Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

GUARINO "DIRITTO PRIVATO ROMANO" (ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO), Dispense di Istituzioni di Diritto Romano

Sintesi personale e integrativa del manuale "guarino" (riassunto redatto da me personalmente e dal quale ho superato l'esame con 30!).

Tipologia: Dispense

2016/2017

In vendita dal 28/11/2017

menamar
menamar 🇮🇹

4.5

(23)

3 documenti

1 / 239

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica GUARINO "DIRITTO PRIVATO ROMANO" (ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO) e più Dispense in PDF di Istituzioni di Diritto Romano solo su Docsity! 1 CAPITOLO 1 “IL DIRITTO PRIVATO ROMANO” 1. LA SOCIETA’ E LO STATO Per intendersi circa la nozione del “diritto” e, in particolare, del diritto privato bisogna partire dal rilevamento del fenomeno, tipicamente umano, della “società”. Il termine “società” è abusato e spesso, genericamente, sta per <<gruppo>> umano. Ma, in senso ‘proprio’, la società non è soltanto un ‘raggruppamento materiale’ di uomini (quale può essere, ad es., la folla di coloro che, ciascuno per conto suo, si trovano a sostare in una piazza oppure a viaggiare su un mezzo di pubblico trasporto). Essa è qualcosa di ‘molto più complesso’ perché ha “radice” in una determinazione <<volontaria>>, anche se prevalentemente tacita, che porta i suoi membri a ‘vivere insieme’ per operare unitariamente, sulla base di un adeguato <<ordinamento sociale>>, cioè sulla base di un sistema di principi (<<norme sociali>>) e di meccanismi (<<istituzioni sociali>>) che regolino l’assetto e il funzionamento dell’aggregato. Nel vasto ‘campionario’ delle società umane (religiose, economiche, sportive, ecc.) spicca, come una specie ben distinta, la società politica. Quest’organizzazione si prefigge, fra le varie finalità sociali, quelle che, nel ‘convincimento concorde’ dei consociati, appaiono più delle altre ‘bisognevoli’ di sicura ed universale applicazione pratica (quindi, principalmente le finalità di ordine nelle relazioni tra i suoi membri). Per questo motivo, la società politica si propone il compito supplementare di predisporre e di mettere in atto ogni condizione umanamente possibile per ‘assicurare’ la puntuale realizzazione dell’ordine sociale. Ciò, beninteso, non significa che i membri della società politica siano riducibili ad ‘automi’ privi di libertà, ma vuol dire soltanto che la società politica si “differenzia” da ogni altra specie sociale per la finalità (e la concreta capacità) di giungere, come ‘soluzione estrema’, al risultato di <<costringere materialmente>> i disobbedienti ad eseguire, pur controvoglia, il loro dovere di “adeguarsi” alla disciplina sociale oppure (quando non sia più possibile l’esecuzione del comportamento dovuto) a “subire” una congrua penitenza per l’infrazione commessa, La parola ‘modernamente’ adoperata per designare gli “enti politici” (“politici” dal termine greco “polis” = città autonoma), è il termine “Stato”. Di fronte allo Stato ogni ente sociale, privo dell’indipendenza e dell’autoritarietà ‘tipiche’ delle società politiche, merita il nome di <<società apolitica>>. Apolitici, in questo senso specifico, sono anche gli “organismi sociali” che, pur essendo autoritativamente organizzati nel loro interno, manchino del requisito fondamentale dell’indipendenza (per es. i comuni o le regioni). In questi casi, si tratta solo di <<società parapolitiche>> (denominabili anche enti parastatali), cioè di “succursali” delle società genuinamente politiche: succursali, che traggono ‘forza’ dalle società politiche sovraordinate per l’esercizio di una propria specifica autorità (cioè, per l’esplicazione di una cd. <<autonomia>>) sui rispettivi consociati. Il carattere di indipendenza e di autoritarietà delle società politiche significa (detto in altri termini) l’immanenza nello Stato di una potestà di comando <<originaria>>, cioè di una potestà che non deriva da alcuna potestà superiore (e che tanto meno vi è subordinata), ma che nasce con lo Stato e si spegne con esso. Questa potestà di comando si dice sovranità e non va confusa con la cd. <<potenza>> dello Stato. Nessuno ignora che vi sono (e che variano con il variare dei tempi e degli equilibri internazionali) grandi potenze e piccole potenze, potenze egemoni e potenze che subiscono la loro influenza, che insomma l’indipendenza degli Stati ha un ‘valore pratico’ molto relativo; comunque, finché l’indipendenza non è formalmente “abolita”, anche una ‘minima potenza’ è uguale alle altre, pur se grandi o grandissime, sul piano della sovranità. L’organizzazione di <<cittadini>> e di enti parastatali, cui spetta l’esercizio dei poteri sovrani sul <<territorio statale>> ha il nome di “governo”. Il compito del governo è di provvedere all’attuazione 2 in concreto dei fini della società politica, e quindi comporta l’attribuzione agli <<organi governativi>> di un ‘quadruplice’ ordine di funzioni (funzioni di governo): a) la funzione costituente, la quale consiste nella formazione e nell’eventuale modifica delle regole fondamentali di convivenza della società politica (cd. <<regole costituzionali>>); b) la funzione legislativa, la quale consiste nell’integrazione delle <<regole costituzionali>> con provvedimenti (le <<leggi>>) che dettano altri e più minuziosi principi di disciplina sociale; c) la funzione sanzionatoria (o giudiziaria), che consiste nell’applicazione delle sanzioni, coattive e non coattive, previste dalle regole costituzionali e dai provvedimenti legislativi; d) la funzione amministrativa, la quale consiste nell’esplicazione autoritativa, entro i limiti posti dai principi costituzionali e dai provvedimenti legislativi o sanzionatori, di ogni altra mansione necessaria per il soddisfacimento dei pubblici interessi. Occorre fare 2 precisazioni: 1) anzitutto, che la funzione costituente e quella legislativa sono ‘integrate’ (in misura maggiore o minore a seconda degli Stati e dei tempi) da regole di comportamento che emergono dalle usanze radicate e convinte degli stessi cittadini, cioè dalla consuetudine; 2) secondariamente, che le 4 funzioni di governo ‘raramente’ sono attribuite (ed attribuibili) ad <<uffici>> ben distinti, sicché possono verificarsi anche casi di uffici plurifunzionali (che esercitano più funzioni diverse) o di uffici concorrenti tra loro nell’esercizio di una stessa funzione. 2. L’ORDINAMENTO STATALE E L’ORDINAMENTO GIURIDICO Ogni specifica “società politica”, ogni specifico “Stato”, implica di necessità l’esistenza di un particolare <<ordinamento statale>>, il quale viene creato ed integrato dal ‘governo’ nell’esercizio delle sue funzioni e, in particolare, mediante la funzione costituzionale e quella legislativa. La caratteristica dell’ordinamento statale è in ciò: che esso non si limita a dettare regole di comportamento ai consociati, ma predispone altresì i mezzi più opportuni ed efficaci per ridurre anche coattivamente gli inosservanti all’obbedienza o alla penitenza. Solo dopo aver identificato il concetto di <<ordinamento statale>> può comprendersi il concetto ‘ben distinto’, anche se ad esso ‘strettamente vicino’, di <<ordinamento giuridico>>. L’ordinamento giuridico (così qualificato per influenza del latino “ius”), detto anche “diritto” (qualificato così in omaggio al verbo “dirigere”), inerisce infatti anch’esso alla “società politica”, allo “Stato”; tuttavia, non è detto che coincida ‘totalmente’ con l’ordinamento statale. Di solito, ne costituisce solo un <<settore interno>>, cioè un settore più ristretto, ma considerato particolarmente autorevole. Non è possibile precisare sul piano concettuale ‘quanto sia estesa’ la coincidenza tra ordinamento giuridico e ordinamento statale. L’esperienza pratica suggerisce di dire che l’ordinamento “statale” può anche non essere considerato “giuridico”, ma l’ordinamento “giuridico” è generalmente considerato (salvo rare eccezioni) anche “statale”, e ciò per il fatto che il carattere della “coattività” presuppone un’organizzazione sociale autoritaria e indipendente, vale a dire uno “Stato”. In altri termini, l’indice di identificazione dell’ordinamento giuridico rispetto a ogni altro tipo di ordinamento statale (non giuridico) ha carattere eminentemente <<storico>>, perché dipende principalmente dalle ‘valutazioni correnti’ tra la generalità dei consociati. “Diritto” è, dunque, quel settore più o meno vasto dell’ordinamento statale che in un dato momento storico si ritiene dai più essere appunto “diritto” (e che si usa, pertanto, designare con tale termine o con il suo corrispondente in ogni singola lingua). Al limite, possono esservi (anche se il fenomeno è molto raro) “società politiche” che si limitano ad avere un adeguato ordinamento “statale” e siano totalmente (o quasi totalmente) prive di un ordinamento specificatamente qualificato come “giuridico”. 5 Il risultato delle operazioni sopra indicate può essere di 3 tipi: a. dichiarativo, se il comando risulti collimare con la sua formulazione letterale b. estensivo, se l’ambito di applicazione del comando risulti essere più esteso di quanto si ricaverebbe dalla mera formulazione letterale c. restrittivo, nel caso contrario L’individuazione del senso preciso di un comando posto da un “atto di autonomia privata” si effettua attraverso le stesse operazioni sopra indicate, ma presenta delle caratteristiche differenziali derivanti dal fatto che i negozi giuridici sono esplicazione di un’attività di “autoregolamento”, volta essenzialmente a disciplinare gli interessi dell’autore del negozio e non i rapporti tra persone estranee agli stessi. Per conseguenza, l’interprete: - da un lato, deve tendere a ricostruire ciò che è stato veramente e concretamente voluto e posto in essere dall’autore del negozio (interpretazione negoziale soggettiva o in concreto) - dall’altro lato, deve anche tendere a stabilire ciò che un qualunque soggetto ragionevole avrebbe voluto e posto in essere con le formulazioni in cui il negozio si è esteriorizzato e nella situazione storica in cui il negozio si è formato (interpretazione negoziale oggettiva o in abstrato) Un ordinamento può attribuire importanza maggiore all’interpretazione soggettiva piuttosto che a quella oggettiva, e viceversa, ma nessun ordinamento può prescindere dall’una o dall’altra, perché sarebbe assurdo chiudere gli occhi innanzi alla duplice e contrastante esigenza di ogni realtà sociale: l’esigenza che la volontà dell’autore del negozio sia concretamente realizzata e l’esigenza che l’affidamento posto dai terzi in una certa “apparenza” negoziale sia adeguatamente tutelato. Il processo giurisdizionale è inteso a realizzare il potere di azione di un soggetto attivo nell’ipotesi di resistenza del soggetto passivo. Ma è ovvio che gli organi giurisdizionali non possono tenere sotto controllo interpretativo tutti gli innumerevoli fatti che si verificano nella vita sociale, per poi intervenire tempestivamente a dar man forte all’avente diritto nel momento in cui questi si appresta ad esplicare il potere d’azione. Il sistema seguito è, per necessità di cose, molto diverso. Gli organi del potere sanzionatorio si mettono all’opera solo se e in quanto ricevono una precisa “domanda di giustizia” di un soggetto giuridico nei confronti dell’altro soggetto che lo contrasti: e siccome solo quando si instauri una “lite” tra i 2 essi prendono notizia dei fatti da interpretare, dando inizio all’attività interpretativa, può ben accadere che essi giungano infine alla conclusione che la domanda sia priva di fondamento e debba essere, quindi, rigettata per il fatto che il diritto soggettivo (e in particolare l’azione) di cui l’autore della domanda si asserisce titolare, non esiste o non è realizzabile. Ne consegue che bisogna distinguere tra: - azione in senso proprio (azione sostanziale), la quale è espressione del diritto soggettivo e costituisce l’oggetto del processo giurisdizionale (esiste o non esiste? va realizzata o non va realizzata?) - domanda di giustizia (azione processuale), la quale è la dichiarazione che un soggetto (cd. attore) fa ad altro soggetto recalcitrante (cd. convenuto) di essere titolare del potere d’azione nei suoi confronti, rimettendo in pari tempo agli organi della giurisdizione il controllo del buon fondamento di questa asserzione e, subordinatamente, la tutela del proprio diritto Tutti i soggetti giuridici hanno diritto di “agire in giudizio”, cioè di proporre domande processuali con le quali asseriscono di essere titolari di un’azione in senso sostanziale (cioè, di un potere d’azione) verso il convenuto ed esigano quindi il soddisfacimento relativo. Al potere giurisdizionale adito dall’attore compete di stabilire se l’azione processuale è fondata o non fondata e compete altresì, quando le conclusioni siano nel senso del buon fondamento della domanda attrice, di realizzare coattivamente il potere d’azione del quale si discute. Sulla base della specifica richiesta formulata con l’azione processuale, si distinguono 3 tipi di processo giurisdizionale: 6 - processo di cognizione - processo di esecuzione - processo cautelare Il “processo di cognizione” (o “di accertamento”) è quello promosso da un’azione di accertamento, cioè da un’azione rivolta ad ottenere la dichiarazione autoritaria dell’esistenza (o inesistenza) di una situazione giuridica controversa. Il processo può essere inteso: - all’accertamento puro e semplice o mero accertamento (es. che Tizio è creditore di Caio) - all’accertamento seguito dalla condanna del soccombente a fare ciò che deve fare (es. a Caio, essendo accertato che è debitore di Tizio, si ordina di effettuare il pagamento) - ad un accertamento con effetti costitutivi, cioè implicante di per se stesso, senza necessità di un comportamento che l’attore o il convenuto debbano porre in atto, una modificazione dell’ordine giuridico (es. annullamento di un atto, previo riscontro di un vizio della volontà) Il “processo di esecuzione” è quello promosso da un’azione esecutiva rivolta ad ottenere la materiale, effettiva esecuzione di un diritto già accertato in un precedente processo di cognizione oppure extra processualmente (es. mediante un esplicito riconoscimento da parte del soggetto passivo). Il “processo cautelare” è quello promosso da un’azione cautelare rivolta ad ottenere misure di preventiva garanzia (precauzione) in vista della successiva ed indipendente decisione di un processo di accertamento o di esecuzione ancora in corso o addirittura ancora da iniziare. 3. I RAPPORTI GIURIDICI Coerentemente con la funzione propria dell’ordinamento giuridico, ciascuna “situazione sociale” predisposta da una <<normativa giuridica>> si traduce in un certo ‘tipo’ di rapporto (rapporto giuridico) che intercorre tra 2 o più soggetti (soggetti giuridici) in relazione ad una fonte di interessi tra loro contrastanti (oggetto giuridico). Per eliminare nel modo più opportuno possibile ogni possibile conflitto in ordine all’oggetto, la normativa determina una “situazione di preminenza” (cd. <<situazione attiva>>) di un soggetto attivo ed una correlativa “situazione di subordinazione” (cd. <<situazione passiva>>) di un soggetto passivo. Beninteso, i soggetti attivi o i soggetti passivi possono essere anche più di uno, legati tra loro da un <<vincolo di comunione>>. La situazione del soggetto attivo, “favorito” dalla normativa, prende comunemente il nome di potere giuridico (o diritto soggettivo) e consiste: a) nel potere di pretendere l’osservanza dell’obbligo posto a carico del soggetto passivo (pretesa); b) subordinatamente alla inosservanza dell’obbligo, nel potere di provocare direttamente o indirettamente (in questo caso con l’aiuto del sistema giurisdizionale) la ‘sottoposizione forzosa’ del soggetto passivo ‘inadempiente’ alla sanzione (azione). Situazioni soggettive “complementari” del potere giuridico sono: a) la facoltà, cioè la ‘possibilità’ spesso riconosciuta al soggetto attivo di soddisfare i propri interessi ‘direttamente’, senza attendere l’intervento del soggetto passivo (es. si pensi alle facoltà del proprietario di utilizzare la propria cosa, relativamente alla quale gli è riconosciuta una pretesa a non essere disturbato dagli altri membri della comunità); b) l’onere, cioè il ‘sacrificio’ (o i ‘sacrifici’) cui deve eventualmente sobbarcarsi il soggetto attivo per ottenere il soddisfacimento del suo diritto (es. si pensi all’onere di ricorrere all’autorità giudiziaria per conseguire la soggezione del soggetto passivo). 7 La situazione del soggetto passivo, “sfavorito” dalla normativa, prende a sua volta il nome di dovere giuridico e consiste: a) nell’impegno ad osservare l’invito a ‘fare’ o a ‘non fare’ alcunché rivoltogli dal soggetto attivo, favorito da una norma direttiva (obbligo) b) nella connessa necessità, in caso di inosservanza dell’obbligo, di sottostare anche contro la propria volontà a quanto prescritto da una norma sanzionatoria (soggezione) Ciò posto, le possibilità di rapporti giuridici sono praticamente ‘infinite’, variando la loro identità a seconda: - dei soggetti (attivi e passivi); - degli oggetti; - del tipo di correlazione tra i soggetti (pretesa – obbligo, oppure azione – soggezione); - del contenuto specifico del potere giuridico e coerentemente del dovere giuridico. Le principali distinzioni dei rapporti giuridici sono quelle tra: a) rapporti giuridici assoluti e relativi; b) rapporti di debito e di responsabilità; c) rapporti ad esecuzione libera e ad esecuzione coatta; d) rapporti pubblici e privati. a) Rapporti giuridici assoluti e relativi:  assoluti sono quelli che intercorrono tra 1 o più soggetti attivi e tutti quanti, ‘indistintamente e indeterminatamente’, gli altri soggetti giuridici, i quali sono ‘tenuti’ ad un comportamento di sopportazione (pati) della pretesa (cd. erga omens, cioè verso tutti) del soggetto attivo, incorrendo chi fra essi l’infranga in un rapporto di responsabilità (del quale sarà soggetto passivo) Es. il rapporto di proprietà;  relativi sono quelli che intercorrono tra 1 o più soggetti (non solo gli attivi, ma anche i passivi) ‘ben determinati’: i soggetti passivi sono, in tal caso, tenuti ad un comportamento satisfattorio positivo o negativo (di dare, di fare, di non fare qualche cosa) verso i soggetti attivi e passano, in caso di inosservanza, ad essere soggetti passivi di un rapporto di responsabilità, eventualmente ad esecuzione coatta Es. le cd. obbligazioni (da compravendita, da mutuo, da atto illecito)  il debitore è ‘tenuto’ a soddisfare il creditore consegnandogli la merce, restituendogli la somma avuta in prestito, risarcendogli il danno patrimoniale prodotto, ecc. Una categoria “anomala” di rapporti assoluti, ossia i cd. rapporti assoluti in senso improprio, deriva a molti ordinamenti giuridici moderni dall’antico diritto romano. Si tratta di rapporti relativi (es. usufrutto) al cui soggetto attivo sono conferiti non solo poteri verso il soggetto passivo, ma anche poteri assoluti (erga omnes). b) Rapporti di debito e di responsabilità:  di debito sono rapporti (assoluti o relativi) consistenti in un ‘vincolo’ che si costituisce per effetto di un accadimento considerato <<lecito>> dal diritto (cioè, per effetto di un fatto giuridico involontario o di un atto giuridico lecito);  di responsabilità sono rapporti giuridici relativi (mai assoluti) consistenti in un ‘vincolo’ che si pone a carico di 1 o più soggetti passivi determinati, a titolo di “responsabilità” (di penitenza) per aver compiuto in pregiudizio del soggetto attivo un atto <<illecito>> Es. la turbativa del diritto di un proprietario, la produzione di un danno ingiusto, l’inadempimento di un obbligo relativo. 10 fine della terza anarchia militare e della connessa ascesa al potere di Diocleziano. La repubblica universale romana, con il regime di governo del <<principato>> (principatus) che si affermò in essa, può essere valutata, in sé e rispetto alla repubblica nazionale che la precede, molto variamente. Sta di fatto, comunque, che l’attenzione degli storici post – romani del diritto è, sempre stata attratta, e quasi affascinata, dalla fioritura in essa di un pensiero giuridico singolarmente copioso e maturo, che si suole denominare nel suo complesso <<giurisprudenza classica>>. Il ‘monumento’ della giurisprudenza classica ha influenzato, nell’uso corrente, la “esaltante” denominazione (e spesso anche la stessa valutazione) di tutto il periodo. Va, però, sottolineato che occorre tener presente delle dimensioni eminentemente ‘formali’ del fenomeno. Vi sono poche tracce anche di questo periodo, ad eccezione del piccolo manuale istituzionale (institutiones) del giurista Gaio, venuto prodigiosamente alla luce nel 1816 e integrato da ritrovamenti successivi. Tracce ‘indirette’ del periodo <<classico>> si hanno ‘miste’ ad induzioni (deduzioni) sulla base di copiosi resti del periodo successivo. 4. Periodo <<postclassico>> Corrisponde a quello dell’<<impero assolutistico>> e si inquadra in esso. Va dagli ultimi anni del sec. III sino al sec. VI d.C., cioè dall’ascesa al potere di Diocleziano (285 d.C.) sino alla morte dell’imperatore d’Oriente Giustiniano I (565 d.C.). Le ragioni per cui il periodo è denominato (rispetto a quello precedente) <<postclassico>> sono intuibili. Il periodo <<postclassico>> fu un periodo “di declino” della civiltà giuridica romana e di vario ‘inquinamento’ dei suoi principi. Si parli o meno di <<decadenza>>, la progressiva alterazione della ‘romanità’ in tutti i suoi aspetti è evidente, ed è ad essa che va ricollegata l’estinzione della civiltà romana e del suo diritto. Quanto alle notizie (tracce), il periodo <<postclassico>> ne abbonda: sia a causa delle raccolte di costituzioni imperiali denominate “Codice Gregoriano”, “Codice Ermogeniano” e “Codice Teodosiano” (quest’ultimo pubblicato dall’imperatore Teodosio II nel 438 d.C.; sia a causa di altri minori resti; sia e soprattutto a causa della grande Compilazione giustinianea (il cd. <<Corpus iuris civilis>>). Quest’ultima fu pubblicata dall’imperatore Giustiniano I tra il 529 e il 534 d.C. e consta di 3 parti (giunte tutte fino a noi): 1. un Codice di costituzioni imperiali (il Codex Iustinianus): 2. un’amplissima raccolta di frammenti delle opere scritte dai giuristi classici denominata dei Digesti o Pandette (i Digesta Iustiniani Augusti) e 3. un manuale di Istituzioni per gli studenti di giurisprudenza (le Institutiones Iustiniani Augusti) ordinato sullo schema delle Istituzioni di Gaio. In più una lunga serie di <<nuove>> costituzioni posteriori al 534 (Novellae constitutiones). 6. I SISTEMI NORMATIVI DEL DIRITTO PRIVATO ROMANO Nel corso del 4 periodi indicati, il diritto romano privato venne ispirato o dettato da ‘almeno’ 4 sistemi normativi, cioè da 4 aggregazioni di normative giuridiche (esplicite o implicite) derivanti da <<fonti di produzione>> diverse. I 4 sistemi ebbero ciascuno il proprio temporaneo periodo di <<fioritura>>, cioè di produttività di ‘nuove’ normative, e furono: - taluni tra loro contemporanei e in funzione di reciproca ‘cooperazione’ o di reciproca ‘concorrenza’; - talaltri di epoche successive e in funzione di ‘integrazione’ o di ‘sostituzione’ dei sistemi precedenti. Mai, però, le normative prodotte da suddetti 4 sistemi scomparvero completamente: i sistemi successivi, infatti, cambiarono e abolirono, dei sistemi precedenti, solo ciò che si ritenne ‘opportuno’ o ‘necessario’ cambiare o abolire in relazione al mutare dei tempi e delle situazioni politiche, sociali o economiche. Anzi, nel periodo <<postclassico>> l’imperatore Giustiniano I ebbe particolare cura di ‘salvare’ o di ‘ripristinare’ nei limiti del possibile quanto più gli riuscì di mettere insieme del diritto (dei iura) dei periodi precedenti (soprattutto del periodo <<classico>> e <<preclassico>>). I 4 principali sistemi normativi del diritto privato romano 11 1. Diritto civile antico (ius civile vetus) Fu costituito da: a. un nucleo molto resistente di ‘veneratissime costumanze’ degli antenati (mores maiorum), dette anche, nel loro insieme, <<diritto dei Quiriti>> (ius Quiritium); b. alcune <<antiche leggi>> elargite dai patrizi su pressione degli ‘irrequieti’ plebei (ius legitimum vetus), tra cui, importantissime, le 12 Tavole del 451 – 450 a.C.; c. l’interpretazione ‘evolutiva’ di tali principi ad opera dapprima del collegio religioso dei “pontefici” (pontifices) e più tardi, lentamente, dai “laici” affermatisi nella pubblica opinione come ‘esperti di questioni giuridiche’ (iurisprudentes). Il diritto civile antico si formò essenzialmente nel periodo <<arcaico>> ed agli inizi del periodo <<preclassico>>, ma poi fu ‘ritoccato’ da leggi pubbliche e da provvedimenti alle stesse equiparati (in particolare, da senatoconsulti) sino agli inizi del periodo <<classico>> e fu oggetto di interpretazione ‘evolutiva’ (sia pur sempre meno ardita) da parte della <<giurisprudenza>> (iurisprudentia) sino alle soglie del periodo <<postclassico>>. Caratteristica di questo sistema fu di essere ‘limitato’ ai soli cittadini romani. Ma la limitazione perse quasi del tutto valore quando il principe Antonino Caracalla, nel 212 d.C., emanò una costituzione (constitutio Antoniniana) con la quale concesse la cittadinanza romana pressoché a tutti gli abitanti dell’ormai vastissimo impero. 2. Diritto civile nuovo o moderno (ius civile novum) Fu una ‘sorta’ di diritto di origine “giurisdizionale” creato in età <<preclassica>> dalla magistratura del cd. pretore peregrino nella risoluzione di controversie relative a rapporti giuridici ‘ignoti’ al vecchio diritto civile: rapporti commerciali venuti in uso sempre più fitto, tra il sec. III e il sec. II a.C., tra romani e stranieri del bacino del Mediterraneo (cd. peregrini). L’obbligatorietà di questo “nuovo” settore del diritto non era ‘assoluta’ perché i pretori peregrini potevano anche regolarsi in modo ‘diverso’ dall’uno all’altro, ma in pratica acquistarono molta autorevolezza i <<precedenti>> man mano affermatisi, anche perché si trattava di soluzioni suggerite ai magistrati da influenti giureconsulti. I “nuovi” istituti furono, quindi, largamente adottati, ad ‘integrazione’ del diritto civile antico, anche nei rapporti commerciali tra soli romani e rimessi alla giurisdizione del pretore urbano o dello stesso pretore peregrino. Dato che il diritto civile nuovo era esteso agli stranieri, si usò anche chiamarlo <<diritto delle genti>> (ius gentium), in dipendenza dal fatto che i suoi istituiti erano “comuni” pressoché a tutte le genti civilizzate di quei tempi. 3. Diritto pretorio o onorario (ius praetorium vel honorarium) Fu anch’esso un diritto di origine “giurisdizionale” come quello scaturito dagli interventi del pretore peregrino e dall’autorità dei <<precedenti>> giurisdizionali (e anzi, lo stesso <<diritto delle genti>> fu, a stretto rigore, il prodotto di un diritto pretorio). La sua specificità deriva da ciò: a. che esso si formò nel periodo della ‘grande crisi politica’ da cui fu affetta la repubblica nazionale tra la metà del sec. II e la fine del sec. I a.C.; b. che in questo agitato periodo, non funzionando regolarmente i comizi e non provvedendo perciò le leggi pubbliche ad integrare o modificare molte normative ormai superate del diritto civile (soprattutto di quello antico), si videro ‘costretti’ ad intervenire con soluzioni innovative i magistrati investiti della funzione giurisdizionale tra i cittadini, cioè il pretore urbano, ancora una volta il pretore peregrino ed altri magistrati, tra i quali gli edili (addetti all’amministrazione della città di Roma) e i governatori delle province (addetti anche a dirimere le controversie tra i cittadini ivi residenti); 12 c. che le varie ‘nuove’ regole costituitesi in forza dell’autorità dei <<precedenti>> non ebbero carattere ‘radicalmente abrogativo’ di quelle civilistiche ufficiali, ma ebbero solo carattere di <<soluzioni alternative>> offerte dai magistrati giurisdicenti alle parti in causa purché esse fossero d’accordo nel rimettersi ai loro criteri di giustizia (solitamente preannunciati da <<editti>> emessi al momento dell’entrata in carica). Il diritto “alternativo” così ‘venuto in essere’ si chiamò diritto pretorio perché faceva capo soprattutto ai pretori e ai loro <<editti>>, ma fu anche chiamato diritto onorario dal momento che scaturiva anche da altri magistrati giusdicenti e che le cariche pubbliche erano considerate e qualificate <<onori>> (honores). Nel periodo <<classico>>, soprattutto dopo il sec. I d.C., la ‘fioritura’ del diritto onorario si esaurì di pari passo con il sopravvento del diritto di marca imperiale. 4. Diritto nuovo o aggiornato (ius novum) Fu il diritto creato soprattutto dai principi (o imperatori) nel corso dei periodi <<classico>> e <<postclassico>> mediante “costituzioni imperiali” (constitutiones principum) e altri interventi loro e dei funzionari da loro dipendenti. Di fronte al progressivo affermarsi del principio che la volontà del principe ha valore di ‘legge’ (<<quod principi placuit legis habet vigorem>>) i sistemi giuridici formatisi nell’età <<arcaica>> o ad opera delle magistrature giusdicenti repubblicane persero progressivamente ogni capacità di svilupparsi e di evolversi e progressivamente subirono sensibili diminuzioni e logoramenti. Ciò anche perché l’amministrazione della giustizia nelle controversie tra privati fu ‘usurpata’, sempre in lenta ma inesorabile progressione, dai principi – imperatori mediante il dilagare delle cd. <<procedure straordinarie>>. L’ingente massa di istituti creata dai “vecchi” sistemi giuridici perse completamente ogni capacità di produrre altre normative, ma non fu affatto sradicata. Al contrario, essa venne in gran parte “conservata in vita”, salvo che fu considerata diritto vetusto (ius vetus) subordinato al <<diritto nuovo>> imperiale, il quale non di rado lo deformò e lo stravolse. In periodo <<postclassico>> si parlò spesso, semplificando, di <<leggi>> imperiali (leges) al cui intervento modificativo erano esposte le <<istituzioni giuridiche>> tradizionali (iura). 15 In periodo postclassico si fece luce su una ‘tendenza’ largheggiante, almeno nel senso che anche i figli mostruosi potessero far “numero” con gli altri figli per il riconoscimento alla madre dei benefici concessi a chi avesse un certo numero minimo di figli (ius liberorum). Esistenza Esigeva che l’essere umano di struttura normale fosse nato effettivamente <<vivo>> e fosse fino alla morte in condizioni di <<vitalità>>. La <<nascita>> era segnata dal distacco del feto dall’alveo materno (partus editus), mentre la <<vita>> effettiva era dimostrata da ogni sua manifestazione caratteristica, e perciò soprattutto dal respiro o, nei neonati, dal 1°vagito. Quanto alla <<vitalità>>, cioè all’attitudine a vivere dopo la nascita, essa era ‘desunta’ principalmente dal fatto che il parto fosse stato un parto regolare (partus perfectus), a seguito di gestazione regolare di almeno 7 mesi. Siccome mancò in ogni tempo un sistema di pubblica <<registrazione>> obbligatoria delle nascite e delle morti, le une e le altre, in caso di incertezza o di contestazione, dovevano costituite oggetto di una specifica “prova”. Attenuazioni di questi principi si verificarono nei riguardi del concepito (conceptus), cioè dell’essere che non fosse ancora venuto alla luce. Dato che il concepimento importava una ragionevole probabilità di nascita (entro pochi mesi) di un nuovo soggetto, il diritto onorario ritenne equo <<riservare>> al concepito una quota di ‘partecipazione alla successione’ nei beni del padre defunto, nominandosi addirittura un curatore (curator ventris) per la conservazione ed amministrazione dei cespiti relativi: ma è ovvio che la ‘partecipazione successoria’ in tanto si sarebbe “giuridicamente realizzata”, in quanto si fosse “verificato” l’evento della nascita. La giurisprudenza classica giunse al punto di ritenere che si potesse tener conto del periodo del concepimento ai fini del riconoscimento della libertà e della cittadinanza del neonato. Tutto questo complesso di “eccezioni” fu riassunto, sempre dalla giurisprudenza postclassica, in una formulazione generale ‘infelice’, che si presta alla falsa interpretazione di un riconoscimento, sia pure parziale, della capacità giuridica del concepito: <<il concepito vale come nato, tutte le volte che si tratti di favorirlo>>. Dopo la morte il soggetto giuridico si considerava “cancellato” dal mondo del diritto e ne prendevano il posto i suoi successori. Tuttavia, motivi di ‘utilità pratica’ indussero, in taluni casi “eccezionali”, a considerare il morto come ancora titolare, almeno a certi effetti, di situazioni giuridiche: per es., nell’ipotesi della vendita forzata del patrimonio (honorum venditio), che poteva essere effettuata anche ‘a danno’ del debitore defunto, sulla ‘memoria’ del quale veniva, quindi, a ricadere l’infamia conseguente. Libertà Implicava che si appartenesse alla categoria degli uomini “liberi”, cioè che non si fosse schiavi (servi). I Romani, infatti, come tutti i popoli antichi, conoscevano e praticavano l’istituto della schiavitù, che fu anzi per lungo tempo (soprattutto tra il sec. IV a.C. e il sec. III d.C.) il ‘nerbo’ (nucleo vitale) della loro vita economica: i Romani, quindi, ammettevano, pertanto che vaste categorie di esseri umani (personae) si trovassero, in quanto schiavi, nella condizione di “oggetti giuridici”. Peraltro, sin dall’età classica si affermò, nella giurisprudenza e nella legislazione, un pronunciato <<favore per la libertà>> (favor libertatis), in virtù del quale si ritenne opportuno risolvere i casi dubbi: - agevolando il riconoscimento o l’acquisto della libertà da parte di persone che fossero formalmente in stato “servile”; - (e) ponendo, viceversa, remore alla perdita di essa (della libertà) quanto meno da parte dei cittadini. Fatti costitutivi della libertà furono considerati: 16 - la nascita da madre che fosse stata “libera”, sia pure per un breve periodo soltanto, nel tratto di tempo tra il concepimento ed il parto; - la manomissione (manumissio), cioè l’affrancazione dello stato di schiavitù (requisito della cittadinanza). Gli esseri umani “liberi” dalla nascita si dicevano ingenui; gli esseri umani “liberi” a seguito di manomissione si dicevano libertini o liberi. Fatti estintivi della libertà furono: - la prigionia di guerra (captivitas), cioè la caduta del cittadino in prigionia bellica presso popolazioni straniere (non, quindi, quella del prigioniero di briganti e simili); - certe condanne penali o certi provvedimenti normativi intesi a ‘punire’ con la schiavitù le malefatte di un cittadino. In ordine alla prigionia di guerra, che era una situazione ‘non irreversibile’ e che, comunque, era ovviamente guardata con “sfavore”, intervennero tuttavia, a mitigarne gli effetti per i cittadini romani, 2 istituti caratteristici: - il ius postliminii il postliminio (postliminium) era un vecchio principio consuetudinario in forza del quale, se il cittadino riusciva a sottrarsi alla prigionia ed a rientrare entro i confini (entro i limina) di Roma, la sua svalutazione giuridica massima veniva considerata “nulla” ed egli riacquistava tutte le situazioni giuridiche (attive e passive) di cui era stato titolare in precedenza, così come se lo stato di prigionia non avesse mai avuto luogo; - la finzione della legge Cornelia (fictio legis Corneliae) era così denominata in considerazione di una legge proposta da Cornelio Silla nell’81 a.C., la quale provvide all’ipotesi di morte del cittadino nello stato di prigionia: per evitare che il testamento di lui fosse dichiarato “nullo” essendo egli defunto e, come tale, privo di cittadinanza, essa stabilì che il momento della morte del captivus fosse fittiziamente ‘retrodatato’ al momento della “cattura” da parte del nemico, cioè all’ultimo istante in cui aveva goduto della libertà e quindi della capacità di fare testamento. Cittadinanza romana Tale requisito comportava che, per essere soggetti giuridici, si appartenesse alla categoria dei cittadini romani (cives Romani), cioè non si fosse “stranieri” (peregrini). L’esigenza era di fondamentale importanza in età arcaica e lo rimase, quanto al diritto pubblico, anche nel periodo della repubblica nazionale. In ordine al diritto privato, invece, fin da tempi piuttosto risalenti ebbero inizio le “eccezionali” ammissioni, poi sempre più diffuse, di stranieri (a cominciare dai Latini) alla comunanza di ‘vita giuridica’ con i Romani. Il “processo di parificazione” continuò e si incrementò nel corso del periodo classico, sin quando Antonino Caracalla, con la costituzione Antoniniana del 212 d.C., estese la cittadinanza romana a quasi tutti gli abitanti dell’Impero. Fatti costitutivi della cittadinanza romana (civitas Romana) furono: - la nascita dal giusto matrimonio tra 2 cittadini romani (romani almeno al concepimento) oppure tra 1 cittadino romano al momento del concepimento ed 1 straniera munita di capacità al matrimonio con i Romani (connubium); - la nascita “fuori” dal giusto matrimonio, ma da madre romana al tempo del parto; - la concessione della cittadinanza (civitas donatio), cioè la naturalizzazione concessa dagli organi di governo dello Stato a singoli stranieri o ad intere categorie di stranieri; - l’affrancazione dalla schiavitù, purché fosse operata nelle forme antiche e tradizionali (manumissio iusta et legitima). Fatti estintivi della cittadinanza romana furono: 17 - quelli stessi che valevano a far estinguere la libertà (in una sola volta si perdevano la cittadinanza e la libertà); - lo stabile e volontario abbandono del patrio suolo da parte del cittadino (cd. exsilium), che ammetteva peraltro il riacquisto delle situazioni giuridiche a titolo di postliminio in caso di concessione del suo ritorno in patria; - la “solenne interdizione dall’acqua e dal fuoco” (aqua et igni interdictio) da parte dei comizi (e più in generale la dichiarazione di homo sacer, <<esecrato>>, oppure di hostis publicus, <<nemico pubblico>>) in forza di che, se si varcavano i confini di Roma, non solo non si riacquistava la ‘soggettività giuridica perduta’, ma si era esposti alla ‘libera aggressione mortale’ di qualunque cittadino romano. Autonomia familiare Consisteva nell’essere esente dalla subordinazione a poteri domestici (patria potestas, manus maritalis, mancipium) altrui. Chi (maschio o femmina) godesse di autonomia familiare era detto <<persona giuridica autonoma>> (persona sui iuris), in contrapposto alle <<persone giuridicamente dipendenti>> (personae alieni iuris), cioè sottoposti ad altrui potestà. Tuttavia, solo chi fosse maschio poteva avere sotto la sua potestà domestica altre persone libere (filii familiarum, mulieres un manu, liberi in mancipio) ed appunto perciò egli veniva solitamente anche denominato <<padre di famiglia>> (paterfamilias). Le femmine, che nei tempi più antichi (cioè, nel sistema del diritto quiritario), erano state addirittura considerate sempre e solo “giuridicamente dipendenti” (alieni iuris), furono in periodo preclassico ‘ammesse’ all’autonomia familiare, ma con una forte limitazione (che le rese “soggetti limitati” di diritto privato): “mancarono” di potere domestico sugli elementi “liberi” della loro famiglia. Quindi, la soggettività giuridica privata fu riconosciuta solo alle persone “familiarmente autonome” (e in 1°luogo ai padri di famiglia maschi). Per ragioni storiche, le famiglie (familiae) furono sempre considerate in Roma una sorta di <<enti parastatali>>, aventi larga sfera di autonomia, dei quali l’ordinamento cittadino non curò l’organizzazione e il funzionamento ‘interni’, ma curò solo il comportamento ‘esterno’, riconoscendone come unico esponente e responsabile di fronte alla città il padre. Questa imposizione ‘originaria’ perdurò, quanto al diritto privato, fino a Giustiniano; invece, venne quasi totalmente meno, quanto al diritto pubblico, già a partire dagli ultimi tempi del periodo arcaico, cioè sin da quando ‘fulcro dello Stato’ divenne l’esercito centuriato, costituito da “padri” e “figli” (maschi) sostanzialmente equiparati tra loro nelle funzioni di governo e difesa della città. Dal loro canto, le “donne” fruirono ‘di riflesso’ di questa evoluzione, rimanendo in ogni tempo escluse dai comizi e dalle magistrature, ma acquistando anch’esse una capacità, sia pur “limitata”, di rapporti giuridici privati. La parentela naturale, cioè la “consanguineità” tra i membri della famiglia (cognatio) aveva, salvo eccezioni, un rilievo puramente “sociale”: dal punto di vista del “diritto” rilevava essenzialmente la dipendenza familiare. Tuttavia, quando i sottoposti (gli alieni iuris) erano anche parenti naturali del padre (o erano ai parenti espressamente parificati dall’ordinamento), la dipendenza familiare era “graduata” sulla falsariga della cognazione e prendeva il nome di agnazione (adgnatio). Agnati (“adgnati” = lett., nati dopo il capostipite) erano, dunque: - i figli (filii familias, e con essi gli adrogati, gli adoptivi, i legitimati); - le donne subordinate alla mano (mulieres in manu), che erano parificate alle figlie (filiarum loco). 20 cariche pubbliche), ma anche sul piano del diritto privato. Pur quando il liberto, essendo stato affrancato con “manomissione piena” (manumissio iusta ac legitima), acquistava la cittadinanza romana, la sua condizione era deteriore (inferiore) rispetto a quella del nato libero: per es. la donna libertina, per potersi liberare dalla tutela in base al “beneficio della figliolanza” (ius liberorum) delle leggi Giulia e Papia, doveva dimostrare di aver avuto almeno 4 figli, mentre alla donna nata libera (ingenua) erano sufficienti 3 figli. Le limitazioni più sensibili derivavano, però, dal “patronato”, cioè dal rapporto che si istituiva a seguito della manomissione, tra l’ex domino (patrono) e lo schiavo affrancato. A questo rapporto si sottraevano soltanto: a. i cd. <<liberti orcini>>, cioè gli schiavi manomessi dal padrone con il suo testamento (il cui patrono era quindi sin dall’inizio inesistente, perché defunto, perché all’Orco, agli Inferi); b. i <<liberti dipendenti da nessun patrono>>, cioè gli schiavi affrancati eccezionalmente per intervento della pubblica autorità, senza la volontaria manomissione del domino; c. gli <<ex – liberti>>, cioè coloro su cui il patrono avesse perduto il patronato per disposizione di legge i per rinuncia. Il rapporto di patronato (patronatus) importava indubbiamente qualche onere per il patrono: il quale, era tenuto (al dire il vero, più sotto il profilo ‘sociale’, che giuridico) a prestare al libero protezione e assistenza, particolarmente nel caso egli fosse ‘convenuto in giudizio’. Di contro, sul liberto gravavano (a favore del patrono) obblighi non solo di carattere sociale, ma anche di sicuro carattere ‘giuridico’, i quali si riassumevano nel concetto di “deferenza” (obsequium, reverentia, honor). In virtù della deferenza (in ricordo dell’antica soggezione schiavistica), il liberto non poteva mai: - ‘citare in giudizio’ il patrono con azioni infamanti; - esercitare contro il patrono certe altre azioni senza autorizzazione del magistrato giusdicente; - ottenere la sua condanna al di là di ciò che il patrono fosse in grado di pagare. Ma, soprattutto, il liberto doveva prestare al patrono ‘gratuitamente’ certi servigi, i quali il patrono aveva cura di farsi precisare ed assicurare mediante una <<promessa giurata>> da parte del liberto. Inoltre, la successione intestata al liberto defunto, che non avesse lasciato discendenti in potestà, spettava al patrono e ai suoi discendenti. La cessazione del patronato non era implicata, finché il liberto fosse in vita, dalla ‘morte’ del patrono, perché nelle relative situazioni attive succedevano i discendenti di lui. L’estinzione del patronato era, invece, determinata da 3 cause principali: 1. la morte del liberto, i cui figli erano nati liberi (ingenui) ed erano, quindi, pienamente equiparati, almeno dal punto di vista del diritto privato, ai soggetti giuridici normali; 2. la <<ricostruzione della nascita>> (restituito natalium), cioè la concessione al liberto di uno status pari a quello dell’ingenuo, la quale era concessa dal principe con l’assenso del patrono; 3. un’espressa disposizione di legge o anche, in diritto giustinianeo, la rinuncia da parte del patrono. I principi solevano anche concedere generosamente ai libertini, di cui largamente si circondavano nella loro amministrazione dell’impero, il cd. <<diritto dell’anello d’oro>>, cioè il privilegio di portare l’anello d’oro caratteristico dei cavalieri (equites): tuttavia, questo privilegio equiparava per il diritto pubblico i liberti agli ingenui, ma non eliminava per il diritto privato il patronato. Extraromanità Cioè, l’estraneità dalla comunità romana (peregrinitas) implicava, in linea di principio, la completa esclusione dalla partecipazione al diritto romano, sia pubblico che privato. Ma era pura teoria. In realtà, fin dai tempi più antichi, gli stranieri (peregrini), a cominciare da quelli 21 appartenenti alle vicine città del Lazio, ottennero una parziale equiparazione ai cittadini romani, quindi una parziale ammissione all’utilizzazione del diritto privato. In periodo classico, prima che la costituzione Antoniniana del 212 elevasse tutti (o quasi) gli abitanti dell’impero al rango di cittadini romani, si ravvisarono varie categorie di stranieri (o di individui ad essi equiparati) in condizione di soggetti giuridici “limitati” del diritto privato, categorie costituite soprattutto dai:  <<Latini>>  <<stranieri in senso stretto>> Dopo la costituzione Antoniniana queste distinzioni ebbero ridottissima rilevanza e Giustiniano le abolì quasi del tutto. <<Latini>> Era una categoria costituita anzitutto dai Latini originari (Latini prisci), che erano i cittadini delle città latine autonome e, quindi, i discendenti degli antichi abitatori del Lazio: costoro erano, quanto al diritto privato, equiparati ai cittadini, perché venivano loro riconosciuti: - sia il <<diritto di connubio>> (connubium) con i romani, cioè la capacità di contrarre giusto matrimonio con i cittadini di Roma; - sia il <<diritto di commercio>> (commercium) con i romani, cioè la capacità di avvalersi, nei rapporti economici (non connessi con il matrimonio) con i romani, di tutto il diritto privato romano, ivi compreso il diritto civile antico. Categorie “artificiali” di Latini (cioè, costituite da persone non di stirpe latina, ma ‘fruenti’ della condizione giuridica di Latini, cioè del cd. ius Latii) furono, inoltre, le seguenti 3: 1. Latini colonarii cittadini romani degradati a Latini perché inviati a far parte delle <<colonie latine>>, che Roma istituiva in alcune località ove non voleva impegnare il suo nome attraverso l’istituzione di colonie romane; 2. Latini iuniani schiavi affrancati in modi ‘non solenni’ (cioè, con negozi diversi da quelli tradizionali di manumissio iusta ac legitima), i quali erano privi della capacità di far pervenire i propri beni ai loro discendenti, con la conseguenza che tutto ciò che lasciavano al momento della morte andava a finire al patrono; 3. Latini eliani liberti in condizioni identiche a quelle dei Latini iuniani. Questi 2 ultimi tipi “artificiali” di Latinità sopravvissero alla costituzione Antoniniana, essendo più che altro delle ‘manifestazioni’ di cittadinanza di minor diritto: solo Giustiniano si decise ad abolirle. <<Stranieri in senso stretto>> Cioè, gli stranieri non Latini, si distinguevano in 3 specie: 1. stranieri aggregati in città (peregrini alicuius civitatis) in quali nei rapporti con i Romani e con gli stranieri delle altre città si avvalevano del diritto civile nuovo (cd. ius gentium), con possibilità di ricorso alla giurisdizione del praetor peregrinus, ma nei rapporti interni tra loro vivevano secondo gli ordinamenti privatistici delle rispettive città; 2. stranieri deditizi (peregrini dediticii) Cioè, privi di civitas perché arresisi a discrezione ai Romani, che vivevano esclusivamente secondo le norme del diritto civile nuovo; 3. stranieri deditizi eliani I quali erano libertini esclusi sia dalla cittadinanza romana, sia dalla stessa latinità perché durante la schiavitù avevano subito pene infamanti per i crimini commessi. Dopo la costituzione Antoniniana l’area degli stranieri ovviamente si ridusse in modo notevole. In età postclassica erano considerati stranieri i soli appartenenti alle “nazioni esterne”, site al di fuori dei confini dell’impero, nonché i deditici eliani; ma Giustiniano ‘passò un colpo alla spugna’, abolendola, anche su quest’ultima categoria. 22 Sesso femminile (sexus muliebris) Nel sistema originario (del ius Quiritium) esso comportava la totale incapacità giuridica, nelle età successive, dopo il riconoscimento delle donne come “soggetti giuridici”, implicò peraltro limitazioni gravissime alla soggettività, cui vanno aggiunte quelle alla capacità d’agire. A prescindere dall’incapacità totale di diritto pubblico, quanto al diritto privato si segnalano: - una limitata capacità nella successione a causa di morte; - l’incapacità a fungere da testimonio in un <<negozio librale>>; - l’incapacità alla potestà domestica sui discendenti, con le conseguente incapacità (almeno in diritto classico) ad avere anche figli adottivi e ad esercitare funzioni di tutore e di curatore; - l’incapacità a difendere altri (postulatio pro alii) nei processi davanti al magistrato; - l’incapacità all’<<intervento a favore di altri>> (intercessio pro aliis), cioè all’impiego delle proprie risorse patrimoniali a ‘garanzia’ di terze persone. Assoggettamento quasi servile (di un soggetto giuridico ad un altro) Si verificava in certi casi “eccezionali” di sua sottoposizione a guisa di schiavo (servi loco), sia pur con possibilità di riscattarsi o di essere riscattato. Durante la subordinazione si produceva un “affievolimento” temporaneo della capacità giuridica del soggetto quanto meno per diritto privato (ma forse,a maggior ragione, anche per il diritto pubblico). 2 istituiti di alta antichità furono quelle: 1. degli addiciti (lett. “assegnati di autorità”), che erano le persone portate davanti al magistrato del loro creditore ed assoggettate a costui dal magistrato stesso; 2. dei nexi (“autovincolati”), che erano, invece, coloro che, a ‘garanzia’ di un proprio o altrui debito, mettevano volontariamente se stessi, fino al giorno del riscatto, nelle mani del creditore. Successivamente, le ‘mitigazioni’ dell’esecuzione personale introdotte dalla Legge Petelia Papiria del 326 a.C., segnarono la “decadenza” de 2 istituiti dell’età storica. In età storica altri istituiti analoghi a questi furono: - gli ingaggiati (auctorati), che erano i <<gladiatori>>, soggetti giuridici (oltre che spesso stranieri e schiavi) che si erano impegnati verso un impresario (lanista), mediante uno speciale giuramento, a partecipare senza discutere agli spettacoli gladatorii (ludi) che egli indicasse, sino a subire eventualmente la morte; - i riscattati dalla prigionia (redempti ad hostibus), i quali erano soggetti giuridici che, essendo stati riscattati dalla captivitas ad opera di un concittadino (il redemptor), dovevano prestare servizio a costui,a guisa di schiavi, sin tanto che non fosse stato rimborsato (da loro stessi o da altri) del danaro del riscatto. Bassezza morale (detta turpitudo) Fu causa di “riprovazione” sul piano sociale ed anche, spesso, di sanzioni e incapacità di diritto pubblico connesse con la <<nota censoria>> (deplorazione da parte dei censori) o con la <<nota consolare>> (deplorazione da parte dei consoli) che colpivano i cittadini di “cattiva condotta”. Dal punto di vista del diritto privato, non poche limitazioni di capacità a carico di persone moralmente riprovevoli furono introdotte da leggi, da costituzioni imperiali e dall’editto del pretore. Così: - la legge Giulia sugli adulterii del 17 a.C. sancì la incapacità dell’adultera colta in flagrante ad unirsi in matrimonio con un nato libero (ingenuus); - la legislazione imperiale cristiana privò il padre di cattiva condotta dell’amministrazione dei beni dei figli e dell’esercizio dell’azione intesa alla restituzione della dote spettante alla figlia; 25 2°quesito se altre corporazioni sufficientemente compatte potessero avere, almeno in parte, rilevanza giuridica privata. Al 1°quesito la risposta (diversamente da ciò che oggi generalmente si ritiene in ordine agli Stati moderni) fu negativa, in considerazione del fatto che il popolo sovrano non poteva perdere in nessuna contingenza la sua ‘supremazia’ nei confronti dei privati. Al 2°quesito la risposta fu, invece, “cautamente” positiva e dette luogo al riconoscimento di 2 ‘sottospecie’ di soggetti giuridici associativi:  quella dei municipi e delle colonie;  quella dei collegi e dei sodalizi. Municipi e colonie (anche detti complessivamente civitates o universitates) erano enti pubblici minori che si riteneva potessero assumere, in certi ipotesi ben determinate, la veste di soggetti giuridici privati: - i municipi (municipia) erano comunità cittadine non romane sottoposte al <<protettorato>> della repubblica e fruenti di un’autonomia interna nei confronti dei loro cittadini: - le colonie (coloniae) erano comunità create da Roma nel territorio dell’Impero romano, fruenti del pari di autonomia e si suddividevano in colonie romane e colonie latine. Questi enti parastatali erano equiparati ai soggetti giuridici privati ed era pertanto loro concesso di compiere ogni attività, anche processuale, limitatamente alle relazioni giuridiche di carattere “economico”: - o a mezzo dei propri funzionari di governo; - o (in singoli casi) a mezzo di speciali agenti (actores); - o, infine, in età più tarda, a mezzo di stabili organi rappresentativi (curatores o syndici) I collegi (collegia) e i sodalizi (sodalitates) erano consociazioni (denominate anche meno propriamente corpora o societates): - i collegi consistenti prevalentemente in ‘confraternite’ a scopo di culto comune, quindi spesso con la finalità di garantire una sepoltura ai membri (collegia funeraticia); - i sodalizi consistenti prevalentemente in ‘circoli’ a fini di ricreazione e di mutua assistenza dei soci. La loro ‘ragion d’essere’ è che si trattava di aggregazioni di gente dai mezzi economici ‘limitati’, o di ‘umili’ esercenti arti e mestieri, ispirate al concetto che “l’unione fa la forza” e basate generalmente su una convenzione sociale trasfusa in uno ‘statuto scritto’, che disciplinava l’organizzazione e il funzionamento del collegio. La concezione dei collegia come enti diversi dalle ‘persone’ dei soci e come ‘soggetti autonomi’ di rapporti giuridici si profilò soltanto agli inizi dell’età classica, per effetto di una Legge Giulia sui collegi fatta votare da Augusto in un anno imprecisato: legge che volle far fronte al ‘pullulare’ di associazioni mascheranti attività di opposizione politica o addirittura di violazione dell’ordine pubblico, e che pertanto dispose lo scioglimento di tutti i collegi esistenti, facendo salvo un ‘ristretto’ numero di società di antica e nobile tradizione e subordinando la costituzione di nuovi enti corporativi a ‘requisiti minimi’ tra loro conformi e ad ‘autorizzazione espressa’ del senato (e più tardi del principe). La rappresentanza processuale dei collegi “autorizzati” (collegia licita) fu, conseguentemente, regolata dall’editto pretorio. Per quanto riguarda le <<fondazioni>> è da ritenere che, almeno in periodo classico, la soggettività giuridica non sia stata loro mai chiaramente riconosciuta. Comunque, i casi che solitamente si adducono sono quelli delle opere pie (di beneficenza) e dell’eredità giacente. 26 Opere pie (o pie cause) Era l’ipotesi di patrimoni destinati per testamento a scopi ‘duraturi’ di pietà e affidati per questo fine (causa) ad un ente corporativo o ad un ufficio (chiesa, vescovo, ecc.) aventi la qualità giuridica di successori a causa di morte (eredi, legatari, fedecommissari). Proprio perciò la giurisprudenza classica ritenne che, anche quando il testatore (il cd. <<fondatore>>) non lo avesse espressamente disposto, il lascito entrasse a far parte del ‘patrimonio generale’ del soggetto giuridico destinatario dei beni e che quest’ultimo fosse caricato dell’onere (a titolo di modus) di realizzare gli scopi prefissati dal fondatore. Le cose non mutarono molto in età postclassica, nella quale il propagarsi della beneficenza privata e pubblica sotto l’influsso della religione cristiana portò, soprattutto, alla creazione di numerosi ‘ospizi’ di vario genere (per vecchi, per poveri, per pellegrini, ecc.). Solo Giustiniano compì passi ‘decisivi’ sulla via del riconoscimento della soggettività giuridica alle istituzioni di beneficenza, accordando loro la capacità di ricevere legati e fedecommessi per testamento e quella di stare in giudizio in nome proprio e a mezzo di rappresentanti. Eredità giacente (hereditas iacens) Era l’ipotesi del patrimonio successorio in attesa di essere accettato o rifiutato dal chiamato all’eredità (quindi, provvisoriamente senza titolare). A rigor di diritto, il compendio patrimoniale era da considerarsi una res nullius, una cosa di nessuno, della quale il 1°venuto aveva il ‘potere’ di impossessarsi, ma sin dall’età classica si avvertì l’opportunità, sia pure limitatamente a casi e a fini del tutto ‘speciali’, di trattare l’hereditas iacens come “provvisoriamente sostitutiva” essa stessa del soggetto giuridico che avrebbe finito per acquistarla. Muovendo da questi spunti, la giurisprudenza e gli imperatori postclassici furono ‘lentamente’ portati a ravvisare in essa una sorta di soggetto giuridico <<provvisorio>>. Giustiniano completò il ‘processo evolutivo’ affermando senza mezza termini che l’hereditas iacens fosse in ogni caso “equiparabile” al titolare del patrimonio in cui si sostanziava. 12. GLI OGGETTI GIURIDICI Relativamente agli <<oggetti giuridici privati>>, esistono nel diritto romano tracce, assai più evidenti che altrove, di un ‘notevole distacco’ tra la considerazione del fenomeno nella pratica e la riflessione giurisprudenziale sul fenomeno stesso. Per questa ragione, volendosi rappresentare nella sua ‘integrità’ la materia degli oggetti giuridici privati, è necessario:  da un lato, indicare i requisiti degli oggetti giuridici privati così come ‘effettivamente’ risultano dallo studio diretto della materia;  dall’altro lato, riferire la teoria dell’oggetto giuridico privato nella limitata ed imperfetta formulazione <<naturalistica>> della ‘giurisprudenza romana’. I requisiti “normali” degli oggetti giuridici, cioè i requisiti normalmente ‘necessari’ per assumere il “ruolo” di oggetto giuridico privato, di ‘fonte’ di interessi per il soggetto attivo del rapporto, risultano essere stati i seguenti 5:  concretezza  utilità  limitatezza  disponibilità privata  estraneità al soggetto attivo del rapporto Concretezza Tale requisito stette a significare che l’oggetto giuridico, per essere tale, doveva appartenere al mondo della “realtà sensibile”, così come questa storicamente si presentava all’esperienza dei romani. Pertanto, non costituivano oggetto di rapporti giuridici (pubblici e privati) le manifestazioni di vita sovraumana (es. l’ambrosia di cui si cibavano gli dei) o di quella extraterrestre (es. il suolo facente parte di un altro pianeta), né erano considerati oggetti giuridici alcune manifestazioni della realtà sensibile che, allo stadio di sviluppo dell’esperienza romana, non erano state ancora individuate (es. l’energia idraulica). 27 Utilità Tale requisito stette a significare l’attitudine dell’oggetto a “soddisfare” un bisogno della vita di relazione, e più precisamente, un’esigenza dei soggetti del rapporto giuridico. Limitatezza Tale requisito, nel senso della limitata, ristretta, insufficiente disponibilità dell’oggetto per i bisogni umani, era strettamente connesso al requisito dell’utilità. Dalla limitatezza derivava, infatti, nei soggetti l’interesse ad accaparrarsi l’oggetto giuridico, ossia a sottrarlo alla disponibilità comune di tutti i consociati per poterne trarre ‘personale’ utilità. Disponibilità privata Tale requisito stette a significare che poteva costituire oggetto di rapporti giuridici privati, e quindi elemento del patrimonio del soggetto giuridico, soltanto ciò che ai rapporti privati non fosse ‘estraneo’ per sua natura o non fosse autorevolmente sottratto dall’ordinamento (es. le vittime dei sacrifici religiosi, la preda bellica, gli edifici pubblici, ecc.). Estraneità al soggetto attivo del rapporto Tale requisito stette a significare che tutto e tutti potevano costituire oggetto di rapporti giuridici privati, tranne chi avesse in quei rapporti la posizione di soggetto attivo. In altri termini, secondo il diritto privato romano (sia pure con limitazioni ed attenuazioni sempre più accentuatesi nel corso del periodo classico e postclassico), il novero degli oggetti giuridici non si limitò alle entità extra umane (cose materiali e animali subumani), ma si estese agli schiavi (servi), ai liberi sottoposti ad altrui potestà (liberi alieno iuri subiecti) e persino ai soggetti, cioè agli individui familiarmente autonomi (sui iuris): a questi ultimi, però, se ed in quanto fossero sottoposti solo temporaneamente ad un diritto assoluto altrui oppure fossero ‘vincolati’ entro i ristretti limiti di un’obbligazione al diritto relativo di un altro soggetto. La possibilità che il ‘ruolo’ di oggetti giuridici (non di <<cose>>) fosse coperto persino da soggetti giuridici (purché non si trattasse dello stesso soggetto attivo) non solo non contrasta con la logica astratta, ma può essere anche spiegata sul piano della storia. Infatti, alle origini, nel sistema del diritto quiritario, ai soggetti era riconosciuto, come unico diritto soggettivo, la “potestà assoluta” (potestas): sia su cose, sia anche su liberi e cittadini, e perfino su taluni altri soggetti (quali gli addicti e i nexi). Successivamente, la qualifica di oggetti giuridici rivestita da alcuni soggetti quando fossero sottoposti ad altri soggetti giuridici non fu mai smentita, ma venne solo progressivamente mitigata, tenendosi anche conto del fatto che molte volte la subordinazione aveva carattere ‘temporaneo’ o ‘parziale’ e che, in ogni caso, essa non implicava l’acquisizione del patrimonio del sottoposto da parte dell’avente potestà: alla morte del sottoposto il suo patrimonio, ben distinto da quello dell’avente potestà, andava infatti ai successori di lui stesso in quanto soggetti giuridici, non all’avente potestà. Di qui, derivò il “mai completo abbandono” di una concezione che la giurisprudenza romana classica non considerò ‘favorevolmente’, ma nemmeno riuscì a rimuovere del tutto, come nemmeno riuscì a rimuoverla la stessa giurisprudenza postclassica. Ancora nel diritto giustinianeo le potestà su individui liberi rimasero ‘formalmente riconosciute’, e perfino l’obbligazione di un soggetto verso un altro fu vista come “qualcosa di più intenso e coartante (obbligante)” del semplice ‘dovere incombente’ sul soggetto passivo (necessitate adstringi). 13. LE COSE La sempre più accentuata “riluttanza” della giurisprudenza romana, a partire dal periodo classico, verso l’inclusione dei soggetti giuridici nel novero dei possibili oggetti di rapporti giuridici privati si ‘tradusse’ in un concentrarsi della riflessione giurisprudenziale sugli oggetti giuridici aventi il carattere di <<cose>> (res), cioè di entità estranee ai soggetti giuridici, anzi a tutti gli uomini liberi. Pur nella ‘realtà’ non disconoscendosi e non contestandosi la possibilità che anche le persone libere e persino le persone normalmente dotate di soggettività giuridica potessero essere assunte come “oggetti” di rapporti giuridici, in sede di ‘riflessione teorizzatrice’ l’attenzione dei giuristi si concentrò essenzialmente sulle cose. Per <<cosa>> (res o bona, beni) furono intesi: 30  cose incommerciabili (res extra commercium) furono definite le cose sottratte alla disponibilità privata e inidonee a far parte di un patrimonio privato. In altri termini “commerciabili” erano tutte le cose che il costume o i provvedimenti di governo non qualificassero “incommerciabili”, cioè escluse dai rapporti giuridici privati. Quanto alle cose incommerciabili la categoria fu, a sua volta, suddivisa da alcuni giuristi in 2 branche. 1. Res (extra commercium) divini iuris erano quelle tipicamente destinate a soddisfare esigenze religiose. Tali furono: - res sacrae dedicate da un provvedimento di governo o da un’autorevole delibera sacerdotale al culto pubblico (templi, arredi sacri, are, ecc.); - res religiosae destinate dai privati al culto dei defunti (“di Manibus relictae”, tra cui il terreno funerario e i sepolcri); - res sanctae appartenenti alla comunità tutta intera e poste sotto la protezione degli dei (le porte e le mura della città, le strisce di separazione tra fondi privati, ecc.). 2. Res (extra commercium) humani iuris erano quelle non destinate a soddisfare esigenze religiose, ma sottratte alla disponibilità privata per considerazioni di opportunità sociale. Tali furono: - res publicae amministrate dagli organi di governo statali e destinate all’uso collettivo e a finalità di interesse pubblico (ager publicus e pubbliche strade, acquedotti, fiumi, edifici, schiavi, danaro, ecc.); - res universiatatis appartenenti a comunità municipali o coloniarie e analogamente destinate a finalità di interesse collettivo. Ma va aggiunto che soprattutto l’ager publicus (cioè, il complesso delle terre italiche e provinciali di pertinenza statale) era “concesso” di sovente ai privati a titolo di ‘possesso’ (come ager occupatorius), contro il pagamento di un canone almeno virtuale, dando vita ad istituti di vario tipo. Posizione ambigua ebbero le res communes omnium, cioè le cose illimitatamente a disposizione di tutti (aria, mare, acqua piovana, ecc.). Taluni giuristi, anziché qualificarle come entità prive del carattere di oggetti giuridici (perché mancanti del requisito della “limitatezza”), le inclusero tra le res extra commercium e le arricchirono del litus mari (lido del mare, battigia), che era invece piuttosto una res publica. In base al criterio dell’appartenenza privata le sole cose in commercio (e, quindi, astrattamente nel ‘patrimonio’ dei soggetti dei privati) si distinsero al loro interno in:  cose di effettiva appartenenza privata (res in bonis alicuius) cioè, concretamente appartenenti in punto di diritto ad uno specifico soggetto privato;  cose di nessuno (res nullius) cioè, cose che non appartenessero o non appartenessero più, in concreto, a nessun privato. La condizione delle cose di effettiva appartenenza privata poteva consistere in una di queste 3 specie: - essere oggetto di dominio (civile, pretorio, provinciale); - essere oggetto di possesso interdittale (possessio ad interdicta) riconosciuto dal pretore a certi soggetti in certe situazioni; - essere oggetto di detenzione (possessio naturalis) esercitata in luogo del dominio e con pieno riconoscimento della situazione giuridica di dominio della cosa. 31 CAPITOLO 3 “LA REALIZZAZIONE PACIFICA DELL’ORDINE PRIVATO” 14. L’ORDINE GIURIDICO PRIVATO Il risultato cui tende l’ordinamento giuridico con le sue normative è la realizzazione dell’ordine giuridico, cioè il concreto assetto e l’effettivo svolgimento della vita sociale secondo le esigenze poste dal diritto. A tal fine non basta la predisposizione degli schemi in cui deve riversarsi la vita sociale, cioè dei rapporti giuridici e delle loro strutture. Occorre in più l’indicazione degli <<effetti>> specifici collegati agli avvenimenti che il diritto ritiene rilevanti e dell’opportuna <<disciplina>> di tali avvenimenti. Risultato, detto comunemente del diritto vivente, al quale si perviene “di regola” in modo pacifico (cioè, mediante la realizzazione delle norme di condotta), “eccezionalmente” in modo coattivo (cioè, attraverso la realizzazione delle norme sanzionatorie). Gli effetti giuridici (risultato), in cui si ‘realizza’ un ordine conforme al diritto sono di 3 tipi, a seconda che implichino: a. la costituzione di nuovi rapporti giuridici (effetti costitutivi); b. l’estinzione di rapporti giuridici preesistenti (effetti estintivi); c. la modificazione, in qualche loro dato caratteristico (cioè, nei soggetti e nell’oggetto), di rapporti giuridici già esistenti (effetti modificativi). Tra gli effetti modificativi più importanti e diffusi vi sono quelli detti della successione nel patrimonio di un soggetto giuridico estinto per sua morte naturale o per sua esclusione dal novero dei soggetti (cioè, per sua svalutazione giuridica). Cause efficienti dell’ordine giuridico, cioè degli effetti giuridici, sono gli accadimenti indicati appunto come tali dalle norme giuridiche. Questi fenomeni si dicono fatti giuridici e si classificano distinguendo tra:  fatti involontari  fatti volontari, detti anche atti giuridici (e si distinguono in atti leciti e atti illeciti) I fatti giuridici involontari sono quelli il cui verificarsi è “indipendente” dalla volontà dei futuri o attuali titolari del rapporto riguardo al quale siano chiamati ad esercitare la loro influenza, ma “dipende”: - dall’ordine naturale delle cose (cd. “fatti naturali” es. la nascita o la morte di un soggetto, il perimento naturale di un oggetto giuridico); - (oppure) dalla volontà di un soggetto del tutto estraneo (cd. “atti del terzo” es. la requisizione di un oggetto di appartenenza privata da parte dell’autorità amministrativa). I fatti giuridici volontari, detti anche atti giuridici, sono quelli il cui verificarsi è “determinato” dalla volontà dei futuri o degli attuali titolari del rapporto riguardo al quale sono chiamati ad esercitare la loro ‘influenza’, e possono essere: - leciti se il comportamento in cui consistono è esplicitamente o implicitamente “permesso” dall’ordinamento giuridico; - illeciti se il comportamento in cui consistono è esplicitamente o implicitamente “vietato” dall’ordinamento giuridico. L’ordinamento giuridico, però, non precisa sempre “quali” siano gli effetti da ricollegare ai fatti giuridici. Infatti, un metodo del genere sarebbe troppo macchinoso e ingombrante, esponendo l’aggregato sociale al ‘pericolo’ di ridursi ad un’alienante “catena di montaggio”: un metodo del genere viene adottato solo in ordine ai fatti giuridici involontari e agli atti giuridici illeciti. 32  Per quanto riguarda i fatti involontari, l’ordinamento non manca mai di stabilire: a. se e quale rapporto di debito essi costituiscano, modifichino o estinguano (es. gli effetti ricollegati alla nascita o alla morte); b. (oppure) se e quale rapporto di responsabilità (cd. “oggettiva”) essi eventualmente costituiscano.  Per quanto riguarda gli atti illeciti, del pari, l’ordinamento non manca mai di stabilire: a. quale rapporto di responsabilità (cd. “soggettiva”) essi costituiscano; b. (in più) quale misura di “volontarietà” si richieda nell’autore affinché sia responsabile dell’atto (per es. la pura volizione del fatto posto in essere, detta usualmente <<colpa>>; oppure anche la pacifica intenzione di produrre con quel fatto un preciso effetto ingrato all’ordinamento, detta usualmente <<dolo>>. In ordine agli atti leciti l’ordinamento si comporta invece in maniera meno rigorosa: di regola, infatti, esso lascia ai soggetti una certa sfera (sia pure non illimitata) di “discrezionalità” nella determinazione degli effetti da conseguire. Di qui la distinzione degli atti giuridici leciti in 2 categorie: 1. meri atti giuridici i cui effetti sono esattamente ‘prefissati’ dall’ordinamento, ma il cui compimento è rimesso alla ‘libera decisione’ dei soggetti; 2. atti giuridici di autonomia che sono, invece, quelli di cui non solo il compimento, ma anche gli effetti sono ‘di volta in volta’ voluti ed indicati dai soggetti. Gli atti giuridici di autonomia si usano denominare: - <<provvedimenti>> se relativi al diritto pubblico - <<negozi giuridici>> (negotium = affare) se relativi al diritto privato L’ordine giuridico privato romano, anche se non fu mai esplicitamente inquadrato nei termini fin qui utilizzati dalla giurisprudenza dei tempi (tali termini sono stati attribuiti a posteriori dagli studiosi), sostanzialmente ‘corrisponde’ a tale inquadratura. Ordine degli argomenti da trattare: A) il presupposto della <<capacità d’agire>> (oppure della <<mera capacità d’agire) richiesto per i fatti giuridici volontari (Capitolo 3); B) il regime degli <<atti di autonomia privata>> (Capitolo 3); C) il regime degli atti e negozi intesi ad ottenere, con l’aiuto della giurisdizione statale, la realizzazione coattiva dell’ordine giuridico (Capitolo 4). 15. LA CAPACITA’ D’AGIRE I fatti giuridici volontari (sia leciti, sia illeciti) non sono seriamente concepibili come tali (cioè, come volontari) se vengono posti in essere da chi non abbia una ‘dose minima’ di capacità di volerli. Anche se si è <<soggetti giuridici>>, e si gode pertanto di una <<capacità giuridica>> (= <<soggettività giuridica>>), si può non avere (o non avere ancora, o non avere momentaneamente) l’idoneità a volere materialmente il fatto che materialmente si determina (esempi di ‘casi estremi’ sono il bambino in fasce e l’adulto privo di sanità mentale sia pur temporaneamente). Capacità d’agire si ricollega al concetto di “volontà”. Ecco perché il diritto privato romano ritenne essere “presupposto” indispensabile dell’agire giuridico la cd. <<capacità d’agire>>, cioè la capacità psico – fisica d’intendere e di volere l’atto che si compisse, e ritenne pertanto che gli atti compiuti da un incapace di agire fossero privi di ‘utilizzabilità giuridica’. 35 - escludeva che i sottoposti, pur se autorizzati compissero validamente per il padre o padrone atti (leciti) di alienazione o atti determinativi di obbligazioni (quindi, di passività patrimoniale) a suo carico (a carico del padre o padrone); - stabiliva che per ogni atto illecito (delictum) effettuato da un sottoposto (non importa se in stato di incapacità d’intendere e di volere) la “responsabilità primaria” ricadesse sempre e inevitabilmente sul padre o padrone, al quale era solo concesso di liberarsene mediante <<dazione a castigo>> (noxae datio) del sottoposto all’offeso o ad un terzo, che si assumesse per lui la responsabilità stessa. 2. L’ammissione dei sottoposti al compimento di taluni atti leciti che implicassero un decremento del patrimonio del padre o padrone fu prevista solo dal diritto onorario e dalla connessa riflessione giurisprudenziale del tardo periodo preclassico e del successivo periodo classico. Stante il largo ricorso che si faceva alla ‘cooperazione’ dei sottoposti più capaci (sia filii che servi) nella vita commerciale, il pretore ritenne ‘equo’ che questi ultimi creassero obbligazioni a carico dei loro padri e padroni, quanto meno nei limiti delle <<autorizzazioni>> (esplicitamente o implicitamente) ricevute o delle <<contropartite attive>> agli stessi (ai sottoposti) procurate. Così, i creditori dei sottoposti furono per questo motivo ‘abilitati’ ad esercitare contro i rispettivi padri o padroni le cd. <<azioni adiettizie>> (actiones adiecticiae qualitatis). Lungo questa via si giunse fino al punto di ammettere che il sottoposto, purché espressamente autorizzato, ben potesse alienare a terzi un cespite del patrimonio del padre o padrone utilizzando il negozio ‘non solenne’ della <<consegna>> (traditio) e altri modi di alienazione a forma ‘libera’. 3. L’ammissione dei sottoposti all’assunzione di obbligazioni passive in proprio (cioè, obbligazioni a proprio nome e a proprio carico) costituì ovviamente il caso – limite. Secondo Guarino: - la “responsabilità primaria” da atto illecito del sottoposto (e quindi la possibilità che egli fosse convenuto in giudizio) fu addossata ‘direttamente’ ai figli e agli schiavi solo a partire dal diritto tardo classico e postclassico, in connessione con la decadenza delle azioni nossali (noxae datio); - circa le “obbligazioni da atto lecito” bisogna, invece, distinguere tra la situazione del figlio maschio e quella degli altri sottoposti (filiae, liberi in mancipio, nepotes, servi): mentre questi ultimi (gli altri sottoposti) rimasero in ogni tempo incapaci di obbligare se stessi (sia per il presente, sia per il futuro) e furono ritenuti vincolati verso chi avesse fatto loro credito solo da un’obbligazione “naturale” (obligatio naturalis) alla (eventuale) restituzione, il figlio maschio (e di 1°grado), essendo prevedibilmente futuro successore del padre, usufruì di un “trattamento speciale” = esecuzione differita, ossia egli fu (fin dall’età classica) considerato capace di assumere obbligazioni in proprio (pro se), pur se probabilmente non poteva essere ‘citato in giudizio’ per il mancato loro adempimento e pur se sicuramente non poteva essere assoggettato ad ‘esecuzione forzata’ (cioè, a ductio personale o a bonorum venditio); solo per le obbligazioni da “mutuo” (mutuum) si ammise il creditore a ‘convenirlo (il figlio maschio) in giudizio di cognizione’ per ottenerne la condanna, così da predisporre per tempo l’eventuale processo esecutivo; ma l’intervento di un senatoconsulto Macedoniano del sec.1 d.C. indusse il pretore a concedere al figlio un’eccezione (cd. exceptio S.C. Macedoniani) intesa a ‘paralizzare’ anche l’azione creditoria. 16. GLI ATTI DI AUTONOMIA PRIVATA Gli atti di autonomia del diritto privato, denominati da noi moderni negozi giuridici (da negotium = affare privato), causarono almeno i 4/5 dell’ordine giuridico romano. Essi furono oggetto di analisi da parte dei giuristi romani, ma la ‘ricostruzione’ della loro disciplina unitaria (disciplina che variò notevolmente da un periodo all’altro, in particolare dal periodo classico a quello postclassico) è frutto 36 di un “ardito” tentativo compiuto dalla storiografia giusromanistica ‘moderna’ allo scopo di collegare in un “tutto organico” nozioni a prima vista isolate. Guarino (a differenza di altri autori) ritiene opportuno seguire lo schema del negozio giuridico per chiarire le idee intorno alla vita del diritto privato romano, mettendo in chiaro che esso (il negozio giuridico) era:  un <<atto giuridico>>, cioè rientrava nella categoria generale degli <<atti>>, dei fatti giuridici posti in essere “volontariamente” dai soggetti (presupponendo, quindi, la <<capacità d’agire>> di chi lo compisse);  un atto giuridico <<lecito>>, cioè non vietato, né sanzionato dal diritto (implicava dunque che, se il soggetto giuridico intendesse realizzare un cd. <<negozio giuridico illecito>>, indirizzato cioè ad un fine “vietato” dal diritto, l’ordinamento giuridico reagisse in vari modi: o dichiarando il negozio privo di ogni effetto, o riducendo la sua operatività ai soli effetti leciti, o anche talvolta limitandosi a punire l’autore del negozio per il cattivo uso che avesse fatto dell’autonomia riconosciutagli);  un atto giuridico lecito produttivo di <<effetti ordinativi>> (relativi cioè esclusivamente a mettere ordine tra gli interessi del suo e dei suoi autori);  un atto giuridico lecito produttivo di effetti ordinativi <<determinati dal suo o dai suoi autori>> (espresso, dunque, da soggetti autorizzati esplicitamente o implicitamente dall’ordinamento a stabilirne gli effetti);  un atto giuridico lecito, produttivo di effetti ordinativi <<conformi alla volontà manifestata dal suo o dai suoi autori>> (subordinato, quindi, alla manifestazione esteriore della volontà, cioè alla <<forma>> che la volontà assume per essere riconoscibile dai terzi);  (infine) un atto giuridico lecito produttivo di effetti ordinativi conformi, oltre che alla volontà manifestata dall’autore o dagli autori, anche alla cd. <<causa>>, cioè alla <<funzione pratica che esso era obbiettivamente in grado di realizzare>>. Premesso ciò, è chiaro che, se di questo schema del negozio giuridico non funzionava il meccanismo, si verificava una mancanza o impedimento “paralizzante”. Mentre per indicare tale fenomeno i diritti moderni sogliono ricorrere ai concetti di <<validità>> (quindi, “invalidità” o “nullità”) ed <<efficacia>> (quindi, “inefficacia”) del negozio, i giuristi di Roma, nella loro consueta tendenza al “pratico”, fecero ricorso principalmente al parametro, indubbiamente imperfetto, dell’utilità giuridica dell’atto, o meglio della sua “utilizzabilità” ai fini della produzione di effetti giuridici. In altre parole, i Romani ragionarono in questo modo: per ogni azione umana <<giuridicamente rilevante>> ciò che è ‘necessario’ e ‘sufficiente’ accertare è se essa sia effettivamente atta alla produzione di effetti giuridici o sia, invece, alla resa dei conti, inetta a produrre gli effetti voluti e sia quindi inefficace. Il negozio efficace, pur potendo essere, al limite, anche talvolta “irregolare”, era pertanto qualificato “utile”; il negozio inefficace (valido o invalido che fosse) era invece qualificato “inutile”. Quanto al <<negozio inutile>>, si distingueva tra inutilità: - iniziale o sopravvenuta; - parziale o totale; - temporanea o perpetua. Se l’inutilità era ‘totale’ e ‘perpetua’, sicché non vi fosse alcuna possibilità di una futura (anche parziale) produttività di effetti giuridici, si parlava anche di “atto che vale zero”, cioè di atto che è lo stesso che niente. Cause di “inutilità” degli atti negoziali furono: 37  la contrarietà ai divieti del fato (negozio nefasto) e prima ancora di quelli del diritto (negozio ingiusto);  la mancanza di requisiti indispensabili alla vita dell’atto negoziale (negozio incompleto);  l’inutilizzazione giurisdizionale (negozio disattivato). Il negozio contrario al fato (fas), cioè il negozio nefasto (nefas) era ‘sempre’ e ‘del tutto’ inutilizzabile. Per il negozio contrario al diritto (ius), cioè per il negozio ingiusto (iniustum) bisognava rilevare che: - l’atto negoziale contrario al “diritto civile antico” (detto anche iniustum in senso stretto) era anch’esso completamente inutilizzabile al pari di quello nefasto; - l’atto negoziale contrario ai “provvedimenti normativi di governo” (leges publicae, senatusconsulta, constitutiones principales) era o diventava inutilizzabile solo se ciò fosse esplicitamente disposto da quei provvedimenti, fatte salve l’eventuale comminazione di penalità per chi lo utilizzasse e la possibilità per gli interessati di ottenerne l’inutilizzazione giurisdizionale. Il negozio incompleto, mancante di un elemento costitutivo o di altro requisito prescritto dall’ordinamento, era inutilizzabile: - sino al momento in cui l’elemento o requisito mancante si realizzasse (1°ipotesi); - (o) a partire dal momento in cui esso venisse a mancare (2°ipotesi). Nella 1°ipotesi, che richiama al concetto della cd. <<invalidità iniziale>>, si parlava talvolta anche di <<negozio imperfetto>>, volendosi con ciò intendere che il negozio era già chiaramente prefigurato dal concorso di molti tra i requisiti occorrenti, ma non poteva dirsi giunto ancora a compimento (a “perfectio”); nella 2°ipotesi, che richiama al concetto della cd. <<invalidità sopravvenuta>>, il negozio da completo che era, diveniva non più utilizzabile, cioè “incontrava il momento della sua morte”. Il negozio disattivato era quello inizialmente utile, ma “reso inutile” successivamente mediante un provvedimento giurisdizionale “costitutivo” richiesto da chi avesse interesse alla sua inutilizzazione (mediante denegatio actionis, exceptio, restituito in integrum o addirittura mediante esplicito “annullamento”). Fu per questa via che si profilò, in periodo postclassico, il concetto oggi corrente di <<annullabilità>> (o <<impugnabilità>>) del negozio. La giurisprudenza romana dei tempi storici (a partire da quella preclassica) fu sempre orientata verso il principio di “utilizzazione negoziale”, cioè verso il principio di “conservazione” del negozio (soprattutto se mortis causa), piuttosto che verso la “caducazione” delle manifestazioni di autonomia privata. La sanatoria dei vizi inficianti un atto giuridico venne, di solito, attuata: - o attraverso una specie di interpretazione “correttiva”; - oppure sfruttando la peculiarità del diritto privato di essere costituito dalla concorrenza di diversi sistemi giuridici (e, in particolare, dalla concorrenza del ius civile e del ius honorarium), peculiarità da cui deriva la circostanza che una stessa fattispecie può essere regolata in diversi modi a seconda del sistema considerato; perciò frequentemente accadde che negozi invalidi o inefficaci per un sistema, fossero invece “resi utilizzabili” nella vita giuridica sulla base del sistema concorrente, e viceversa. Quando non parve possibile far ricorso ad una sapiente interpretazione o ai mezzi processuali messi a disposizione dal pretore (denegatio actionis, excepitio) la giurisprudenza sollecitò l’emanazione di provvedimenti normativi che autorizzassero procedimenti “conservativi” di atti giuridicamente non vitali. 40 d. Negozi a forma complessa Alcuni erano di origine assai risalente, altri di formazione classica o addirittura postclassica. Vanno distinti in 2 gruppi: - un 1°gruppo costituito da negozi in cui concorrevano ‘formalità’ di diverso tipo; - un 2°gruppo costituito da negozi in cui si verificava, per l’importanza dell’atto, la partecipazione ad esso di soggetti o di enti ‘pubblicisitici’. Tali: in iure cessio, manumissio censu, testamentum calatis comitiis, adrogatio emancipatio, testamentum per aes et libram, in strumenta. 2. La rilevanza della causa negoziale (cioè, della “funzione oggettiva”) nei negozi del ius privatum ebbe inizio (ovviamente) solo in coincidenza con l’epoca e con le occasioni in cui la forma perse in Roma il suo carattere ‘esclusivistico’ originario: dunque, in approssimativa coincidenza con il passaggio dal periodo arcaico a quello preclassico (sec. V – IV a.C.). Anzi, sebbene la fine dell’esclusivismo della forma abbia implicato in linea astratta la possibilità di una rilevanza giuridica sia della causa sia della volontà, in concreto l’emersione dell’elemento ‘causale’ deve aver preceduto, a sua volta, di parecchio (negli interessi della giurisprudenza romana) quella dell’elemento della volontà negoziale. Fino al periodo preclassico avanzato raramente si ebbe cura, in sede di interpretazione del negozio, di andare oltre la ‘scorza esteriore’ della manifestazione: sicché, quando sorgevano questioni più sottili circa la ‘vera portata’ del negozio (cioè, circa la sua vera attitudine a produrre certi effetti giuridici, e non altri), si procedeva (ma, nel contempo, ci si limitava) all’accertamento della “funzione oggettiva” dell’atto, ossia all’accertamento di quella che oggi sogliamo denominare la causa negoziale. Ad ogni modo, per quanto concerne l’assetto del diritto privato classico e postclassico, in esso la causa si rivelò importante sotto un duplice aspetto: - ai fini della qualificazione dell’atto negoziale come lecito e, quindi, come produttivo di effetti giuridici ‘conformi’ alla volontà manifestata dal suo autore (1°aspetto); - ai fini della sua individuazione tipica e, quindi, ai fini della determinazione del ‘regolamento’ ad esso applicabile (2°aspetto). 1°aspetto Ai fini della qualificazione come negozio lecito occorreva che la causa negoziale non fosse ‘chiaramente’ ritenuta come <<illecita>>. La illiceità si verificava nelle seguenti ipotesi. Ipotesi 1 contrarietà della causa ai <<principi fondamentali del diritto privato>>: - <<negozio nefando>> (negotium nefarium, contro i principi dettati dal fas divino); - <<negozio ingiusto>> (negotium iniustum, in senso stretto). Ipotesi 2 contrarietà della causa a taluni <provvedimenti di governo>> (leges): - <<negozi illegittimi>> (negotia contra legem); - <<negozi in frode alla legge) (negotia in fraudem legis: solo apparentemente leciti, ma diretti in realtà ad aggirare un divieto di legge). Ipotesi 3 contrarietà della causa alle <<regole del buon costume>> (negozia turpia). 2°aspetto Ai fini della precisa individuazione dei vari negozi (leciti) la causa serviva a distinguere: - <<negozi di gratificazione>> o <<a titolo gratuito>> (con prestazione di 1 sola parte verso l’altra); - <<negozi di corresponsione>> o <<a titolo oneroso>> (con prestazioni reciproche tra le parti). A loro volta, i <<negozi di corresponsione>> si distinguevano: - <<a prestazioni diseguali>> / <<a prestazioni uguali>> 41 - <<a prestazioni corrispettive>> / <<a prestazioni non corrispettive>> I negozi a prestazioni corrispettive (anche detti, dal greco <<sinallagmatici>>) erano quei negozi plurilaterali a titolo oneroso che implicassero una “interdipendenza” tra gli obblighi (e le prestazioni relative) delle parti. A seconda del modo in cui tale “interdipendenza” si verificava, si distinguevano 3 specie di sinallagma: 1. <<sinallagma genetico>> quando l’obbligo di una parte verso le altre ‘sorgeva’ solo se ed in quanto sorgessero gli obblighi reciproci delle altre parti; 2. <<sinallagma condizionale>> quando l’obbligo di una parte verso le altre si ‘estingueva’ se si estinguessero gli obblighi assunti dalle altre parti nei suoi confronti; 3. <<sinallagma funzionale>> quando l’‘esecuzione’ della prestazione di una parte implicava la necessità che fossero eseguite le controprestazioni delle altre parti. Di notevole rilevanza fu il fenomeno delle cause a negozi plurimi, cioè di certe funzioni sociali che non disponevano di corrispondenti e specifiche strutture negoziali, ma che potevano essere espletate mediante il ricorso ai più diversi e svariati negozi. Gli esempi più vistosi sono 3. - Causa di dote cioè, della funzione sociale (molto sentita nei ceti medio – alti della società romana) avente ad oggetto la costituzione di una dote: causa che disponeva di 3 possibilità di realizzazione negoziale. - Causa transnazionale cioè, della funzione sociale, resa sempre più frequente dall’incremento della vita degli affari, avente ad oggetto la chiusura di una lite mediante reciproche concessioni tra le parti: caso che poteva realizzarsi in molteplici modi negoziali e che solo in periodo classico avanzato dispose (nei limiti, peraltro, del cd. do ut) anche di un apposito negozio bilaterale (la cd. transactio). - Causa di donazione cioè, della funzione sociale avente ad oggetto una “liberalità”, l’incremento del patrimonio di un beneficiario (il donatarius) per effetto di un corrispondente decremento del patrimonio di un beneficiante (il donator), senza che vi fosse nessuna ragione di debito del beneficiante verso il beneficiario: finalità, quest’ultima, che sino a quando una decisa svolta non fu impressa dall’imperatore Costantino (in periodo postclassico) per il <<patto di donazione>> (pactum donationis), poté essere realizzata mediante il ricorso a negozi di ogni tipo, anche se ‘formalmente’ a titolo oneroso (negozi traslativi del dominio o costituivi di altri diritti reali, negozi costitutivi di obbligazioni del donante verso il donatario, negozi estintivi di obbligazioni del donatario verso il donante o persino verso un terzo creditore del donatario). Per disposizione dell’autorevole legge Cincia (de donis e muneribus, del 204 a.C.) furono, tuttavia, proibite le “donazioni smodate” (cioè, al di sopra di un certo limite: il cd. modus legis Cinciae) tra ‘estranei’ (non parenti, affini od altre persone di stratta familiarità), sia che avessero carattere di liberalità motivate esclusivamente dal piacere di arricchire il beneficiario (dona), sia che avessero carattere di liberalità motivate da doveri impegnativi solo sul piano sociale (munera: es. regali di nozze, regali di compleanno, contributi del liberto a spese eccezionali sostenute dal patrono, “palmari” o premi speciali offerti dai clienti agli avvocati in auspicio del loro maggiore impegno o in rapporto al felice esito della loro difesa). 18. LA VOLONTA’ NEGOZIALE 3. Nei negozi del diritto privato il 3° e più importante elemento essenziale, quello della volontà dell’autore (o degli autori) non riuscì mai, sino a tutto il periodo classico (dunque, sino verso il sec. III d.C.), ad acquistare un carattere di completa “autonomia” rispetto alla forma: cioè, mai la volontà fu considerata come qualcosa di completamente “distinto” dalla manifestazione. Nelle valutazioni della giurisprudenza preclassica e classica prevalse l’opinione secondo cui il soggetto giuridico che pone in essere un negozio, anche se “non vuole” veramente ciò che manifesta, tuttavia non può non rendersi conto del fatto che gli altri soggetti giuridici hanno ogni buona ragione di fare affidamento 42 sulla manifestazione esteriore e che, pertanto, egli è, di regola, responsabile di averla effettuata. Solo in età postclassica (ma più come esercitazioni di scuola, che come pratiche applicazioni al diritto vigente) si manifestò l’orientamento verso una netta distinzione tra volontà interna e manifestazione esterna, e si sviluppò pertanto il problema delle cause e degli effetti di una discordanza tra manifestazione e volontà. Ma anche quando si giunse ad affermare che “il negozio non vale nulla se la forma non corrisponde alla volontà reale del suo o dei suoi autori”, subito si aggiunse che questo principio subisce un ‘correttivo’ in 2 sensi: - sia per la necessità di tutelare l’<<affidamento altrui>>; - sia per l’opportunità di sanzionare il comportamento non adeguatamente responsabile di chi manifesta troppo alla leggera una volontà inesistente o diversa da quella reale. Conseguenza A) La 1° e più vistosa conseguenza dello stretto collegamento tra volontà e manifestazione fu costituita dall’esclusione della possibilità che una volizione, per quanto seria essa fosse, avesse rilevanza giuridica quando non si accompagnasse ad un qualche segno “esteriore” ed “inequivoco” della sua esistenza e del suo contenuto. Anche i negozi a forma libera dovevano sfociare in una manifestazione comunque “rivelatrice” della volontà interna. Il silenzio, o più in generale la <<inespressione della volontà>> (cioè, la mancanza di esteriorizzazione della stessa, a mezzo di gesti o di comportamenti concludenti), era indicativo di nulla, e perciò impediva la nascita del negozio a vita giuridica. Da ciò non solo derivò l’irrilevanza della <<riserva mentale>>, ma derivò altresì (almeno in diritto preclassico e classico) l’esclusione del cd. <<negozio tacito>>, cioè del negozio ‘dedotto’ presuntivamente dal fatto che un soggetto avesse interesse a porlo in essere e avesse in alcun modo “manifestato” la volontà di rinunciarvi. A1) Quando fosse a tutti chiaro sin dal 1° momento che una certa manifestazione negoziale non corrispondeva ad una reale volontà o corrispondeva ad una volontà diversa da quella manifestata si parlò solitamente di negozio fittizio (negotium imaginarium) o si usarono locuzioni equivalenti (negozio messo in atto dicis causa, cioè a titolo puramente nominale oppure pro forma, cioè sul piano dell’apparenza). Nelle ipotesi di <<negozi totalmente fittizi>>, cioè palesemente privi di serio contenuto di volontà non trovava luogo nessun effetto giuridico diretto o indiretto. Tali erano i casi della volontà manifestata:  in sede di recitazione teatrale  a fini puramente didattici o esemplificativi  a titolo di pura cortesia  durante un evidente eccesso d’ira  per esclusivo effetto della violenza altrui Nell’ipotesi di <<negozi parzialmente fittizi>> si procedeva, se ed in quanto possibile, all’utilizzazione del negozio per conversione. Una ‘specie’ molto rilevante di negozi fittizi era quella dei negozi indiretti, cioè palesemente intesi a curare un effetto giuridico diverso da quello indicato dalla manifestazione esterna: ipotesi nelle quali ‘trovava luogo’ (se lecito) l’effetto giuridico indiretto. Si trattava, di solito di: - negozi di antica data che erano stati adattati a diverse esigenze posteriori (si pensi alla mancipazione, che da originario negozio di scambio di una cosa mancipi con un controvalore espresso in bronzo da pesare, divenne in tempi storici un negozio traslativo del dominio anche a titolo gratuito o contro il pagamento di una simbolica moneta di minimo valore); - negozi di data relativamente recente riversati alla meglio entro forme antiche (si pensi alla compera fittizia del patrimonio ereditario effettuata nel procedimento del testamento librale). [Fenomeni tutti spiegabili alla luce del ‘tradizionalismo’ caratteristico dei Romani] 45 e contro lo stesso deceptor, qualora fosse trascorso l’anno pretorio, l’actio era limitata a “quel che a lui pervenne”; ma Costantino portò a 2 anni la durata dell’azione contro il deceptor. Infine, dato il suo carattere di estrema gravità (comportante l’infamia del condannato), l’actio de dolo, per essendo il mezzo giudiziario di più antica data tra i 3 esaminati, fu concepita come azione sussidiaria; sia nel senso di non poter essere esercitata nell’ipotesi che fossero esperibili contro il deceptor altre azioni; sia nel senso di non poter essere esercitata se al deceptor fosse comunque possibile di essere reintegrato in altro modo (es. mediante un’azione contro i garanti). B2) Per violenza morale (vis compulsiva) ovverossia per “timore negoziale” (metus), si intese la situazione di oppressione psichica in cui taluno (il coactus = il “costretto”) avesse compiuto un’attività giuridica, e in particolare un’attività negoziale, subendo l’ingiusta minaccia di altra persona (controparte di un negozio bilaterale o terzo estraneo al negozio). Non sempre, ovviamente, il “timore negoziale” aveva rilevanza giuridica: solo se esso era stato determinato da una minaccia di un male notevole (alla persona stessa del coactus o alle persone di suoi stretti congiunti) e solo se il male minacciato aveva carattere di illecito morale o giuridico, il pretore ritenne iniquo che la “vittima” della minaccia subisse le conseguenze di un’attività svolta in stato di menomazione della sua volontà. Pertanto, egli concesse anche alla “vittima” (ossia, al coactus);  un’<<eccezione di timore>> (exceptio metus)  una <<reintegrazione d’autorità>> (in integrum restitutio ob metum)  un’<<actio quod metus causa>> penale In particolare, l’actio quod metus causa (azione da metus) era in quadruplum, ma non sussidiaria. Anch’essa come l’actio doli conteneva la clausola arbitraria a favore del convenuto. Tanto più conveniente si manifestava la possibilità per il convenuto di liberarsi mediante una volontaria restitutio (un volontario ripristino della situazione precedente) in quanto l’actio metus era in rem scripta, cioè formulata con riferimento al fatto dell’intimidazione (non alla persona del coactor) e quindi poteva essere esercitata contro chiunque avesse tratto vantaggio concreto dal negozio impugnato, anche se non fosse l’autore della minaccia. Dopo l’anno magistratuale l’actio metus diveniva in simplum. A differenza del dolo, la responsabilità del metus era addossata non già a chi avesse compiuto l’illecito, ma a chi ne avesse tratto profitto (ciò ci risulta dal fatto che l’exceptio metus era in rem scripta, cioè poteva essere opposta a chiunque esercitasse l’azione per l’esecuzione del negozio). Giustiniano opportunamente dispose che il coactus potesse esercitare l’actio metus in 2 direzioni: contro chi avesse tratto il profitto (in simplum); e inoltre contro l’autore della minaccia (in triplum). B3) L’errore di fatto (error facti) fu concepito come l’ignoranza (totale o parziale) di una circostanza di fatto, dalla quale fosse dipesa la decisione del soggetto a concludere il negozio. Non si sottilizzò molto circa il punto se l’errore avesse determinato piuttosto la formazione della “volontà” negoziale, che un’inesatta “manifestazione” della stessa o l’“incomprensione” della manifestazione di una controparte: comunque fossero andate le cose, la giurisprudenza classica fu decisamente orientata nel considerare inutile (nel senso di “invalido”) ogni negozio a forma libera, se risultasse “chiaramente” provato che l’autore o 1 soltanto dei suoi autori vi si fosse indotto a seguito di una qualsivoglia cognizione falsa della “situazione di fatto” relativa, cioè a seguito di un errore di fatto. Però, all’uopo, furono richiesti 2 requisiti: - che l’errore fosse <<essenziale>>, cioè tale da potersi ragionevolmente escludere che senza di esso il negozio sarebbe stato concluso; - che l’errore fosse altresì <<scusabile>>, cioè tale da potersi ragionevolmente tollerare in una persona di normale diligenza ed intelligenza. In altri termini, un negozio esclusivamente derivato da un errore di fatto, per di più oggettivamente <<scusabile>> fu ritenuto un fatto incompatibile con la “serietà” della vita giuridica, un negozio inutilizzabile non solo dal soggetto caduto in abbaglio, ma anche (trattandosi di negozio bi- o 46 plurilaterale) dalle controparti, specie quando l’errore fosse da queste ultime, con una dose normale di diligenza, autonomamente “riconoscibile”. Il che, non solo fu ribadito dalla giurisprudenza postclassica, ma fu addirittura ‘elevato’ a dogma valevole indistintamente per ogni specie di negozio, anche se a forma vincolata: dogma espresso solitamente dicendo che la volontà dell’errante è nulla. Le numerose ipotesi di error facti considerate nelle fonti romane possono essere approssimativamente catalogate nelle seguenti categorie: - error in corpore errore nell’identificazione dell’oggetto giuridico cui il negozio si riferisse, che era normalmente rilevante; - error in substantia errore sulle qualità essenziali dell’oggetto, che era anch’esso normalmente rilevante; - error in quantitate errore sulle dimensioni quantitative dell’oggetto, che era ritenuto rilevate soprattutto nei casi in cui risultasse che l’oggetto era di dimensione (e valore) inferiore al previsto; - error in persona errore sull’identificazione del soggetto giuridico a cui il negozio si riferisse, che aveva rilevanza soprattutto nei negozi conclusi intuitu personae, vale a dire essenzialmente perché riferiti ad un certo soggetto; - error in negotio errore nell’adozione del tipo di negozio considerato (es. una vendita invece di una locazione) che era normalmente rilevante, salvo quando l’equivoco vertesse esclusivamente sulla denominazione del negozio (error in nomine); - error in demonstratione errore nella designazione esteriore di un soggetto o di un oggetto giuridico, senza che ne derivasse equivoco circa la sua identificazione, che era normalmente irrilevante. Assolutamente inescusabile (che non ammette giustificazioni), anzi addirittura irrilevante giuridicamente, fu sempre dichiarato in tutto il corso del diritto romano, l’errore di diritto (error iuris), cioè l’ignoranza totale o parziale di una norma giuridica (ignorantia iuris non excusat). Furono solo ammesse risicate eccezioni per particolari categorie di soggetti meno atti ad una perfetta conoscenza dell’ordinamento giuridico: le donne, i minori di età, i militari, i villici. 19. LE CLAUSOLE ACCIDENTALI DEI NEGOZI GIURIDICI A causa della loro grande diffusione nella pratica in diritto romano ebbero approfondita elaborazione alcune clausole accidentali dei negozi giuridici: clausole dette “accidentali” perché non essenziali all’esistenza del negozio, ma inserite in esso per esclusiva decisione dell’autore o degli autori dello stesso. Per es.: la clausola che limita la normale misura di responsabilità di un contraente in caso di suo inadempimento contrattuale; la clausola che esclude la esigibilità del credito in determinate contingenze o in un certo periodo di tempo; ecc. Le clausole accidentali giunsero a distinguersi nel corso del periodo classico in 2 categorie: - quella delle clausole non influenti sull’efficacia del negozio, che si limitavano a collegare al negozio, in via accessoria, altri effetti giuridici (es. la comminatoria di una penale nell’ipotesi del verificarsi di una certa circostanza); - quella delle clausole influenti sull’efficacia del negozio, cioè tali da far dipendere l’efficacia (o inefficacia) del negozio da una determinata circostanza. Tra le clausole non influenti sull’efficacia del negozio ebbe larga applicazione la clausola modale, utilizzata solo nei negozi a titolo gratuito (es. attribuzioni testamentarie, donazioni). Essa consisteva nella imposizione al destinatario della gratificazione di un “modico onere” (modus): tale (per la sua modicità) da non trasformare l’atto stesso in atto di corresponsione (es. obbligo di erigere un monumento funebre al beneficiante, di devolvere una quota dei beni ricevuti a giochi pubblici, ecc.). Se l’onerato non adempiva l’obbligo modale, il negozio di gratificazione era, di regola, egualmente 47 efficace, sicché per costringere l’onerato all’adempimento o al risarcimento si dovette fa riscorso ad “espedienti” vari. “Espedienti” che furono, appunto, creati dagli autori del negozio, ad es., furono: la stipulazione di una penalità che il beneficiario si impegnava a pagare in caso di mancato adempimento, l’imposizione di multe sepolcrali a carico del legatario inadempiente. “Espedienti” di creazione giurisdizionale furono, ad es.: la ripulsa dell’azione (denegatio actionis) del legatario che chiedesse la cosa legata all’erede senza aver adempiuto l’onere, l’imposizione al beneficiario di una preventiva promessa cautelativa, il trattamento della disposizione testamentaria modale come “fedecommesso” a favore del beneficiario del modus. Influenti sull’efficacia del negozio furono: - la clausola terminale - la clausola condizionale  il cui pieno riconoscimento avvenne a seguito di lenta progressione e fu portato a compimento solo nel periodo postclassico. Clausola terminale stabiliva che l’efficacia totale o parziale del negozio dipendesse da una circostanza futura ma certa (nel verificarsi), detta termine (dies). Quindi, si distingueva tra: - termine <<certo nel se e nel quando>> / termine <<certo nel se, ma incerto nel quando>>; - termine <<iniziale>> (dies a quo) determinante l’inizio dell’efficacia del negozio / termine <<finale>> (dies ad quem) determinante la fine dell’efficacia del negozio. Clausola condizionale stabiliva, a sua volta, che l’efficacia totale o parziale del negozio dipendesse da una circostanza futura e incerta (nel verificarsi), detta condizione (condicio). Si facevano in proposito 3 ordini di classificazione: - condizioni “positive” e “negative”, a seconda che l’avvenimento condizionante consistesse nel verificarsi (es. se la nave arriverà) o nel non verificarsi (es. se la nave non arriverà) di un fatto; - condizioni “causali”, “potestative” e “miste”, a seconda che il verificarsi o non verificarsi della circostanza dipendesse dal caso (o dalla volontà di un terzo); oppure dalla volontà di una delle parti del negozio; o, infine, da ambedue queste cause (es. se sposerai Tizia); - condizioni “sospensive” determinanti l’inizio degli effetti negoziali (e quindi la sospensione del negozio in attesa del loro verificarsi) / condizioni “risolutive” determinanti la cessazione degli effetti negoziali. Non tutti i negozi erano passibili di sottoposizione a termine o condizione. Alcuni tra essi, gli actus legitimi, diventavano ‘privi di valore’ (nulli) se corredati di clausola condizionale o terminale: per es. i negozi librali, con esclusione del testamento. L’istituzione di erede (heredis institutio), invece, poteva essere sottoposta a condizione, ma non a termine: la clausola terminale che fosse ad essa apposta si aveva come “non scritta”. In ordine agli “effetti” delle clausole terminali e condizionali, bisogna distinguere tra: - la fase della “pendenza della circostanza” sul negozio, che si concretava in un periodo di tempo più o meno lungo intercorrente tra la creazione del negozio e il verificarsi della circostanza; - il momento della “verificazione della circostanza”, della sua venuta in essere. Durante la “pendenza della circostanza” il negozio versava in uno “stato di attesa”, dunque:  trattandosi di circostanze “sospensive” il negozio era provvisoriamente inefficace; 50 Questi istituti ebbero nel diritto privato romano un campo d’azione piuttosto limitato e frammentario. Il principio da cui partivano i Romani (legati ad una concezione ‘autarchica’, autosufficiente della famiglia) fu quello dell’esclusivismo dell’agire negoziale, cioè il principio che l’attività negoziale potesse e dovesse essere esplicata, con l’aiuto dei suoi sottoposti (figli e schiavi) esclusivamente dal soggetto giuridico che “ne avesse interesse”, salvo che vi fossero ‘speciali’ ragioni di necessità o di convenienza acché la gestione degli affari familiari fosse espletata da altri <<per conto>>, o eccezionalmente anche <<in nome>> di lui. I casi di necessità o di convenienza della gestione degli affari familiari per mezzo di un rappresentante diretto o indiretto si accrebbero con il passare dei secoli, tuttavia non giunsero mai ad un numero e ad una consistenza tali da ‘schiudere’ l’orizzonte a quella che è la visuale moderna: la visuale per cui è del tutto indifferente che il negozio giuridico (fatta eccezione per taluni atti “personalissimi”, come il testamento) sia posto in essere, piuttosto che dall’interessato, da un rappresentante per lui. La storia dell’emersione della rappresentanza, nei limiti in cui la conobbe il diritto privato romano, va suddivisa in vari periodi. Nel sistema del diritto civile antico (ius civile vetus), sorto in correlazione ad un’economia agricola familiare di tipo autarchico, fortemente restia agli scambi, il principio esclusivistico fu disapplicato solo in casi di “stretta necessità” (es. quello del curatore del pazzo) e nelle ipotesi affini di particolare convenienza, quali quelli dei sottoposti (liberi o schiavi) che compissero affari in luogo del padre o del domino quando costoro fossero impegnati in guerra o nella vita politica. Ai soggetti giuridici estranei alla famiglia era, pertanto, interdetto, non solo di compiere atti diminutivi del patrimonio di un altro soggetto, ma anche di compiere atti accrescitivi (cioè, comportanti acquisti) di quel patrimonio. Peraltro, è probabile che si sia andato affermando nella pratica quotidiana, sin dagli inizi del sec. III a.C., il ricorso da parte dei soggetti giuridici ad un “particolare tipo” di soggetto estraneo, affinché li aiutasse ed eventualmente li supplisse nell’amministrazione familiare: il procuratore o sovraintendente (procurator) che era solitamente un liberto che esercitava, con la palese fiducia del patrono, mansioni di “factotum” (procurator omnium bonorum): talora perché espressamente nominato dal patrono e talaltra perché spontaneamente indottosi a curarne gli affari, soprattutto in ipotesi di sua assenza forzata, a causa del rapporto di ‘patronato’. La situazione cominciò ad essere alquanto diversa con la formazione del sistema del diritto civile moderno (ius civile novum): sistema venuto in essere in un’epoca di scambi economici assai intensi e caratterizzato da negozi a forma libera. L’uso (per non dire la necessità) di concludere “negozi a distanza”, tra soggetti che non fossero tra loro a personale contatto, valorizzò il ricorso allo scambio di messaggi o all’invio di “sostituti materiali”, cioè alla negoziazione per lettera (per epistulam) o per mezzo di messaggero (per nuntium). Ma non bastava, spesso occorreva che alla negoziazione a distanza provvedessero persone di fiducia in qualità di “rappresentanti” quanto meno indiretti. Di qui, nel quadro di una vasta rete di rapporti di affari coperta dal contratto di mandato, si ebbe l’affermazione del mandato nell’interesse del mandante (cd. mandatum mea gratia). Questa prassi agevolò notevolmente l’inserimento parziale dell’istituto del procuratore nel diritto privato: quando il procuratore fosse stato espressamente incaricato del compimento di determinati affari dal soggetto giuridico interessato agli stessi (nel caso quindi del cd. procurator unius rei), era pronta a coprirlo la veste giuridica di mandatario, con conseguente possibilità di esercizio delle azioni da mandato tra l’interessato (cd. dominus negotii) e lui. Ma il varco più ampio alle ipotesi di rappresentanza fu aperto dal sistema del diritto onorario e dalla complessa riflessione giurisprudenziale preclassica e classica. Le novità furono approssimativamente 3: 51 - un 1°gruppo di istituti fu costituito dai rappresentanti processuali: il cognitor (vero e proprio rappresentante diretto) e il procurator ad litem (rappresentante invece indiretto, ossia mandatario della parte); - un 2°gruppo di istituti fu costituito da tutta una serie di ipotesi di rappresentanza indiretta del padre o del domino da parte dei loro sottoposti (dotati di “mera capacità d’agire”) o anche, per estensione, da parte di estranei, ipotesi caratterizzate dalla concessione pretoria delle cd. <<azioni adiettizie>> (actiones adiecticiae qualitatis); - un 3°gruppo fu, infine, costituito dagli istituti tra loro connessi del procuratore generale (procurator omnium bonorum) e del gestore spontaneo d’affari (negotiorum gestor). Le cd. azioni adiettizie (actiones adiecticiae qualitatis) furono tutta una serie di azioni concesse nei confronti dei soggetti giuridici (maschi e femmine) ai creditori dei loro sottoposti (figli, schiavi) e di estranei ad essi strettamente subordinati:  azione esercitoria  azione istitoria  azione tributoria  azione da benestare  azione per il peculio  azione per il ricavo La ragion d’essere di queste azioni fu che: - il sottoposto di un soggetto giuridico (cioè, principalmente il suo discendente libero o il suo schiavo) - (oppure) il soggetto estraneo che fosse a lui palesemente e strettamente subordinato in una certa impresa commerciale  avessero ‘scopertamente’ compiuto un negozio in qualità di “curatori” dei suoi interessi, cioè per conto di lui o comunque nella sfera della sua potestà o delle sue direttive. Il fenomeno non poteva non coinvolgere la responsabilità dell’interessato (detto, dominus negotii) verso i creditori ed era considerato, pertanto, se non come un’ipotesi di rappresentanza diretta vera e propria, almeno come un’ipotesi avente una forte approssimazione al concetto di rappresentanza diretta. Azione esercitoria (actio execitoria) Ebbe applicazione nell’ipotesi che un “armatore” d’impresa commerciale marittima (exercitor navis) avesse preposto palesemente (cioè, in modo che fosse chiaro a tutti) un suo figlio, un suo schiavo o un suo dipendente al comando di un nave (in qualità di “capitano” della nave), incaricandolo per conseguenza di compiere le operazioni di affari connesse con questa funzione, funzione che portava spesso il sottoposto in luoghi assai distanti da Roma e di fronte a problemi economico – commerciali da risolversi su 2 piedi. Per le obbligazioni assunte dal “capitano” nell’esercizio della sua funzione di creditore aveva azione per l’intero (in solidum) contro l’“armatore”. Azione istitoria (actio institoria) Ebbe applicazione nell’ipotesi che un soggetto giuridico avesse palesemente (cioè, in modo che fosse chiaro a tutti) un figlio, uno schiavo o un estraneo (servus altrui o persona libera), alla gestione di una bottega o di una qualunque impresa commerciale fuori dell’ambito del commercio marittimo. Il nome di azione istitoria derivò dal fatto che institor (proposto) veniva solitamente chiamato l’addetto alla gestione delle botteghe: ciò che lo differenziava da un mandatario era la notorietà rispetto ai terzi della preposizione all’attività commerciale. Azione tributoria (actio tributoria, cioè azione di attribuzione di parti) Si applicò nell’ipotesi che un figlio o schiavo avesse impiegato (in tutto o in parte) in un certo affare il “peculio” (peculium) a lui concesso dal titolare della potestà, essendo quest’ultimo a conoscenza della sua specifica iniziativa. Se in dipendenza dell’affare si determinava uno stato di ‘insolvenza’, i creditori erano 52 ammessi ad ottenere dal pretore che il compendio del peculio (la cd. merx peculiaris) ed i suoi eventuali successivi incrementi formassero oggetto di una “distribuzione” proporzionale tra tutti (di un’adtributio a ciascun creditore di una quota proporzionale al suo avere). Di compiere la ripartizione era incaricato ovviamente il soggetto giuridico ‘titolare’ del patrimonio di cui la merx peculiaris faceva parte: l’actio tributoria era intesa appunto alla condanna nel caso che egli avesse dolosamente attribuito meno del dovuto a uno o più creditori. Azione da benestare (actio quod iussu) Fu concessa al creditore di un figlio o schiavo contro il rispettivo padre o padrone nell’ipotesi che l’affare fosse stato compiuto per esplicito “benestare” dello stesso: nell’ipotesi cioè che il soggetto avesse dato un espresso ordine (iussum) al sottoposto, facendolo in qualunque modo sapere al creditore. All’autorizzazione preventiva era equiparata la successiva ratifica. Azione per il peculio (actio de peculio) Fu accordata ai creditori del figlio o dello schiavo contro il padre o padrone, nell’ipotesi che costui, pur non avendo preposto il suo subordinato ad un esercizio commerciale e pur avendolo autorizzato ad un certo affare col contraente, avesse comunque assegnato al sottoposto la gestione di un peculio. I creditori del sottoposto erano in tal caso ammessi ad agire contro il padre o padrone nei limiti del patrimonio peculiare. Azione per il ricavo (actio de in rem verso) Fu una variante dell’azione per il peculio. Posto che un figlio o uno schiavo privi di peculio, avendo contratto un’obbligazione, avessero “riversato” in tutto o in parte il ricavo dell’affare (per es. la somma ottenuta in mutuo) nel patrimonio (nella res) del loro padre o padrone, si ammetteva il creditore ad agire contro quest’ultimo in ordine al ricavo da lui introiato e nei limiti dello stesso. Per la gestione del negozio (libera negotiorum alienorum gestio) in senso stretto si intese dai giuristi la cd. “gestione degli affari” spontanea, cioè l’assunzione spontanea della rappresentanza (indiretta) di un interessato al negozio (dominus negotii) impedito di attendere ai propri affari. Questo istituto funge da fonte di rapporti obbligatori. Il diritto onorario riconosceva un’azione “diretta” al titolare dell’affare e un’azione “contraria” al gestore dell’affare: per effetto di questo riconoscimento era possibile, nella maggior parte dei casi, attribuire conseguenze giuridiche anche alle ipotesi di preposizione di un procuratore (praepositio procuratoria). Nel periodo classico avanzato e in età postclassica, quando la giurisprudenza romana pervenne alla concezione dell’ammissibilità di un mandato generale, la preposizione procuratoria si riversò quasi integralmente entro dli stampi del mandato, o per converso, della gestione di negozio. Il soggetto che avesse accettato la praepositio procuratoria fu qualificato come verus procurator (procuratore effettivo) e trattato come mandatarius, ammettendosi senza difficoltà che potesse essere sia un procurator omnium bonorum (generale) sia un procurator unius rei (speciale). Il soggetto che non avesse avuto la praepositio procuratoria, ma che in compenso avesse già dato inizio all’attività gestoria nell’interesse del dominus negotii fu equiparato al negotiorum gestor e qualificato falsus procurator (procuratore apparente). Per “procurator” in senso proprio si intese, insomma, colui che amministrasse gli affari di un altro su mandato dello stesso. 55 alla pratica di evitarlo mediante il ricorso a decisioni arbitrali esclusivamente “private” suggerite dalla giurisprudenza e spesso avallate dagli stessi magistrati giusdicenti, a cominciare dal pretore urbano. L’affermarsi di queste “nuove” procedure (denominate procedure <<formulari>>) segnò la sempre più rapida decadenza delle <<azioni di legge, sino a quando una legge Giulia di Augusto (del 17 a.C.) in gran parte le abolì. Le caratteristiche generali del sistema procedurale delle <<azioni di legge>> si riducono a 3 punti.  Tutti i procedimenti (sia dichiarativi sia esecutivi) si fondavano su un’affermazione solenne del proprio diritto da parte dell’attore e su un’opposizione (o su una contrapposta affermazione solenne del proprio diritto) da parte del convenuto: il tutto da svolgersi davanti al magistrato giusdicente (in iure).  Il magistrato giusdicente: - se riteneva certo e incontestabile il diritto dell’attore o se il convenuto desisteva dall’opposizione ordinava l’esecuzione del diritto dell’attore (1); - se riteneva chiaramente infondata o inaccoglibile la domanda dell’attore denegava l’azione di quest’ultimo (2); - se (infine) riteneva dubbia e da meglio approfondire la questione propostagli ordinava che intervenissero 2 o più testimoni (testes) della lite (litis contestatio) e rimetteva le parti al giudizio di un “privato” degno di fiducia (3).  In quest’ultima ipotesi (3) si apriva un più o meno lungo procedimento davanti al giudice (apud iudicem), che si chiudeva con una sentenza (sententia) di costui. Il procedimento in iure (detto così in quanto si svolgeva nel luogo in cui il magistrato sedeva su un palco dello tribunal e ivi impersonava l’autorità del ius) serviva ad “instaurare” la controversia nei suoi termini formali ed appunto perciò reclamava come indispensabile la presenza di “ambo” le parti contrapposte: pertanto, se il convenuto si rifiutava di seguire l’attore innanzi al magistrato giusdicente quando riceveva da lui la <<citazione in giudizio>> (la vocatio in ius), l’attore, dopo aver fatto ‘constatare’ il rifiuto da testimoni, poteva “trascinarlo” in ius a viva forza (operando nei suoi confronti una “presa corporale”, cioè una manus iniectio stragiudiziale), salvo che intervenisse uno speciale garante (denominato vindex) ad assumersi la personale responsabilità della sua comparizione ad altra data. Trovandosi finalmente i 2 davanti al magistrato (in iure), se quest’ultimo riteneva opportuno la remissione al giudice, la litis contestatio (letteralmente, la presa di conoscenza da parte di più testimoni) era il momento conclusivo essenziale acchè il giudice fosse informato in modo preciso e incontestabile dei termini della controversia (lis). Il giudice (iudex) o l’arbitro (arbiter) del procedimento di accertamento (apud iudicem) era solitamente unico ed era un “privato cittadino” prescelto dal magistrato tra i nominativi iscritti in un’aggiornata “lista generale” di persone atte (e disposte) alla funzione giusdicente (album iudicium) e senza avere particolare riguardo alle sue cognizioni giuridiche, richiedendosi più che altro in lui qualità di equilibrio e buon senso. Tuttavia, si formarono nell’antica Roma anche 2 collegi giudicanti specializzati, che venivano eletti dai comizi tributi per tutto l’anno di carica del pretore: - il collegio dei centumviri (centumviri), che giudicavano talune controversie di maggiore risonanza sociale (prevalentemente questioni ereditarie); - il collegio dei decemviri giudiziali (decemviri slitibus iudicandis), che erano veri e propri magistrati minori e avevano il duplice compito di presiedere i giudizi centumvirali e di decidere in linea esclusiva tutte le delicatissime questioni di accertamento della libertà o schiavitù di un individuo (cd. processi di libertà). La sentenza (sententia iudicis) con cui si chiudevano i processi di cognizione, anche se emessa su investitura ricevuta dal magistrato giusdicente, era pur sempre un atto proveniente da un privato (o, nel caso dei centumviri e decemviri, da magistrati di minimo livello): essa non poteva quindi coartare oltre certi limiti la persona soccombente e non poteva, in particolare, imporre a quest’ultimo di 56 restituire all’avente diritto l’oggetto da lui illecitamente appreso o di compiere a favore dell’avente diritto la prestazione da lui illecitamente ineseguita. Per conseguire la “soggezione” del soccombente occorreva, in altri termini, ricorrere ad un’azione esecutiva (in particolare, quella con “presa corporale”, per manus inectionem) di nuovo all’autorità del magistrato giusdicente, sempre che lo stesso soccombente non si decidesse ‘di sua volontà’ a fare quello che in un 1° tempo si era rifiutato di fare. Tutto ciò spiega, in concomitanza con le peculiarità dell’azione cognitoria più antica (quella sacramentale), come mai si originò il principio “caratteristico” (e sorprendente) per cui, fatti salvi certi casi eccezionali, le sentenza non potesse avere “effetti costitutivi”, né potesse comportare una “condanna specifica”, cioè ad eseguire la prestazione dovuta (cd. condemnatio in ipsam rem, per es. la condanna alla restituzione del maltolto), ma desse luogo solo ad una condanna pecuniaria, cioè al comando di pagare una somma di danaro corrispondente al valore dell’oggetto in contestazione o dell’obbligazione non eseguita. Le <<azioni di legge>>, intese come “procedure giurisdizionali” (come modi agendi) furono 5. 1. L’azione di legge sacramentale (legis actio sacramenti o per sacramentum), con ricorso ad un “giuramento sacrale”, fu la procedura più antica, da cui derivarono molte caratteristiche dei procedimenti successivi. La sua peculiarità fu che davanti al giusdicente (cioè in iure) l’attore, trovandosi di fronte all’opposizione del convenuto, lo sfidava con un giuramento sacro (sacramentum) avente come <<posta>> il sacrificio agli dei di un certo numero di capi di bestiame o, in tempi più evoluti, una certa somma di danaro (somma da versarsi al tempio di Saturno, ove era custodito l’erario pubblico), per il caso che risultasse il proprio torto, purché altrettanto facesse la controparte: - se la sfida non era accettata il torto veniva ad essere implicitamente riconosciuto allo sfidato, sì che l’attore poteva passare a chiedere l’esecuzione; - se la sfida era accettata ciascuna delle 2 parti procedeva alla solenne promessa sacrale della <<posta sacramentale>> (summa sacramenti). Chiuso il procedimento in iure con la “constatazione dei testimoni” della lite (litis contestatio), nel successivo procedimento il giudice era investito del compito di “accertare” se fosse conforme al diritto il giuramento dell’una piuttosto che quello dell’altra parte. L’autore del giuramento infondato veniva quindi a subire in 1 volta sola 2 effetti pregiudizievoli: - quello di dover pagare all’erario la somma promessa; - quello di essere riconosciuto implicitamente in debito verso l’attore del valore della controversia (controversia al cui accertamento il giudice aveva dovuto necessariamente procedere per stabilire quale dei 2 giuramenti fosse ingiusto). A proposito della controversia sacramentale si distingueva, però, tra: a. l’ipotesi in cui le parti conten)dessero circa la spettanza di un diritto assoluto rispetto ad un oggetto giuridico (il più delle volte una cosa, una res), esterno alla loro persona (procedura che fu abbreviatamente detta, in età preclassica avanzata, actio sacramenti in rem); b. l’ipotesi in cui 1 delle 2 parti vantasse la spettanza di un diritto sulla persona stessa dell’altra parte, cioè la titolarità di un diritto relativo (procedura che, in età preclassica avanzata, fu usualmente detta actio sacramenti in personam). Nell’azione sacramentale relativa a una cosa (actio sacramenti in rem) il procedimento in iure si articolava in 4 momenti: 1. anzitutto, le parti contendendo circa la titolarità di un diritto assoluto su un oggetto giuridico esterno alle loro persone (generalmente una res, ma eventualmente anche un fiuliusfamilias, un servus, ecc.) si presentavano entrambe davanti al magistrato, e quella che deteneva materialmente l’oggetto in contestazione (detto per metonimia la lis) lo portava seco (o se si 57 trattava di cose immobili o non facilmente trasportabili, portava seco un frammento o un simbolo di esso); 2. secondariamente, ciascuna parte muoveva verso l’oggetto conteso (in rem) toccandolo con una festuca (vindicta) in segno di padronanza e pronunciava la solenne dichiarazione di esserne l’avente diritto (vindicatio), ma il magistrato ordinava ad ambedue di lasciar stare l’oggetto; 3. in 3°luogo, le parti, asserendo ciascuna che l’altra avesse fatto una vindicatio antigiuridica (con iniuria) e accordandosi solo nella stima del valore della lis, si sfidavano con il sacamentum e passavano a formularlo solennemente facendosi forti della garanzia dei praedes sacramenti; 4. infine, il magistrato assegnava a sua scelta il ‘possesso provvisorio’ dell’oggetto ad 1 fra le parti, in favore della quale prestavano garanzia altri praedes, facendosi luogo alla litis contestatio. Nel successivo procedimento apud iudicem, il “giudicante privato” stabiliva, in base alle prove addotte da ciascun vindicas a sostegno della sua pretesa, quale dei 2 giuramenti fosse fondato e condannava il soccombente al pagamento della summa sacramenti: - se soccombeva quella tra le 2 parti cui già fosse stato negato il possesso provvisorio dell’oggetto conteso l’oggetto rimaneva a buon diritto nelle mani del possessore interinale; - se (invece) soccombeva il possessore interinale l’oggetto conteso doveva essere da lui consegnato alla controparte, e qualora egli si sottraesse a tale obbligo la controparte aveva il diritto di chiederne esclusivamente il controvalore in danaro. Nell’azione sacramentale relativa alla persona del convenuto (actio sacramenti in personam) le 2 parti contendevano circa l’esistenza o meno di un rapporto relativo (obligatio) tra loro, cioè circa l’esistenza di un potere dell’una sulla persona dell’altra, limitatamente ad una certa “prestazione”. Pertanto l’attore, ritenendo che il convenuto fosse obligatus nei suoi confronti, affermava solennemente in iure la necessità che il convenuto compisse la prestazione (il dare, il facere, il non facere): se il convenuto negava i 2 si sfidavano reciprocamente al giuramento per un importo garantito dai praedes sacramenti. Il procedimento apud iudicem aveva caratteristiche ed implicazioni analoghe a quelle dell’actio sacramenti in rem: condanna del convenuto alla summa sacramenti e conseguente obbligo di lui al pagamento del controvalore della prestazione, oppure assoluzione del convenuto. 2. L’azione di legge per richiesta di un giudice o di un arbitro (legis actio per iudicis arbitrive postulationem) fu introdotta dalle 12 Tavole per 2 fattispecie specifiche: - a tutela di chi vantasse un credito di danaro promessogli mediante una solenne sponsio; - a tutela del coerede che chiedesse la divisione del patrimonio ereditario nei confronti degli altri coeredi (actio familiae erciscundae). Successivamente, la procedura fu estesa alle altre azioni divisorie. Ad evitare il dispendio implicato dal sacramentum, l’attore dopo aver dichiarato la sua pretesa e aver udito il diniego del convenuto, passava a rivolgere la parola direttamente al magistrato chiedendogli di nominare senz’altro un giudice che decidesse circa il buon diritto del creditore oppure un arbitro che avesse il potere eccezionale di effettuare a titolo costitutivo una giusta divisione del patrimonio e della cosa comune e di assegnare a ciascuno il diritto assoluto sulla parte spettantegli. 3. L’azione di legge per ricomparizione (legis actio per condictionem) fu introdotta nel III sec. a.C. da una legge Silia in ordine ai crediti di somme di danaro e fu estesa da una posteriore legge Calpurnia ai creditori di cose determinate. 60 Le azioni personali (actiones in personam dette anche condictiones) erano quelle volte alla difesa di un diritto relativo. 3. Azioni reipersecutorie/penali/miste tale distinzioni riguardava l’ “oggetto” della pretesa dell’attore. Le azioni reipersecutorie erano rivolte ad ottenere il controvalore di ciò che fosse dovuto all’attore o a lui appartenesse: il controvalore, e non la res, a causa del principio della pecuniarietà della condanna. Le azioni penali erano rivolte ad ottenere il pagamento all’attore di un’ammenda pecuniaria, di una “penale” (poena = generalmente un multiplo del valore di una cosa). Le azioni miste erano intese in una sola volta sia all’ottenimento del controvalore sia a quello dell’ammenda pecuniaria. 4. Azioni di stretto diritto/di buona fede/arbitrarie tale distinzione aveva riguardo delle “funzioni decisorie” conferite con il iudicium al giudicante. Le azioni di stretto diritto erano azioni personali (non in rem) caratterizzate da un iudicium che enunciava un obbligo del convenuto avente un contenuto certo e determinato: se il giudice perveniva alla convinzione del buon diritto dell’attore, egli non poteva fare altro che condannare il convenuto al preciso importo pecuniario già indicato dal iudicium. Le azioni in buona fede erano azioni civili e personali (non honorariae e non in rem) il cui iudicium attribuiva al giudice un largo margine di valutazione discrezionale, e cioè il potere di stabilire a suo criterio tutto quanto il convenuto fosse tenuto a dare o fare in base ai principi della buona fede. Le azioni arbitrarie erano azioni personali o reali il cui iudicium attribuiva al giudice, per l’ipotesi che si convincesse del buon diritto dell’attore, il potere di far precedere alla condanna un esplicito avvertimento con il quale rendeva noto alle parti le conclusioni cui era pervenuto e dava in particolare al convenuto la scelta tra il subire la condanna pecuniaria o ripristinare spontaneamente lo stato giuridico da lui alterato (e quindi essere assolto). 5. Iudicia legitima/imperio continentia Tale distinzione acquistò particolare rilevanza per effetto della legge Giulia del 17 a.C. Si applicò per ogni specie di azione formulare e riguardò la struttura delle relative “regole di giudizio” (dei iudicia concepta). I iudicia legitima furono definiti tali se presentavano le seguenti 3 caratteristiche: - riguardassero una lis intercorrente tra un attore e un convenuto ambedue cittadini romani; - fossero relativi ad un processo celebrato a Roma – centro (no oltre la prima pietra miliare dell’urbe); - rimettessero la decisione ad un giudice unico che fosse cittadino romano (e non alla decisone di un recuperatores o di un iudex non romano). I iudicia imperio continentia (delimitato dall’imperium magistratuale) erano, conseguentemente, tutti gli altri. In ordine ai iudicia legitima la legge Giulia stabilì, per dare un tempo congruo all’espletamento del processo, che la sentenza potesse essere pronunciata entro 18mesi dalla data della litis contestatio; per gli altri iudicia (iudicia imperio continentia) valse la regola generale della sententia iudicis, cioè, a regola che essendo la sententia fondata su un conferimento di poteri da parte di un certo determinato magistrato giusdicente, essa dovesse essere pronunciata entro l’anno di carica del magistrato che avesse emanato il relativo decreto: scaduti i termini per la pronuncia della sentenza, si verificava infatti (salva conferma del magistrato subentrante) l’estinzione del procedimento apud iudicem per cd. <<morte della lite>> (mors litis). 61 6. Azioni dirette/utili tale distinzione viene costruita allo scopo di far differenza tra: - azioni civili chiaramente identificate nei loro contenuti e nei loro limiti, dette perciò anche azioni dirette (ossia, azioni rettilinee); - i molteplici “adattamenti utilitaristici” che delle azioni dirette furono fatte dal ius honorarium per poterle indirettamente impiegare al di fuori e al di là della sfera di applicazione loro propria. Tra le azioni utili (azioni <<di ripiego>>) possono essere segnalate: - quelle con una trasposizioni di soggetti, che consisteva nell’invitare il giudice ad emettere la sua sentenza tra attore e convenuto sulla base dell’accertamento di un rapporto intervenuto non tra loro 2, ma tra 1 di essi e altri o esclusivamente tra altri (generalmente in veste di loro rappresentanti o di loro sottoposti privi di capacità giuridica): il che si otteneva indicando nella condemnatio il nome delle parti processuali, ma indicando nella intentio il nome dei vari protagonisti (e responsabili) del rapporto controverso; - quelle con la finzione di un requisito civilistico (cd. fictio iuris civilis) che consisteva nell’invitare il giudice a condannare (o ad assolvere) il convenuto, dando fittiziamente per scontata l’esistenza di un requisito del ius civile in realtà inesistente (es. l’actio Publiciana del domino pretorio); - quelle con l’imitazione estensiva di un’actio originaria, che consisteva nel creare un’azione preesistente relativa ad un caso analogo (es. le actiones ad exemplum actionis legis Aquiliae, concesse dal pretore in ordine a fattispecie di danneggiamento non perseguibili sulla base letterale della lex Aquilia de damno dato). 24. LA STRUTTURA DELLE FORMULE PROCESSUALI La struttura delle formule processuali era estremamente “duttile” ed era per lo più ridotta a poche frasi essenziali (con l’uso di termini particolarmente significanti) le quali rendevano peraltro opportuno il ricorso delle parti e dei loro stessi difensori in giudizio ai “consigli tecnici” dei giureconsulti. Argomenti da trattare:  le componenti del cd. iudicium  gli elementi essenziali del <<merito>> del iudicium  gli elementi accidentali del <<merito>> del iudicium Componenti della formula giudiziale Erano da un punto di vista “logico”, anche se non sempre sul piano della struttura formale, 4: 1. l’assegnazione del giudice (datio iudicis), che era il provvedimento di designazione della persona o delle persone incaricate dal magistrato giusdicente, su accordo o con l’assenso dei litiganti, di emettere la sentenza; 2. la parte a favore dell’attore (pars pro actore), che indicava quale fosse la tesi sostenuta dall’attore e formulava l’ipotesi che risultassero fondati gli argomenti addotti a sostegno di essa (ed infondati quelli eventualmente addotti in contrario, a titolo di “eccezione”, dal convenuto), invitando conseguentemente il giudice ad emettere il provvedimento richiesto dall’attore; 3. la parte a favore del convenuto (pars pro reo), che formulava l’ipotesi inversa e alternativa rispetto a quella precedente, cioè l’ipotesi che non risultassero fondati gli argomenti addotti dall’attore (o risultassero fondati quelli eventualmente addotti in contrario dal convenuto), invitando conseguentemente il giudice a lasciare indenne il convenuto, cioè ad assolverlo; 4. l’ordine di giudicare (iussum iudicandi), che era il provvedimento con il quale il magistrato giusdicente investiva pubblicamente il giudicante privato della funzione di giudicare in sua vece e di emettere, a conclusione della propria attività e in conformità della propria opinione 62 (sententia) sulla questione esaminata, un “provvedimento decisorio” della lite (cioè, una condemnatio, un’absolutio, un’adiudicatio). Esempio di regola di giudizio del processo <<formulare>> (scelta tra le più diffuse): <<Sia giudice della causa Tizio. Se (in base all’istruttoria da compiere) ti sembrerà che la pretesa vantata da Aulio Agerio (l’attore) nei confronti di Numerio Negidio (il convenuto) sia fondata, allora tu, giudice Tizio, condanna Numerio Negidio a pagare ad Aulio Agerio la somma x; se invece ciò non ti sembrerà, assolvilo. Nella mia qualità di magistrato giusdicente investo (esplicitamente e pubblicamente) Tizio della potestà di giudicare (in ordine della predetta questione)>>. Il <<merito>> della formula di giudizio (cioè, quella parte della regola di giudizio nella quale si puntualizzava la questione che esigeva, che “meritava” di essere esaminata dal giudice) era, naturalmente, costituito dalle parti a favore, rispettivamente, dell’attore e del convenuto. Tra i vari elementi che potevano confluire in esso 2 erano gli elementi essenziali: a. la tesi attrice (intentio) b. la richiesta di condanna o assoluzione del convenuto (condemnatio) a. L’intentio (tesi attrice), avendo lo scopo di identificare l’azione sostanziale vantata dall’attore, doveva, di solito, enunciare chiaramente 3 punti: 1. i soggetti del rapporto di responsabilità (cd. personae); 2. l’atto illecito (del convenuto o di altri) che aveva dato causa alla costituzione del rapporto di responsabilità (cd. causa petendi); 3. la situazione giuridica attiva (e più precisamente il potere d’azione) in ordine a cui si chiedeva pertanto il provvedimento giurisdizionale di tutela (cd. petitum). Essa (l’intentio) poteva essere: - in ius concepta (= riferita a un diritto) se era formulata con riguardo ad un rapporto o ad una situazione giuridica soggettiva, riconoscibili dalla locuzioni tipiche “ius esse” o “dare oportere”; - in factum concepta (= riferita ad un fatto) se era formulata con riguardo ad un preciso diritto soggettivo, ma ad una fattispecie ritenuta degna di tutela del magistrato, anche se non era prevista o esattamente prevista dal diritto vigente: nel qual caso era dal factum descritto nell’intentio che scaturiva l’invito al giudice affinché condannasse o assolvesse. b. La comdemnatio (termine che comprende sia la richiesta di condanna che la richiesta di assoluzione) poneva in evidenza: - in 1°luogo, il destinatario del provvedimento (che nelle formule con trasposizione di soggetti non coincideva col soggetto o coi soggetti dell’azione sostanziale); - in 2°luogo, la concreta sententia iudicis richiesta dall’attore (cd. petitum processuale). In particolare, il petitum processuale (di condanna) era sempre riferito ad una somma di danaro; tuttavia, poteva esservi: - una condemnatio certa relativa ad una somma di danaro predeterminata nello stesso iudicium; - una condemnatio incerta relativa ad una somma di danaro da determinarsi dal giudice. Più in particolare, nell’ipotesi di condemnatio incerta i “criteri di decisione” cui il giudice era invitato ad attenersi nella determinazione della summa condemnationis erano principalmente 4: - l’invito a condannare a “quanto la res litigiosa” vale al momento della litiscontestatio oppure varrà al momento della sentenza, oppure valse al momento dell’atto contestato; 65 magistrato lo considerava responsabile di <<mancata difesa>> (indefensus) e pronunciava, quindi, a suo carico e a favore dell’attore, la missio in bona. Di fronte al convenuto comparso effettivamente in iure l’attore: a. procedeva alla formale editio actionis (esposizione dell’azione), cioè ad un’indicazione puntuale della propria pretesa, designando eventualmente (se era già prevista dall’editto) la formula edittale relativa; b. rivolgeva (peraltro) al magistrato la postulatio actionis, cioè la richiesta di concedergli un apposito iudicium. Sul punto il convenuto era libero di intavolare un discussione, illustrando i motivi di fatto o di diritto per cui l’actio contro di lui dovesse essere denegata sul momento dal magistrato o comunque sicuramente respinta dal iudex. A seguito di questa discussione e sulla base dei suoi e propri discrezionali rilievi il magistrato giusdicente decideva: - se l’azione fosse da denegare, da rispendere perché improcedibile, cioè perché inammissibile per ragioni formali; - (subordinatamente) se l’azione, pur essendo procedibile, fosse da denegare perché manifestatamente infondata iniqua, - (subordinatamente ancora) in quali termini l’azione, essendo procedibile e non manifestatamente infondata, fosse da trasfondere in un iudicium. In alcune ipotesi l’editto permetteva all’attore di procedere ad un’interrogatio in iure (interrogazione davanti al magistrato) del convenuto, allo scopo di accertare prima della litiscontestatio se egli fosse veramente il titolare dell’obbligo (per es. l’interrogatio intesa a stabilire se il convenuto fosse l’erede del debitore originario). La risposta affermativa o la risposta mancata e reticente confortavano l’attore a proseguire nel processo; la risposta negativa (che poteva anche essere non veritiera) lo poneva al bivio tra il rinunciare all’azione processuale o l’insistervi, assumendosi il carico di provare che il convenuto aveva dichiarato il falso. Affinché il procedimento in iure pervenisse alla litiscontestatio, cioè all’accordo di rimettere la questione al giudice, non era sufficiente la comparizione del convenuto, ma occorreva una cooperazione attiva del convenuto con l’attore e il magistrato: sia prestando le cautiones processuali richiestagli e sia, soprattutto, manifestando il suo consenso in ordine al iudicium. La cd. indefensio (mancata difesa) non bastava a giustificare un processo in contumacia (cioè, in assenza ritenuta colpevole) del convenuto, ma implicava che il procedimento in iure subisse una “sospensione”. Per costringere indirettamente il convenuto a litem contestare (oppure ad effettuare la confessio in iure) furono però escogitati vari sistemi che confluivano, in ultima analisi, nella solita missio in bona a carico dell’indefensus: il convenuto aveva quindi tutto l’interesse ad addivenire alla contestazione della lite, piuttosto che correre il rischio di una procedura concorsuale sul suo patrimonio. 3) Litis contestatio La litis contestatio (litiscontestazione) era il “momento” processuale in cui, raggiuntasi l’intesa a 3 circa la persona del giudice e la formulazione del iudicium: - da un lato, il giusdicente proclamava formalmente il nome del giudice (datio iudicis); - dall’altro lato, l’attore scandiva i precisi termini del iudicium al convenuto, ottenendone un comportamento (anche di silenziosa acquiescenza) affermativo (dicatio et acceptio iudicii). La vecchia terminologia si adattò al “nuovo” istituto per il fatto che, di solito, anche in questo caso alcuni testimoni (testes) erano chiamati ad assistere alla vicenda e che inoltre si procedeva ad una documentazione probatoria scritta (testatio) per informare meglio il giudicante circa i termini del iudicium. Concettualmente indipendente dalla litiscontestatio, sebbene il più delle volte tacitamente 66 implicato da essa, era il iussum iudicandi rivolto dal magistrato al giudice, cioè l’investitura di quest’ultimo (se ed in quanto fosse presente o fosse adeguatamente informato dal magistrato stesso) nella potestà di giudicare. Effetto della litiscontestatio era la res in iudicium deducta, detta anche res iudicanda (cosa giudicanda, regiudicanda), vale a dire la fissazione, non più ritrattabile o modificabile, della materia del contendere nei termini indicati dal merito del iudicium. Le parti erano quindi da quel momento reciprocamente obbligate a subire le conseguenze della sententia che avrebbe emesso il giudicante: - l’eventuale condemnatio il convenuto; - l’eventuale absolutio del convenuto l’attore. Effetto del iussum iudicandi era l’investitura del giudicante nella potestà di condannare o di assolvere il convenuto entro il termine finale (termine prorogabile con un nuovo iussum iudicandi) di 18mesi dalla litiscontestatio per i iudicia legitima e dell’anno magistratuale per i iudicia imperio continentia. 4) Decisione senza litis contestatio Eccezionalmente ad una decisione senza litis contestatio (e senza necessità del successivo procedimento apud iudicem) si poteva pervenire, nel corso del procedimento in iure, a causa: - di una confessio in iure; - di un iusiurandum in iure a carattere decisorio. Entrambe queste ipotesi avevano effetti equiparabili a quella di una sententia iudicis. La confessio in iure (confessione davanti al magistrato) consisteva nel riconoscimento esplicito, operato in iure personalmente dal convenuto, del buon fondamento della pretesa dell’attore, quindi dell’esistenza dell’azione sostanziale vantata da quest’ultimo. A tal proposito si usava dire che “confessus pro iudicato est” (il confesso vale come giudicato), e ciò stava a significare 2 cose: - anzitutto, che la confessio faceva stato tra le parti alla stessa guisa di una sententia iudicis; - secondariamente, che la confessio relativa ad un’azione intesa ad ottenere una certa pecunia (una somma di danaro) era pienamente equiparata ad una sententia di condanna a quella somma e dava quindi adito all’esecuzione forzata. Se l’azione era intesa all’ottenimento di un “certum che non fosse una somma di danaro”, ma necessitasse di una traduzione in danaro, oppure se essa era intesa al conseguimento del controvalore di un incertum, la confessione del convenuto non valeva ad eliminare del tutto la necessità di addivenire alla litiscontestatio ed alla successiva sententia: di questa vi era pur sempre bisogno, se non per accertare il buon diritto dell’attore (ormai riconosciuto dal convenuto9, almeno per stabilire la summa condemnationis che il convenuto era tenuto a pagare. Il iusiurandum in iure (giuramento davanti al magistrato) era il solenne giuramento del buon fondamento delle proprie ragioni che una parte (convenuto o attore) era invitata a compiere (mediante un “deferimento a giurare”) dalla sua controparte. Se il destinatario dell’invito a giurare si assumeva la responsabilità religiosa e giuridica di giurare di avere ragione, il suo buon diritto era posto fuori discussione, con tutte le conseguenze del caso; se, invece, egli si rifiutava di giurare, si procedeva alla normale litiscontestatio. Solo in talune ipotesi di cd. iusiurandum necessarium (cioè, di irrecusabilità del giuramento) il magistrato appoggiava con la sua autorità la delazione del giuramento fatta dall’attore al convenuto e trattava quindi quest’ultimo, ove si rifiutasse di giurare, come indefensus. Ma, il destinatario del deferimento a giurare (attore o convenuto che fosse) poteva sempre rovesciare la situazione, invitando a sua volta la controparte (con un “riferimento” o rilancio del giuramento) a giurare essa di 67 avere ragione (cioè, di non dover subire la condanna, se in situazione di convenuto; oppure, di dover ottenere la condanna, se in situazione di attore), in conseguenza di che la decisione della controversia era rimessa appunto alla controparte. 5) Procedimento apud iudicem Il procedimento apud iudicem (davanti al giudicante), cioè la iudicatio della procedura formulare di accertamento, aveva inizio: - in astratto nel momento della litiscontestatio, cioè nel momento in cui, chiusa la fase in iure con l’emissione del iussum iudicandi, si apriva la decorrenza dei termini per la pronuncia della sentenza; - in concreto nel momento in cui 1 delle parti (generalmente, ma non necessariamente l’attore) provvedeva a comunicare alla controparte, rendendolo altresì noto al “giudicante” (iudex, arbiter, recuperatores), un <<invito a comparire>> davanti al giudicante stesso in un certo luogo e in una certa ora di un giorno non festivo dilazionato di almeno altri 2 giorni (cd. comperendinatio, cioè rinvio sino a tutto il poidomani, anche detta intertium o altrimenti). La normalità era che il procedimento si svolgesse in contraddittorio tra le parti (al pari di come era richiesto per la fase in iure) e che il giudice desse ascolto ad ambedue i contendenti. Tuttavia, se la parte convocata non compariva, né di persona, né in persona di un suo sostituto (cognitor o procurator che fosse), l’attività del giudizio si svolgeva in sua assenza (o sin quando perdurasse la sua assenza) sulla base dei soli elementi addotti dalla parte diligente: il che spiega come essa avesse tutto l’interesse ad essere presente sin dall’inizio, e come poi tutte e 2 si adoperassero ad influire sul convincimento del giudicante non solo di persona, ma anche con l’ausilio (patrocinium) di efficaci difensori (patroni, advocati, oratores). Quanto al giudicante, egli esordiva con un solenne giuramento (iusiurandum iudicis) che lo impegnava davanti agli dei a svolgere la sua funzione non solo con assoluta imparzialità, ma anche con piena diligenza nel procedere alla direzione delle udienze ed alla fissazione degli eventuali rinvii in modo che fosse evitata la mors litis. Ove al magistrato giusdicente giungessero (principalmente per iniziativa di una parte insoddisfatta) notizie attendibili di un suo comportamento particolarmente irregolare, il giudice poteva ricevere l’ordine di sospendere momentaneamente la sua attività o addirittura il divieto di portarla a termine. Il procedimento si svolgeva spesso in molteplici udienze, con dibattimento orale, ma era uso documentarlo in iscritto (cd. verbalizzazione). La direzione spettava al giudicante, il quale: - da un lato, era tenuto a lasciar parlare le parti ed a permettere loro di proporre le prove che ritenessero opportune (il che si diceva causae coniectio, cioè impostazione della causa); - dall’altro lato, era libero di disciplinare la durata degli interventi e l’ordine delle produzioni, ed era altresì autorizzato a procedere, se lo ritenesse opportuno, a un “interrogatorio libero” di 1 o ambedue i contendenti, per ottenere chiarimenti e delucidazioni. Non era libero, invece, il giudicante di basare la sententia su indagini svolte personalmente o per sua iniziativa (inquisitiones); anzi, egli era strettamente tenuto a giudicare sulla base delle allegazioni e delle prove offerte dai litiganti. L’onere della prova spettava, di regola, a chi affermasse una circostanza, non a chi la negasse: quindi, spettava all’attore in ordine alle affermazioni contenute nell’intentio o nella replicatio, mentre gravava sul convenuto in ordine alle affermazioni contenute nell’exceptio o nella duplicatio. Mezzi di prova (probationes), o comunque di convincimento del giudicante (argumenta) potevano essere: i documenti; le testimonianze (soprattutto se spontanee), le quali avevano quasi il carattere di interventi a difesa, le consulenze tecniche di esperti, i “fatti notori” (cioè, talmente e tanto diffusamente conosciuti, da non aver bisogno di dimostrazione); le rilevazioni dirette del giudicante. 70 all’adempimento (cioè, a conforto della sua cd. infitatio), solo argomenti intesi a dimostrare l’invalidità della sentenza (invalidità limitata a questioni di forma): il che generalmente lo sconsigliava dal pervenire alla litiscontestatio e dall’esporsi alla condanna del duplum, inducendolo, sia pur con ritardo e malvolentieri, al pagamento della somma dovuta o almeno alla confessio in iure del suo obbligo (confessione che gli evitava il carico del duplum, pur avendogli concesso qualche ulteriore momento di respiro). Il titolo esecutivo costituito dalla sentenza di condanna conseguente all’actio iudicati (o alla confessione del torto nel procedimento in iure aperto con quell’azione) dava finalmente all’attore la possibilità, sempre che il soccombente con la legis actio per manus iniectionem allo scopo di farselo assegnare in potestà (addicere) dal magistrato e di essere ripagato del proprio credito mediante il suo lavoro. La procedura relativa si semplificò, dopo la lex Iulia del 17 a.C., sino al puto che bastava al creditore la cd. ductio debitoris, cioè la “traduzione” in ius del debitore, e ivi la richiesta formale dell’addictio al magistrato, per poter conseguire il risultato. Tuttavia le difficoltà e le mitigazioni comportate all’adozione di questo sistema erano ormai tanto ingenti, che ad esso si ricorreva esclusivamente nell’ipotesi in cui il debitore si fosse ridotto sul lastrico e qualcosa si potesse ricavare da lui solo utilizzando il suo lavoro subordinato: per pochi che egli avesse di beni, meglio era far capo al procedimento della immissione conservativa nel suo patrimonio (missio in bona). 26. GLI ISTITUTI COMPLEMENTARI DELLE PROCEDURE <<FORMULARI>> Molte ragioni, tra cui la limitazione della procedura <<formulare>> al processo di accertamento e la subordinazione della stessa all’accordo delle parti in sede di litiscontestazione, indussero i magistrati giusdicenti romani, e in particolare, il pretore, a porre in essere svariati istituti complementari intesi: - alcuni ad attuare procedure più rapide; - altri a garantire l’adesione delle parti al processo; - altri ancora ad aggiungere all’esecuzione personale delle pretese giudizialmente accertate mezzi di esecuzione patrimoniale. Tali istituti, quasi sempre basati sull’imperium magistartuale (anche detti mgis imperii quam iurisdictionis), furono precisamente:  gli interdicta  le in integrum restitutiones  le stipulationes praetoriae  la missio in possessionem  la bonorum venditio  la bonorum distractio  la datio bonorum possessionis 1. interdicta Gli interdetti erano “provvedimenti ingiuntivi d’urgenza”, emessi dal magistrato in contraddittorio tra le 2 parti, allo scopo di evitare le lungaggini del processo ordinario nell’ipotesi di certe fattispecie relativamente semplici ed evidenti. Il magistrato in questi casi pensava bene di ordinare al convenuto 1 di queste 3 attività: 1. ripristinare uno stato di cose che avesse alterato; 2. esibire un oggetto che tenesse riservato o un soggetto giuridico che tenesse prigioniero; 3. astenersi da un certo comportamento. L’ingiunzione era emanata previo accertamento sommario della probabile fondatezza delle asserzioni dell’attore: se il convenuto si rifiutava o mancava di ottemperarvi, l’attore poteva passare a esercitare nei suoi confronti un’azione personale da interdetto, dando luogo ad un rapido processo di accertamento volto a confermare (o a escludere) il buon fondamento dell’interdetto o l’ingiusto 71 inadempimento del destinatario. Di regola, la procedura susseguente a mancata esecuzione di un interdetto era un procedimento “con penale”, nel senso che comportava (sulla base di vicendevoli promesse) il pagamento di una congrua penale pecuniaria da quella tra le 2 parti che risultasse aver sostenuto a torto la propria tesi. 2. in integrum restitutiones I ripristini integrali erano provvedimenti giurisdizionali “costitutivi”, che invalidavano, per diretto intervento del magistrato, fatti giuridici ‘formalmente validi’ (per es. un negozio o anche una litiscontestatio), e quindi avevano l’effetto di ripristinare integralmente (restituere in integrum) una situazione giuridica che quei fatti avessero compromesso. Il magistrato emanava tali provvedimenti di “annullamento” su richiesta dell’interessato, previo un suo personale accertamento del merito, sulla base di considerazioni di equità, quali l’opportunità di eliminare le conseguenze del dolus malus o della fraus creditorum. Di solito il magistrato formulava un decretum relativo al fatto giuridico da invalidare e subordinatamente concedeva al beneficiato, nell’ipotesi di inosservanza del decretum, un iudicium rescissorium (giudizio rescissorio) da esercitare per le vie ordinarie contro l’inosservante. Ma se la domanda di restitutio era avanzata nel corso della fase in iure di un processo, il magistrato ometteva spesso la formalità del decretum e ineriva direttamente nella formula iudicii (più precisamente nell’intentio se si trattasse dell’attore, nella exceptio se si trattasse del convenuto) una fictio rescissoria (finzione di avvenuta rescissione), in forza della quale il iudex doveva considerare non avvenuto il fatto che egli volesse invalidare. 3. stipulationes praetoriae Le stipulazioni pretorie, anche dette cautiones praetoriae (promesse imposte dal pretore) erano l’oggetto di altrettanti provvedimenti cautelari con i quali il magistrato ordinava ad una parte di effettuare ad una controparte una solenne promessa di garanzia nella forma del negozio di stipulazione. Se il destinatario del comando pretorio non si impegnava (in veste di promissor) a pagare una somma di danaro alla controparte (in veste di stipulans) per garantirla in ordine al verificarsi di un evento temuto, la sanzione a suo danno era una ripulsa dell’azione da lui promossa (denegatio actionis), un’immissione in possesso dei suoi beni (missio in possessionem) o altro provvedimento pregiudizievole per i suoi interessi. Le cautiones praetoriae si distinguevano in 2 tipi: - quello delle repromissiones (promesse semplici), se era richiesta la sola promessa del destinatario del comando pretorio; - quello delle satisdationes (promesse con garanzia di terzi), se il pretore esigeva che la promissio del destinatario fosse accompagnata, a maggio tutela della controparte, da garanzie personali, o reali di terze persone. 4. missio in possessionem Le immissioni in possesso erano provvedimenti magistratuali aventi finalità “cautelari” oppure finalità di “costrizione indiretta” all’adempimento. Esse consistevano nella concessione ad un soggetto della disposizione effettiva di alcuni o di tutti i beni appartenenti pe diritto civile ad un altro soggetto in attesa che se ne chiarisse la sorte definitiva: pertanto, al titolare del diritto civilistico il magistrato denegava l’azione se pretendesse di riacquistare la materiale disponibilità dei suoi beni. Nel caso di immissione nel possesso relativa ad un singolo bene si parlava di missio in rem (immissione su cespite singolo); se invece l’immissione riguardava l’intero patrimonio di un soggetto si parlava di missio in bona (immissione nel complesso dei beni). Il campo più vasto e importante di applicazione della missio in possessionem era quello dell’immissione conservativa nel patrimonio (missio in bon rei servandae causae), 72 nell’immissione di tutti i creditori al possesso del patrimonio di un debitore in stato di “insolvenza”, cioè di evidente incapacità di far fronte ai suoi debiti. Il magistrato cum imperio la concedeva, su semplice richiesta fatta da un creditore insoddisfatto nell’interesse di tutti i creditori: il creditore immesso nel patrimonio dissestato acquistava la detenzione dei beni immobili e mobili del debitore, e doveva darne avviso mediante pubblico bando affinché gli altri eventuali creditori potessero farsi avanti con la loro richiesta di pagamento e i debitori dell’escusso fossero avvertiti del blocco all’attività patrimoniale di costui. Spesso, quando i creditori istanti erano numerosi, il pretore nominava anche un curatore del patrimonio dissestato (curator bonorum) per le funzioni di conservazione dei beni e di effettuazione del bando. La durata dell’immissione conservativa nel patrimonio era però limitata (30 giorni al massimo per l’immissione nei beni un debitore vivente, 15 giorni al massimo per l’immissione nei beni di un debitore morto): se, scaduto il termine, il debitore (o chi per lui) non era riuscito a soddisfare i creditori o a mettersi d’accordo con loro, l’insolvenza diventava irreversibile e sul capo del debitore (vivo o morto che fosse) ricadeva l’infamia, mentre i creditori erano autorizzati a passare alla vendita forzata. 5. bonorum venditio La vendita forzata del patrimonio era un procedimento di “esecuzione” sul patrimonio di un debitore divenuto chiaramente e irreversibilmente insolvibile (il cd. decoctor, dissipatore, cioè “fallito”): vi si faceva largamente ricorso in sostituzione o in rinforzo dell’affievolito sistema civilistico dell’esecuzione personale. Oltre coloro (vivi o morti) che avessero subito l’immissione conservativa, vi erano sottoposti: - il marito o il soggetto giuridicamente svalutato (il capite minutus) che non avessero lasciato eredi e il cui patrimonio non fosse stato reclamato (appunto perché passivo) dallo Stato; - il debitore che non avesse potuto fruire del beneficio di evitare l’esecuzione patrimoniale mediante una “cessione a saldo” di tutti i suoi cespiti patrimoniali attivi ai creditori (cd. cessio bonorum ex lege Iulia) La procedura era schematicamente questa. I creditori iscritti (o cessionari) procedevano all’elezione di un incaricato, il quale faceva l’inventario dei beni e delle attività, e redigeva quindi un bando di vendita all’incanto degli stessi. La vendita avveniva in blocco a favore del compratore che offrisse ai creditori la più alta percentuale dei loro crediti. Il compratore del patrimonio era considerato dal diritto onorario successore universale del fallito: per conseguenza, uno speciale interdetto tutelava la situazione nei riguardi dei terzi, ed inoltre egli era ammesso ad esigere i crediti del fallito presso i debitori di lui, agendo in sua sostituzione con speciali azioni onorarie. 6. bonorum distractio In talune ipotesi particolari (es. quando il debitore fosse un senatore), per evitare la rovina economica totale del debitore e la sua infamia, fu praticata la procedura esecutiva della vendita forzata parcellare, consistente nella vendita alla spicciolata dei cespiti patrimoniali sino a concorrenza dell’ammontare dei crediti. 7. datio bonorum possessionis Sostanzialmente analoga ad un’immissione nel possesso del patrimonio di un fallito era l’assegnazione (datio) del possesso para – ereditario del patrimonio: provvedimento mediante il quale il pretore concedeva ad 1 o più persone il potere di disporre del patrimonio di un defunto a guisa di eredi dello stesso, quindi a titolo di successori universali per il diritto onorario. La ragione per cui l’istituto va distinto da un’ordinaria immissione nel patrimonio del defunto è da vedersi nel suo scopo caratteristico, che era quello di integrare, a favore dei successori pretorii, il meccanismo ristretto e antiquato della successione prevista dal diritto civile (la hereditas). 75 poi di un’argomentata comparsa di difesa redatta dal convenuto: comparse entrambe preventivamente visitate dal giudice anche ai fini della fissazione dell’udienza. La comparizione in giudizio nelle udienze fissate dal giudice, aveva carattere “obbligatorio” sia per il convenuto sia per lo stesso attor, trattandosi non solo di soddisfare un interesse di parte, ma anche e soprattutto di obbedire ad un ordine emesso dal giudice nell’interesse superiore della giustizia. Quando il convenuto non fosse notoriamente abbiente, l’attore gli faceva ordinare dal giudice la prestazione a suo favore di una specifica promessa, garantita terzi, di pagare una congrua somma nell’eventualità di assenza in giudizio (cautio iudicio sisti): senza di che, il convenuto poteva anche essere tenuto in stato d’arresto dall’executor sino alla pronuncia della sentenza. Comunque, nell’ipotesi di mancata comparizione del convenuto e, talvolta anche nell’ipotesi di mancata comparizione dell’attore, il processo poteva ugualmente svolgersi in contumacia dell’assente, purché la parte comparsa in giudizio lo richiedesse esplicitamente e purché la parte non comparsa in giudizio insistesse nell’astenersi dal comparire malgrado 4 successivi ordini emessi nei suoi confronti dallo stesso giudice con 4 successivi editti, l’ultimo dei quali era detto <<editto perentorio>>. La trattazione della causa davanti al giudice (causae coniectio) aveva inizio con la contestazione della lite (litis contestatio), intesa nel nuovo senso di momento in cui al giudice era sottoposto il materiale di causa delle 2 parti. Seguiva il cd. medium litis, nel corso del quale si dava corpo allo scontro tra la narratio dell’attore e la contradictio del convenuto, potendosi aggiungere alle istanze iniziali anche eccezioni e controrepliche (exceptiones e replicationes) intese nel senso di nuovi argomenti e nuove richieste per l’attore e il convenuto. In un’udienza finale le parti rassegnavano le loro conclusioni e il giudice chiudeva il dibattimento, riservandosi di decidere. Poiché il processo poteva aver luogo anche in contumacia di 1 delle parti (e in particolare del convenuto), era imposto alle parti (o a quella presente in causa) un iusiurandum calumniae, giuramento solenne di non pronunciare accuse o difese ingiuste; lo stesso obbligo incombeva sugli eventuali advocati, che con l’andar del tempo furono sempre più frequentemente utilizzati come rappresentanti tecnici delle parti. B) L’istruzione probatoria nel processo di cognizione fu sottratta al dominio delle parti e fu affidata in prevalenza all’iniziativa del funzionario – giudice, in omaggio al sistema dell’inquisitio (inquisitio = indagine). Ma il giudice, quando non fosse personalmente l’imperatore, la cui volontà era legge, doveva obbedire a sua volta a tutto un complesso di regole (complesso determinato in parte da esplicite leges principles ed implicato per altra parte dal principio della “subordinazione ai precedenti imperiali”) relative all’assunzione delle prove, alla loro gerarchia ed alla loro intrinseca importanza. I mezzi di prova offerti all’assunzione da parte sua (da parte del giudice) furono: 1. le “constatazioni dirette” di cose o persone, eventualmente operate mediante “accesso giudiziale” in luoghi diversi dalla sede di giustizia; 2. i “documenti scritti”, ritenuti particolarmente degni di fede se redatti da pubbliche autorità e relativi ad elementi dalle stesse constatati; 3. la “confessione giudiziale”, cioè l’ammissione di fatti contrari alle proprie ragioni resa da una parte spontaneamente, oppure a seguito di un “interrogatorio giudiziale” fattole dal giudice su richiesta della controparte (interrogatorio formale) o di propria iniziativa (interrogatorio libero); 4. il “giuramento giudiziale” effettuato da una parte circa il buon fondamento delle proprie ragioni (secondo le regole venute in essere già in sede di procedura formulare). Se questi mezzi di prova mancavano, o eccezionalmente non erano ritenuti sufficienti alla definizione della controversia, sovvenivano le presunzioni e le testimonianze. Le presunzioni (praesumptiones iuris) erano le conseguenze tratte da un fatto noto per risalire, attraverso una congrua argomentazione logica, ad un fatto ignorato. Largamente usate già in sede retorica come sussidio argomentativo nelle accuse e nelle difese giudiziarie, esse assunsero man 76 mano il rango di presunzioni “giuridiche” se ed in quanto, relativamente a questioni di interesse giuridico, fossero autorevolmente e largamente sostenute da responsi di giuristi, da rescritti dei principes, o da precedenti giudiziali. Le presunzioni dispensavano da qualunque altra prova (ed in particolare dal ricorso a testimoni) la parte a favore della quale fossero stabilite, ma potevano bene essere superate dalla controparte con la prova convincente del contrario. Solo in taluni casi eccezionali, espressamente sanciti da disposizioni di legge, la prova del contrario era esclusa: in ordine a tali si parlava di presunzioni “assolute”, ben distinte da quelle “relative”, che costituivano la regola. Le testimonianze (testimonia) fornite da terzi, su indicazione delle parti interessate e dietro interrogatorio del giudice, erano il mezzo di prova più debole e meno favorito: non ammissibili nei confronti della prova documentale e delle altre prove e prive di ogni valore, salvi casi eccezionali, quando si riducessero alle dichiarazioni di una persona soltanto (“unus testis nullus testis”). A renderle più credibili non fu praticata la tortura (come invece si faceva nei giudizi criminali nei riguardi degli schiavi), ma fu richiesto un solenne giuramento preventivo. Inoltre, molto dipendeva dal livello sociale e morale dei testes: più attendibili se di ceto elevato (honestiores), meno se di ceto inferiore o infimo (humiliores). C) La sentenza giudiziale (sententia) era pronunciata dal giudice in pubblica udienza, dopo essere stata redatta e “motivata” per iscritto. Con l’andar del tempo fu assai difficile che essa venisse compilata a breve distanza dall’inizio del processo: la durata dei processi si aggirava normalmente, a causa dei rinvii e delle “questioni incidentali” eventualmente da risolvere, intorno ai 3 anni. La condanna, era, nei limiti del possibile, in ipsam rem. Il sistema delle impugnazioni delle sentenze (se impugnabili, come di regola) faceva capo all’appello rivolto per la revisione della sentenza ad un’istanza superiore, nonché ad un eventuale 2°appello contro le sentenze emesse in sede di 1°appello. All’appello si procedeva, dal soccombente o anche dal vincitore non completamente soddisfatto, depositando un ricorso previa notifica alla controparte, presso il giudice a quo (cioè, presso il giudice che aveva emesso la sententia), il quale doveva aver cura di trasmettere l’atto e i fascicoli di causa al giudice superiore, accompagnandoli con una relazione. Davanti al giudice d’appello l’appellante poteva, oltre che rappresentare meglio le proprie ragioni e criticare la 1°sentenza, anche produrre nuove domande, nuove eccezioni, nuove prove (cd. ius novorum); lo stesso valeva per la controparte. Fin che l’appello non era deciso, l’esecuzione della sententia era sospesa. Normalmente, non si ammettevano più di 2 istanze successive, la 2°delle quali al prefetto del pretorio, le cui istanze erano inoppugnabili perché emesse belle veci del principe (vice sacra). Tuttavia, si poteva eccezionalmente ricorrere mediante supplicatio all’imperatore, affinché ingiungesse allo stesso prefetto del pretorio un ultimo riesame del caso. D) Il processo di esecuzione poteva dar luogo ad esecuzione tanto sulla persona, quanto sul patrimonio del soccombente. L’esecuzione personale (ductio) riacquistò una certa convenienza per il creditore man mano che venne a mancare la manodopera schiavile. Tuttavia, il sistema dell’esecuzione patrimoniale fu sempre il più diffuso, anche perché innumerevoli erano gli esenti, per privilegio, da esecuzione personale. L’esecuzione patrimoniale aveva luogo mediante l’apprensione di beni determinati (missio in rem) o mediante l’oppignorazione di un bene a garanzia di una somma da pagarsi dal soccombente. In caso d’insolvenza del debitore, avveniva la missio in bona dei creditori: i beni non erano più venduti in blocco, ma erano alienati col sistema della distractio bonorum (vendita alla spicciolata). E) In periodo postclassico si formarono svariate giurisdizioni e procedure speciali. In particolare, 3. 1. Udienza episcopale (episcopalis audientia) Era la giurisdizione esercitata inappellabilmente dai vescovi nei riguardi dei sacerdoti a loro disciplinarmente sottoposti. Talvolta essa si estendeva 77 anche a materie non religiose, a detrimento della giurisdizione statale. Anche i laici potevano fruire dell’udienza episcopale se ne facevano richiesta. 2. Procedimento su rescritto del principe (per rescriptum) L’attore, dopo aver introdotto il giudizio, inviava il suo libello direttamente all’imperatore con preghiera di esprimere con un rescritto (cioè, con una costituzione specificamente relativa a quel caso) il suo parere sulla questione ivi esposta. Il libellus principis oblatus era restituito all’attore, a cura della cancelleria imperiale, con l’aggiunta del parere richiesto: parere che era però ovviamente subordinato alla condizione che le asserzioni dell’attore fossero fondate sulla verità. Se il rescritto imperiale era favorevole all’attore, e questi pertanto insisteva nel promuovere il processo, il giudice doveva adeguarvisi: sicché l’unico mezzo a disposizione del convenuto per sfuggire alla soccombenza (e per dar modo al giudice di valutare liberamente la controversia) era di dimostrare che l’attore non aveva rappresentato veridicamente la situazione di fatto. 3. Procedure abbreviate del summatim cognoscere (cognizione sommaria, detta anche cognitio de plano) non erano prestabilite secondo schemi fissi, ma si realizzavano in modi vari, tutte le volte in cui l’urgenza suggerisse l’adozione di una decisione senza le pastoie delle forme ordinarie. 80 In 3°luogo, gli schiavi erano, invece, oggetti <<normali>> di rapporti giuridici (e appunto perciò furono inclusi più tardi tra le cose), ma con questa particolarità: di poter essere eventualmente affrancati alla stregua dei liberi sottoposti a mancipio e di diventare per questa via, essendo privi di una famiglia romana di origine a cui far ritorno, non solo liberi, ma anche cittadini e soggetti di diritto privato. In 4°luogo, i discendenti agnatizi (in senso stretto e in senso lato) erano oggetti giuridici <<a titolo temporaneo>>, ma potenzialmente erano soggetti giuridici, perché sarebbero divenuti indipendenti, in un futuro più o meno lontano, allorché il capofamiglia della loro stirpe agnatizia fosse scomparso: essi vennero pertanto contraddistinti anche con il termine di <<liberi>> (o di <<capita>>), cioè di membri in qualche modo più influenti nella vita della comunità. Le premesse di una dissoluzione del mancipium, schema giuridico troppo elementare per ricomprendere realtà sociali ed economiche tanto disparate, furono costituite appunto dalla progressiva diversificazione delle esigenze poste dai suoi oggetti sul piano della realtà sociale ed economica. Al di fuori degli elementi della famiglia ora indicati nessun altro cespite aveva rilevanza per il diritto quiritario. Ogni altro cespite interessava solo l’ancora debole ed approssimativo ordinamento (non giuridico) della città, il cd. <<ordinamento statale>> e costituiva: - oggetto di <<comunanza>> dei cittadini nel loro insieme; - (oppure) oggetto di <<possesso materiale>> (possessio) dei singoli capifamiglia. In comunanza dei cives erano tutti i terreni non assoggettati al mancipio delle famiglie, cioè i terreni che nei cd. tempi storici sarebbero stati poi qualificati come agro pubblico, terra della comunità (ager publicus). In possesso dei singoli patres, cioè in loro disposizione materiale (priva di specifica rilevanza giuridica, ma non certo di consistente rilevanza sociale), erano le <<cose non familiari>> (res non familiares: cose mobili e animalia non mancipi). Ed è ovvio che le cose non mancipi in tanto erano appetite, apprese e custodite dai loro possessori, in quanto costituissero ai loro occhi “ricchezza” in senso economico, cioè mezzi esuberanti rispetto alle strette necessità familiari e perciò utilizzabili per finalità di consumo o di scambio, di maggiore agiatezza e potenza sociale: nella quale ipotesi il termine utilizzato per qualificarle fu tradizionalmente quello di <<pecunia>>. B) Sarebbe azzardato voler precisare minuziosamente il processo storico di transizione dall’assetto tracciato del ius Quiritium al successivo assetto del diritto civile antico (ius civile vetus): è più facile individuare gli “stacchi” tra posizioni estreme, piuttosto che cogliere attendibilmente i vari passaggi tra le posizioni di partenza e quelle di arrivo. In linea approssimativa ed ipotetica, le cose andarono presumibilmente così. Per un verso, la sfera dell’ordinamento giuridico si estese dall’ambito originario della famiglia sino a ricomprendere anche quello della cd. pecunia; per un altro verso, la crescente diversificazione tra gli oggetti di potestà giuridica, in una società che andava facendosi sempre più articolata e complessa, reclamò ed ottenne la progressiva formazione dei <<regimi specifici>>, ciascuno adeguato ad un suo particolare oggetto, e tutti perciò non più immediatamente espressivi di un istituto unitario, ma collegati tra loro solo da residue analogie. Di qui il lento costituirsi, attraverso la mediazione delle leggi più antiche e dell’interpretazione pontificale e laica dei secoli 5 – 4 a.C. (sino al secolo 3 a.C.) di 3 nuclei distinti di rapporti giuridici assoluti: 81  quelli <<familiari>> in senso stretto;  quelli <<parafamiliari>>;  quelli <<dominicali e paradominicali>> (incentrati intorno all’istituto del dominio quiritario, ossia dominium ex iure Quiritium). In ordine al dominio quiritario, cioè derivante (ex) dal diritto quiritario delle origini (dominium ex iure Quiritium), che fu l’istituto centrale dei rapporti dominicali e paradominicali, un esame anche superficiale della sua struttura nei cd. tempi storici porta a rendersi conto della sua natura “composita”. Sono, infatti, ravvisabili in esso le tracce della ‘progressiva’, anche se tutt’altro che perfetta (imperfetta), fusione tra 2 istituti quiritari: quello del mancipio sui cespiti familiari e quello coevo, ma extra giuridico, del possesso (possessio) sui cespiti non familiari. Del mancipium il dominio ereditò soprattutto il carattere di piena, materiale ed effettiva disponibilità (possessio) dell’oggetto da parte del soggetto attivo (dominium ex iure Quiritium). Del possesso extra giuridico il dominio ereditò soprattutto il carattere di rapporto a fondamento economico attinente a res costituenti per il soggetto attivo “ricchezza” immobiliare o mobiliare. Tuttavia, va rimarcato: che il regime specifico delle cose ebbe connotazioni essenzialmente diverse a seconda che si trattasse di cose mancipi (derivanti dalla familia quiritaria) o di cose non mancipi (derivanti dalla pecunia dell’età quiritaria); e che la stessa denominazione unitaria dell’istituto come dominio quiritario (dominium ex iure Quiritium) fu raggiunta con faticosa lentezza solo verso la fine del sec. 2 a.C. Il faticoso processo di formazione del dominio quiritario comportò 2 importanti conseguenze. La 1° fu che il mancipio sugli schiavi, avendo carattere prevalentemente economico, fu attratto entro il dominio e ne divenne una sottospecie, peraltro con peculiari residui del regime onorario, che viene denominata potestà padronale (potestas dominica). La 2° fu che per l’utilizzazione dei fondi (paedia) siti in agro Romano, cioè di quelli costituenti oggetto di mancipio in territorio romano evoluto, si proliferarono le prime e più essenziali schiavitù rustiche (denominate perciò servitutes mancipi): quelle di passaggio a piedi o con animali o su carri (iter, actus, via) o di sistemazione di una condotta d’acqua attraverso un fondo vicino. C) Nell’assetto più evoluto del diritto civile antico, cioè in quello di un diritto consuetudinario opportunamente integrato dagli apporti delle leggi pubbliche, il distacco fra i 3 nuclei dei rapporti assoluti sopra indicati (familiari, parafamiliari, dominicali – paradominicali) si accentuò sino a diventare, entro un contesto sociale ed economico ormai fortemente più complesso di quello delle origini, una netta diversità tra gli stessi. Di pari passo, nell’ambito di ciascun gruppo di rapporti, i singoli istituti si individualizzarono ulteriormente o addirittura si scissero in istituti distinti, in modo da corrispondere ciascuno ad una precisa e ben definita funzione. I rapporti familiari, culminati nella patria potestas del capofamiglia, furono ‘ristretti’ ai membri liberi della familia (principalmente i filii naturali o arrogati, gli ulteriori discendenti, le uxores in manu, nonché le cd. uxores sine manu). La loro disciplina assolse ad un duplice compito: - quello di evitare il più possibile, almeno sino alla morte del pater, il frazionamento del patrimonium familiare (che spettava appunto giuridicamente al pater); - quello di permettere alla familia, caratterizzata dal livello del suo patrimonio, il mantenimento di un rango politico e sociale che un prematuro frazionamento avrebbe potuto notevolmente ridurre. Infatti, la maggiore consistenza di un patrimonio unitario implicava non solo la possibilità di una crescita più rapida attraverso impieghi profittevoli anche di carattere commerciale, ma altresì e 82 soprattutto il diritto del pater e dei filii di sesso maschile ad essere tutti iscritti nei comitia centuriata, ad una classe (di pedites) superiore anziché ad una classe inferiore (e politicamente meno influente). I rapporti parafamiliari, cioè i vari tipi di tutela e di cura, sottostettero ad un regime ‘coerente’ con le ragioni di fondo della disciplina impressa ai rapporti familiari. Dato che venne riconosciuto progressivamente (e non senza forti resistenze, di cui rimasero tracce sino a tutto il periodo classico) che in mancanza di un paterfamilias sovraordinato fossero giuridicamente capaci (sui iuris) anche gli impuberes, le mulieres, i furiosi e altri minorati, il ius civile vetus si sforzò in vari modi di salvaguardare il patrimonium di questi soggetti giuridici, ritenuti peraltro incapaci di agire. In un ambiente sociale, economico e politico in cui l’importanza del cittadino era direttamente proporzionale alla “cifra” del suo patrimonium, si comprende sul piano del realismo ‘come mai’ la protezione degli incapaci d’agire (purché soggetti giuridici) sia giunta con il tempo ad essere addirittura considerata un servizio pubblico, un manus publicum. I rapporti dominicali, divenuti il fulcro e ragione essenziale di una concezione della società chiaramente orientata verso la concentrazione della ricchezza e la prevalenza dei più ricchi sui meno ricchi, videro la loro disciplina articolarsi in maniera conseguenziale e accrescersi in una serie sempre più vasta di rapporti paradominicali, di rapporti assoluti in senso improprio. Il motivo del ‘moltiplicarsi’ dei rapporti assoluti su cose di cui altri avessero il dominium fu, in particolare, quello di conciliare la tendenza alla conservazione della titolarità del dominum ex iure Quiritium con la convenienza di concedere ad altri soggetti giuridici ‘più capaci’ o ‘più disponibili’ l’utilizzazione economica delle res che en costituivano l’oggetto. E’ a quest’ultima direttiva che, in particolare, vanno ricollegati il diffondersi delle applicazioni e l’incremento del numero dei iura praedorium, cioè delle cd. servitù prediali, nonché il sorgere dell’usufructus (usufrutto) e di taluni istituti ad esso affini. D) Il diritto civile nuovo, attinente com’era soprattutto ai rapporti relativi, non influì in modo apprezzabile sull’evoluzione del regime giuridico dei rapporti assoluti. Ma ‘indirettamente’ pesò moltissimo: sia per l’ampliamento degli orizzonti del commercio giuridico che comportò, sia per il forte ridimensionamento di certi valori giuridici tradizionali che conseguentemente implicò. Nel quadro dello ‘sviluppo tropicale’ dei traffici mediterranei, non solo il ius civile novum svelò ai Romani nuovi e più agili modi di impiego profittevole della ricchezza (ad es. attraverso le emptiones et venditiones produttive di obbligazioni o le locationes et conductiones parimenti obbligatorie dei beni), ma li fece altresì consapevoli della possibilità di giungere a posizioni di rilievo economico e sociale seguendo vie diverse da quelle del potenziamento dell’organizzazione familiare, dell’estensione del dominium ex iure Quiritium immobiliare, dello stesso accaparramento della possessio extragiuridica dell’ager publici: seguendo, ad es., le vie delle imprese commerciali di terra e di mare, dell’appalto delle imposte, della cooperazione economica basata sul ricorso alla societas. Ne derivò che, almeno tendenzialmente, il protagonista del ius privatum non fu più visto soltanto nel cittadino paterfamilias (o più in generale sui iuris), ma fu visto anche in chi, pur se alieno iuri subiectus, fosse comunque in grado di provvedere a se stesso, di creare ricchezza con la propria iniziativa, di tradurre la propria attività in danaro ed in merci di scambio. E) L’assetto “classico” degli istituti sopra menzionati corrispose, appunto, alle istanze di una società che non sentiva più l’esigenza imperiosa di una concentrazione della ricchezza nelle familiae, ma puntava decisamente a favorire la piena disponibilità della stessa da parte delle persone che fossero maggiormente capaci di impiegarla nella produzione di altra ricchezza: il che dipese non solo dall’apporto del diritto onorario, ma anche da quello della riflessione giurisprudenziale preclassica e classica, nonché da quello dello stesso diritto nuovo del periodo classico. Anche se lo schema giuridico fondamentale della familia non fu ripudiato, in misura rilevantissima ne fu attuata progressivamente la rigidità:  sia sul piano del riconoscimento della “mera capacità di agire” ai sottoposti (liberi e servi); 85 fatto’ delle facoltà del capofamiglia in ordine a qualche cespite della sua famiglia (per es. la domus, una filia, ecc.) effettuato da un capofamiglia estraneo. Pratica questa ovviamente illecita in via di principio, ma che la coscienza sociale non ebbe difficoltà a ritenere lecita, a titolo di eccezione, nell’ipotesi che si realizzasse pacificamente e onestamente, con il gradimento esplicito o almeno con la tolleranza implicita del titolare del mancipio. In quest’ipotesi, infatti, l’uso altro non era che un espediente pratico per far sì che un capofamiglia estraneo potesse sfruttare ‘temporaneamente’ gli elementi di una famiglia non sua: elementi di cui egli avesse concreto bisogno e di cui il vero titolare non avvertisse, almeno per il momento, l’occorrenza. In ordine all’uso, la coscienza sociale fece, con il procedere dei tempi (in periodo post – quiritario) qualcosa di più. Quando l’uso di un cespite familiare da parte di un estraneo fosse un uso prolungato per un tempo piuttosto esteso, la conclusione che se ne traeva era che il titolare implicitamente rinunciasse al cespite in favore dell’usuraio, e che quest’ultimo ne acquistasse pertanto il mancipio. Furono le 12 Tavole a ‘tagliar corto’ ad ogni dubbio e a fissare la misura del tempo necessario alla realizzazione dell’acquisto: 2 anni per i fondi rustici (fundi) e 1 anno per ogni altro cespite familiare (cioè per le cd. ceterae res). Un sensibile ravvicinamento dei rapporti possessori arcaici (quelli di extragiuridico possesso e quelli di giuridico uso) si verificò nel quadro del diritto civile antico, a causa del processo di formazione del dominio quiritario, avente per oggetto non solo le cose mancipi, ma anche le cose non mancipi. Questo processo storico:  da un lato, portò a una forte riduzione della sfera tradizionale di applicazione del possesso extragiuridico, cui furono sottratte appunto le cose non mancipi;  dall’altro lato, implicò che l’uso giuridico, estesosi alle cose mancipi e a quelle non mancipi, assumesse, accanto alla denominazione sua propria, anche nel linguaggio corrente, la denominazione di possesso a fini di usucapione (possessio ad usucapionem) valevole ai fini dell’acquisto della proprietà mediante usus. Quanto al possesso extragiuridico esso si ridusse sensibilmente, ma tuttavia non scomparve, anzi:  non solo conservò una certa sfera d’applicazione “residua”;  ma addirittura acquistò anche una sfera di applicazione “nuova” e “diversa”. Sfera d’applicazione “residua” della possessio extragiuridica fu costituita dall’ager publicus, dal terreno della comunità statale, quando non fosse in comunanza tra i cittadini e fosse assegnato in “godimento provvisorio” ai singoli patresfamiliarum principalmente come ager occupatorius, concesso dalla repubblica a titolo revocabile (con o senza il pagamento di un canone periodico) oppure (il più delle volte) come ager quaestorius, concesso dai magistrati quaestores in sfruttamento subordinato al pagamento di un corrispettivo ed eventualmente anche di un canone periodico. I concessionari di agri publici a titolo provvisorio furono considerati, almeno nel periodo preclassico, non titolari di un ius in re, ma solo titolari di una possessio (extragiuridica) sugli stessi. Sfera di applicazione del tutto “nuova” della possessio extragiuridica in una visione più evoluta delle realtà sociali, fu costituita dagli stessi oggetti dei rapporti giuridici assoluti, e in particolare dalle res, quando se ne considerasse non il profilo dell’appartenenza giuridica, ma il mero profilo della disponibilità di fatto. Indipendentemente dal problema della sua appartenenza per diritto civile, una res (mancipi o nec mancipi) passò ad essere detta in possessione di un soggetto giuridico allorché questi, fosse o non fosse il dominus ex iure Quiritium, materialmente e pubblicamente ne disponesse da padrone, e dunque avesse l’“apparenza del diritto” caratteristico dello stesso. 86 Sulla base di questi sviluppi e riflessioni si formò finalmente, nel corso del periodo preclassico avanzato e del 1° periodo classico, una concezione organica del possesso: una concezione legata all’ ‘antico’ solo nel nome. Per possesso (possessio), in linea generale, si intese una situazione di potere assoluto di un soggetto giuridico rispetto ad un oggetto: una situazione però di puro “fatto”, non prevista da una normativa giuridica, ma basata sulla mera “apparenza”, cioè sulla disponibilità attuale (e pacifica e pubblica) dell’oggetto da parte del possessore. Chi volesse eliminare a proprio favore questa situazione extragiuridica di potere era tenuto a dimostrare in giudizio di avere un “diritto” all’ottenimento dell’oggetto. Fino a quel momento il possessore non andava molestato: l’uso della forza nei suoi confronti autorizzava la sua reazione violenta, la sottrazione furtiva della cosa mobile da lui posseduta integrava il “delitto” di furto, attentati di altro tipo erano anch’essi più o meno radicalmente repressi. Il che non significava che il possessore fosse il “titolare” di un diritto sull’oggetto: gli mancava infatti un ‘mezzo’ giudiziario ad hoc per la difesa della sua situazione e, inoltre, le altre difese non erano preordinate a garanzia della sua qualifica di possessore, ma erano volte piuttosto a garanzia della pace sociale o a garanzia della sua figura generica di soggetto giuridico (soggetto da non molestare, nella persona o nelle cose, se non con mezzi “giuridici” e per giustificate ragioni. Nel quadro delle ipotesi di possesso in generale, le ipotesi specifiche di possesso a fini di usucapione (possessio ad usucapionem) passarono ad essere contraddistinte dalla giurisprudenza anche con il nome di possesso civile (possessio civilis) e ciò perché derivando dall’antico usus giuridicamente rilevante, rendeva possibile l’acquisto (col decorso del tempo) della titolarità di un diritto assoluto, pienamente riconosciuto dal diritto civile. Tuttavia, affinché l’effetto acquisitivo potesse prodursi, si richiese (a prescindere da altri requisiti concorrenti, tra i quali la “buona fede” del possessore): a. che l’oggetto dell’impossessamento fosse una cosa atta a essere o a divenire oggetto di “dominio quiritario” dell’usucapiente (ad es. un fundus divisus et adsignatus e non un’estensione dell’ager publicus, cioè di terra extracommercium); b. che il possesso fosse fondato su una “circostanza oggettiva” specificatamente ammessa dall’ordinamento civilistico come legittimante l’acquisto del dominio civilistico (iusta causa possessionis). In contrapposto al possesso civile, ogni altra ipotesi di possesso, essendo “inadatta” alla produzione di effetti giuridici, si disse solitamente di possesso naturale (possessio naturalis o corporalis) nel senso di <<possesso esclusivamente di fatto>>. Ma nell’ambito del possesso naturale acquistò progressivamente rilievo una suddistinzione ulteriore tra:  possesso a proprio conto (possessio pro suo) esercitato da un soggetto (non importa se a torto o a ragione) allo scopo evidente di tenere l’oggetto sempre per sé, come proprio, senza cioè ammettere che altri potesse aver diritto su di esso;  possesso per conto di altri (possessio pro alieno o detentio) esercitata invece nell’inequivoco riconoscimento che altri avesse diritto sull’oggetto e potesse richiederne prima o poi la restituzione. Il possesso a proprio conto implicava una rigida volontà di tener sempre la cosa per sé; il possesso per conto di altri implicava una pura e semplice volontà di detenere la cosa come altrui ed era anche denominata usualmente detenzione. La concezione organica del possesso, distinto in possesso civile e possesso naturale (quest’ultimo suddistinto in possesso per se stesso e possesso per altri) fu il risultato di alcuni secoli di interpretazione giurisprudenziale estremamente raffinata. Oltre questo traguardo la giurisprudenza romana non sarebbe potuta andare senza tradire i suoi limiti di scienza interpretativa 87 e non creativa di diritto. Per compiere ulteriori passi in avanti sarebbe stato necessario un intervento legislativo, intervento che per vari motivi mancò quasi del tutto. In considerazione di ciò allora la giurisprudenza fece appello all’intervento dei magistrati giusdicenti, cioè al cd. diritto onorario. 30. IL POSSESSO INTERDITTALE L’esigenza di conferire una qualche ‘tutela giuridica’ anche ai possessori si tradusse nella creazione del cd. possesso interdittale (possessio ad interdicta) operata dal diritto onorario sullo scorcio del periodo preclassico. Non in tutte le ipotesi, ma almeno nelle più numerose ed importanti, i pretori introdussero una serie di interdetti intesi:  alcuni a difendere una situazione precostituita di possesso dagli altrui tentativi di invasione (interdicta retinendae possessionis): <<interdetti per la ritenzione del possesso>>;  altri ad assicurare il recupero di una situazione di possesso violentemente eliminata (interdicta recuperandae possessionis): <<interdetti per il recupero del possesso>>;  altri (infine) a permettere l’acquisto ex novo di una situazione di possesso nei confronti di possessori ritenuti meno meritevoli (interdicta adipiscendae possessionis): <<interdetti per l’ottenimento del possesso>>. In alcuni casi è ‘lecito’ parlare di possesso interdittale, ma bisogna avvertire che questa denominazione (o più brevemente quella di possessio) fu riservata, nel linguaggio corrente dell’età classica, alle sole ipotesi tutelate da 4 caratteristici interdetti a carattere generale. Per questo motivo, raccogliendo uno spunto terminologico fornito dalle fonti romane, si distingue tra: a. possesso interdittale <<normale>> (o possessio in senso proprio); b. possesso interdittale <<anomalo>> (o quasi possessio). a. Le ipotesi di possesso interdittale <<normale>> (cioè, di possessio per antonomasia) furono tutte le possibili ipotesi di possesso per se stesso (possessio pro suo) più 4 fattispecie di possesso per altri (possessio pro alieno):  il possesso del “creditore pignoratizio” sulla cosa ricevuta in pegno;  quello del “sequestratario” sulla cosa ricevuta in sequestro volontario;  quello del “vettigalista” (titolare di un ius in agro vectigali);  quello del “precarista”, cioè di colui che avesse ricevuto una cosa in concessione revocabile a volontà del concedente (in precarium). La gamma di interdetti posta, in linea generale, a tutela della situazione del possessore “normale” fu costituita, più precisamente, da 2 interdetti intesi al mantenimento del possesso (retinendae possessionis) e da 2 interdetti intesi al recupero del possesso (recuperandae possessionis). I 2 interdetti (proibitori) per la ritenzione del possesso vennero usualmente denominati (dalle parole delle iniziali delle rispettive formule): 1) uti possidetis  che proibiva l’uso della forza per sottrarre il possesso di una cosa immobile al suo possessore attuale, ma eccettuava il caso del possesso vitalizio (possessio vitiosa), cioè di un possesso che il possessore attuale avesse ottenuto dall’avversario a solo titolo di precario o gli avesse precedentemente sottratto in modo violento o clandestino. 2) utrubi che proibiva l’uso della forza per attribuirsi il possesso di una cosa mobile nei confronti di chi l’avesse posseduta per la maggior parte dell’anno. Mentre l’interdetto 1) tutelava sempre e in ogni caso il possesso ‘attuale’ (salvo che nei confronti di chi avesse subito spoglio violento o clandestino, o avesse concesso la cosa immobile in precario), l’interdetto 2), vietando di togliere la cosa a chi l’avesse posseduta per maggior tempo (es. 7 mesi) 90 cosa nell’interesse del possessore. In età classica, intermediari dell’acquisto potevano essere i sottoposti del soggetto, probabilmente il procuratore, forse anche qualche altra persona estranea (eccezionalmente). In età postclassico – giustinianea ogni limitazione cadde: si ammise cioè che la possessio si acquistasse anche a chi non ne avesse scienza (cioè, all’ignorans) per mezzi di una qualunque persona libera o per mezzo di un procuratore, pur essendo necessaria in questo caso la posteriore ratifica. Cause di estinzione del possesso erano:  la morte del possessore, salvo che gli subentrassero nel patrimonio heredes sui (ai quali e solo ai quali, la possessio era ritenuta trasmissibile);  il fatto che la cosa, pur senza distruggersi, perdesse la sua individualità e fosse incorporata in un’altra cosa;  il fatto che venisse meno uno degli elementi costitutivi del possesso, vale a dire l’animus oppure il corpus. La regola per cui la conservazione del possesso era condizionata alla coesistenza dell’animus e del corpus subì qualche eccezione. In età classica si ammetteva la cd. possessio animo retenta, cioè la conservazione di un possesso (già precedentemente acquistato) con la semplice volontà di possedere, nel caso dei cd. saltus hiberni et aestivi (pascoli invernali ed estivi, o pascoli stagionali), che era quello dei terreni destinati ai pascoli e perciò utilizzabili solo in determinate stagioni dell’anno, mentre nelle altre stagioni dovevano essere abbandonati dai pastori, che passavano a utilizzare altre zone. Altra ipotesi probabilmente classica di conservazione con la sola volontà fu quella della possessio esercitata sul servus fugitivus (schiavo fuggitivo) e per mezzo del servus fugitivus rimasto in possessione: nel caso cioè che si possedesse (ad interdicta) uno schiavo altrui, si riteneva che non se ne perdesse il possesso qualora lo schiavo si allontanasse in fuga, e si riteneva per conseguenza che le cose di cui lo schiavo in fuga avesse acquistato possesso spettassero al possessore dello schiavo e non al dominus di lui, né tanto meno allo schiavo stesso (che non essendo soggetto giuridico, era incapace di possesso proprio). In diritto giustinianeo i casi di possessio anima redenta furono considerati addirittura casi conformi a regola, ritenendosi ormai che l’animus fosse normalmente sufficiente alla conservazione del possesso purché all’inizio del possesso stesso vi fosse stato anche il corpus. 31. LA COMUNIONE DEI DIRITTI ASSOLUTI Sin dall’età quiritaria si pose all’ordinamento romano il grave problema della contitolarità delle situazioni soggettive, cioè il problema del concorso di più soggetti nella “titolarità” di una situazione soggettiva unica: lo si pose, da un lato, con riguardo al “mancipio” e, dall’altro lato, con riguardo al “possesso extragiuridco”. Le soluzioni adottate furono varie. Le forme più antiche, di derivazione precittadina, furono quelle della <<comunione indifferenziata>>; successivamente, attraverso un tipo particolare di <<comunione solidaristica>> si pervenne, nei cd. tempi storici, alla forma di <<comunione organizzata>>, che fu quella dominante nel sistema del diritti civile antico e in tutti i sistemi giuridici successivi. Il termine indicativo della “contitolarità soggettiva” fu principalmente quello di comunione (communio). Ma la communio romana, essendosi profilata già nell’antichissimo diritto quiritario, quindi anteriormente all’ingresso delle obbligazioni nel mondo del diritto, non fu mai riferita anche alla contitolarità di diritti di credito. L’istituto (e conseguentemente il termine communio) fu, dunque, sempre limitato a 2 sole possibilità:  alla contitolarità di un intero patrimonio; 91  alla contitolarità di singoli diritti assoluti (in senso proprio e in senso improprio), nonché al connesso fenomeno del “compossesso”. Una forma addirittura ‘precittadina’ di comunione indifferenziata fu costituita, nel seno delle famiglie, dalla cd. comunanza domestica. Nei tempi lontanissimi (precittadini, prequiritari) in cui le familiae erano nuclei sociali autonomi (o sovrani), l’autorità del padre, certamente sin da allora assai intenza, non si sostanziava ancora nell’assorbente mancipio di lui (che avrebbe comportato, più tardi, l’esclusione della qualità di soggetti giuridici dei figli): ciò perché ancora non sussisteva l’esigenza di individuare nel quadro di un ordinamento giuridico unitario (il futuro diritto quiritario), la famiglia di lui rispetto alle altre famiglie della città. I membri liberi della famiglia (o almeno quelli immediatamente agnati rispetto al padre) erano, dunque, in quell’età, partecipi, a titolo di comunione indifferenziata, delle cose familiari e di tutti i beni di comune consumo. Costituitasi la città quiritaria e formatosi il relativo diritto, l’istituto del mancipio non comportò, in linea di principio, problemi di contitolarità, perché il mancipio spettava ‘per definizione’ ad 1 solo soggetto, il capofamiglia. Problemi di contitolarità comportò, invece, il possesso extragiuridico, soprattutto in ordine alle terre indivise e non assegnate in utilizzazione esclusiva a singoli capifamiglia. Tali terre costituivano generalmente oggetto di comunanza gentilizia e solo alquanto più tardi passarono ad essere considerate come comuni a tutta la città. Per meglio chiarire il fatto rudimentale della comunanza gentilizia delle terre cittadine, occorre ricordare che ai 1°rdi della vita della città avevano ancora una notevole importanza pratica le gentes, ciascuna delle quali raggruppava un certo numero di familiae. Gli agri della comunità (quelli non costituenti oggetto di mancipium, né concessi eccezionalmente in possessio temporanea a singoli cives) erano naturalmente spartiti tra le gentes ai fini di uno sfruttamento estensivo (particolarmente, per la pastorizia); nell’ambito di queste “riserve” della loro gens, le familiae esercitavano, a quanto pare, una piena comunanza di godimento, senza neanche l’ombra di una riparazione del territorio fra esse. Non prima del sec. 6 a.C. ebbero inizio le divisioni e assegnazioni a titolo di mancipium di parti degli agri cittadini ai singoli patres familiarum: e questo fenomeno, unito alla rapida decadenza delle gentes, determinò la fine delle comunanze gentilizie di godimento. D’altro lato, le vaste estensioni di territorio non assegnate o non ancora assegnate in mancipium ai privati passarono ad essere concepite come l’oggetto di una comunanza di godimento a raggio assai più ampio e indifferenziato: la comunanza di godimento di tutto quanto il popolus Romanus Quiritium. Ma appunto per ciò esse finirono per essere ritenute estranee all’ordinamento giuridico tradizionale (il ius civile Romanorum) e rientranti, come terreno pubblico, come ager publicus nella sfera dell’ordinamento statale estraneo al ius privatum. Nell’esperienza giuridica romana il passaggio dalla comunione “indifferenziata” a quella “organizzata” fu mediato dall’istituto, ancora in parte misterioso e discusso, del consorzio non chiamato a divisione, cioè con patrimonio non diviso (consortium ercto non cito): istituto che altro non era, dal punto di vista strutturale, se non un’esplicazione del tipo della comunione solidaristica, nel senso che ciascun capofamiglia consorziato aveva diritto (e oneri relativi) su tutto (più o meno) alla stessa guisa di quel che si sarebbe registrato più tardi nell’ipotesi della solidarietà obbligatoria attiva. I tipi di consortium attestati dalle fonti sono 2: 1. il consorzio fraterno, che era precisamente consorzio dei fratelli succeduti ereditariamente al padre morto; 2. il consorzio imitativo, che era più precisamente un consorzio tra estranei costituito ad imitazione del consorzio fraterno. 92 Il consorzio fraterno si istituiva per natura di cose sul patrimonio ereditario tra i discendenti del capofamiglia defunto (i sui heredes) dal momento della morte di lui sino a quando non fosse stata provocata la divisione del compendio ereditario stesso; il consorzio imitativo si istituiva convenzionalmente, mediante l’esercizio di una speciale azione di legge (probabilmente una in iure cessio) tra coloro che volessero per qualunque motivo mettere insieme un complesso patrimoniale comune. Mentre del consorzio imitativo sono evidenti, innegabili le affinità con l’istituto della “società” affermatosi più tardi nel seno del diritto civile moderno, assai dubbia è la rapportabilità alla società del consorzio fraterno, cioè della figura originaria. Caratteristica del consorzio era che ogni consorte aveva un “diritto integrale” sul patrimonio consortile: con facoltà, dunque, non soltanto di godere tutte quante le cose comuni, ma anche di disporre personalmente delle stesse con effetto vincolante per tutti gli altri consorti. Ma è ovvio che gli altri consorti, essendo titolari di un “identico” diritto su tutto il patrimonio, difficilmente si adattassero a subire le iniziative unilaterali di un loro concorrente: è pensabile quindi che essi potessero bloccarle con un’esplicita “opposizione” (prohibitio) e che in tanto 1 dei consorti riuscisse ad agire indisturbato in luogo di tutti gli altri, in quanto costoro si fossero preventivamente messi d’accordo con lui circa i criteri della sua gestione. Quanto agli oggetti del consorzio fraterno, occorre specificare che essi probabilmente non includevano i discendenti liberi (filii e mulieres in manu) dei singoli fratelli, ma erano limitati ai cespiti economici in attesa di divisione fra tutti gli eredi: schiavi, animali, fondo, attrezzi, ecc. Non si può pensare minimante che il consortium ercto non cito sia sempre rimasto nello stato in cui ce lo descrive in maniera schematica il giurista Gaio. Già per il consorzio imitativo è dubbio che le parti abbiano mai omesso di regolare, agli “effetti interni”, i poteri di disposizione illimitata spettante a ciascuna di esse. E’ plausibile che anche nel prototipo del consorzio fraterno si sia assai per tempo pervenuti ad un ‘superamento’ del sistema costituito dal potere di disposizione ed al contrapposto ius prohibendi di ciascun consorte: sia pure agli “effetti interni”, anche i fratres non poterono fare a meno di accordarsi sull’elezione di 1 di loro (eventualmente il più anziano) ad amministratore unico del patrimonio ereditario. Senonché era sempre possibile che, di fronte ai terzi, 1 dei consorti, pur non essendo l’amministratore dei beni comuni, si facesse avanti a disporre delle cose a suo arbitrio (per es. per alienarle ad un extraneus) prima che gli altri potessero correre ai ripari con la prohibitio: difficoltà questa, che non compensava sufficientemente il vantaggio costituito dalla “concentrazione” dei capitali spettanti ai singoli consorti. Ecco probabilmente perché l’istituto del consortium (non solo come consorzio fraterno, ma anche come consorzio imitativo) decadde piuttosto rapidamente nell’ambiente del diritto preclassico e al suo posto si preferì utilizzare: o l’istituto della società oppure quello della comunione organizzata. La comunione organizzata (cd. communio iuris Romani) divenne, ad opera della giurisprudenza preclassica e classica, la soluzione caratteristicamente romana della contitolarità dei diritti assoluti su una cosa o su tutto un patrimonio. A differenza del consorzio, essa si conformò pienamente al ‘presupposto logico’ che 2 o più rapporti restano sempre distinti tra loro se, pur coincidendo in tutto il resto (e in particolare nell’oggetto) non coincidono nei soggetti attivi. A ciascun comunista, infatti la giurisprudenza riconobbe non più 1 diritto “esclusivo”, ma un diritto pari a quello degli altri (e con esso concorrente) in odine all’oggetto comune: un diritto parziario, limitato cioè ad una parte ideale del tutto. Con riguardo al dominio, cioè al caso ‘statisticamente più importante’ di comunione (il caso del “condominio”, anche se i Romani non lo denominarono così esplicitamente), le fonti affermano che sulla stessa cosa non è ammesso un dominio per l’intero (in solidum) di 2 o più persone: il che significa, in ordine alla cosa comune, l’esclusione della cd. <<proprietà unica integrale>> di ciascun condominio e l’implicazione che ciascun condomino era solo domino parziale della cosa e che a lui 95 96 CAPITOLO 6 “I RAPPORTI ASSOLUTI FAMILIARI” 33. I RAPPORTI ASSOLUTI FAMILIARI Rapporti assoluti familiari tutti derivati (più o meno direttamente) dal mancipio quiritario del periodo arcaico furono, a partire dal periodo preclassico, quelli che dettero luogo alle seguenti situazioni attive:  patria potestas (potestà paterna)  potestas sui liberi in mancipio (potestà sui liberi sottoposti a mancipio)  manus maritalis (mano maritale)  autorità maritale Il regime di questi istituti variò essenzialmente a causa della diversità dei rispettivi oggetti, i quali appartennero rispettivamente a 4 categorie ben distinte di persone libere: 1. i filii e nepotes adgnati 2. i liberi non adgnati 3. le mulieres in manu 4. le uxores in matrimonio La storia dei 4 rapporti giuridici ora indicati, nel passaggio dall’età preclassica a quella postclassica, fu una storia di progressiva decadenza e involuzione, correlata alla sempre più accentuata decadenza della famiglie potestative. In periodo postclassico la potestas sui liberi in mancipio e la manus erano del tutto scomparse, mentre assai mitigate (e in parte alterate) si presentavano la patria potestas e la stessa autorità maritale. Il miglior modo per rendersi conto di questo processo di trasformazione e delle sue ragioni di fondo è:  di descrivere prima in un quadro d’insieme la vicenda dei 4 istituti;  di passare poi ad un esame più dettagliato del rapporto più importante di tutti, ossia la patria potestas;  di fermarsi, infine, sul fatto giuridico ‘centrale’ di tutto il sistema dei rapporti familiari, il matrimonium. La potestà paterna (patria potestas) in senso stretto era la potestà spettante al capofamiglia (paterfamilias) maschio sulle persone che fossero a lui legate da discendenza agnatizia (filii familias). Essa si configurava, cioè, come la “situazione attiva” di un rapporto giuridico assoluto intercorrente tra il capofamiglia e altri soggetti dell’ordinamento, i quali erano tutti tenuti al rispetto dei suoi poteri familiari sui figli e sugli ulteriori discendenti. La derivazione dell’istituto dal rudimentale “mancipio” quiritario indifferenziato si rivela chiaramente all’esame di quelle che erano le caratteristiche facoltà del capofamiglia in ordine ai discendenti (facoltà divenute nel tempo più teoriche che pratiche): a) il ius vitae ac necis b) il ius noxae dandi c) il ius vendendi d) il ius expondendi a) Il diritto di vita e di morte (ius vitae ac necis) era, indubbiamente, la facoltà di tutte più dura: il capofamiglia aveva, infatti, la possibilità di uccidere, se lo ritenesse opportuno o necessario, i suoi figli. Tuttavia, sin dai più antichi tempi il sentimento religioso e la coscienza sociale limitarono in concreto l’esercizio di questo potere. In età preclassica l’abuso di esso fu colpito da “deplorazione” dei censori in sede di censimento (nota censoria) e in età classica la giurisprudenza ritenne che il 97 figlio non potesse venire ucciso senza che il padre ne avesse prima udite le giustificazioni; anzi, i principi arrivarono sino al punto di infliggere (extra ordinem) la pena della deportazione con confisca dei beni (deportatio in insulam) a chi comunque avesse ucciso il proprio figlio. Ma furono reazioni sporadiche. Solo in periodo postclassico, per influenza della religione cristiana, l’istituto venne dapprima fortemente compresso e poi praticamente abolito. Costantino, agli inizi del sec. 4, punì come ‘reato’ di omicidio l’uccisione volontaria del filius familiae. b) Il diritto di dare a castigo (ius noxae dandi) era la facoltà del capofamiglia di effettuare l’abbandono riparatore (noxae deditio) al soggetto giuridico estraneo che fosse stato offeso dal figlio (oltre che da ogni altro sottoposto: liber in mancipio, mulier in manu, servus) mediante la commissione di un illecito privato (delictum). Il capofamiglia dell’offensore, rinunciando alla potestà del suo sottoposto, lasciva alla vittima (o al pater della vittima) il diritto di castigarlo nella misura (anche estrema) che gli paresse più congrua e respingeva pertanto da sé ogni responsabilità per l’illecito commesso. Anche questa facoltà del capofamiglia decadde però in età postclassica e fu abolita da Giustiniano. c) Il diritto di alienare (ius vendendi) era la facoltà del capo di alienare il sottoposto (mediante mancipatio) ad un altro capofamiglia, il quale lo acquistava come libero in mancipio. L’acquirente poteva a sua volta alienare il sottoposto a terzi oppure poteva affrancarlo (mediante manumissio): nel caso di affrancazione (sia da parte dell’acquirente sia da parte del subacquirente), il figlio non acquistava la soggettività giuridica, ma tornava a soggiacere alla patria potestà del capofamiglia. La scandalosa frequenza con cui i capifamiglia del 5 sec. a.C. non solo vendevano i loro figli in caso di bisogno, ma tornavano a venderli dopo averli acquistati in proprietà, portò le 12 Tavole a stabilire che, quando un figlio fosse stato alienato dal padre 3 volte, il figlio fosse definitivamente liberato dalla patria potestà: per conseguenza, se il 3° acquirente lo affrancava, egli diveniva soggetto giuridico (= sui iuris). In età classica l’alienazione dei figli era divenuta comunque del tutto desueta anche perché vivamente avversata dal costume sociale. Viceversa in età postclassica, a partire dal 4 sec. d.C., le disagiate condizioni economiche dei tempi dettero in certo modo nuova vita all’istituto, perché si diffuse la squallida usanza della vendita a terzi dei figli appena nati (che altrimenti sarebbero stati esposti). d) Il diritto di esposizione (il ius expondendi) era la facoltà del capofamiglia di esporre in luogo pubblico i figli neonati, abbandonandoli al destino di morire di fame oppure di essere raccolti e allevati da un altro soggetto giuridico (il cd. nutritor) come libero in mancipio. In periodo postclassico si affermò peraltro il principio che l’abbandono del figlio implicasse la totale perdita della patria potestas. La potestà sui liberi subordinati a mancipio (liberi in mancipio) era la “situazione attiva” di un rapporto assoluto intermedio tra la patria potestà e la potestà dominicale sugli schiavi. Il libero subordinato a mancipio (liber in mancipio) era un cittadino libero (aveva la civitas libertasque), ma era in luogo di uno schiavo (servi loco) rispetto all’avente potestà, dal quale forse non poteva essere ucciso, ma poteva essere dato a nossa o alienato a terzi. Non essendo agnato di costui, egli probabilmente non acquistava, alla sua morte (o capitis deminutio) l’autonomia familiare, sicchè passava alle dipendenze del successore. Se affrancato (manumissus) tornava ad essere soggetto giuridico a pieno titolo (nell’ipotesi in cui già lo fosse stato prima della sottoposizione a mancipio) oppure (nell’ipotesi che fosse stato precedentemente sottoposto a potestà familiare, cioè alieni iuris) tornava sotto la potestà del padre originario (a meno che questi non fosse stato alienato 3 volte e che diventasse sui iuris a titolo di emancipazione). L’ipotesi prevalente (se non addirittura esclusiva) dei liberi in mancipio si verificava quando i filii familiarum o le mulieres in manu venissero dal loro pater (il titolare della patria potestas o della manus) mancipati ad un altro pater familias, in esplicazione del ius vendendi. Oltre che allo scopo di effettuare una reale alienazione (a titolo oneroso o gratuito) del sottoposto, la mancipatio filii era spesso operata dal pater familias al fine di impostare i procedimenti dell’emancipatio e dell’adoptio.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved