Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Contratti di lavoro: prestatore debole e squilibrio contrattuale, Appunti di Diritto del Lavoro

Diritto del lavoroCategorie di lavoratoriLavoro notturnoDoveri del datore di lavoroContratti Di Lavoro

Sulla debolezza contrattuale del prestatore di lavoro rispetto al datore di lavoro e sul squilibrio delle posizioni contrattuali nei contratti di lavoro subordinato. Esplora i doveri del datore di lavoro, le categorie di lavoratori, le modifiche unilaterali e il lavoro notturno. Inoltre, presenta la legislazione italiana e la sentenza della Corte Costituzionale n. 103 del 1989.

Cosa imparerai

  • Che cos'è il lavoro notturno e quali sono i diritti del lavoratore in questo contesto?
  • Quali sono i doveri del datore di lavoro in un contratto di lavoro?
  • Che cosa significa la debolezza contrattuale del prestatore di lavoro?
  • Quali sono le categorie di lavoratori distinte secondo il codice civile?
  • Quali sono le condizioni per cui il datore di lavoro può impiegare un lavoratore in mansioni diverse?

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 03/11/2021

Steph95
Steph95 🇮🇹

5

(2)

6 documenti

1 / 72

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Contratti di lavoro: prestatore debole e squilibrio contrattuale e più Appunti in PDF di Diritto del Lavoro solo su Docsity! Corso di Laurea in Economia Aziendale Insegnamento di “Diritto del lavoro” Prof. Mario Cerbone Materiale didattico* *predisposto con la collaborazione della dottoressa Leonia Severino INDICE st * IL RAPPORTO DI "LAVORO SUBORDINATO” % DILIGENZA, OBBEDIENZA E FEDELTÀ st * st * I POTERI DEL DATORE DI LAVORO st * I DOVERI DEL DATORE DI LAVORO st * LA RETRIBUZIONE st * LE MANSIONI st * LUOGO DELLA PRESTAZIONE DI LAVORO st * DURATA DELLA PRESTAZIONE DI LAVORO. st * LA CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO - LICENZIAMENTI INDIVIDUALI E COLLETTIVI onnicomprensiva di subordinazione ha favorito una maggiore attenzione da parte della dottrina alle operazioni di qualificazione effettuate dalla giurisprudenza. Per quanto concerne tali operazioni, la giurisprudenza ha enucleato una serie di indici della subordinazione. Trovandosi di fronte ad un rapporto di lavoro, essa procede ad un raffronto i cui termini di paragone sono costituiti, da un lato, dalle caratteristiche dello specifico rapporto e, dall'altro, dalle caratteristiche del modello di rapporto contraddistinto dalla totalità degli indici rivelatori della situazione di subordinazione. Quanto agli indici della subordinazione, come elaborati dalla giurisprudenza, questi si distinguono in “essenziali” e “residuali”. Gli indici "essenziali" sono: subordinazione tout court, etero-determinazione, assoggettamento del lavoratore al potere di controllo e disciplinare del datore di lavoro e inserimento del lavoratore nell'impresa. Gli indici “residuali", invece, sono: continuità giuridica o materiale, retribuzione a tempo, vincolo di orario, assenza di rischio per il lavoratore, oggetto della prestazione (ovvero obbligazione di mezzi e non di risultato), dipendenza da un solo datore, mancanza di organizzazione in capo al lavoratore e garanzia della retribuzione (non aleatorietà). In definitiva, la riconduzione dello specifico rapporto da qualificare alla fattispecie tipica - quella di cui all'art. 2094 c.c. - viene affidata all'apprezzamento di una serie di indici, variabili e variamente combinabili fra di loro. Dunque, si è in presenza di un giudizio di fatto largamente discrezionale. AI riguardo, la Cassazione ha affermato che, in sede di legittimità, è censurabile solo l'individuazione degli indici della subordinazione, ma non anche la valutazione delle circostanze di fatto che hanno portato il giudice a ritenere oppure ad escludere l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. La rilevanza della qualificazione operata dalle parti e le presunzioni giurisprudenziali Le difficoltà di qualificazione del rapporto di lavoro hanno favorito l'assunzione, tra gli indici giurisprudenziali residuali, del c.d. nomen iuris ovvero della qualificazione che le stesse parti hanno eventualmente attribuito al rapporto stesso: si fa riferimento alla qualificazione che le stesse parti del contratto di lavoro (lavoratore e datore di lavoro) decidono liberamente di formalizzare. Che peso ha tale qualificazione operata dalle parti? Può considerarsi risolutiva ai fini del problema qualificatorio? In tutti gli altri contratti del diritto civile la risposta è sicuramente affermativa. Per il contratto di lavoro subordinato, invece, si pone il problema dello strutturale squilibrio delle posizioni contrattuali dei due contraenti (il lavoratore e il datore di lavoro), uno squilibrio che è tutto a favore del datore di lavoro e a svantaggio del prestatore di lavoro (definito “contraente debole"). Se quindi si ritenesse di riconoscere valore assorbente, ai fini della qualificazione, al criterio del “nomen iuris”, nei fatti, si affiderà al datore di lavoro il potere di “imporre” all'altra parte (il lavoratore) la qualificazione che meglio gli aggrada. Sul tema, fermo restando il principio della prevalenza dello svolgimento effettivo del rapporto di lavoro sulla volontà cartolare espressa dalle parti, la Cassazione propone qualche apertura al criterio del nomen iuris, affermando che, ai fini della qualificazione, deve guardarsi anche alla volontà delle parti, nel senso che se le parti hanno dichiarato di voler escludere l'elemento della subordinazione, non è possibile, soprattutto se vi è la presenza di elementi compatibili sia con l'uno che con l'altro tipo di rapporto, qualificare diversamente il rapporto, salvo che non si dimostri che l'elemento della subordinazione si sia concretamente realizzato nello svolgimento del rapporto medesimo. Assumere il “nomen iuris” nel novero degli indici utilizzabili non si traduce comunque nella negazione della tassatività della "fattispecie tipica" di cui all'art. 2094 c.c. Infatti, a siffatto indice può farsi ricorso solo sussidiariamente, ovvero quando la volontà cartolare non risulti contraddetta dalle modalità di effettivo svolgimento del rapporto, che sono sempre destinate a prevalere in sede di qualificazione. Area della “parasubordinazione” e lavoro autonomo Non sempre, nella realtà lavorativa, le prestazioni di lavoro - di cui si chiede la qualificazione - si presentano tali da essere inquadrate in maniera “secca” nella categoria del lavoro subordinato (art. 2094 cod. civ.) 0, in alternativa, in quella del lavoro autonomo, disciplinato dall'art. 2222 cod. civ.! 1 L*art. 2222 cod. civ. è speculare all’art. 2094 cod. civ. e, purtuttavia, non contiene una nozione di lavoro autonomo: la nozione si ricava “in negativo” (per sottrazione) rispetto a quella del lavoro subordinato di cui 6 La realtà lavorativa è ben più complessa e frastagliata e sovente propone tipologie di rapporti di lavoro che, nei fatti, contengono elementi della subordinazione misti ad elementi dell'autonomia, che negano pertanto questi ultimi. In conseguenza, risulta davvero difficile operare una qualificazione giuridica. Ebbene, come ci si deve regolare in questi casi, sempre più frequenti nell'economia di oggi? Si pensi al caso del pony-express o all'agente di commercio: siamo innanzi a lavoratori autonomi o subordinati? Per questi motivi, tra l'"autonomia” e la “subordinazione” la dottrina ha collocato la c.d. parasubordinazione, un'area dai confini ambigui, che solo dagli anni ‘70 ha potuto vantare l'appoggio di alcuni fondamenti normativi, dei quali il più importante è costituito dalla |. 533/1973, di riforma del processo del lavoro. Tale legge, nel novellare l'art. 409 c.p.c. - una norma quindi che riguarda la cognizione del giudice del lavoro - ha ricompreso, tra le materie sottoposte alla cognizione del Giudice del lavoro, anche le controversie relative a rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d'opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato. Da questa definizione è poi germinata la fattispecie della "collaborazione coordinata e continuativa”, la quale è dotata di un'autonoma fisionomia grazie ai ripetuti interventi legislativi che, sul piano fiscale e previdenziale, ne hanno progressivamente arricchito la disciplina. Gli elementi strutturali del lavoro parasubordinato, tecnicamente da qualificare quale lavoro reso “senza vincolo di subordinazione”, sono: - Continuità (non occasionalità) della prestazione lavorativa resa a favore del committente; - Coordinazione tra l'attività del “collaboratore” e il committente. all’art. 2094 cod. civ. Si è presenza di lavoro autonomo, ovvero di un contratto d’opera, quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente. 7 Sia l'obbligo di non concorrenza, sia l'obbligo di riservatezza sono obblighi di contenuto negativo (ovvero obblighi di "non fare") finalizzati alla tutela dell'interesse del datore alla capacità di concorrenza dell'impresa e alla sua posizione di mercato. Prima di analizzare specificamente gli obblighi di non concorrenza e di riservatezza, occorre sottolineare come controversa risulti la possibilità di estendere il contenuto dell'art. 2105 cod. civ., al fine di ricomprendervi comportamenti ulteriori rispetto a quelli specificati. AI riguardo: mentre la dottrina prevalente è restia ad ammettere generiche estensioni, la giurisprudenza ritiene che gli obblighi di non concorrenza e riservatezza sarebbero solo un richiamo esemplificativo di tutti quei comportamenti ulteriori che, per la loro natura e le loro conseguenze, contrastano con le finalità e gli interessi dell'impresa. Detto questo, analizziamo gli obblighi di cui all'art. 2105 cod. civ. L'obbligo di non concorrenza implica l'astensione del lavoratore da ogni attività in concorrenza che può essere esercitata tanto per conto proprio, quanto per conto di terzi. In ragione del suo fondamento contrattuale, l'obbligo di non concorrenza vige soltanto per la durata del rapporto di lavoro. In caso di violazione, l'azienda può ripetere i compensi già erogati e chiedere il risarcimento dei danni provocati dal lavoratore. Inoltre, al fine di rafforzare l'intensità del vincolo, è possibile inserire nel contratto una clausola che preveda una penale da pagare in caso di inadempimento. Qualora voglia estendersi l'obbligo di non concorrenza oltre la durata del rapporto di lavoro è necessario venga inserito nel contratto il c.d. patto di non concorrenza. Al riguardo, l'art. 2125 cod. civ. stabilisce i requisiti essenziali di tale patto, ovvero: - durata massima (3 anni in generale, 5 per i dirigenti), - forma scritta ad substantiam, - delimitazione del luogo e dell'oggetto del vincolo, - previsione di corrispettivo a compenso della ridotta possibilità del lavoratore di utilizzare le proprie capacità professionali. In caso di violazione del patto di non concorrenza, il datore può richiedere il risarcimento dei danni e l'emanazione di un provvedimento giudiziale che ordini al lavoratore la cessazione dell'attività concorrenziale illegittima. L'obbligo di riservatezza ha ad oggetto tutte le informazioni di carattere organizzativo e produttivo, da intendersi in senso ampio, ovvero con riferimento a 10 tutte le informazioni di carattere tecnico e a tutte le informazioni di contenuto commerciale, amministrativo e economico-finanziario. L'obbligo al segreto riguarda: - le informazioni apprese dal dipendente in ragione dello svolgimento delle proprie mansioni e - le informazioni apprese dal dipendente in occasione del suo inserimento nell'impresa. Dato il suo fondamento contrattuale, l'obbligo di riservatezza si estingue con il risolversi del contratto di lavoro, fatto salvo il patto di cui innanzi. Le invenzioni del lavoratore L'attività del lavoratore che si traduca nell'invenzione di procedimenti lavorativi, di prodotti o simili riceve una specifica disciplina. Norma di riferimento è l'art. 2590 cod. civ., il quale attribuisce al lavoratore il diritto ad essere riconosciuto autore dell'invenzione industriale realizzata nello svolgimento del rapporto di lavoro, rinviando alle leggi speciali la disciplina degli aspetti patrimoniali. Tale disciplina distingue tre tipi di invenzione: - l'invenzione c.d. di servizio, ovvero l'ipotesi in cui l'attività inventiva è l'attività dedotta nel contratto, - l'invenzione c.d. aziendale, ovvero l'ipotesi in cui l'invenzione è svolta nell'esecuzione e nell'adempimento del contratto, ovvero l'ipotesi in cui l'invenzione è attuata in orario di lavoro, utilizzando le occasioni e le possibilità offerte dalla propria posizione nell'impresa e, infine, - l'invenzione c.d. occasionale, ovvero l'ipotesi in cui l'invenzione rientra nell'ambito dell'attività dell'impresa, ma è realizzata indipendentemente dal rapporto, fuori dall'orario di rapporto e con mezzi propri del lavoratore. In caso di invenzione di servizio, i diritti patrimoniali appartengono al datore di lavoro e al lavoratore spetta solo il diritto di essere riconosciuto autore dell'invenzione, senza alcun compenso aggiuntivo. In caso di invenzione aziendale, i diritti patrimoniali appartengono al datore di lavoro e al lavoratore spettano il diritto di essere riconosciuto autore dell'invenzione e un equo premio (a condizione, però, che il datore di lavoro ottenga il brevetto sull'invenzione o la utilizzi in regime di segretezza industriale). In caso di invenzione occasionale, i diritti patrimoniali appartengono al lavoratore, ma il datore di lavoro ha il diritto di prelazione per l'uso o per l'acquisto del brevetto. 11 I POTERI DEL DATORE DI LAVORO La configurazione tradizionale del rapporto di lavoro attribuisce al datore di lavoro una posizione attiva, di iniziativa o di preminenza, e al lavoratore una posizione passiva, di soggezione. In capo al datore di lavoro, dunque, sono posti una serie di poteri. Quando parliamo di poteri del datore di lavoro facciamo riferimento a: - il potere direttivo/gerarchico-organizzativo, - il potere di controllo/vigilanza e - il potere sanzionatorio/disciplinare. Il potere direttivo/gerarchico-organizzativo è è potere giuridico fondamentale del datore di lavoro, finalizzato alla conformazione della prestazione lavorativa rispetto agli assetti complessivi dell'organizzazione produttiva. Si tratta dell'insieme dei poteri datoriali funzionali a garantire l'esecuzione e la disciplina del lavoro in vista degli interessi sottesi al rapporto di lavoro subordinato. Norme di riferimento sono gli artt. 2086, 2094 e 2104, comma II, cod. civ. In particolare: - l'art. 2086, rubricato “direzione e gerarchia nell'impresa", sancisce che “l'imprenditore è il capo dell'impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori”, - l'art. 2094, rubricato “prestatore di lavoro subordinato", sancisce che “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore” e, infine, - l'art. 2104, rubricato “diligenza del prestatore di lavoro", al comma II sancisce che “il prestatore di lavoro deve osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende". Sulla base degli articoli anzi richiamati è chiaro che, in forza del potere direttivo, il datore di lavoro detta le disposizioni per l'esecuzione del lavoro e dirige il lavoratore subordinato. Anche in questo caso, l'ordinamento pone delle limitazioni al potere, onde evitare sconfinamenti dell'esercizio, che arrechino danno alla persona del lavoratore. In origine, l'esercizio del potere direttivo incontrava quali unici limiti quelli posti dal codice civile, ovvero i limiti generali di correttezza e di buona fede. 12 al lavoratore adeguata informazione delle modalità d'uso e dei controlli, nel rispetto della disciplina della privacy (d.lgs. 196/2003). e Accertamenti sanitari (art. 5) la norma stabilisce che sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente. Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti (INAIL, per gli infortuni; ASL/INPS, per le malattie), i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda. Il datore di lavoro ha la facoltà di far controllare la idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico. e Visite personali di controllo dei lavoratori: l'art.6 vieta, in linea di principio, le perquisizioni personali, che devono essere strettamente limitate alle situazioni in cui esse risultino indispensabili per la tutela del patrimonio aziendale, in relazione alla qualità degli strumenti di lavoro o delle materie prime o dei prodotti. In tali casi, a tutela della dignità del lavoratore, tali visite potranno essere eseguite solo all'uscita dai luoghi di lavoro, con la salvaguardia della dignità e della riservatezza e con l'applicazione di sistemi di selezione automatica riferiti alla collettività o a gruppi di lavoratori. Le ipotesi nelle quali possono essere disposte le visite personali, nonché, ferme restando le condizioni di cui al comma 2 dell'art. 6, le relative modalità devono essere concordate dal datore di lavoro con le Rappresentanze sindacali in azienda o, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l'Ispettorato del Lavoro. e Divieto di indagini sulle opinioni (art.8): è fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell'assunzione, o nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore. Quanto, infine, al trattamento dei dati personali: prima a norma della L. 675/1996 e ora del Codice Privacy (D.lgs. 196/2003) è stabilito che bisogna garantire che tale trattamento si svolga nel rispetto dei diritti fondamentali e della dignità delle persone, avendo particolare riguardo alla riservatezza e all'identità personale. Sono dunque destinatari della disciplina limitativa tutti i soggetti che, a vario titolo, detengono una banca dati, ossia un complesso di dati personali. 15 La legge ha inoltre istituito la figura del "Garante per la protezione dei dati personali", un'autorità amministrativa indipendente che svolge funzioni di vigilanza e ha poteri sanzionatori. Gli interessati hanno il diritto di essere informati, preventivamente o successivamente, attraverso il diritto di accesso, in ordine alle modalità e finalità del trattamento dei dati, alla loro natura, al luogo in cui sono custoditi e all'ambito di diffusione dei medesimi; hanno altresì il diritto di rettifica e quello di cancellazione dei dati trattati illegittimamente. Una tutela più forte è inoltre stabilita per i “dati sensibili" ossia quelli idonei a rilevare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche, politiche, sindacali di altro genere, nonché dati riguardanti la salute e la vita sessuale: il trattamento di tali dati deve essere consentito dall'interessato e autorizzato dal Garante, cui i titolari delle banche dati devono comunicare tutte le informazioni necessarie. Il complessivo apparato di tutela è estensibile anche alle banche dati aziendali tenute dai datori. L'esenzione del datore di lavoro dalla richiesta del consenso del lavoratore è legittima in quanto si muova nella logica della funzionalizzazione dell'adempimento agli obblighi contrattuali, secondo le linee segnate dall'art.8, ma il lavoratore potrà sempre pretendere che i dati che lo riguardano, in possesso del datore, siano oggetto di un trattamento rispettoso dei limiti imposti dalla normativa generale, e potrà far valere i suoi diritti individualmente o tramite il sindacato. Il potere sanzionatorio/disciplinare + è il potere del datore di lavoro di irrogare sanzioni disciplinari al lavoratore in ipotesi di inadempimento degli obblighi contrattuali. Norme di riferimento sono gli artt. 2106 c.c. e 7 dello Statuto dei lavoratori, i quali individuano quelli che sono i presupposti del potere in questione. In ordine a tali presupposti, occorre distinguere tra: - requisiti sostanziali, ex art. 2106 c.c., e - requisiti procedimentali, ex art. 7 dello Statuto. Quanto all'art. 2106 c.c., questo sancisce che l'inosservanza, da parte del prestatore di lavoro, degli obblighi previsti negli artt. 2104 e 2105 c.c. può dar luogo all'applicazione di sanzioni disciplinari, in base alla gravità dell'infrazione. 16 Sulla base di quanto detto è chiaro che presupposti sostanziali del potere disciplinare sono: - la sussistenza del fatto addebitato (al riguardo, ricordiamo che spetta al datore di lavoro provare il fatto addebitato, mentre sul prestatore di lavoro grava l'onere di discolparsi, con la possibilità, in alcuni casi, di provare l'eventuale riconducibilità del fatto addebitato ad una situazione di impossibilità a lui non imputabile) e - la proporzionalità fra infrazione e sanzione. Il compito di specificazione della proporzionalità è tradizionalmente svolto dalla contrattazione collettiva. Sulla relazione di proporzionalità influisce l'eventuale recidiva, ovvero la circostanza che una determinata infrazione sia già stata sanzionata, nel senso che comporta un aggravamento della sanzione. Tuttavia, l'art. 7 dello Statuto sottolinea come non possa tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione, venendo così a circoscrivere il possibile utilizzo dell'aggravante entro precisi ed inderogabili limiti temporali. Individuati i requisiti sostanziali, occorre guardare a quelli procedimentali. Come detto, norma di riferimento è l'art. 7 dello Statuto dei lavoratori. Ex art. 7 L.300/1970: - il primo requisito procedimentale è la predeterminazione e l'affissione del codice disciplinare aziendale (pubblicità del c.d. codice o regolamento disciplinare). Nello specifico, l'art. 7 richiede la preesistenza di un testo che, oltre alle procedure di contestazione, individui le infrazioni e le relative sanzioni, in modo che non si abbia la creazione ex post né delle une, né delle altre, ed impone che questo venga portato a conoscenza dei lavoratori mediante "affissione in un luogo accessibile a tutti" (al riguardo, occorre sottolineare come le Sezioni Unite della Corte di Cassazione abbiano affermato l'indefettibilità dell'affissione, a pena di inapplicabilità del codice disciplinare); - il secondo requisito procedimentale è la difesa del lavoratore, con eventuale assistenza sindacale. In particolare, a garanzia del contradditorio, l'articolo in esame prevede che il datore di lavoro non possa irrogare la sanzione al lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa, prevedendo altresì che il 17 Si tratta della fase della impugnazione della sanzione disciplinare irrogata: qualora il lavoratore riscontri vizi procedurali o ritenga la sanzione sproporzionata potrà contestarla, scegliendo due strade, tra loro in alternativa: la strada giudiziale tradizionale o, in alternativa, quella di promozione di un collegio di conciliazione e arbitrato. In questo secondo caso, la questione sarà cioè devoluta alla cognizione di tale collegio. L'ordinamento incentiva la scelta del collegio di conciliazione assicurando la “sospensione” della sanzione disciplinare. Riepilogando, quanto alla scansione temporale della procedura disciplinare, vengono in rilievo, nell'ordine: - contestazione dell'addebito (in forma scritta, specifica e tempestiva) - audizione a difesa del lavoratore incolpato - c.d. “pausa di riflessione" del datore di lavoro - irrogazione della sanzione disciplinare o archiviazione del caso - eventuale impugnazione della sanzione ad opera del lavoratore. 20 I DOVERI DEL DATORE DI LAVORO L'obbligo di sicurezza del datore di lavoro Il datore di lavoro è obbligato ad assicurare che la prestazione del lavoratore subordinato avvenga in condizioni di sicurezza, che cioè l'ambiente di lavoro non ponga in pericolo la salute, l'integrità psico-fisica e la personalità morale del lavoratore. Il quadro normativo è composito: - art. 2087 c.c., - art. 9 dello Statuto dei lavoratori, - d.lgs. 81/2008 (cd. Testo unico in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro) e successive modifiche. L'architrave del sistema normativo è l'art. 2087 cod. civ.: esso impone al datore di lavoro di predisporre tutte le misure idonee, secondo l'esperienza, la tecnica e la particolarità del lavoro, a prevenire situazioni di danno per la salute fisica e la personalità del lavoratore alla luce della mutevole realtà produttiva (cd. principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile). La disposizione del codice civile è stata integrata altresì dal legislatore dello Statuto, al fine di renderla adeguata al disposto costituzionale in materia di diritto alla salute. Quanto al disposto costituzionale, vengono in rilievo gli artt. 32 e 41, in forza dei quali: - Ja Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e - l'iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale 0 in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Per adeguare l'impostazione codicistica alla direttiva costituzionale sul diritto alla salute, l'art. 9 dello Statuto dei lavoratori attribuisce ai lavoratori il diritto: - di controllare l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e - di promuovere la ricerca, l'elaborazione e l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la salute e l'integrità fisica. Il diritto è a titolarità individuale, ma viene esercitato mediante le rappresentanze sindacali. Successivamente allo Statuto dei lavoratori, la materia è stata regolata ex novo dal d.lgs. 626/1994, volto a dare attuazione alla disciplina comunitaria. Quanto alla disciplina comunitaria, vengono in rilievo: - l'art. 31 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, secondo cui ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose e 21 - la direttiva CE 389/89 (cd direttiva madre) e ulteriori 7 direttive (cd direttive figlie) vertenti su temi specifici. Successivamente, è stato emanato il d.lgs. 81/2008 (cd Testo Unico in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro), il quale ha riorganizzato la materia, abrogando quasi tutte le discipline previgenti, compreso il d.lgs. 626/1994. AI riguardo, ricordiamo che il d.lgs. 81/2008 si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio. Le norme del TU hanno determinato un importante salto di qualità nella concezione della sicurezza nei luoghi di lavoro. Il sistema che ne deriva risulta imperniato sul principio della prevenzione, da realizzarsi tramite una propedeutica valutazione di tutti i rischi presenti in azienda. L'obiettivo è quello di eliminare tali rischi alla fonte o comunque di ridurli al minimo, mediante un'attività di programmazione degli interventi, destinata a coinvolgere attivamente una nutrita serie di figure. Si tratta del c.d. modello partecipato della sicurezza, che coinvolge oltre al datore di lavoro, ai dirigenti, ai preposti e agli organismi pubblici di controllo, anche il servizio di prevenzione e protezione ed il suo responsabile, il medico competente, i lavoratori e il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Ad ogni buon conto, il datore di lavoro (definito dal d.lgs. 81/2008 come il soggetto titolare del rapporto di lavoro o come colui che ha responsabilità dell'organizzazione o dell'unità produttiva) resta il principale responsabile in materia. L'obbligo si sicurezza posto a carico del datore di lavoro viene scomposto in una serie di specifici adempimenti, quali: - la valutazione dei rischi connessi allo svolgimento della prestazione lavorativa, al fine di individuare le fonti di pericolo e l'entità del danno che può derivarne, - la redazione del cd. documento per la sicurezza (DVR), da custodire presso l'azienda o l'unità produttiva, - l'adozione delle misure di prevenzione e di protezione, - la fornitura ai lavoratori dei dispositivi di protezione individuale, - l'informazione, la formazione e l'addestramento dei lavoratori, - la designazione del responsabile e degli addetti del servizio di prevenzione e protezione, - la nomina del medico competente. 22 anche con riferimento ad alcuni istituti retributivi cd. differiti (es. gratifica natalizia, retribuzione feriale, indennità di anzianità ecc.) che compensano la prestazione resa senza un rigoroso riferimento al lavoro effettivamente svolto. La disciplina della retribuzione trova la sua fonte preminente nella contrattazione collettiva che, più precisamente, si occupa della determinazione quantitativa della retribuzione. A questo proposito, però, bisogna richiamare la nostra Carta Costituzionale che detta precetti fondamentali. L'art. 36 Cost., infatti, stabilisce che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro” (= principio di proporzionalità) “e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa” (= principio di sufficienza). I due principi che vengono in rilievo, proporzionalità e sufficienza, a ben vedere comportano delle valutazioni differenti: - il principio di proporzionalità richiede che la retribuzione venga determinata tenendo conto di elementi che sono interni al contratto di lavoro: le mansioni svolte e il tempo di lavoro; - il principio di sufficienza, invece, richiede che la retribuzione venga determinata tenendo conto di elementi che sono esterni al contratto di lavoro: le condizioni soggettive del lavoratore e della sua famiglia. La giurisprudenza ha riconosciuto immediata precettività alla norma di cui all'art. 36 Cost. e, per questo, ha riconosciuto al giudice la possibilità di sindacare se la retribuzione spettante al lavoratore è o meno conforme alla norma costituzionale. Per determinare il livello retributivo conforme all'art. 36 Cost. i giudici, da sempre, hanno utilizzato come parametro la retribuzione base (c.d. minimi tabellari) fissata dai contratti collettivi nazionali di categoria in base alla qualifica del lavoratore. Le retribuzioni individuate sulla base delle tabelle di cui ai contratti collettivi nazionali di categoria costituiscono, quindi, il livello retributivo minimo e vincolante tutti i rapporti di lavoro di quella categoria. Poiché si va a guardare ai minimi tabellari fissati dai contratti collettivi, “sufficienza” e “proporzionalità" non possono essere considerati valori uniformi per tutti i lavoratori. Sono, piuttosto, valori variabili in ragione della qualifica del singolo lavoratore. Peraltro, secondo la giurisprudenza, le tabelle fissate dai contratti collettivi nazionali di categoria costituiscono solo un parametro di riferimento, non necessario: il giudice ben può decidere di discostarsene, fornendo un'adeguata motivazione. 25 b) non discriminazione e parità retributiva In materia di retribuzione, oltre ai principi di proporzionalità e sufficienza, sono importanti anche i principi di non discriminazione e parità retributiva. Il principio di non discriminazione opera “in negativo”, inibendo trattamenti differenziati tra gruppi di lavoratori per motivi specifici: ad esempio per motivi di sesso tra lavoratori e lavoratrici. Il principio di parità retributiva, invece, opera “in positivo" e impone di parificare il trattamento economico dei lavoratori che ricoprono la stessa posizione professionale. In realtà, secondo l'opinione dominante, non è in alcun modo configurabile un simile principio nei rapporti inter-privati di lavoro. Infatti, non sarebbe possibile fondarlo né sull'art.3 Cost., che opera soltanto nei rapporti con il potere pubblico, e nemmeno sulle clausole generali di buona fede e di correttezza. La dottrina, dal suo canto, sostiene la tesi opposta e la fonda sul principio di proporzionalità sancito dall'art. 36 Cost. ma, in questo, trova la ferma opposizione della giurisprudenza ordinaria la quale osserva come la proporzionalità di cui all'art.36 Cost. attiene all'equilibrio tra le prestazioni del singolo rapporto di lavoro e non implica affatto una parità di retribuzione tra lavoratori che si trovano in situazioni analoghe. Sulla questione, peraltro, è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 103 del 1989. Si tratta di una pronuncia interpretativa di rigetto nella quale la Corte ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento a una serie di articoli del codice civile nella parte in cui non consentono all'imprenditore di inquadrare e retribuire i lavoratori, anche diversamente, a parità di mansioni. La Corte, in pratica, ha negato la sussistenza di un principio generale di parità retributiva nel nostro ordinamento pur non assumendo, a dire il vero, una posizione del tutto chiara. Infatti, in questa stessa sentenza, ha poi asserito che “le differenziazioni di trattamento, a parità di mansioni, sono tollerabili soltanto se giustificate e comunque ragionevoli". Ma perché tutto questo disputare in merito alla sussistenza o meno di un principio generale di parità retributiva nel nostro ordinamento? La preoccupazione di chi nega questo principio è la seguente: se esso operasse in via “orizzontale”, l'autonomia riconosciuta ai privati in ordine alla determinazione dei trattamenti retributivi sarebbe compromessa. 26 La conclusione è questa: il datore di lavoro, dopo aver garantito a tutti i lavoratori la retribuzione minima conformemente all'art. 36 Cost., potrà legittimamente differenziare le retribuzioni effettive sulla base di proprie valutazioni personali. NOZIONE DI RETRIBUZIONE Il concetto di retribuzione: a) le definizioni legislative Particolarmente discusso è se della retribuzione esiste un'unica definizione avente rilievo generale oppure più definizioni ciascuna rilevante per un fine diverso. In realtà dalle fonti legali e contrattuali che si occupano dell'istituto è possibile ricavare una pluralità di definizioni. Cominciamo dalle definizioni legali: - la retribuzione, secondo gli art. 2094 e 2099 cod. civ., costituisce la prestazione fondamentale del datore di lavoro nei confronti del lavoratore + questa è una definizione generale; - l'art. 2121cod. civ., nella sua vecchia formulazione (oggi questa norma disciplina solo l'indennità di mancato preavviso), individuava quali elementi che dovevano essere computati nel calcolo delle indennità di mancato preavviso e di anzianità “tutti i compensi corrisposti al lavoratore dal datore di lavoro, aventi carattere continuativo, con esclusione delle sole prestazioni erogate a titolo di rimborso spese" > si tratta, dunque, di una definizione alquanto ampia; - l'art. 2120 cod. civ. (così come modificato dalla |. 297/82 che ha sostituito la vecchia indennità di anzianità con il trattamento di fine rapporto) ha introdotto una diversa nozione di retribuzione da tenere presente nel calcolo del trattamento di fine rapporto: devono essere considerate "tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo con occasionale”; - l'art. 12 della |. 153/1997, riavvicinando ai fini contributivi e fiscali le due nozioni di retribuzione prima esistenti, prende in considerazione "tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro" + insomma, anche ai fini contributivi e fiscali il legislatore adopera una nozione ampia. b) la nozione giurisprudenziale onnicomprensiva. Critica. A causa della varietà delle forme retributive esistenti, la giurisprudenza ha incontrato un po' di difficoltà che hanno condotto alla elaborazione, giurisprudenziale appunto, di una nozione onnicomprensiva di retribuzione. 27 FORME DELLA RETRIBUZIONE Tipologia legale La disciplina legale della retribuzione predispone una classificazione generale delle forme retributive nell'art. 2099 cod. civ. Le forme indicate dalla norma sono: - retribuzione a tempo; - retribuzione a cottimo; - partecipazione agli utili o ai prodotti; - provvigione; - partecipazione in natura distinta da quella in denaro. La forma retributiva più utilizzata è quella c.d. a tempo, perchè viene determinata in base al tempo impiegato per svolgere il lavoro (euro per ora, giorno, mese o anno). Questa è l'unica forma retributiva adottata in via esclusiva. Le altre, invece, sono forme di compenso parziale o elementi della retribuzione complessiva del lavoratore. L'intento è garantire al lavoratore un compenso minimo indipendente dall'esito della prestazione e sul quale è fortemente limitata l'incidenza degli elementi variabili. La retribuzione a cottimo, diversamente da quella a tempo, viene determinata in base al rendimento. Possiamo distinguere varie forme di cottimo: - cottimo a forfait commisurato all'opera finita; - cottimo a misura, commisurato alla quantità prodotta; - cottimo a tempo, commisurato al tempo risparmiato rispetto a quello normalmente impiegato per svolgere il lavoro. Inoltre, può essere considerato il rendimento di un singolo lavoratore (cottimo individuale) o quello di un gruppo di lavoratori (cottimo collettivo). I contratti collettivi escludono che il cottimo possa costituire un'unica forma di retribuzione (il c.d. cottimo puro) > l'unica eccezione è costituita dal lavoro a domicilio in cui è il legislatore stesso a prevedere il cottimo puro. I contratti collettivi, piuttosto, utilizzano il c.d. cottimo misto che consiste in una maggiorazione, rispetto ad una paga-base, commisurata al decorso del tempo. La disciplina legislativa del cottimo è contenuta in due norme del codice civile: si tratta degli art. 2100 e 2101 i quali, tuttavia, hanno assunto un rilievo meramente residuale a causa della preminenza acquisita dalla contrattazione collettiva. L'art. 2100 prevede il c.d. cottimo obbligatorio nelle ipotesi: 30 - in cui il lavoratore, in conseguenza dell'organizzazione del lavoro, è vincolato ad un certo ritmo produttivo (es. catena di montaggio); - quando la sua prestazione viene valutata in base al risultato della misurazione dei tempi di lavorazione. Il cottimo obbligatorio è previsto nel lavoro a domicilio a causa del fatto che il lavoro viene svolto fuori dall'impresa e, di conseguenza, non è controllabile in base al tempo impiegato, ma solo dal punto di vista del risultato. Nell'apprendistato, invece, è previsto il divieto di cottimo al fine di evitare che l'apprendista si preoccupi di intensificare il lavoro invece di concentrarsi nell'apprendimento. L'art. 2101 cod. civ. stabilisce delle procedure che l'imprenditore è tenuto a rispettare quando si tratta di fissare la retribuzione a cottimo. Questi deve comunicare preventivamente ai prestatori di lavoro quali sono gli elementi costitutivi della tariffa di cottimo, le lavorazioni da eseguire e il compenso unitario, nonché i dati che riguardano la quantità di lavoro eseguito e il tempo impiegato. Potrà modificare tali elementi soltanto nel caso in cui dovessero cambiare le condizioni di lavoro che li giustificano. Le tariffe di cottimo, inoltre, diventano definitive solo dopo che è trascorso un periodo di adattamento previsto dai contratti collettivi: ciò al fine di proteggere il lavoratore contro eventuali alterazioni che il datore di lavoro, in modo unilaterale, introduce nei tempi di cottimo. A partire dagli anni ‘90 la tematica del cottimo è risultata in buona parte assorbita da quella della c.d. retribuzione variabile. Le altre forme di retribuzione previste dall'art.2099 cod. civ. hanno un'importanza più ridotta. Per quanto riguarda la retribuzione in natura, qui il compenso consiste in un bene diverso dal denaro. L'importanza della retribuzione in natura oggi è collegata soprattutto al riconoscimento dei c.d. fringe benefits: si tratta di benefici aventi carattere non monetario erogati ai dipendenti, specie al personale altamente qualificato, da parte dei datori di lavoro disponibilità dell'automobile, del cellulare ecc. Tali benefici, spesso, costituiscono una parte non secondaria del trattamento economico complessivo. La provvigione si caratterizza per il fatto che il compenso è determinato in una percentuale che dipende dagli affari trattati oppure conclusi dal lavoratore. 31 La partecipazione ai prodotti è una particolare specie di provvigione. Il compenso, in questo caso, consiste in una partecipazione ai prodotti dove il prodotto non è l'affare ma il bene fisico oggetto dell'attività di impresa. Dalla provvigione e dalla partecipazione ai prodotti si distingue, infine, la partecipazione agli utili. Il compenso consiste in una partecipazione agli utili, appunto, e ciò consente un coinvolgimento del lavoratore nella vita dell'azienda. Ma si badi bene che il titolo della partecipazione del lavoratore resta pur sempre lo scambio con la prestazione di lavoro, dunque, si tratta di una situazione diversa dalla partecipazione del socio. Una finalità di partecipazione può essere perseguita con lo strumento della distribuzione di azioni ai dipendenti. Il codice civile, agli art. 2349 e 2441, prevede che i lavoratori possono acquisire le azioni della società da cui dipendono a titolo gratuito oppure, attraverso l'offerta in sottoscrizione, a titolo oneroso. È così che si sono sviluppate quelle forme atipiche di distribuzione delle azioni ai dipendenti che prendono il nome di stock options e che sono dirette, in particolare, ai dirigenti dell'azienda per incentivarne la produttività. La disciplina contrattuale della retribuzione. La proliferazione delle forme retributive. La disciplina contrattuale della retribuzione conosce una serie di istituti diversi da quelli già accennati. Una distinzione ricorrente è quella tra: - retribuzione diretta in quanto immediatamente corrisposta al lavoratore nei singoli periodi di durata del rapporto; - retribuzione indiretta in quanto viene corrisposta al lavoratore in un tempo posticipato rispetto al periodo di maturazione+ annualmente (come la tredicesima mensilità) o alla fine del rapporto (come il TFR). Molto spesso viene utilizzata l'espressione “automatismi retributivi" per indicare istituti che comportano un incremento automatico del trattamento economico quando si verificano determinati fatti o cadenze temporali > gli scatti di anzianità e il TFR, ad esempio, sono automatismi connessi all'anzianità di servizio. Il nucleo centrale della retribuzione è la retribuzione tabellare fissata dai contratti collettivi nazionali di categoria in base alla qualifica del lavoratore. Le tabelle fissate nei contratti collettivi nazionali vengono integrate dalla contrattazione aziendale, se presente. 32 LE MANSIONI Come detto, il rapporto di lavoro è un rapporto complesso, risultante da due contrapposte obbligazioni fondamentali (di lavoro e di retribuzione) e da tutta una serie di obblighi e doveri reciproci tra di loro connessi e in vario modo correlati alle obbligazioni principali. L'obbligazione principale del lavoratore è la prestazione lavorativa. L'obbligazione di lavoro è un'obbligazione di comportamento, che impone al prestatore di tenere un certo comportamento, ma non anche di raggiungere, mediante tale comportamento, un risultato ulteriore. Gli elementi che concorrono a determinare la prestazione lavorativa sono: il tipo di attività lavorativa, il modo dell'esecuzione, il tempo dell'esecuzione e il luogo dell'esecuzione. Segnatamente, per indicare il tipo di attività che costituisce oggetto dell'obbligazione di lavoro si fa riferimento alle mansioni, in relazione alle quali si stabiliscono qualifica e categoria: e il termine qualifica indica un raggruppamento di mansioni destinatarie di una disciplina omogenea secondo le classificazioni adottate dalla contrattazione collettiva. e Le qualifiche sono raggruppate in entità classificatorie più ampie, fissate dalla legge e definite categorie. Tuttavia, a scanso di equivoci, occorre sottolineare come i contratti collettivi invertano la terminologia legislativa, utilizzando il termine qualifica per indicare le categorie legali e il termine categoria per indicare le qualifiche. Quanto alle categorie, il legislatore ne individua quattro> in base all'art. 2095 cod. civ. i prestatori di lavoro subordinato si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati e operai Le categorie dei lavoratori: impiegati e operai La distinzione tra operai e impiegati è tradizionalmente operata dall'art. 1 r.d. 1825/1924 (c.d. legge sull'impiego privato), nel quale l'impiegato è definito colui che al servizio dell'azienda svolge attività professionale, con funzioni di collaborazione tanto di concetto che di ordine, eccettuata pertanto ogni prestazione che sia semplicemente di manodopera. 35 La scarsa incisività dei criteri stabiliti dalla norma (ovvero, la “professionalità” e la “non manualità") aveva giustificato l'elaborazione del criterio della “collaborazione impiegatizia" in forza della quale si distinguevano: - la capacità dell'impiegato di collaborare all'impresa, contribuendo all'organizzazione dell'attività produttiva e - la capacità dell'operaio di collaborare nell'impresa, svolgendo attività produttiva. L'esigenza di distinguere le due categorie è stata superata sin dal 1973 con l'adozione da parte della contrattazione collettiva dell'inguadramento unico tra operai e impiegati, con la conseguente applicazione di discipline comuni ai livelli di inquadramento in cui le mansioni (operaie o impiegatizie) sono inserite. I dirigenti Quanto al dirigente, questo è tradizionalmente definito dalla giurisprudenza come l'alter ego dell'imprenditore, preposto alla direzione dell'intera impresa o di un ramo importante e autonomo di essa e provvisto di piena autonomia, nell'ambito delle direttive generali dell'imprenditore. Recependo le indicazioni della giurisprudenza, la contrattazione collettiva individua i dirigenti in coloro che ricoprono in azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale ed esercitano le loro funzioni Ex art. 2095 c.c.: i prestatori di lavoro subordinato si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati e operai, al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi dell'impresa. Il riconoscimento della qualifica dirigenziale attraverso la contrattazione rende applicabile la disciplina contrattuale, ma non basta di per sé a rendere applicabile la disciplina legale speciale. I giudici hanno cercato di tenere separata la qualifica di dirigente ai fini legali e la qualifica di dirigente ai fini contrattuali, con il riconoscimento della cd qualifica convenzionale di dirigente. In buona sostanza, può essere riconosciuta ad alcuni lavoratori privi di reali poteri direttivi la qualifica convenzionale di dirigente, al fine di attribuire loro un trattamento economico più favorevole (senza che a ciò consegua l'applicazione della disciplina legale dei dirigenti, quando questa è peggiorativa rispetto a quella dei non dirigenti). 36 I quadri Per quanto riguarda i quadri, l'introduzione nell'art. 2095 del riferimento a tale categoria è stata disposta dall'art. 1 | 190/1985. Ex art. 2 |. 190/1985 i quadri sono coloro che, pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgono funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell'attuazione degli obiettivi dell'impresa. Il compito di stabilire i requisiti di appartenenza alla categoria dei quadri è affidato alla contrattazione collettiva. Per quanto riguarda la disciplina che trova attuazione, quanto occorre sottolineare è: e che il datore di lavoro è tenuto ad assicurare il quadro contro il rischio di responsabilità civile verso terzi conseguente a colpa nello svolgimento delle proprie mansioni, e che la contrattazione collettiva può prevedere, in deroga all'art. 2103 cod. civ., un periodo superiore ai tre mesi per l'assegnazione definitiva alle mansioni di quadro, e che ai quadri è riconosciuto un trattamento contrattuale più favorevole riaspetto a quello degli operai e degli impiegati e, infine, e che, per gli aspetti non espressamente regolati, ai quadri si applicano le norme riguardanti la categoria degli impiegati, salva diversa previsione della contrattazione collettiva. Le mansioni e la qualifica In forza del principio di “contrattualità delle mansioni” (confermato dall'art. 2103 cod. civ., secondo cui il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto) le mansioni - e, di conseguenza, la qualifica e la categoria - del lavoratore si determinano in base alle intese intercorse fra le parti. In mancanza di un'indicazione precisa delle mansioni, il punto di riferimento saranno le mansioni effettivamente svolte in modo stabile nell'organizzazione del lavoro. In forza di ciò, è chiaro che l'identificazione della qualifica -e, indirettamente, della categoria- costituisce spesso motivo di controversie. In tal caso, la decisione dipende da un confronto tra le mansioni effettivamente svolte e quelle indicate e comunicate alla stregua delle classificazioni contrattuali correntemente in uso nell'azienda. Ora, dato che i criteri di classificazione e di gerarchia delle qualifiche sono fissati nella contrattazione collettiva, secondo la giurisprudenza prevalente i parametri cui far riferimento per l'inquadramento dovranno desumersi dalla stessa contrattazione. Base della valutazione sono le mansioni oggettive dedotte nel rapporto, non le caratteristiche professionali del lavoratore. Infatti, nel nostro ordinamento, la 37 In concreto, l'unico limite posto a garanzia del lavoratore era l'invariabilità in peius della retribuzione, mentre la discrezionalità imprenditoriale nell'uso della forza lavoro restava ampia e incontrollata. Questo era reso ancora più evidente dal fatto che i limiti stabiliti dalla norma riguardavano solo le modifiche unilaterali, mentre non incidevano sulle modifiche consensuali, le quali erano ritenute ammissibili, senza condizioni, e quindi anche in peius. Alle debolezze garantistiche della disciplina originaria ha inteso rimediare l'art. 13 dello Statuto dei lavoratori, che ha innovato la materia riformulando l'art. 2103 cod. civ., il quale si presentava nella seguente formulazione: "Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo”. Il limite dell'equivalenza delle mansioni In forza del disposto anzi enunciato, è possibile asserire che le modifiche in orizzontale sono ammesse solo per mansioni equivalenti a quelle di assunzione oppure a quelle successivamente svolte in maniera stabile, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Sin dall'inizio, la prassi giurisprudenziale ha inteso il concetto di “equivalenza” in modo piuttosto rigido e statico, tale da escludere qualsiasi mobilità verso il basso. Per tale ragione, l'art. 13 dello Statuto è divenuto una delle norme più criticate, data l'eccessiva rigidità che avrebbe indotto nell'impiego della forza lavoro. In realtà, la rigidità indotta nell'impiego della forza lavoro è stata giustificata sottolineando come la norma abbia quale precipuo fine quello di tutelare la professionalità del lavoratore. L'equivalenza, dunque, è essenzialmente equivalenza professionale. L'equivalenza professionale va accertata considerando attitudini e capacità acquisite dal lavoratore, ovvero quel bagaglio di perizia ed esperienza che costituisce il suo patrimonio professionale (nozione statica di equivalenza). 40 Tuttavia, secondo un orientamento dottrinale, sviluppato dalla giurisprudenza, l'equivalenza professionale va accertata considerando la capacità professionale potenziale del lavoratore, derivatagli dalla sua formazione culturale di base e dall'abilità tecnica acquisita attraverso l'esperienza. In altre parole, bisognerebbe dare rilievo non al “saper fare", ma al “saper come fare" (nozione dinamica di equivalenza). In caso di violazione del precetto normativo, il lavoratore può richiedere: - la dichiarazione di nullità dell'atto, - la condanna alla reintegra e, infine, - il risarcimento del danno da dequalificazione (c.d. danno alla professionalità). Grava sul lavoratore l'onere di provare, anche per presunzioni, la natura e le caratteristiche del danno subito. La nullità dei patti contrari Come visto, l'ultimo comma dell'art. 2103, come modificato dall'art. 13 dello Statuto, sancisce la nullità di ogni patto contrario. Gli accordi nulli cui si riferisce la norma sono quelli che realizzano un risultato vietato dalla norma stessa. Tuttavia, per quanto la norma vieti la dequalificazione (ovvero, l'assegnazione a mansioni inferiori, c.d. mobilità verso il basso) ci sono delle eccezioni. In particolare, fanno eccezione: e gli accordi individuali che dispongono lo spostamento a mansioni inferiori per soddisfare un interesse qualificato del lavoratore (quello di evitare un licenziamento, comunque giustificato da ragioni oggettive, come nell'ipotesi di abolizione del posto di lavoro per motivi tecnologici, senza possibilità di reimpiego altrove), e gli accordi individuali che dispongono lo spostamento a mansioni inferiori a causa delle condizioni del lavoratore (invalido, in maternità, esposto a rischi sanitari, portatore di handicap), e gli accordi collettivi che dispongono lo spostamento a mansioni inferiori a causa della situazione dell'impresa (in alternativa alla mobilità) e, infine, e le intese realizzate nell'ambito dei contratti collettivi di prossimità (l'art. 8 d.l. 138/2011 statuisce che i contratti collettivi, aziendali o territoriali, sottoscritti dalle associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero dalle rappresentanze sindacali operanti in azienda possono 41 realizzare specifiche intese finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario. Tali intese possono derogare in peius sia al contratto collettivo, sia alla legge e sono efficaci nei confronti di tutti i lavoratori se sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario). Mobilità verso l'alto e carriera La seconda parte del primo comma dell'art. 2103 cod. civ. disciplina l'assegnazione a mansioni superiori (mobilità verso l'alto o verticale). Il legislatore ha stabilito che lo svolgimento di mansioni superiori, protratto per più di tre mesi, o per il minor periodo previsto da contratti collettivi, rendere irreversibile lo spostamento. Al riguardo, si è discusso se i tre mesi di svolgimento delle mansioni superiori debbano essere continuativi oppure se si possono cumulare distinti periodi. Superando le incertezze della dottrina, la giurisprudenza prevalente propende per la prima soluzione. Tuttavia, precisa che eventuali interruzioni di tale periodo non connesse a reali esigenze produttive non impediscono il cumulo e quindi la promozione, in quanto devono ritenersi in frode alla legge. La promozione si realizza automaticamente al compiersi del periodo temporale, salvo nell'ipotesi di sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, con onere della prova a carico del datore. Abbiamo detto che l'art. 2103 è stato oggetto di 2 importanti riforme. Analizzata la disciplina così come modificata dallo Statuto del Lavoratori, occorre ora analizzare la riforma operata, di recente, dal d.lgs. 81/2015. Il nuovo testo dell'art. 2103, risultante dopo le modifiche apportate dall'art.3 del D.lgs. 81/2015, introduce maggiore flessibilità per le imprese nel governo del lavoro, autorizzando profonde dequalificazioni del lavoratore e allargando lo spettro della mobilità orizzontale: "Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto e a quelle corrispondenti all'inguadramento superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero riconducibili allo stesso livello o categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”. Dunque, scomparsa la nozione di equivalenza presente nella precedente formulazione, la mobilità non è più limitata entro l'orizzonte della equivalenza professionale, ma 42 LUOGO DELLA PRESTAZIONE DI LAVORO La disciplina del trasferimento del lavoratore In base all'art. 1182 cod. civ., il luogo di adempimento della prestazione, se non è determinato contrattualmente, deve desumersi dagli usi o da altre circostanze, prima tra tutte quella della natura della prestazione. Secondo l'interpretazione prevalente, qualora la prestazione ha ad oggetto l'esercizio di un'attività lavorativa, la determinazione del luogo di esecuzione e la sua modifica sono affidate al potere direttivo del datore di lavoro. L'art. 13 dello Statuto dei lavoratori, nel novellare l'art. 2103 cod. civ. e nel disciplinare per la prima volta il trasferimento del lavoratore, ha confermato l'esistenza di tale potere unilaterale, assoggettandone l'esercizio a limiti interni e prevedendo la nullità dei patti contrari. L'art. 13 dello Statuto non prende in considerazione qualsiasi spostamento spaziale del lavoratore, ma soltanto quello da un'unità produttiva ad un'altra. La giurisprudenza propende per una nozione unitaria di trasferimento, ricomprendendovi qualsiasi spostamento idoneo ad allontanare il lavoratore dalla propria unità produttiva di origine (c.d. trasferimento esterno). Dalla nozione sono esclusi, invece, gli spostamenti del lavoratore all'interno della medesima unità produttiva (c.d. trasferimenti interni). L'art. 13 dello Statuto subordina l'esercizio del potere di trasferimento all'esistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Al termine “comprovate” l'orientamento giurisprudenziale prevalente attribuisce un significato debole, nel senso che il datore ha l'onere di comunicare i motivi del trasferimento al proprio dipendente, ma soltanto a fronte di una sua esplicita richiesta. Quanto alle “ragioni tecniche, organizzative e produttive", la tesi prevalente è nel senso di escludere un controllo di merito sulle scelte datoriali. Pertanto, il giudice dovrà limitarsi ad accertare l'effettiva presenza di tali ragioni e il nesso di causalità tra queste e il provvedimento preso, ma non potrà chiedere prova dell'inevitabilità del trasferimento. Per la giurisprudenza più recente, anche i comportamenti del lavoratore, qualora determinino una situazione di c.d. incompatibilità ambientale, essendo causa di 45 disorganizzazione e disfunzione aziendale, integrano una ragione oggettiva che legittima il trasferimento. Infine, sono previsti limiti più consistenti al potere di trasferimento a vantaggio di peculiari figure di lavoratori, ovvero: - il dirigente sindacale aziendale, per il cui trasferimento è richiesto il previo nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza, - il dipendente che ricopre una carica elettiva pubblica, per il cui trasferimento è richiesto il consenso, - il fruitore dei congedi di maternità e paternità, per il cui trasferimento è richiesto il consenso, - il lavoratore con handicap grave e i congiunti che lo assistono con continuità, per il cui trasferimento è richiesto il consenso e il diritto di scegliere, ove possibile, la sede più vicina al proprio domicilio. Il lavoratore che voglia far valere l'illegittimità del trasferimento deve impugnare il trasferimento entro il termine di decadenza di 60 giorni dalla data di ricezione della relativa comunicazione e, nei successivi 180 giorni, deve depositare il ricorso presso la cancelleria del giudice del lavoro, oppure comunicare al datore di lavoro la richiesta di un tentativo di conciliazione o arbitrato. Qualora il datore rifiuti conciliazione o arbitrato, oppure accetti ma non si giunga ad un accordo, il lavoratore deve depositare il ricorso entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo. Trasferta Secondo l'orientamento prevalente, l'art. 13 dello Statuto disciplina solo il trasferimento definitivo del lavoratore. Resterebbero escluse, dunque, altre fattispecie organizzative, tra le quali la trasferta (consiste in una modifica temporanea del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa). 46 DURATA DELLA PRESTAZIONE DI LAVORO. L'orario di lavoro: disciplina legale e contrattuale In materia di orario di lavoro, le norme di riferimento sono: l'art. 31, comma IT, della Carta dei diritti fondamentali dell'UE secondo cui "ogni lavoratore ha diritto a una limitazione della durata massima del lavoro e a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite", - la direttiva CE 88/2003, - l'art. 36, commi IT e ITI, della Costituzione, secondo cui “la durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi”, - gli artt. 2107, 2108, 2109 cod. civ. e, infine, - il d.lgs. 66/2003. Con particolare riguardo al d.lgs. 66/2003 (che ha provveduto all'integrale abrogazione delle pregresse disposizioni legislative e regolamentari non espressamente richiamate dal decreto stesso), occorre anzitutto sottolineare come le disposizioni in esso contenute si applichino a tutti i settori di attività pubblici e privati, sebbene siano previste numerose esclusioni e deroghe. In tema di orario di lavoro, la disciplina legale stabilisce anzitutto la durata normale e la durata massima della settimana lavorativa. Ex art. 3 d.lgs. 66/2003, la durata normale della settimana lavorativa è fissato in 40 ore. Tuttavia, i contratti collettivi (di qualsiasi livello purché stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative) possono stabilire una durata minore e riferire l'orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative per periodi ultra-settimanali non superiori all'anno (è questo il c.d. orario multi- periodale, che consiste nel superamento convenzionale dei limiti normali, salvo compensazione nell'anno: es. in un arco temporale di 12 settimane, considerato come multi-periodo di riferimento, il datore di lavoro potrà richiedere 6 settimane di 48 ore lavorative, seguite da 6 settimane di 32 ore, senza che vengano in considerazione prestazione di lavoro straordinario, dato che la durata media della settimana lavorativa nel multi-periodo risulterà essere pari a 40 ore). 47 Nella vigente legislazione, il lavoro straordinario, sommato al lavoro normale, deve essere contenuto entro l'orario massimo settimanale stabilito dai contratti collettivi, senza eccedere in ogni caso le 48 ore calcolate come media. Per quanto riguarda il lavoro straordinario riferito alla giornata lavorativa, visto che è venuto meno ogni riferimento legislativo, un ruolo significativo è spesso svolto dalla contrattazione collettiva. In ogni caso, resta fermo che la prestazione lavorativa giornaliera non può mai superare il tetto delle 12 ore e 50 minuti. Entro i limiti anzi considerati (ovvero, orario massimo settimanale, orario massimo giornaliero) i contratti collettivi sono liberi di regolare le modalità di esecuzione delle prestazioni di lavoro straordinario. In mancanza di disciplina collettiva, il ricorso al lavoro straordinario è ammesso solo se la richiesta del datore riceve il consenso del lavoratore e nel limite massimo di 250 ore annue. Salvo diversa disposizione della disciplina collettiva, il lavoro straordinario può essere richiesto anche senza il consenso del lavoratore e oltre il limite delle 250 ore annue: - in caso di eccezionali esigenze tecnico-produttive, impossibili da fronteggiare attraverso l'assunzione di nuovi lavoratori, - in casi di forza maggiore o in casi in cui la mancata esecuzione di prestazioni di lavoro straordinario possa dar luogo ad un pericolo grave ed immediato, ovvero ad un danno alle persone o alla produzione, - a fronte di eventi particolari collegati all'attività produttiva. Il lavoro straordinario deve essere computato a parte e compensato con maggiorazioni retributive, la cui determinazione è integralmente rimessa alla contrattazione collettiva. Inoltre, la contrattazione collettiva può consentire ai lavoratori di usufruire di riposi compensativi, in aggiunta o in alternativa alle maggiorazioni retributive. Quando parliamo di lavoro supplementare facciamo riferimento al lavoro prestato oltre l'orario normale fissato dai contratti collettivi, ma entro l'orario normale settimanale fissato dalla legge. In questo caso, non trova attuazione la disciplina legislativa sul lavoro straordinario, ma quella contrattuale prevista per il lavoro supplementare. 50 Lavoro notturno e regimi di orario In materia di lavoro notturno, la prima regolamentazione specifica si è avuta con il d.lgs. 532/1999, ora trasposto con alcune modifiche nel d.lgs. 66/2003. Il legislatore definisce il periodo notturno come il periodo di almeno 7 ore consecutive comprendenti l'intervallo fra la mezzanotte e le cinque del mattino e il lavoratore notturno come il lavoratore che durante il periodo notturno svolge in via non eccezionale almeno 3 ore del suo tempo di lavoro giornaliero o una certa parte del suo orario di lavoro normale, secondo le norme definite dal contratto collettivo nazionale di lavoro. Inoltre, si aggiunge che, in difetto di disciplina collettiva, è considerato lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che svolga per almeno 3 ore lavoro notturno per un minimo di 80 giorni lavorativi all'anno (limite, quest'ultimo, riproporzionabile in caso di lavoro a tempo parziale). L'orario di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le 8 ore complessive nel periodo di 24 ore, fatta salva la facoltà dei contratti collettivi di individuare un periodo di riferimento più ampio delle 24 ore sul quale calcolare come media il limite delle 8 ore. Inoltre, ai contratti collettivi nazionali (e in assenza di questi, ma solo nel settore privato, ai contratti territoriali e aziendali stipulati con le organizzazioni comparativamente più rappresentative) compete l'ulteriore facoltà di derogare alle disposizioni anzi viste in tema di limite alla durata del lavoro notturno. E, infine, alla contrazione collettiva è affidata l'eventuale definizione delle riduzioni dell'orario di lavoro o dei trattamenti economici indennitari nei confronti dei lavoratori notturni. In capo al datore di lavoro che faccia ricorso al lavoro notturno, il d.lgs. 66/2003 pone una serie di obblighi procedurali, derogabili ad opera dei contratti collettivi nazionali (e in assenza di questi, ma solo nel settore privato, ai contratti territoriali e aziendali stipulati con le organizzazioni comparativamente più rappresentative). In particolare, il datore di lavoro ha l'onere di informare e consultare sull'introduzione del lavoro notturno le Rappresentanze sindacali in azienda aderenti alle organizzazioni firmatarie del contratto collettivo applicato nell'impresa e, in mancanza, le 51 organizzazioni territoriali dei lavoratori per il tramite dell'associazione cui l'azienda aderisce o conferisce mandato. Inoltre, il d.lgs. 66/2003 impone una serie di accertamenti sanitari, a favore dei lavoratori da adibire o adibiti al lavoro notturno, preventivi e periodici, almeno ogni due anni, volti a verificare l'assenza di controindicazioni al lavoro notturno cui sono adibiti i lavoratori stessi. Non possono essere adibiti al lavoro notturno: - iminori e - le donne in gravidanza, fino al compimento di un anno di età del bambino. Infine, sono previste delle ipotesi nelle quali il lavoro notturno non deve essere obbligatoriamente prestato. Una prima ipotesi riguarda la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a 3 anni o, alternativamente, il padre convivente con la stessa (nonostante il silenzio della norma la tutela è estensibile anche ai genitori adottivi o affidatari). Una seconda ipotesi riguarda le lavoratrici o i lavoratori che siano l'unico genitore affidatario di un figlio convivente di età inferiore a 12 anni. L'ultima ipotesi riguarda le lavoratrici e i lavoratori che abbiano a proprio carico un soggetto disabile ai sensi della |. 104/1992 e successive modifiche. Quando parliamo di lavoro a turno facciamo riferimento a qualsiasi metodo di organizzazione del lavoro, anche a squadre, in base al quale dei lavoratori siano occupati negli stessi posti di lavoro, secondo un determinato ritmo, compreso il ritmo rotativo, che può essere di tipo continuo o discontinuo, e che comporti la necessità per i lavoratori di compiere un lavoro a ore differenti su un periodo di tempo determinato di giorni o di settimane. Il lavoratore a turni è il lavoratore il cui orario di lavoro sia inserito nel quadro del lavoro a turni. Riposi giornalieri, settimanali, annuali e festività. Ex art. 1 d.lgs. 66/2003 il tempo di non lavoro (o tempo di riposo) è qualsiasi periodo che non rientra nell'orario di lavoro. Il riposo si distingue in: - riposo infra-giornaliero (ovvero le pause), 52 Quanto al licenziamento, invece, sussistono leggi specifiche successive al codice civile, volte a proteggere il lavoratore illegittimamente licenziato. Nel nostro ordinamento, il potere di licenziamento non risulta essere libero, bensì incontra taluni limiti: si parla infatti di recesso vincolato. L'ordinamento italiano, soprattutto con la legge 604/66, fissa la regola della necessaria giustificazione del licenziamento (requisito causale del licenziamento), salvo quell'area residuale (molto limitata) del libero licenziamento (ossia del recesso ad nutum, e, dunque, senza giustificazione). In tale area vi rientrano: * Dirigenti: in virtù di quel particolare vincolo di fiducia che renderebbe improponibile una prosecuzione/reintegrazione; * Lavoratori in prova: si può licenziare, a patto che il recesso riguardi la sperimentazione sul comportamento professionale del lavoratore in prova (e non abbia altre motivazioni); * Apprendisti: alla fine del rapporto formativo, il datore può recedere liberamente ex art. 2118 c.c. e Lavoratori anziani che abbiano maturato il diritto alla pensione di vecchiaia * Lavoratori domestici: si tratta di lavoratori inseriti in una comunità familiare, che richiede grande sintonia e fiducia * Sportivi professionisti AI di fuor di quest'area residuale, la giustificazione risulta necessaria. In relazione alla prova sulla giustificazione del recesso vige il principio dell'inversione dell'onere della prova, anche e soprattutto in un'ottica di favor per il lavoratore. Sicchè, ex art 5 L. 604/66, sarà il datore di lavoro a dover dimostrare che, alla base del licenziamento, sussiste una giusta causa o un giustificato motivo, laddove sul lavoratore incombe il solo onere della prospettazione della illegittimità del licenziamento. Naturalmente, il principio dell'inversione dell'onere della prova, presuppone la forma scritta del licenziamento, laddove il nostro ordinamento non contempla forma di licenziamento verbale od orale, considerato nullo, in virtù della considerazione del licenziamento quale atto unilaterale recettizio. Il punto fondamentale della materia del licenziamento, come detto, è rappresentato dalla giustificazione. In relazione alla giustificazione si deve effettuare una distinzione tra: - Giusta causa 55 Giustificato motivo GIUSTA CAUSA Quanto alla giusta causa, ex art 2119 cod. civ. 3ciascuna delle parti può recedere dal contratto “gualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto". Si tratta, pertanto, di una causa talmente grave che non consente la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro. Poiché il "contenitore" della giusta causa è estremamente ampio, è la giurisprudenza a precisare, di volta in volta, caso per caso, cosa possa legittimare un licenziamento di questo tipo. Secondo la giurisprudenza si può avere, dunque, giusta causa in ipotesi di: Gravissimo (ovvero notevolissimo) inadempimento degli obblighi contrattuali (diligenza, obbedienza, fedeltà) qualsiasi situazione o comportamento, anche "esterno" al rapporto di lavoro, verificatosi nella sfera del lavoratore e tale da incidere sul vincolo di fiducia tra le parti (si pensi ad una condanna penale riportata dal lavoratore). In relazione a tale ultimo punto, a fronte di comportamenti tenuti dal lavoratore nella sua vita privata, la valutazione in ordine alla giusta causa va condotta non con riguardo al fatto astrattamente considerato, bensì alla stregua degli aspetti concreti afferenti alla natura e qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento e fiducia richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché all'intensità dell'elemento intenzionale e di quello colposo. Qualche esempio giurisprudenziale: Minacce, ingiurie o percosse ad opera del lavoratore nei confronti del superiore gerarchico o del datore Caso: un lavoratore, per protestare contro una trattenuta stipendiale a suo parere illegittima, aveva inviato al direttore della società una lettera dai contenuti offensivi e denigratori, trasmettendone copia anche a tutti i colleghi Eccesso nell'esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore Attenzione all'uso disinvolto dei social network per criticare il proprio datore di lavoro 56 * Sottrazione di documenti aziendali (caso del lavoratore che si appropria di materiale dal magazzino per svolgere attività di impresa in concorrenza con il suo datore di lavoro) * Inadempimenti connessi alla malattia * Caso del medico che si assenta dal lavoro attestando falsamente il suo stato di malattia: attenzione alle previsioni normative per i dipendenti pubblici * Lavoratore che effettua timbratura del cartellino-marcatempo di altri colleghi Il concetto di "fiducia" nel rapporto di lavoro va inteso nei termini di “affidamento del creditore nell'esattezza dei successivi adempimenti". Generalmente, i contratti collettivi contengono la previsione dei fatti che legittimano il licenziamento per giusta causa, fermo restando che il giudice può comunque discostarsi da tali “tipizzazioni“ della contrattazione collettiva. In ogni caso, data l'ampiezza e la elasticità del concetto di giusta causa, sarà sempre necessario effettuare una valutazione complessiva ed in concreto delle singole fattispecie. GIUSTIFICATO MOTIVO Il giustificato motivo, ai sensi dell'art.3 della 1.604/'66, può essere "soggettivo" o “oggettivo” e, questa stessa norma, ci dà una definizione di entrambi. Si ha licenziamento per giustificato motivo soggettivo quando + il lavoratore incorre in un “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali”. Sempre ai sensi dell'art. 3 della |. 604/ '66 il giustificato motivo oggettivo di licenziamento consiste in “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa". Sulla base di quanto detto è logica la conseguenza che: - il giustificato motivo soggettivo concerne profili del comportamento del lavoratore - il giustificato motivo oggettivo concerne profili dell'organizzazione dell'impresa. La differenza tra “giusta causa" e “giustificato motivo soggettivo" è, per un verso, una differenza di tipo quantitativo: il giustificato motivo soggettivo si caratterizza per la minore gravità dell'inadempimento (anche se si tratta comunque di un inadempimento “notevole"), tale da consentire la prosecuzione provvisoria del rapporto per il periodo di preavviso. 57 - sia il licenziamento per giustificato motivo soggettivo (vale a dire il licenziamento, con preavviso, causato da un notevole inadempimento del lavoratore ai suoi obblighi contrattuali), - sia il licenziamento per giusta causa, ovvero il licenziamento, senza preavviso, determinato da un comportamento disciplinarmente rilevante del lavoratore tale da non consentire la prosecuzione, neppure temporanea, del rapporto di lavoro. AI licenziamento disciplinare (intimato per comportamenti imputabili a titolo di colpa al lavoratore) si applicano i primi 3 commi dell'art. 7 St.lav. (cfr. Corte Cost. n. 204/82): *_ il “principio di pubblicità” del codice disciplinare * l'obbligo di preventiva contestazione dell'addebito *. si discute, poi, sull'applicabilità della c.d. pausa di riflessione di 5 gg. (Cass. n. 6900/03 la esclude, purchè il lavoratore abbia fatto pervenire al datore di lavoro le proprie giustificazioni) Il licenziamento disciplinare, ferma restando la immutabilità della motivazione dello stesso (corrispondenza tra i fatti contestati a monte della procedura e le ragioni poste alla base del provvedimento di licenziamento finale), produce effetto dal momento in cui perviene a conoscenza del lavoratore, in virtù della sua qualità di atto unilaterale recettizio, e ciò rileva soprattutto ai fini della sua impugnazione. “Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro 60 gg. dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta (che conterrà, ai sensi della vigente normativa, altresì la contestuale esplicitazione dei motivi). Sicchè, il lavoratore che intende contestare la decisione del datore è tenuto a manifestare la propria volontà di impugnazione (che può essere fatta anche per il tramite di un atto stragiudiziale, vale a dire anche una semplice lettera raccomandata indirizzata al datore di lavoro, da cui emerga la volontà di contestare il licenziamento). In questo caso, in ossequio a ragioni di favor per la posizione del lavoratore, ex art. 5 L. 604/66, l'onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, spetta al datore di lavoro (al riguardo si precisa che nella sola ipotesi del motivo discriminatorio, la prova dell'elemento soggettivo spetterà al lavoratore). LE TUTELE 60 Il discorso sulle tutele viene in rilievo allorquando ci si chieda cosa succede quando il Giudice accerti l'illegittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro, in quanto non supportato né da giusta causa, né da giustificato motivo. Il licenziamento comminato dal datore di lavoro nei confronti di un singolo lavoratore incorre in particolari conseguenze qualora il provvedimento manchi di una giusta causa o di un giustificato motivo (oggettivo o soggettivo). In tali casi si parla di illegittimità del licenziamento e il lavoratore gode delle tutele previste dalla legge. Le recenti riforme hanno articolato ulteriormente i sistemi di tutela in caso di licenziamento illegittimo: si ricorda - riforma del 2012, cd. Riforma Fornero, L. 92/2012 - riforma 2014-2015, cd. Jobs Act, in particolare, D.lgs. 23/2015. Tali riforme si pongono in continuità tra loro, rispondendo entrambe ad una nuova filosofia di approccio al mercato del lavoro, all'insegna del modello di flexicurity di derivazione comunitaria. Sicchè, il quadro generale delle norme da prendere a riferimento è così sintetizzabile: - L.604/66 - L. 300/1970 - L.92/2012 - D.lgs. 23/2015 AI di là della stratificazione normativa intervenuta, appare ancora utiulizzabile la distinzione tra due tipologie di tutela, in tema di licenziamenti illegittimi: - tutela "obbligatoria", prevista dall'art. 8 L. 604/66 - tutela "reale", prevista dall'art. 18 St. Lav. Quanto alla tutela obbligatoria, è opportuno rilevare come questa sia una tutela meno forte rispetto alla tutela reale, e si applica alle imprese di minori dimensioni. L'art. 8 della legge 604/1966, così come sostituito dall'art. 2 della legge 108/1990, disciplina le conseguenze sanzionatorie applicabili in caso di licenziamento illegittimo (di un lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015) comminato da un datore di lavoro che non rientra nelle soglie dimensionali indicate dall'art. 18 della legge 300/1970. La disposizione in parola prevede in particolare che, in dette ipotesi, a prescindere dal vizio individuato, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro a riassumere il dipendente entro il termine di tre giorni, oppure, in 61 mancanza, a versargli un'indennità risarcitoria, la cui misura viene determinata tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mersilità (tenendo conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'impresa, dell'anzianità di servizio del lavoratore, nonché del comportamento e della condizione delle parti). L'indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore a dieci anni, e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore a 20 anni. In buona sostanza, il licenziamento, anche se dichiarato illegittimo, risolve il rapporto di lavoro, ma fa sorgere in capo al datore di lavoro un'obbligazione alternativa: o riassume o risarcisce. Chiaramente, RIASSUNZIONE sta a significare che vi è ricostruzione EX NOVO del rapporto di lavoro, sicchè il periodo intercorrente tra l'intimazione del licenziamento e la sentenza dichiarativa della illegittimità del licenziamento stesso, anche ai fini contributivi e previdenziali, va perduto. Quanto alla tutela reale, questa si configura come una tutela maggiormente più forte ed effettiva rispetto a quella obbligatoria, e trova applicazione in relazione alle imprese di maggiori dimensioni. In relazione al campo di applicazione dell'art. 18, questo trova applicazione in relazione ad imprese di dimensioni medio-grandi, ovvero: * unità produttive con più di 15 dipendenti (5 se agricole); * unità produttive con meno di 15 dipendenti (5 se agricole) se l'azienda occupa nello stesso comune più di 15 dipendenti (5 se agricola); * aziende che complessivamente hanno più di 60 dipendenti La forza della tutela reale risiede nella REINTEGRAZIONE del lavoratore unita al RISARCIMENTO DEL DANNO subito dal lavoratore medesimo per il licenziamento ingiustificato, commisurato alla retribuzione globale di fatto "dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione", fermo restando che la misura del predetto risarcimento non potrà essere inferiore a 5 mensilità, sebbene il tempo trascorso sia minore. Per REINTEGRAZIONE si intende l'ordine rivolto al datore di lavoro di ripristinare, anche sul piano fattuale, il rapporto di lavoro. Sicchè, il lavoratore "recupera", diversamente da quanto non accada con la tutela obbligatoria, anche ai fini 62 rientra in una delle condotte punibili con sanzione conservativa sulla base del contratto collettivo nazionale di lavoro applicabile; e in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, se il fatto è manifestamente infondato (cd. licenziamento economico illegittimo). Il giudice, annullando il licenziamento, ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento del risarcimento del danno oltreché al versamento dei contributi previdenziali per tutto il periodo fino alla reintegrazione effettiva. Il risarcimento, in questo caso, corrisponde ad una indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto sia ciò che il lavoratore ha effettivamente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative (aliunde perceptum), sia ciò che lo stesso avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione (aliunde percipiendum). Il legislatore fissa inoltre un limite massimo per il risarcimento, che non può in ogni caso superare un importo pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto. Anche in tal caso, il lavoratore può optare per l'indennità sostitutiva della reintegra. NB. Tale tutela è espressamente prevista anche per i casi specifici di difetto di giustificazione del licenziamento intimato per motivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore. Quanto al regime della "TUTELA RISARCITORIA PER LICENZIAMENTI INEFFICACI (o tutela risarcitoria debole o indennitaria debole), questo trova applicazione nelle ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per vizi diversi dalla mancanza di forma scritta, ovvero: * per violazione del requisito di motivazione di cui all'art. 2, comma 2, I. 604/66, * per violazione della procedura di cui all'art. 7 St. lav., dell'art. 7 |. 604/66, * per violazione della procedura di licenziamento economico In tali ipotesi, il datore è condannato al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva tra un minimo di 6 ed un massimo di 12 mensilità, senza reintegrazione. Infine, quanto al regime della TUTELA RISARCITORIA FORTE (o indennitaria forte), questo si applica a tutte le ipotesi non contemplate dalle altre tutele, qualora il giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o oggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro. In tal caso il giudice, dichiarando risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento, condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del 65 lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti. Analizzate le 4 forme di tutela introdotte dalla Riforma Fornero, occorre considerare come questa abbia apportato alla disciplina dei licenziamenti individuali anche ulteriori modificazioni: - viene introdotto, per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, una procedura di conciliazione obbligatoria che il datore di lavoro con più di 15 lavoratori deve attivare prima della comunicazione del licenziamento; - viene posto a carico del datore di lavoro l'obbligo di specificare nella lettera di licenziamento i motivi che lo hanno determinato; - viene ridotto da 270 a 180 giorni il termine entro il quale deve essere depositato il ricorso giudiziale o comunicato alla controparte il tentativo di conciliazione o arbitrato a seguito dell'impugnazione stragiudiziale; - viene introdotto un rito specifico per le controversie aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dal novellato art. 18. LE NOVITÀ DEL JOBS ACT La vicenda relativa all'art. 18, tuttavia, non si è esaurita con la riforma Fornero. Difatti, il processo riformatore è proseguito con l'emanazione della legge delega n. 183/2014, cui fanno seguito ben otto decreti attuativi. In ordine ai licenziamenti, ad ogni modo, occorre focalizzarsi sul D.lgs. n.23/2015 ("Disposizioni in materia di contratto a tutele crescenti"). Tra le finalità della riforma si annoverano: m “rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione" (art. 1, comma 7, l.d.); mi “riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo" (art. 1, comma 7); m “assicurare, in caso di disoccupazione involontaria, tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori” (art. 1, comma 1); m “garantire la fruizione dei servizi essenziali in materia di politica attiva del lavoro su tutto il territorio nazionale" (art. 1, comma 3) m “conseguire obiettivi di semplificazione e razionalizzazione delle procedure di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro nonché in materia di igiene e sicurezza sul lavoro” (art. 1, comma 5); 66 m “garantire adeguato sostegno alla genitorialità, attraverso misure volte a tutelare la maternità delle lavoratrici e favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori” (art. 1, comma 8) Nel perseguire tali obiettivi, il Governo Renzi si ispira al modello europeo della c.d. flexicurity: si tratta di una strategia politica che tenta, in maniera sincronica e coordinata, di aumentare la flessibilità del mercato del lavoro, dell'organizzazione e delle relazioni di lavoro, da una parte, e di aumentare la sicurezza - la employment security e la social security - dei gruppi più deboli dentro e fuori il mercato del lavoro, dall'altra parte. Segnatamente, quanto al campo di applicazione del contratto di lavoro a tutele crescenti, questo si applica - Peri lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a_far_ data dal 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del decreto 23) - Mentre sono esclusi i DIRIGENTI Si badi bene che non si tratta di un nuovo tipo di contratto, bensì, più semplicemente, dal 7 marzo 2015 in poi, il datore di lavoro che assume un lavoratore a tempo indeterminato dovrà attenersi ad un nuovo regime sanzionatorio in caso di licenziamento illegittimo (un meccanismo indennitario che prevede l'incremento dell'indennizzo in relazione all'anzianità del lavoratore, ed è in ciò che si racchiude il concetto delle "tutele crescenti"). Sicchè, la reintegrazione nel posto di lavoro è prevista nei soli casi di: e licenziamento discriminatorio; e licenziamento nullo per espressa previsione di legge; e licenziamento orale; e licenziamento in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore; e licenziamento disciplinare in relazione al quale sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore. La nuova disciplina interessa tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto (7 marzo 2015). I lavoratori già in forza prima di questa data continueranno, invece, a beneficiare dei regimi di tutela previsti dall'art. 18, purché, naturalmente, risultino assunti in strutture che superano le soglie numeriche previste dalla legge (unità produttiva con 67 - detti licenziamenti, nello stesso arco di tempo e nello stesso ambito, siano comunque riconducibili alla medesima riduzione o trasformazione di attività o lavoro. LA PROCEDURA Il datore di lavoro deve, preliminarmente, dare comunicazione dei previsti licenziamenti alle Rappresentanze sindacali aziendali, nonché alle rispettive associazioni di categoria. Tale comunicazione deve indicare: - imotivi che determinano la situazione di eccedenza di personale; - i motivi tecnici, organizzativi e/o produttivi per i quali si ritiene di non poter evitare i licenziamenti; - il numero, la collocazione aziendale e i profili professionali del personale eccedente e di quello normalmente occupato. In questa fase preliminare, pertanto, il sindacato riveste un ruolo centrale, rafforzato dalla previsione (introdotta dalla L.92/2012), secondo cui gli eventuali vizi della comunicazione possono essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell'ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo. A seguito di tale comunicazione le Rappresentanze sindacali aziendali e le associazioni di categoria, eventualmente assistite da esperti, possono chiedere un esame congiunto della situazione e, qualora non sia possibile evitare la riduzione di personale, mediante misure alternative, è esaminata la possibilità di ricorrere a misure sociali di accompagnamento tese, in particolare, a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori licenziati. In caso di esito negativo, la struttura territoriale dell'Ispettorato (o Direzione territoriale del lavoro), può convocare le parti per effettuare un ulteriore tentativo di accordo. Esaurita questa fase, il datore di lavoro deve procedere ad individuare i lavoratori da licenziare tra tutti quelli eccedenti, attenendosi a precisi criteri di scelta. Segnatamente, tali criteri di scelta sono stabiliti all'interno dei contratti collettivi e, qualora questi manchino, il datore di lavoro deve attenersi ai criteri indicati dall'art 5 comma 1 L. 223/91 in concorso tra loro, quali: carichi di famiglia, anzianità, esigenze tecnico-produttive ed organizzative. Una volta individuati i lavoratori, il datore di lavoro può esercitare il diritto di recesso che deve essere comunicato per iscritto e nel rispetto del termine di preavviso. 70 Entro 7 giorni dalla comunicazione dei recessi, deve essere comunicato per iscritto, alla Direzione Regionale del Lavoro, alla Commissione Regionale permanente tripartita e alle associazioni di categoria, l'elenco dei lavoratori licenziati, con la puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta. Il predetto termine di 7 giorni è stato previsto dalla L.92/2012. In precedenza, la comunicazione doveva avvenire contestualmente alla comunicazione del recesso ai lavoratori. La Riforma Fornero ha, poi, esteso ai licenziamenti collettivi, ai fini dell'impugnazione del licenziamento, le disposizioni dell'art. 6 L.604/66, che individua i termini per l'impugnazione del licenziamento individuale. Resta, dunque, confermato il temine di decadenza di 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione, con qualsiasi atto scritto, anche extra-giudiziale, idoneo a rendere nota la sua volontà, anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. Il lavoratore deve, altresì, rispettare l'ulteriore termine di 180 giorni entro il quale, pena l'inefficacia della impugnazione, deve depositare in Tribunale il ricorso giudiziale, ovvero comunicare al datore di lavoro la richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato. IL REGIME SANZIONATORIO “Fornero"” Il regime sanzionatorio dei licenziamenti collettivi illegittimi si articola, a seguito delle modifiche della Riforma Fornero, sui seguenti tre livelli in relazione alle diverse ipotesi di illegittimità. Pertanto, se il licenziamento è illegittimo: - per violazione della forma scritta, il giudice ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e lo condanna al risarcimento del danno e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali (tutela reale piena); - per violazione della procedura sindacale prevista dalla |.223/91, il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva compresa tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto (tutela risarcitoria forte); - per violazione dei criteri di scelta, il giudice annulla il licenziamento e ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e lo condanna al pagamento di una indennità risarcitoria non superiore a 12 mensilità 71 e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali (tutela reale limitata). IL NUOVO REGIME SANZIONATORIO (Jobs Act) Nei confronti dei lavoratori (operai, impiegati e quadri) rientranti nel campo di applicazione del D.lgs. 23/2015, si applica il nuovo regime sanzionatorio basato, invece, su due livelli di tutela. Difatti, se il licenziamento è illegittimo: - per violazione della forma scritta, il giudice ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e lo condanna al risarcimento del danno e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali (tutela reale piena) - per violazione della procedura sindacale o per violazione dei criteri di scelta, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore sempre in ogni caso a/ pagamento di una indennità di importo pari a 2 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4e non superiore a 24 mensilità (tutela risarcitoria forte). 72
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved