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Rapporto medico paziente, Appunti di Bioetica

appunti sul rapporto tra medico e paziente nella legge italiana e discussione bioetica sul aborto

Tipologia: Appunti

2014/2015

Caricato il 08/12/2015

giuseppepellecchia
giuseppepellecchia 🇮🇹

5 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Rapporto medico paziente e più Appunti in PDF di Bioetica solo su Docsity! Cos’è Il rapporto medico – paziente è quella particolare relazione che si instaura tra un medico (o, usando una espressione di più ampio respiro, un professionista sanitario) ed un paziente a partire da uno stato di malattia di quest’ultimo e che è caratterizzata da specifici doveri e diritti morali e giuridici. È un rapporto asimmetrico in cui la parte più vulnerabile è il paziente, il quale è dipendente dalla competenza e dal potere del medico. Generalmente questa relazione si esplica all’interno di un contesto sanitario, pubblico o privato, e solo in casi particolari in un contesto domiciliare (ad esempio in situazioni di fine vita che richiedono la presenza di cure palliative a domicilio). Il paternalismo medico Il rapporto medico – paziente è stato caratterizzato fin dal giuramento di Ippocrate da un’etica medica paternalistica, vale a dire da una concezione etica che prescrive di agire, o di omettere di agire, per il bene di una persona senza che sia necessario chiedere il suo assenso, in quanto si ritiene che colui che esercita la condotta paternalistica (nel caso specifico il medico) abbia la competenza tecnica necessaria per decidere in favore e per conto del beneficiario (il paziente). Da questa prospettiva, il medico è impegnato a ripristinare una oggettiva condizione di salute (indipendente dalle preferenze del paziente) e la relazione è fortemente asimmetrica poiché il paziente viene considerato non solo privo della conoscenza tecnica ma anche incapace di decidere moralmente. I principi etici che sono alla base del paternalismo sono il principio di beneficenza – che prescrive l’obbligo di agire per il bene del paziente – ed il principio di non maleficenza - che esprime l’obbligo di non arrecare danno al paziente. Trasformazioni nella seconda metà del XX sec. Nel corso degli ultimi decenni del XX secolo si sono avute profonde trasformazioni nel modo in cui viene esplicata la pratica medica, che hanno sollevato dubbi ed accesi dibattiti sulla validità dell’etica medica tradizionale (quella appunto paternalistica). Tra le trasformazioni più significative possiamo ricordare, da una parte, il notevole progresso scientifico e tecnologico, che ha permesso alla medicina di avere una reale capacità tecnica di intervenire con un qualche successo (basti pensare alle macchine vicarianti nei reparti di terapia intensiva, alle macchine per la dialisi, alle tecniche per la riproduzione assistita, ai trapianti di organo, ecc.) e, dall’altra, la rivendicazione di sempre più spazi di autonomia da parte dei cittadini e delle cittadine che, nell’ambito dell’assistenza sanitaria, ha contribuito a creare un contesto favorevole per l’approvazione da parte dell’American Hospital Association nel 1973 della Carta dei diritti del paziente (Patient’s Bill of Rights). In questo documento viene reclamato il diritto del paziente ad essere informato e ad essere partecipe delle decisioni terapeutiche che lo riguardano. Una rivendicazione importante che comporta il riconoscimento della volontà del paziente ed il rispetto della sua autonomia decisionale. Il modello etico contrattuale Alla luce di un quadro così profondamente cambiato, il paternalismo medico è sembrato rappresentare un modello etico di comportamento non più adeguato, che andava a ledere il diritto individuale all’autodeterminazione. Ad esso si è sostituito un modello di relazione che pone al centro il principio etico del rispetto dell’autonomia del paziente: il modello etico contrattuale. In tal modo la relazione medico – paziente viene descritta come una relazione simmetrica i cui contraenti, autonomi, uguali ed aventi il medesimo potere di negoziazione, sottoscrivono liberamente un patto. Ne segue l’introduzione nella prassi medica della pratica del consenso informato, vale a dire l’assenso che viene richiesto ai singoli pazienti dal personale sanitario prima di sottoporli ad accertamenti diagnostici o ad atti terapeutici o di coinvolgerli in una sperimentazione, dopo avergli fornito un’adeguata informazione sul loro stato di salute e le alternative terapeutiche. Da questa prospettiva, diventano rilevanti il dovere del medico di informare il paziente e di ottenere il suo consenso; ed il diritto del paziente di decidere a quale trattamento sanitario sottoporsi o non sottoporsi affatto. Anche questo modello, tuttavia, mostra dei limiti nel contesto del rapporto medico - paziente. Esso, ad esempio, non riesce a cogliere elementi importanti che sono presenti in tale relazione, come il fatto che questa relazione non è paritaria e simmetrica, oppure che ci sono elementi che sfuggono al contratto, quali l’investimento di fiducia o tutte quelle virtù proprie di un agente morale che accompagnano l’assolvimento di un obbligo e che difficilmente possono essere racchiuse da un contratto sottoscritto. Queste difficoltà sono state affrontate cercando di ampliare i modelli etici di riferimento, ponendo attenzione all’approccio dei quattro principi (principilismo), all’etica della cura, all’etica relazionale, ecc., senza tuttavia perdere di vista il grande cambiamento con il quale ormai qualunque indicazione su quale paziente acconsente; di non intraprendere alcuna attività diagnostica o terapeutica senza il consenso del paziente validamente informato. A partire dalla fine degli anni ’70 in Italia si sono avute ben cinque revisioni del codice di deontologia medica avvenute nel 1978, 1989, 1995, 1998, 2006 unedì 20 agosto 2007 L ’abor to è un diritto La decisione di Amnesty International di difendere il diritto delle donne all’aborto in casi di stupro, incesto o altre violenze, o quando la gravidanza metta in pericolo la loro vita o la loro salute, sta com’è ovvio suscitando ampie reazioni. Su Avvenire di ieri, Eugenia Roccella lancia una prima bordata contro l’organizzazione («Questi paladini che non vedono e si adeguano», 19 agosto 2007, p. 1): L’aborto non si può considerare un diritto, anche le femministe lo sanno e lo dicono: è una tragica realtà, che dovremmo sforzarci di arginare, per tentare di ridurre i 46 milioni di aborti che ogni anno si praticano nel mondo. L’articolo prosegue poi con alcune confabulazioni complottistiche sulla volontà dei «poteri forti dell’antinatalismo» e dell’«Onu» di imporre aborto e sterilizzazione nel Terzo Mondo (mancano, per ora, i black helicopters...). Non vale la pena di confutare la propaganda della Roccella (notiamo solo di sfuggita la fortuna crescente del paralogismo «non è un diritto, è una realtà», introdotto per la prima volta – credo – da Adriano Pessina a proposito dell’eutanasia); chiediamoci piuttosto: l’aborto è davvero un diritto? La risposta non può che essere una sola: sì, il diritto ad abortire è un corollario inevitabile del diritto fondamentale all’autodeterminazione e alla signoria sul proprio corpo. Non riconoscere il diritto all’aborto significa che qualcuno – non importa se singolo, comunità o Stato – può diventare padrone del corpo di una persona e farne il proprio strumento, irrompendo violentemente nella sfera più intima dell’altro. Se l’aborto non è lecito, se si può impunemente trasformare una donna in un’incubatrice naturale contro la sua volontà, tutto diventa possibile: estrarre il sangue o prelevare un rene con la forza, imporre a una coppia di avere il numero di figli che altri reputeranno conveniente, etc. L’aborto rientra insomma nella sfera dei diritti negativi, cioè dei diritti alla non interferenza (può poi eventualmente trasformarsi anche in diritto positivo, se lo Stato eroga cure mediche gratuite ai cittadini). E non si può obiettare che in questo modo non si tiene conto che nell’aborto è coinvolto un altro essere umano: come ha dimostrato in pagine giustamente celebri Judith Jarvis Thomson, se anche per assurdo l’embrione o il feto nei primi mesi di sviluppo fossero persone autocoscienti, il diritto all’aborto rimarrebbe inalienabile. Ma c’è qualcosa d’altro da dire; qualcosa che tutte le persone di buon senso implicitamente ammettono, anche se per qualche ragione non viene mai o quasi mai affermato pubblicamente. L’aborto non è solo un diritto. La vulgata politicamente corretta insiste nel presentarlo come male minore, inevitabile dramma per tutte le donne; ma la verità è che per moltissime donne l’aborto è un bene. Come ha detto una volta Katha Pollitt: L’aborto legale è una cosa buona, e non solo perché impedisce quello clandestino. Senza aborto, le donne sarebbero meno sane, meno educate, meno in grado di realizzare i loro doni e i loro talenti, meno libere di scegliere i propri compagni; i bambini sarebbero accuditi peggio; il sesso sarebbe rovinato dalla paura della gravidanza, come era la norma nei bei tempi andati; le famiglie sarebbero ancora più guaste di quanto non siano già adesso; ci sarebbero ancora più madri singole, più divorzi, più povertà, e più gente infelice che si sentirebbe oppressa dalle circostanze. Sentiamo sempre parlare del rimorso e del rimpianto, e conosco alcune donne che hanno abortito e che provano questi sentimenti; ma non sentiamo mai del rimorso e del rimpianto provati dalle donne che sono andate avanti e hanno avuto il bambino, né sentiamo parlare molto delle donne che si sentono completamente sollevate e grate che l’ospedale fosse lì per loro e che possono continuare a vivere le loro vite – vite che sono buone e morali.
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