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Rapporto uomo-Natura secondo gli scrittori Latini, Appunti di Latino

Fin dalle origini l’uomo si è interrogato sulla Natura e sul rapporto che intercorre fra sé e quest’ultima. Le visioni e le concezioni di questo rapporto si sono dimostrate molteplici, alcune contradittorie, altre incapaci di giungere a una sintesi.

Tipologia: Appunti

2017/2018

Caricato il 09/10/2018

simone-tenerelli
simone-tenerelli 🇮🇹

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Scarica Rapporto uomo-Natura secondo gli scrittori Latini e più Appunti in PDF di Latino solo su Docsity! Latino Fin dalle origini l’uomo si è interrogato sulla Natura e sul rapporto che intercorre fra sé e quest’ultima. Le visioni e le concezioni di questo rapporto si sono dimostrate molteplici, alcune contradittorie, altre incapaci di giungere a una sintesi. Ciò che accomuna tutti gli uomini, comunque, è il desiderio di comprendere se la Natura possa essere considerata madre o matrigna. Essa è indispensabile per l’uomo, poiché è la sua generatrice e la sua nutrice ma, allo stesso tempo, spesso lo tradisce e lo fa soffrire. Particolarmente significative, a tal proposito, sono le concezioni del poeta latino Lucrezio e del poeta italiano Giacomo Leopardi (1798 – 1937). Nel I secolo a.C. Lucrezio, scrivendo il De rerum natura ci fornisce una visione della natura propria dell’epicureismo, partendo dall’atomismo, per poi passare all’uomo, nella sua natura composita di corpo e spirito, ed infine al cosmo. Il De rerum natura è un poema didascalico in esametri suddiviso in sei libri, che Lucrezio dedica al suo protettore Gaio Memmio 1 con lo scopo di divulgare in latino il pensiero del filosofo Epicuro (342-270 a.C.): non a caso il titolo è un calco della sua opera principe, il perduto Perì phýseos. L’epicureismo in particolare è da sempre ostacolato dai ceti elevati della società romana, che non possono tollerare le idee propugnate da Epicuro, cui contestano soprattutto il disimpegno politico e lo scarso peso degli dei negli affari umani, che poco si conciliano con la concezione romana dello stato e possono rendere vano lo strumento grazie al quale la classe dirigente deteneva il potere, ovvero la religio. Ma Lucrezio non si limita a una descrizione di fenomeni: ci lascia anche una sua opinione sul rapporto che la natura stessa ha con l’uomo. Nel II libro del De rerum natura Lucrezio ci mostra come essa renda possibile il piacere, la felicità; ciò può essere desunto dai versi 29-33 nei quali viene descritta una condizione di serenità, possibile solo nel locus amoenus: il restare adagiati su di un morbido prato la cui erba verde è coperta di fiori, presso un piccolo corso d’acqua, sotto un albero, con un tempo sereno: “…cum tamen inter se prostrati in gramine molli/propter aquae rivum sub ramis arboris altae/non magnis opibus iucunde corpora curant,/praesertim cum tempestas adridet et anni/tempora conspergunt viridantis floribus herbas”,”...quando tuttavia, familiarmente distesi sull'erba morbida,/presso un ruscello, sotto i rami di un albero alto,/con tenui mezzi ristorano giocondamente i corpi;/soprattutto quando il tempo arride e la stagione/cosparge di fiori le erbe verdeggianti”. Contrapposta alla visione positiva della natura che emerge dai versi sopra riportati, nel V libro del De rerum natura (vv. 195-227) si trova un estremo pessimismo che ci mostra la condizione umana come infelice e aspra; ci viene infatti proposta una descrizione delle fatiche e dei dolori a cui è sottoposto l’uomo a causa delle avversità della natura nei suoi confronti, essendo stata creata dal volere divino non certo per noi uomini. Lucrezio si sente vittima di una culpa, di una persecuzione: “Ciò che resta di terra coltivabile, la natura con la propria forza lo coprirebbe tuttavia di rovi, se non le resistesse la forza dell'uomo, per i bisogni della vita avvezzo a gemere sul robusto bidente e a solcare la terra cacciandovi a fondo l'aratro. E poi, la razza orrenda delle fiere, nemica del genere umano, perché la natura in terra e in mare la alimenta e la accresce? Perché le stagioni apportano malattie? Perché la morte prematura s'aggira qua e là? E inoltre, il bimbo, come un navigante gettato sulla riva da onde furiose, giace a terra nudo, incapace di parlare, bisognoso d'ogni aiuto per vivere, appena la natura lo fa uscire con sforzi fuori dal ventre della madre alle rive della luce, e riempie il luogo di un lugubre vagito, come è giusto per uno che nella vita dovrà passare per tanti mali”. In questo libro Lucrezio sviluppa un nuovo tema molto importante, che si collega sia alla sua visione filosofica, opposta al provvidenzialismo stoico, sia all’atomismo materialista della filosofia epicurea: il mondo non è stato creato per gli uomini. La prova evidente di tale affermazione risiede nel fatto che sulla terra vi sono molti luoghi inospitali, per il clima o la conformazione del territorio, e quindi inadatti a ospitare l’insediamento umano, se non dopo un duro lavoro, che si configura come un’estenuante lotta contro la natura avara ed invidiosa. Questa si presenta, infatti, come una matrigna crudele, che nega all’uomo ciò che concede, invece, agli animali, ovvero il necessario per il proprio sostentamento. E l’indifferenza della natura nei confronti degli esseri umani è proprio la logica conseguenza della concezione religiosa dell’autore (e della dottrina epicurea in generale), secondo cui gli dei esistono, e sono perfetti e immortali, ma vivono confinati in aree collocate tra un mondo e l’altro, denominate, appunto, intermundia. Nella loro perfezione, che comporta, necessariamente, l’imperturbabilità, queste divinità non sono minimamente interessate alle vicende umane; ciò significa che il mondo non è stato creato da loro, ma, come tutti gli altri elementi, animati e non, della natura, si è formato da una casuale aggregazione di atomi, che un giorno, altrettanto casualmente, si disgregheranno. D’altra parte Epicuro insegnava agli uomini a conoscerla, ad accettarla e a sentirsene parte senza alcuna paura e senza alcuna ribellione; infatti, nella celebrazione che Lucrezio fa di quest’ultimo (I libro, vv. 62-79), egli ci viene presentato come colui che, mediante lo studio razionale della natura (naturae species ratioque), ha permesso di superare le superstizioni e i timori che prima preoccupavano le menti umane, per giungere a un rapporto sereno con essa. Si trova una precisa corrispondenza fra i vv. 222-227 del De rerum natura e i vv. 39-56 del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi: “Nasce l'uomo a fatica, Ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento
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