Ah, padri miei! S'è mai visto? come? che cosa? Nella nostra fortezza combinare un assassinio! Ivàn Kuzmìc', mettili subito agli arresti! Piotr Andreic', Aleksiéj Ivanic'! date qua le vostre spade, date, date qua. Palaska, porta queste spade nel ripostiglio. Piotr Andreic', questo da te non me l'aspettavo, come non hai scrupolo! Pazienza Aleksiéj Ivanic': lui anche dalla guardia è stato escluso per omicidio, lui anche nel Signore Iddio non crede; ma tu che fai? ti metti sulla stessa strada? Ivàn Kuzmìc' era pienamente d'accordo con la sua consorte e soggiunse: - Ma stai a sentire, Vassilissa Jegòrovna dice il vero. I duelli sono formalmente vietati in un'ordinanza militare. Intanto Palaska ci aveva ritirato le spade e le aveva portate nel ripostiglio. Non potei non mettermi a ridere. Svabrin serbò la sua gravità. - Con tutto il mio rispetto per voi, - le disse con flemma, non posso non osservarvi che vi disturbate per nulla, assoggettandoci al vostro giudizio. Lasciate ciò a Ivàn Kuzmic: è affar suo. - Ah, "bàtiuska" mio, - replicò la moglie del comandante, - ma che marito e moglie non fanno un solo spirito e un corpo solo? Ivàn Kuzmìc'! perché stai lì a sbadigliare? Mettili in differenti angoli a pane e acqua che gli passi il ruzzo; e che padre Gherassim imponga loro una penitenza, onde implorino il perdono da Dio e si pentano davanti agli uomini. Ivàn Kuzmìc' non sapeva a che risolversi. Maria Ivànovna era straordinariamente pallida. A poco a poco la burrasca tacque; la moglie del comandante si calmò e ci costrinse a baciarci l'un l'altro. Palaska ci portò le nostre spade. Uscimmo da casa del comandante, in apparenza, riconciliati. Ivàn Ignatic' ci seguì. - Come non aveste vergogna, - gli dissi adirato, - di denunciarci al comandante, dopo avermi dato la parola di non farlo? - Com'è vero Dio, a Ivàn Kuzmìc' non lo dissi, - rispose, Vassilissa Jegòrovna è riuscita a cavarmi tutto di bocca. E fu lei a disporre tutto, all'insaputa del comandante... Del resto, sia lode a Dio che tutto è finito così. A queste parole girò verso casa, e Svabrin e io rimanemmo da solo a solo. - La nostra faccenda non può finire così, - gli dissi. - Certo, - rispose Svabrin, - mi risponderete col vostro sangue dell'insolenza vostra; ma probabilmente ci terranno d'occhio. Dovremo fingere per qualche giorno. Arrivederci. E ci separammo come se nulla fosse stato. Io, tornato dal comandante, al mio solito, sedetti accanto a Maria Ivànovna. Ivàn Kuzmìc' non era in casa; Vassilissa Jegòrovna era occupata nelle faccende domestiche. Ci mettemmo a discorrere sottovoce. Maria Ivànovna mi rimprovera con tenerezza per l'inquietudine causata da tutta la mia baruffa con Svabrin. - Io tramortii, - disse, - quando ci dissero che intendevate battervi alla spada. Come sono strani gli uomini! Per una parola, che di lì a una settimana avrebbero certo dimenticato, sono pronti a scannarsi e a sacrificare non solo la vita, ma pure la coscienza, e la felicità di coloro che... Ma io sono convinta che non siete voi l'istigatore di questa rissa. Il torto è certo di Aleksiéj Ivanic'. - E perché mai così pensate, Maria Ivànovna? - Ma così... è tale uno schernitore! Non amo Aleksiéj Ivanic'! Egli mi ripugna molto; è strano: non vorrei a nessun patto che io pure non gli piacessi allo stesso modo. Mi turberebbe all'estremo. - E come pensate, Maria Ivànovna? Gli piacete, oppure no? Maria Ivànovna prese a balbettare e arrossì. - Mi sembra, - disse, - penso che gli piaccio. - E perché vi sembra così? Dopo aver ripreso i sensi, per qualche tempo non potei raccapezzarmi e capire quello che m'era accaduto. Giacevo in letto in una camera sconosciuta e sentivo una gran debolezza. Davanti a me stava Savelic' con una candeletta in mano. Qualcuno svolgeva cautamente le fasciature da cui avevo stretti il petto e la spalla. A poco a poco i miei pensieri si schiarirono. Rammentai il mio duello e mi avvidi ch'ero ferito. In quel momento l'uscio cigolò. - Ebbene, come va? - proferì in bisbiglio una voce che mi fece sussultare. - Sempre nello stesso stato, - rispose Savelic' con un sospiro,- sempre senza conoscenza, ecco ormai il quinto giorno. Io volevo girarmi, ma non potevo. - Dove sono? chi c'è? - dissi con sforzo. Maria Ivànovna si accostò al mio letto e si chinò su me. - Ebbene, come vi sentite? - disse. - Dio sia lodato, - risposi con voce debole, - siete voi, Maria Ivànovna? Ditemi... Non fui in grado di continuare e tacqui. Savelic' mandò un gemito. La gioia si dipinse sul suo viso. - E' rinvenuto! è rinvenuto! - ripeteva, - gloria a Te, o Signore! Orsù, "bàtiuska" Piotr Andreic'! quanto m'hai spaventato! Va meglio? Cinque giorni! Maria Ivànovna interruppe il suo dire. - Non parlare molto con lui, Savelic', - disse, - è ancora debole. Ella usci e riaccostò la porta pian piano. I miei pensieri si agitavano. Dunque ero in casa del comandante: Maria Ivànovna entrava da me. Volevo fare a Savelic' varie domande, ma il vecchio scosse la testa e si turò gli orecchi. Io con dispetto chiusi gli occhi e ben presto mi assopii. Svegliatomi, chiamai Savelic', ma invece di lui scorsi davanti a me Maria Ivànovna; la sua angelica voce mi salutò. Non posso esprimere il dolce sentimento che si impadronì di me in quell'istante. Afferrai la sua mano e mi ci attaccai, versando lacrime d'intenerimento. Mascia non la strappava via... e di un tratto i suoi labbruzzi sfiorarono la mia guancia, e io sentii il loro bacio fresco e ardente. Un fuoco mi percorse. - Cara, buona Maria Ivànovna, - le dissi, - sii mia moglie, acconsenti alla mia felicità. Ella si riprese. - Per l'amor dl Dio, calmatevi, - disse, togliendomi la sua mano, - siete ancora in pericolo, la ferita può aprirsi. Abbiatevi riguardo, non fosse che per me. A queste parole uscì, lasciandomi nell'ebbrezza dell'estasi. La felicità mi rianimò. Ella sarà mia! mi ama! Questo pensiero riempiva tutta la mia esistenza. Da allora andai sempre più migliorando. Mi curava il barbiere del reggimento, poiché nella fortezza non c'era altro medico e, grazie a Dio, non faceva il saputo. La giovinezza e la natura affrettarono la mia guarigione. Tutta la famiglia del comandante si dava premura di me. Maria Ivànovna non mi lasciava. Alla prima occasione favorevole, s'intende, ripresi la conversazione interrotta, e Maria Ivànovna mi ascoltò più pazientemente. Senza alcuna leziosaggine mi confessò la sua sincera propensione e disse che i suoi genitori sarebbero certamente stati lieti della sua felicità. - Ma pensaci bene, - soggiunse, - da parte dei tuoi parenti non vi saranno poi ostacoli? Mi feci pensieroso. Della tenerezza della mamma non dubitavo; ma, conoscendo l'indole e il modo di pensare di mio padre, sentivo che il mio amore non l'avrebbe troppo commosso, e che egli l'avrebbe considerato come il ghiribizzo di un giovanotto. Lo confessai francamente a Maria Ivànovna, e stabilii tuttavia di scrivere al babbo nella maniera più eloquente possibile, domandando la benedizione paterna. Feci vedere la lettera a Maria Ivànovna, la quale tanto la trovò persuasiva e commovente che non dubitò del suo buon esito, e si abbandonò ai sentimenti del tenero cuor suo con tutta la fiducia della giovinezza e dell'amore. Con Svabrin mi riconciliai nei primi giorni della mia guarigione. Ivan Kuzmìc', rimbrottandomi per il duello, mi disse: - Eh, Piotr Andreic'! dovrei metterti agli arresti, ma sei già punito anche così. Quanto ad Aleksiéj Ivanic', lo tengo chiuso sotto buona guardia nel deposito del grano, e la sua spada ce l'ha sotto chiave Vassilissa Jegòrovna. Se ne stia a riflettere, e a pentirsi. Ero troppo felice per serbare in cuore un sentimento malevolo. Dio lo vede, correvo a ripararti col mio petto dalla spada di Aleksléj Ivanic'! Me l'impedì la dannata vecchiaia. Ma che cosa feci a mamma tua? - Che facesti? - risposi, - chi ti pregò di scrivere denunce contro di me? Mi fosti preposto, forse, per spia? - Io scrissi denunce contro di te? - rispose Savelic' in lacrime. - Signore, re dei cieli! Ebbene, di grazia, leggi un po' quello che mi scrive il padrone: vedrai come ti ho denunciato. Qui egli cavò di saccoccia una lettera e lesse quanto segue: "Vergognati, vecchio cane, di non avermi riferito, nonostante i miei severi ordini, circa il figlio mio Piotr Andréievic', e che gli estranei son costretti a informarmi delle sue scappate. Così adempi il tuo dovere e la volontà del padrone? Ti manderò, vecchio cane, a pascolare i porci per aver nascosto la verità e per connivenza col giovanotto. Al ricevere della presente, ti ordino di scrivere senza indugio come va ora la sua salute, della quale mi scrivono che si è ristabilita; e in che posto precisamente fu ferito e se l'hanno guarito bene". Era evidente che Savelic' di fronte a me aveva ragione e che a torto l'avevo offeso coi rimproveri e i sospetti. Gli domandai perdono; ma il vecchio era inconsolabile. - Ecco quel che dovevo vedere, - ripeteva, - ecco quali ricompense ho ricevuto dai miei signori! Sono e un vecchio cane, e un guardiano di porci, e poi anche la causa della tua ferita!... No, "bàtiuska" Piotr Andreic'! non io, ma il maledetto "mossié" ha la colpa di tutto: lui t'insegnò a infilzare con gli spiedi di ferro, e a scalpicciare, come se con l'infilzare e lo scalpicciare ci si potesse guardare da un malvagio! C'era bisogno di prendere un "mossié" e di sprecar quattrini! Ma chi s'era preso la briga d'informare mio padre della mia condotta? Il generale? Ma egli sembrava non darsi troppo pensiero di me; e Ivàn Kuzmìc' non aveva stimato necessario far rapporto sul mio duello. Mi perdevo in congetture. I miei sospetti si fermarono su Svabrin. Lui solo aveva interesse a una denuncia, conseguenza della quale poteva essere il mio allontanamento dalla fortezza e una rottura con la famiglia del comandante. Andai ad annunciare tutto a Maria Ivànovna. Ella mi venne incontro sul terrazzino. - Che mai vi è accaduto? - disse, vedendomi, - come siete pallido! - Tutto è finito! - risposi, e le porsi la lettera del babbo. Ella impallidì a sua volta. Dopo aver letto, mi rese la lettera con mano tremante e con voce tremante disse: - Si vede che non è mio destino... I vostri parenti non mi vogliono nella loro famiglia. Sia fatta in tutto la volontà del Signore! Dio sa meglio di noi quel che ci occorre. Non c'è che fare, Piotr Andreic', siate almeno voi felice... - Non sarà mai! - gridai io, afferrandole la mano, - tu mi ami; io sono pronto a tutto. Andiamo a gettarci ai piedi dei tuoi genitori; loro sono gente semplice, non superbi dal cuor duro... Ci benediranno; ci sposeremo. E laggiù, col tempo, ne son certo, placheremo mio padre; la mamma sarà per noi; lui mi perdonerà... - No, Piotr Andreic', - rispose Mascia, - non ti sposerò senza la benedizione dei tuoi genitori. Senza la loro benedizione non avrai fortuna. Pieghiamoci al volere di Dio. Se troverai colei che t'è destinata, se amerai un'altra, Dio sia con te, Piotr Andreic'; e io per tutt'e due voi... Qui ella scoppia in pianto e mi lasciò; io volevo già seguirla in camera sua, ma sentii che non ero in grado di dominarmi, e tornai a casa. Sedevo immerso in profonde fantasticherie, quando a un tratto Savelic' interruppe le mie meditazioni. - Ecco, signore, - disse, porgendo un foglio scritto, - guarda se sono io il denunciatore del mio padrone, e se cerco di mettere in discordia padre e figlio. Gli presi dalle mani la carta: era la risposta alla lettera da lui ricevuta. Eccola, parola per parola: "Signore Andréj Petrovic', padre nostro graziosissimo! "Ricevetti il vostro grazioso scritto, nel quale ti compiaci di adirarti con me, vostro schiavo, che non abbia vergogna di non eseguir gli ordini dei miei signori; ma io non sono un vecchio cane, bensì il fedele vostro servo, ubbidisco agli ordini del padrone e sempre con zelo vi servii e ho fatto i capelli bianchi. Della ferita di Piotr Andreic' nulla vi scrissi, per non spaventare inutilmente, e sento dire che la padrona, la madre nostra Avdotia Vassìlievna, anche così già si e ammalata dallo spavento, e io pregherò Dio per la sua salute. E Piotr Andreic' fu ferito sotto la spalla destra, al petto, proprio sotto l'osso, profondo tre dita, e stette in letto in casa del comandante, dove lo portammo dalla riva, e lo curò il barbiere di qui, Stiepàn Paramonov, e ora Piotr Andreic', grazie a Dio, sta bene, e di lui nulla c'è da scrivere, fuor Ciò era accaduto qualche tempo prima del mio arrivo nella fortezza di Bielogòrsk. Tutto era ormai quieto, o tale sembrava; il comando troppo facilmente aveva creduto a un preteso pentimento degli scaltri ribelli, i quali covavano rancore e aspettavano un'occasione propizia per ricominciare i disordini. Torno al mio racconto. Una sera (fu al principio dell'ottobre 1773) me ne stavo a casa solo, ascoltando l'urlo del vento autunnale e guardando dalla finestra le nubi che fuggivano davanti alla luna. Vennero a chiamarmi a nome del comandante. Mi avviai subito. Dal comandante trovai Svabrin, Ivàn Ignatic' e il sottufficiale dei cosacchi. Nella stanza non c'era né Vassilissa Jegòrovna, né Maria Ivànovna. Il comandante mi salutò con aria impensierita. Chiuso l'uscio, ci fece seder tutti, fuorché il sottufficiale, che stava presso l'uscio, cavò di tasca una carta e ci disse: - Signori ufficiali, un'importante novità! Sentite quel che scrive il generale. - Qui egli inforcò gli occhiali e lesse quanto segue: "Al signor comandante la fortezza di Bielogòrsk Capitano Mironov. Segreto. Con la presente vi informo che il cosacco del Don e scismatico Jemeliàn Pugaciòv, fuggito dagli arresti,commettendo l'imperdonabile temerità di assumere il nome dell'imperatore Pietro Terzo, ha raccolto una masnada di scellerati, determinato una sommossa nei villaggi del Jaìk, e già preso e rovinato alcune fortezze, operando dappertutto saccheggi e omicidi. Pertanto, al ricevere della presente, dovrete, signor capitano, prendere immediatamente gli opportuni provvedimenti per respingere il menzionato malfattore e impostore, e, se possibile, anche per il completo suo annientamento, qualora si diriga verso la fortezza affidata alle vostre cure". "'Prendere gli opportuni provvedimenti!", - disse il comandante, levandosi gli occhiali e piegando la carta, - senti, è facile dire. Il malfattore poi, si vede, è forte, e noi abbiamo in tutto centotrenta uomini, senza contare i cosacchi, dei quali c'è poco da fidarsi, non sia detto per rimprovero a te, Maksimic', - il sottufficiale sorrise. - Però non c'è che fare, signori ufficiali! Siate diligenti, istituite servizi di guardia e ronde notturne, in caso di attacco chiudete le porte e fate uscire i soldati. Tu, Maksimic', sorveglia a dovere i tuoi cosacchi. Esaminare il cannone, e ripulirlo bene. E più di tutto conservare il segreto su tutto ciò, che in fortezza nessuno possa saperne prima del tempo. Distribuiti questi ordini, Ivàn Kuzmìc' ci accomiatò. Uscii con Svabrin, ragionando di quel che avevamo sentito. - Come pensi che andrà a finire? - gli domandai. - Dio lo sa, - rispose, - vedremo. Di grave per il momento non vedo nulla. Se poi... Qui egli si fece pensieroso e, distratto, prese a fischiettare un'arietta francese. Nonostante tutte le nostre cautele, la notizia della comparsa di Pugaciòv corse per la fortezza. Ivàn Kuzmic', per quanto stimasse molto la propria consorte, per nulla al mondo le avrebbe svelato un segreto, confidatogli per causa di servizio. Ricevuta la lettera del generale, egli in modo abbastanza ingegnoso aveva fatto uscire Vassilissa Jegòrovna, dicendole che padre Gherassim aveva ricevuto da Orenbùrg certe mirabolanti notizie, che teneva in gran segreto. Vassilissa Jegòrovna volle subito far visita alla moglie del "pop", e, per consiglio di Ivàn Kuzmìc', prese con sé anche Mascia, perché non si annoiasse a star sola. Ivàn Kuzmìc', rimasto padrone assoluto, ci aveva subito mandati a chiamare, e Palaska l'aveva chiusa nel ripostiglio, perché non potesse stare ad ascoltarci. Vassilissa Jegòrovna tornò a casa, senz'essere riuscita a saper nulla dalla moglie del "pop", e apprese che durante la sua assenza c'era stato consiglio da Ivàn Kuzmìc', e che Palaska era stata sotto chiave. Indovinò di esser stata ingannata dal marito, e procedette all'interrogatorio. Ma Ivàn Kuzmìc' si era preparato all'assalto. Non si turbò affatto e rispose bravamente alla sua curiosa coniuge: - Ma senti, mammina, alle nostre donne salta in testa di accendere le stufe con la paglia; e poiché ne può venire un guaio, ho dato severo ordine che d'ora in poi le donne non accendano con la paglia le stufe, ma d'accenderle con sterpi e schegge. - E perché dovevi chiudere Palaska? - domandò la moglie del comandante. - Perché la povera ragazza è rimasta nel ripostiglio finché non siamo tornate noi? Ivàn Kuzmìc' non era preparato a simile domanda s'imbrogliò e borbottò qualcosa di assai goffo. Vassilissa Jegòrovna vide l'astuzia del marito, ma, sapendo che non ne avrebbe cavato nulla, smise le sue domande e portò il discorso sui cetriuoli salati, che Akulina Panfìlovna preparava in modo proprio speciale. Per tutta preso un baschiro con fogli sediziosi. In questa congiuntura il comandante pensò di radunare daccapo i suoi ufficiali e volle allontanare di nuovo Vassilissa Jegòrovna con un pretesto plausibile. Ma' poiché Ivàn Kuzmìc' era uomo quanto mai retto e veritiero, non trovò altro espediente se non quello già una volta da lui usato. - Senti, Vassilissa Jegòrovna, - le disse tossicchiando, - padre Gherassim ha ricevuto, dicono, dalla città... - Basta mentire, Ivàn Kuzmìc', - lo interruppe la moglie, - a quanto sembra, tu vuoi tener consiglio, e discorrere in mia assenza di Jemeliàn Pugaciòv, ma non mi ci cogli. Ivàn Kuzmic sgranò gli occhi. - Be', mammina, - disse, - già che sai tutto, rimani pure, discorreremo anche in tua presenza. - Ecco appunto, padre mio, - rispose lei, - non dovresti giocare d'astuzia; manda su a chiamare gli ufficiali. Ci radunammo di nuovo. Ivàn Kuzmìc', in presenza della moglie, ci lesse un proclama di Pugaciòv, scritto da qualche cosacco semianalfabeta. Il brigante annunciava il suo proposito di marciare immediatamente sulla nostra fortezza; invitava cosacchi e soldati a entrare nella sua banda, e i comandanti li esortava a non far resistenza, minacciando il supplizio in caso contrario. L'appello era scritto in termini rozzi, ma forti, e doveva produrre una pericolosa impressione sulle menti di uomini semplici. - Che furfante! - gridò la moglie del comandante, - che cosa ardisce ancora proporci! D'andargli incontro e deporre ai suoi piedi le bandiere! Ah, figlio di un cane! Ma non sa che siamo in servizio da quarant'anni e, grazie a Dio, abbiam visto di tutto? Possibile che si siano trovati comandanti che abbiano dato retta al brigante? - Non dovrebb'essere, sembra, - rispose Ivàn Kuzmìc', - ma si dice che lo scellerato già si sia impadronito di molte fortezze. - Si vede che è davvero forte, - osservò Svabrin. - Ma ecco, subito sapremo la sua vera forza, - disse il comandante: - Vassilissa Jegòrovna, dammi la chiave del magazzino. Ivàn Ignatic', conduci un po' qua il baschiro e ordina a Julàj di portare le sferze. - Aspetta, Ivàn Kuzmìc', - disse la moglie del comandante alzandosi dal suo posto, - lasciami portare Mascia da qualche parte fuori di casa; se no sentirà le grida, si spaventerà. E anch'io, a dire il vero, non sono amica dell'inquisizione. Buona permanenza. La tortura un tempo era così radicata negli usi della procedura, che il benefico editto che la sopprimeva rimase a lungo senza effetto. Si pensava che la personale confessione del delinquente fosse indispensabile per la sua piena convinzione, idea non solo senza fondamento, ma addirittura contraria a un sano concetto giuridico: perché, se la negativa dell'imputato non si riconosce come prova della sua innocenza, la sua confessione ancora meno deve essere prova della sua colpevolezza. Perfino oggi mi capita di sentire vecchi giudici che lamentano la soppressione della barbara usanza. Ai tempi nostri poi nessuno dubitava della necessità della tortura, né giudici né accusati. E così, l'ordine del comandante non meravigliò e non rimescolò nessuno di noi. Ivàn Ignatic' si avviò a prendere il baschiro, che stava in magazzino sotto chiave a cura della moglie del comandante, e di lì a qualche minuto condussero il prigioniero in anticamera. Il comandante ordinò di presentarglielo. Il baschiro varcò a fatica la soglia (era in ceppi) e, toltosi l'alto berretto, si fermò presso la porta. Gli gettai uno sguardo e sobbalzai. Non scorderò mai quell'uomo. Dimostrava un settant'anni. Non aveva naso né orecchi. La sua testa era tutta rasata; invece della barba si vedevano alcuni peli bianchi; era di piccola statura, scarno e incurvato; ma i suoi occhi alquanto stretti brillavano ancora di fuoco. - Eh, eh! - disse il comandante, riconoscendo dai suoi contrassegni uno dei rivoltosi puniti nel 1741: - ma tu, si vede, sei un lupo vecchio, hai conosciuto le nostre tagliole. A quanto sembra, non è già la prima volta che ti ribelli, se la zucca ti fu spianata così. Fatti un po' più vicino; parla, chi ti ha mandato a spiare? Il vecchio baschiro taceva e guardava il comandante con un'aria di assoluta stupidità. - Perché stai zitto? - continuò Ivàn Kuzmìc', - o che di russo non capisci un ette? Julàj, domandagli un po' al modo vostro chi l'ha mandato nella nostra fortezza. Julàj ripeté in lingua tartara la domanda di Ivàn Kuzmìc'. Ma il baschiro lo guardò con la stessa espressione e non rispose una parola. - "Jaksci" (bene in tartaro), - disse il comandante, - parlerai, e come! Ragazzi, levategli quel balordo camiciotto a righe, e fategli un po' di punto dietro, sulla schiena. Bada, Julàj, di lavorarmelo a dovere! scellerati prenderanno la fortezza ? - Ebbene, allora... Qui Vassilissa Jegòrovna esitò e tacque con un aspetto di estrema agitazione. - No, Vassilissa Jegòrovna, - continuò il comandante, osservando che le sue parole avevano avuto effetti, forse per la prima volta in vita sua. - A Mascia restar qui non conviene. La manderemo a Orenbùrg dalla sua madrina: la c'è truppa e cannoni a sufficienza, e la muraglia è di pietra. E anche a te consiglierei di andartene con lei laggiù; non fa nulla che sei una vecchia, ma considera che sarà di te, se prenderanno la fortezza d'assalto. - Bene, - disse la moglie del comandante, - così sia, manderemo Mascia. Ma a me non lo domandare neppure in sogno, non ci andrò; non vedo perché in vecchiaia dovrei separarmi da te, e andare cercando una fossa solitaria in terra straniera. Insieme vivere, insieme anche morire. - Ben detto anche questo, - disse il comandante. - Orsù, non c'è da indugiare. Va' a preparare Mascia per il viaggio. Domani all'alba l'avvieremo, e le daremo anche una scorta, sebbene non abbiamo uomini di troppo. Ma dov'è Mascia? - Da Akulina Panfìlovna, - rispose la moglie del comandante, - è stata male, quando ha sentito della presa di Niznieòsero; temo che si ammali. Signore Iddio, che cosa ci tocca vedere! Vassilissa Jegòrovna andò ad occuparsi della partenza della figlia. La conversazione dal comandante proseguì; ma ormai non mi ci mischiavo e non sentivo nulla. Maria Ivànovna comparve, a cena, pallida e con gli occhi rossi di pianto. Finimmo di cenare in silenzio e ci alzammo da tavola più presto del solito; salutata tutta la famiglia, ci avviammo ciascuno a casa sua. Ma io dimenticai apposta la spada e tornai a prenderla: presentivo che avrei trovato Maria Ivànovna sola. Infatti ella mi venne incontro sulla porta e mi consegnò la spada. - Addio, Piotr Andreic'! - mi disse in lacrime, - mi mandano a Orenbùrg. Vivete e siate felice; forse il Signore ci permetterà di rivederci; se poi no... Qui scoppiò in singhiozzi. L'abbracciai. - Addio, mio angelo, - dissi, - addio, mia cara, mia amata! Qualunque cosa sia di me, credi che l'ultimo mio pensiero e l'ultima preghiera saranno per te! Mascia singhiozzava, attaccata al mio petto. La baciai con ardore e uscii in fretta dalla stanza. CAPITOLO SETTIMO L'ASSALTO Testa mia, testolina, Vecchia testa di soldato! Già servì la testa mia Ben trent'anni e ancora tre. Ahi, né gioia né vantaggi Guadagnò la testolina, E né manco una parola Buona, o pure un alto grado. Guadagnò la testolina Sol di pali alti una coppia, Con la lor traversa d'acero, E ancora un cappio serico. CANZONE POPOLARE. Quella notte non dormii e non mi spogliai. Mi proponevo di avviarmi all'alba verso la porta della fortezza, di dove Maria Ivànovna doveva uscire, e lì salutarla un'ultima volta. Sentivo in me un gran cambiamento: l'agitazione dell'anima mi era assai meno pesante dello scoramento in cui ancora poco prima ero immerso. Col dolore del distacco si fondevano in me anche vaghe, ma dolci speranze, e l'impaziente attesa del pericolo, e un sentimento di nobile ambizione. La notte passò insensibilmente. Già volevo uscire di casa, quando la mia porta si aprì, e si presentò a me un caporale col rapporto che i nostri cosacchi nottetempo avevano lasciato la fortezza, dopo aver preso con loro a viva forza Jùlaj, e che attorno alla fortezza cavalcavano uomini sconosciuti. Il pensiero che Maria Ivànovna non avrebbe fatto in tempo a partire mi sgomentò; in fretta diedi al caporale alcune istruzioni e mi precipitai subito dal comandante. Già faceva giorno. Volavo per la via, quando sentii che mi si chiamava. Mi fermai. - Dove andate? - disse Ivàn Ignatic', raggiungendomi. - Ivàn Kuzrnic' è sul bastione e mi ha mandato a cercarvi. Pugàc' (forma abbreviata di Pugaciòv, significa anche: spauracchio. Nota dei curatori.) è arrivato. - Se n'è andata Maria Ivànovna? - domandai col cuore palpitante. - Non ha fatto a tempo, - rispose Ivan Ignatic', - la strada per uscì e rientrò conducendo per la briglia il cavallo dell'ucciso. Consegnò al comandante la lettera. Ivàn Kuzmìc' la lesse tra sé e poi la fece in pezzi. Intanto i ribelli si preparavano visibilmente all'azione. Ben presto le pallottole cominciarono a fischiare alle nostre orecchie e alcune frecce si conficcarono attorno a noi in terra e nella palizzata. - Vassilissa Jegòrovna! - disse il comandante, - qui non è cosa da donne, porta via Mascia, lo vedi, la figliola è più morta che viva. Vassilissa Jegòrovna, ammansita sotto le pallottole, diede uno sguardo alla steppa, nella quale era visibile un gran movimento; poi si rivolse al marito e gli disse: - Ivàn Kuzmìc', in vita e in morte Dio dispone: benedici Mascia. Mascia, accostati a tuo padre! Mascia, pallida e tremante, si accostò a Ivàn Kuzmìc', si mise ginocchioni e gli s'inchinò fino a terra. Il vecchio comandante le fece tre volte il segno della croce; poi la rialzò e, baciatala, le disse con voce mutata: - Orsù, Mascia, sii felice. Prega Dio: Egli non ti abbandonerà. Se si troverà un brav'uomo, concedavi Iddio amore e consiglio. Vivete come siamo vissuti io e Vassilissa Jegòrovna. Be', addio, Mascia. Vassilissa Jegòrovna, portala via presto presto. Mascia gli si gettò al collo e scoppiò in singhiozzi. - Diamoci un bacio anche noi, - disse piangendo la moglie del comandante, - addio, mio Ivàn Kuzmìc'. Perdonami se in qualche cosa ti recai dispiacere! - Addio, addio, mammina! - disse il comandante, abbracciando la sua vecchia. - Su, basta! Andate, andate a casa; e, se fai in tempo, fa' mettere a Mascia il "sarafan". La moglie del comandante e la figlia si allontanarono. Io seguivo con lo sguardo Maria Ivànovna; ella si voltò indietro e mi fece un cenno con la testa. Qui Ivàn Kuzmìc' si rivolse a noi, e tutta la sua attenzione si fissò sul nemico. I ribelli si radunavano intorno al loro capo e di un tratto cominciarono a scendere da cavallo. - Adesso tenete duro, - disse il comandante, - ci sarà l'assalto... In quel momento echeggiarono spaventevoli grida e urla; i ribelli venivano di gran corsa verso la fortezza. Il nostro cannone era stato caricato a mitraglia. Il comandante li lasciò accostare il più vicino possibile e d'un tratto fece fuoco nuovamente. La mitraglia colse proprio in mezzo alla folla. I ribelli rimbalzarono dalle due parti e indietreggiarono. Il loro capo rimase solo davanti... Brandì la sciabola e pareva esortarli con ardore... L'urlo e le grida, che avevano taciuto un momento, ricominciarono subito. - Animo, ragazzi, - disse il comandante, - adesso aprite la porta, suonate il tamburo. Ragazzi! avanti, in sortita, dietro di me! Il comandante, Ivàn Ignatic' e io in un attimo ci trovammo di là dal bastione; ma la guarnigione impaurita non si mosse. - Perché state lì, figlioli? - gridò Ivàn Kuzmìc', - se si deve morire, si muore, è affare da soldati! In quell'istante i ribelli piombarono su noi e irruppero nella fortezza. Il tamburo tacque; la guarnigione gettò i fucili; mi avevano già quasi rovesciato in terra, ma mi alzai e coi ribelli entrai nella fortezza. Il comandante, ferito al capo, stava in mezzo a un mucchio di scellerati, che esigevano da lui le chiavi. Volli lanciarmi in suo aiuto; alcuni robusti cosacchi mi afferrarono e mi legarono con le cinture, soggiungendo: - Ecco, ora la pagherete, che avete disubbidito al sovrano! - Ci trascinarono per le vie; gli abitanti uscivano dalle case col pane e sale. Si sentì un rintocco di campane. A un tratto gridarono nella folla che il sovrano in piazza aspettava i prigionieri e riceveva il giuramento. La gente si avviò in folla verso la piazza; noi ci condussero pure là. Pugaciòv sedeva in una poltrona sul terrazzino della casa del comandante. Indossava un caffettano rosso da cosacco, adorno di galloni. Un alto berretto di zibellino con fiocchi d'oro era tirato sui suoi occhi scintillanti. Il suo viso mi parve conosciuto. Lo circondavano sottufficiali del cosacchi. Padre Gherassim, pallido e tremante stava vicino al terrazzino, con la croce in mano, e sembrava che tacitamente lo supplicasse per le vittime imminenti. Sulla piazza avevano eretto alla svelta una forca. Quando ci avvicinammo, i baschiri dispersero la gente, e ci presentarono a Pugaciòv. I rintocchi cessarono; si fece un profondo silenzio. - Qual è il comandante? - domandò l'impostore. Il nostro sottufficiale cosacco uscì dalla folla e indicò Ivàn Kuzmìc'. Pugaciòv guardò minaccioso il vecchio e gli disse: - Come hai osato opporti a me, tuo sovrano? Il comandante, languente per la ferita, raccolse le ultime forze e rispose con voce ferma: Mi alzarono e mi lasciarono in libertà. Io presi a guardare il seguito dell'orrenda commedia. Gli abitanti cominciarono a giurare. Si accostavano l'un dietro l'altro, baciando il crocifisso e inchinandosi poi all'impostore. I soldati della guarnigione stavano pure lì. Il sarto della compagnia, armato delle sue forbici smussate, tagliava loro le trecce. Essi, scrollandosi, si accostavano alla mano di Pugaciòv, il quale annunciava loro il perdono e li riceveva nella sua banda. Tutto ciò continuò per circa tre ore. Infine Pugaciòv si alzò dalla poltrona e scese dal terrazzino in compagnia dei suoi anziani. Gli portarono un cavallo bianco, adorno di una ricca bardatura. Due cosacchi lo presero sotto braccio e lo misero in sella. Egli annunciò a padre Gherassim che avrebbe pranzato da lui. In quel momento si sentì un grido di donna. Alcuni briganti avevano tratto sul terrazzino Vassilissa Jegòrovna, scarmigliata e denudata. Uno do loro già aveva avuto il tempo di adornarsi con la sua mantelletta di pelliccia. Altri trascinavano piumini casse, stoviglie da tè, biancheria e tutte le suppellettili. - Padri miei! - gridava la povera vecchietta, - lasciatemi salva la vita. Padri miei, conducetemi da Ivàn Kuzmìc'. Improvvisamente ella gettò un'occhiata alla forca e riconobbe suo marito. - Scellerati! - si mise a gridare in delirio, - che ne avete fatto? Cuore mio, Ivàn Kuzmìc', valoroso soldato! non ti toccarono né le baionette prussiane, né le pallottole turche; non in combattimento leale desti la tua vita, ma la perdesti per un evaso dalle galere! - Far tacere quella vecchia strega! - disse Pugaciòv. Allora un giovane cosacco la colpì con la sciabola sulla testa, e ella cadde morta su uno scalino del terrazzo. Pugaciòv se n'andò; il popolo si precipitò dietro a lui. CAPITOLO OTTAVO L'OSPITE NON INVITATO L'ospite non invitato è peggio del tartaro. PROVERBIO. La piazza si fece deserta. Io stavo sempre allo stesso posto e non potevo mettere in ordine i pensieri turbati da così orrende impressioni. L'incertezza sulla sorte di Maria Ivànovna mi tormentava più di tutto. Dov'era? che le era accaduto? era riuscita a nascondersi? era sicuro il suo rifugio? Pieno di pensieri inquietanti, entrai nella casa del comandante... Tutto era vuoto, sedie, tavole, casse erano rotte; le stoviglie fracassate; tutto rubato. Corsi su per la piccola scala che portava alla stanzetta, e per la prima volta in vita mia entrai nella camera di Maria Ivànovna. Vidi il suo letto, messo a soqquadro dai briganti; l'armadio era stato sfondato e saccheggiato; il lumino ardeva ancora davanti alla vetrinetta delle immagini, deserta. Era intatto anche lo specchietto, appeso al tramezzo murato... Ma dov'era la padrona di quell'umile cella verginale? Un pensiero terribile mi balenò in mente: la immaginai nelle mani dei banditi... Il mio cuore si strinse... Amaramente piansi, amaramente e ad alta voce pronunciai il nome della mia amata... In quell'istante si udì un lieve rumore, e da dietro l'armadio comparve Palaska, pallida e tremante. - Ah, Piotr Andreic'! - disse, battendo le palme, - che giornata! che spaventi!... - E Maria Ivànovna? - domandai impaziente, - che n'è di Maria Ivànovna? - La signorina è viva, - rispose Palaska, - è nascosta da Akulina Panfìlovna. - Dalla moglie del "pop"! - gridai con sgomento: - Dio mio! ma c'è Pugaciòv!... Mi slanciai fuori della stanza, in un attimo mi trovai nella via, e corsi a precipizio a casa del sacerdote, senza vedere né sentire nulla. Colà risonavano grida, risate e canti... Pugaciòv banchettava coi suoi compagni. Palaska vi accorse dietro di me. La mandai a chiamare sottovoce Akulina Panfìlovna. Di lì a un momento la moglie del "pop" venne da me nell'ingresso con una misura da un litro e mezzo in mano. - Per l'amor di Dio! Dov'è Maria Ivànovna? - domandai con inesplicabile agitazione. - E' coricata, la mia colombella, sul letto lì da me, dietro il tramezzo, - rispose la moglie del "pop". - Eh, Piotr Andreic', per poco non è capitato un guaio ma, grazie a Dio, tutto è passato - Non vorresti mangiare? - domandò Savelic', costante nelle sue abitudini, - a casa non c'è nulla; andrò, frugherò e ti preparerò qualche cosa. Rimasto solo, mi immersi in riflessioni. Che dovevo fare? Restare nella fortezza sottomessa allo scellerato, o seguire la sua banda, era indecoroso per un ufficiale. Il dovere esigeva che mi presentassi là dove il mio servizio poteva ancora esser utile alla patria nelle difficili congiunture del momento... Ma l'amore vivamente mi consigliava di restare presso Maria Ivànovna e di esserle difensore e protettore. Sebbene prevedessi un rapido e indubbio mutare di circostanze, pur tuttavia non potevo non tremare, immaginando il pericolo della condizione di lei. Le mie meditazioni furono interrotte dalla venuta di uno dei cosacchi, il quale era accorso con l'annuncio: - Il gran sovrano ti vuole a sé, - com'egli disse. - Dov'è? - domandai, preparandomi a ubbidire. - Al comando, - rispose il cosacco, - dopo pranzo babbo nostro si reca al bagno, e ora riposa. Ebbene, vostra nobiltà, da tutto si vede ch'è un gran personaggio: a pranzo volle mangiare due porcellini arrosto, e fa il bagno a vapore così caldo che neppure Taràs Kùrockin ci resse, e passò la scopetta a Fomkà Bilbaiev, e a stento è rinvenuto sotto l'acqua fredda. Non c'è che dire: ha modi così importanti... E nel bagno, dicono, ha mostrato i suoi marchi regali alle mammelle: su una, l'aquila a due teste, della grandezza di un soldo, e sull'altra, la sua persona. Non ritenni necessario contraddire l'opinione del cosacco e con lui mi diressi alla casa del comandante, immaginandomi anticipatamente il colloquio con Pugaciòv e sforzandomi di indovinare come sarebbe finito. Il lettore può facilmente immaginare che non ero del tutto in possesso del mio sangue freddo. Cominciava a imbrunire, quando giunsi alla casa del comando. La forca con le sue vittime nereggiava paurosamente. Il corpo della povera moglie del comandante giaceva ancora ai piedi del terrazzino, presso il quale due cosacchi montavano la guardia. Il cosacco che mi aveva portato andò ad annunciarmi e, subito tornato, mi guidò in quella stanza dove alla vigilia così teneramente avevo preso commiato da Maria Ivànovna. Mi si presentò un quadro insolito. A una tavola, coperta da una tovaglia e guarnita di grosse bottiglie e di bicchieri, Pugaciòv e una decina di capi cosacchi sedevano con berretti e camicie a colori, riscaldati dal vino, con i visi rossi e gli occhi lucenti. Fra essi non c'era né Svabrin, né il nostro sottufficiale cosacco, i traditori nuovi arruolati. - Ah, vostra nobiltà! - disse Pugaciòv, vedendomi, - benvenuto; vi facciamo onore e posto, favorite. Gl'interlocutori si restrinsero. Io in silenzio sedetti a un capo della tavola. Il mio vicino, un giovane cosacco, snello e avvenente, mi versò un bicchiere di vino semplice, che non toccai. Con curiosità presi a esaminare la compagnia. Pugaciòv stava seduto al posto d'onore coi gomiti appoggiati alla tavola e la barba nera posata sul suo largo pugno. I tratti del suo viso, regolari e abbastanza piacevoli, non denotavano niente di feroce. Si rivolgeva spesso a un uomo sui cinquanta, chiamandolo ora conte, ora Timofieic', e a volte dandogli dello zietto. Tutti si comportavano tra loro come camerati e non dimostravano nessuno speciale attaccamento al loro capo. La conversazione si aggirava sull'assalto della mattina, sul buon esito della sommossa e sulle azioni future. Ciascuno millantava, affacciava le sue opinioni e contendeva liberamente con Pugaciòv. E in quello strano consiglio militare fu stabilito di marciare su Orenbùrg: mossa audace e che per poco non fu coronata da una fatale riuscita! La marcia fu annunciata per il giorno dopo. - Su, fratelli, - disse Pugaciòv, - intoniamo per il prossimo sonno la mia canzoncina preferita. Ciumakòv! attacca! Il mio vicino intonò con voce sottile una triste canzone di tonneggiatori, e tutti fecero coro: Non stormire, o verde madre selva, Non impedire a me, buon giovane, di pensare i miei pensieri, Che diman son chiamato, io buon giovane, a rispondere Davanti a un giudice severo, lo zar stesso. Comincerà il sovrano a domandarmi: Dimmi, dimmi tu, figliuol, di contadini figlio, Con chi dunque rubavi, con chi briganteggiavi, Molti ancora eran teco i compagni? Dirò a te, ortodosso zar, nostra speranza, Tutta la verità dirò a te, la pura verità, Che compagni ne avevo quattro: Primo compagno mio - la notte scura, E secondo mio compagno - il coltel damascato, E come terzo compagno - il mio buon cavallo, E quarto mio compagno - l'arco teso; Che gl'inviati miei furon dardi arroventati. Che dirà l'ortodosso zar, nostra speranza: fede e lealtà, e io ti farò feldmareseiallo, e principe. Come la pensi? - No, - risposi, - sono nobile di nascita; ho giurato alla sovrana imperatrice: servir te non posso. Se in realtà mi vuoi del bene, lasciami andare a Orenbùrg. Pugaciòv si fece pensoso. - E se ti lascerò andare, - disse, - mi prometti almeno di non servire contro di me? - Come posso prometterti questo? - risposi, - Sai pure che non son libero: se mi si ordinerà di marciare contro di te, marcerò, non c'è niente da fare. Ora sei tu stesso un capo; tu stesso esigi obbedienza dai tuoi. Che azione sarebbe, se mi rifiutassi al servizio, quando del mio servizio si avrà bisogno? La mia testa è in tuo potere: se mi lasci andare, ti dico grazie; se mi metti a morte, ti sarà giudice Dio; ma io ti ho detto la verità. La mia sincerità fece stupire Pugaciòv. - Così sia, - disse, battendomi sulla spalla: - se è morte è morte, se è grazia è grazia. Vattene dove ti garba e fa' quel che vuoi. Domani vieni a salutarmi, e ora vattene a dormire, che anche a me m'è preso sonno. Lasciai Pugaciòv e uscii sulla via. La notte era calma e gelida. La luna e le stelle splendevano vivamente, rischiarando la piazza e la forca. Nella fortezza tutto era quieto e buio. Solo in una bettola brillava un fuoco e risonava un vocio di beoni attardati. Diedi uno sguardo alla casa del sacerdote. Gli scuri e il portone erano chiusi. Pareva che tutto vi fosse tranquillo. Giunsi al mio alloggio e trovai Savelic' in pena per la mia assenza. La nuova della mia libertà lo allietò indicibilmente. - Lode a te, Signore! - disse, facendosi il segno della croce, appena giorno lasceremo la fortezza e ce n'andremo alla ventura. Ti ho preparato qualche cosa, mangia, "bàtiuska", e riposa fino a domattina, come in grembo a Cristo. Seguii il suo consiglio e, cenato con grande appetito, mi addormentai sul nudo pavimento, affranto di spirito e di corpo. CAPITOLO NONO LA SEPARAZIONE Dolce per me fu legarmi, O bellissima, con te; Triste, triste è il separarmi, Qual saria dall'alma, ohimè! CHERASKOV. Di prima mattina mi svegliò il tamburo. Andai all'adunata. Già vi erano schierate le turbe di Pugaciòv intorno alla forca, dove penzolavano sempre le vittime del giorno prima. I cosacchi stavano a cavallo, i soldati portavano le armi. Le bandiere sventolavano. Alcuni cannoni, tra cui riconobbi anche il nostro, erano sistemati su affusti da campagna. Tutti gli abitanti si trovavano lì, aspettando l'impostore. Presso la scaletta della casa del comandante un cosacco teneva per la briglia un bellissimo cavallo bianco di razza chirghisa. Cercai con gli occhi il corpo della moglie del comandante. Era stato portato un po' in disparte e coperto con una stuoia. Infine Pugaciòv uscì dall'ingresso. La gente si scoprì. Pugaciòv si fermò sul terrazzino e salutò tutti. Uno dei capi gli porse un sacchetto di monete di rame e lui prese a gettarle a piene mani. La gente con grida si precipitò a raccattarle, e la cosa non andò senza storpiature. Pugaciòv venne attorniato dai più importanti dei suoi seguaci. Tra essi, c'era anche Svabrin. I nostri sguardi s'incontrarono; nel mio egli poté leggere il disprezzo, e si voltò in là con espressione di sincero malanimo e di finta derisione. Pugaciòv, vistomi tra la folla, mi fece un segno con la testa e mi chiamò a sé. - Ascolta, - mi disse, - va' subito a Orenbùrg e avvisa da parte mia il governatore e tutti i generali che mi aspettino da loro tra una settimana. Consigliali di accogliermi con amore e ubbidienza filiali; se no non sfuggiranno a un crudele supplizio. Buon viaggio, vostra nobiltà. Poi si rivolse alla gente e disse, indicando Svabrin: - Eccovi, figliuoli, il nuovo comandante. Ubbiditegli in tutto, e lui mi risponde di voi e della fortezza. Sentii quelle parole con sgomento: Svabrin era diventato capo della fortezza; Maria Ivànovna rimaneva in suo potere! Dio, che sarebbe stato di lei! Pugaciòv scese dal terrazzino. Gli portarono il cavallo. Egli saltò svelto in sella, senza aspettare i cosacchi, che Stupido vecchio! Li hanno rubati: bel guaio! Ma tu devi, vecchio barbogio, in eterno pregare Dio per me e per i miei ragazzi, che tu e il padrone tuo non penzoliate qui con questi che mi si ribellarono... Il pellicciotto di lepre! Ti darò io il pellicciotto di lepre! Ma lo sai che dò ordine di scoiarti vivo per farne pellicciotti? - Come ti piacerà, - rispose Savelic', - ma io sono un sottoposto, e dovrò rispondere della roba del padrone. Pugaciòv era, si vede, in un accesso di magnanimità. Si voltò e partì senza più dire una parola. Svabrin e gli anziani lo seguirono. La banda uscì dalla fortezza in ordine. Il popolo andò ad accompagnare Pugaciòv. Rimasi sulla piazza solo con Savelic'. Il mio precettore teneva in mano la sua lista e la esaminava con aria di profondo rammarico. Vedendo il mio buon accordo con Pugaciòv, aveva pensato di trarne partito; ma il savio disegno non gli era riuscito. Volli sgridarlo per lo zelo fuori di posto, e non potei trattenermi dal ridere. - Ridi, signore, - rispose Savelic', - ridi, ma quando ci toccherà rimettere su casa di sana pianta, vedremo se ci sarà da ridere. Mi affrettai a casa del sacerdote, per incontrarmi con Maria Ivànovna. La moglie del "pop" mi accolse con una triste notizia. Nella notte a Maria Ivànovna era venuta una forte febbre ardente. Ella giaceva senza conoscenza e in delirio. La moglie del "pop" mi condusse nella camera di lei. Mi accostai piano al suo letto. Il cambiamento del suo viso mi costernò. L'inferma non mi riconobbe. A lungo stetti davanti a lei, senz'ascoltare né padre Gherassim, né la sua buona moglie, i quali, sembra, mi stavan confortando. Tetri pensieri mi agitavano. Lo stato della povera orfana indifesa, lasciata in mezzo a malvagi ribelli, la mia propria debolezza mi sbigottirono. Svabrin, Svabrin più di tutto tormentava la mia immaginazione.Investito dipotere dall'impostore, al comando della fortezza, dov'era rimasta l'infelice fanciulla, innocente oggetto del suo astio, egli poteva risolversi a tutto. Che dovevo fare? Come darle aiuto? Come liberarla dalle mani dello scellerato? Restava un solo mezzo: risolsi di andare sul momento a Orenbùrg, per affrettare la liberazione della fortezza di Bielogòrsk, e possibilmente cooperarvi. Salutai il sacerdote e Akulina Panfìlovna, affidandole con calore colei che già consideravo mia moglie. Presi la mano della povera fanciulla e la baciai, bagnandola di lacrime. - Addio, - mi disse la moglie del "pop", accompagnandomi, addio, Piotr Andreic'. Ci vedremo forse in tempi migliori. Non dimenticateci e scriveteci spesso. La povera Maria Ivànovna, eccetto voi, non ha ora né conforto né protettore. Sceso in piazza, mi fermai un istante, guardai la forca, mi inchinai, uscii dalla fortezza e presi la strada di Orenbùrg, seguito da Savelic', che non si staccava da me. Camminavo, occupato dai miei pensieri, quando a un tratto sentii dietro di me un calpestio di cavalli. Mi volto e vedo: dalla fortezza galoppa fuori un cosacco tenendo per la briglia un cavallo baschiro e facendomi cenni da lontano. Mi fermai e in breve riconobbi il nostro sottufficiale. Accostatosi di galoppo, scese dal suo cavallo, porgendomi le briglie dell'altro: - Vostra nobiltà! Il padre nostro vi offre il cavallo e una pelliccia già portata da lui. - (Alla sella era legato un pellicciotto di montone). - E ancora, - proferì, esitando, il sottufficiale, - vi offre... mezzo rublo in spiccioli... ma li ho smarriti per via: perdonatemi generosamente. Savelic' lo guardò di sbieco e brontolò: - Smarriti per via! E che cos'è che ti tintinna in petto? Disonesto! - Che cosa mi tintinna in petto? - ribatté il sottufficiale, senza per niente scomporsi, - Dio sia con te, vecchio! E' la briglietta che tintinna, non il mezzo rublo. - Bene, - dissi, interrompendo la contesa. - Ringrazia da parte mia colui che t'ha mandato; e il mezzo rublo perduto cerca di trovarlo sulla via del ritorno, e prenditelo per la vodka. - Molto grato, vostra nobiltà, - rispose, girando il suo cavallo, - in eterno pregherò Dio per voi. Con queste parole egli galoppò indietro, tenendosi una mano in petto. e in un momento fu fuor di vista. Indossai il pellicciotto e salii a cavallo, facendo sedere dietro a me Savelic'. - Ecco, vedi, signore, - disse il vecchio, - che non invano ho porto al furfante la supplica; il ladrone s'è fatto scrupolo. Per quanto la smilza brenna baschira e il pellicciotto di montone non valgano la metà di quello che loro, i furfanti, ci han rubato, e di quel che tu stesso gli volesti favorire, serviranno pur sempre; e da mala pecora delle gabelle, un vecchiotto grosso e colorito in caffettano di broccato lucido. Egli prese a interrogarmi sulla sorte di Ivàn Kuzmìc', che chiamava compare, e spesso interrompeva il mio dire con domande complementari e osservazioni morali, che, se pure non denotavano in lui un uomo versato in arte militare, indicavano quanto meno avvedutezza e naturale intelletto. Frattanto s'erano raccolti anche gli altri invitati. Quando tutti furono seduti e ad ognuno ebbero portato una tazza di tè, il generale espose in modo quanto mai chiaro e ampio come stavano le cose. - Ora, signori, - continuò, - importa decidere come dobbiamo operare contro i ribelli: "offensivamente" o "difensivamente"? Ciascuno di questi metodi ha il suo vantaggio e il suo svantaggio. Un'azione offensiva offre maggiori speranze di una prontissima distruzione del nemico; l'azione difensiva è più sicura e meno rischiosa... Allora, cominciamo a raccogliere i pareri secondo l'ordine legale, cioè cominciando dai meno anziani di grado. Signor alfiere! - continuò, rivolgendosi a me,- vogliate spiegarci la vostra opinione. Mi alzai e, dopo avere in brevi termini descritto prima Pugaciòv e la sua banda, affermai che l'impostore non aveva modo di resistere contro le armi regolari. La mia opinione fu accolta dai funzionari con palese sfavore. Essi vi scorgevano l'irriflessione e la temerità del giovane. Sorse un mormorio, e sentii distinta la parola: "sbarbatello", pronunciata da qualcuno a mezza voce. Il generale si rivolse a me e disse con un sorriso: - Signor alfiere! i primi voti nei consigli militari si danno di solito in favore dei movimenti offensivi: è l'ordine legale. Ora continueremo la raccolta dei pareri. Signor consigliere di collegio! diteci il vostro avviso. Il vecchiotto in caffettano di broccato vuotò in fretta la sua terza tazza, considerevolmente allungata con rum, e rispose al generale: - Io penso, vostra eccellenza, che non si deve agire né offensivamente né difensivamente. - Come dunque, signor consigliere di collegio? - ribatté il generale sbalordito: - altri metodi la tattica non offre: mossa difensiva od offensiva... - Eccellenza, movetevi corruttivamente. - E-eh, eh! L'opinione vostra è quanto mai saggia. Le mosse corruttive sono ammesse dalla tattica, e noi ci varremo del vostro consiglio. Si potranno promettere per la testa del briccone... una settantina di rubli e magari cento... dal fondo segreto... - E allora, - interruppe il direttore delle gabelle, - ch'io sia un montone chirghiso, e non un consigliere di collegio, se quei ladri non ci consegneranno il loro "atamàn", incatenato mani e piedi. - Ci penseremo e ne ragioneremo ancora, - rispose il generale. Occorre però in ogni caso prendere dei provvedimenti militari. Signori, date i vostri pareri nell'ordine legale. Tutte le opinioni si mostrarono contrarie alla mia. Tutti i funzionari parlavano di poca sicurezza delle truppe, d'incertezza di riuscita, di prudenza e simili cose. Tutti opinavano che fosse più savio restare sotto la protezione dei cannoni, dietro un solido muro di pietra, che non in campo aperto tentare la sorte delle armi. Infine il generale, sentiti tutti i pareri, scosse la cenere dalla pipa, e pronunciò il seguente discorso: - Signori miei! debbo dichiararvi che per parte mia concordo pienamente con l'opinione del signor alfiere: perché tale opinione è fondata su tutte le norme di una sana tattica, che quasi sempre preferisce le mosse offensive a quelle difensive. Qui egli si fermò e prese a riempire la sua pipa. Il mio amor proprio trionfava. Guardai orgogliosamente i funzionari, che bisbigliavano tra loro con aria di malcontento e d'inquietudine. - Ma, signori miei, - egli continuò, emettendo, insieme con un profondo sospiro, uno spesso getto di fumo di tabacco, - io non oso prendere su di me una così grande responsabilità, quando si tratta della sicurezza delle province a me affidate da sua maestà imperiale, la mia graziosissima sovrana. E così, son d'accordo con la maggioranza dei pareri, la quale ha deciso esser più di tutto saggio e meno rischioso aspettare l'assedio dentro la città, e respingere l'assalto del nemico con la forza dell'artiglieria e (ove riesca possibile) con sortite. I funzionari a loro volta con aria canzonatoria guardarono me. Il consiglio si sciolse. Non potei non rimpiangere la debolezza del venerando guerriero che, a dispetto della propria convinzione, si era deciso a seguire le opinioni di uomini ignoranti e inesperti. Qualche giorno dopo questo illustre consiglio, apprendemmo che Pugaciòv, fedele alla sua promessa, si avvicinava a Orenbùrg. Vidi l'esercito dei ribelli dall'alto del muro di cinta. Mi parve che il loro numero fosse cresciuto di dieci volte dal tempo dell'ultimo assalto, di cui ero stato testimone. Era con loro anche l'artiglieria presa da
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