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Re-inventare la famiglia, Schemi e mappe concettuali di Sociologia

Libro di L.Formenti . Un testo per reinventare la famiglia. Può sembrare arrogante , chi siamo noi per modificare la famiglia, forma di via che da secoli sopravvive ? In questo libro, attraverso delle ricerche, scopriamo il ruolo del Consulente Famigliare.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2017/2018

Caricato il 08/08/2018

ilaria1295
ilaria1295 🇮🇹

4.3

(19)

13 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Re-inventare la famiglia e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Sociologia solo su Docsity! RE-INTENTARE LA FAMIGLIA Introduzione Il libro si basa su una forma di “ermeneutica pratica”, un pensiero operativo che nasce dall’azione e ritorna all’azione costruendo il senso, la teoria, a partire dall’apparente caoticità dell’esperienza. Il senso non è insito nell’azione, né nell’esperienza in sé, ma nasce da un percorso dialogico, basato sulla riflessività e sullo scontro di cornici. La famiglia, come soluzione specifica al bisogno umano di cura, protezione, educazione, ha preso forme diverse accomunate solo dalla loro organizzazione auto-mito-poietica. Nessuno può re-inventare la famiglia a tavolino. Re-inventare vuol dire, dunque, re-inventarci come osservatori delle famiglie, rivedere le prospettive che mettiamo in campo. La nostra prospettiva è sistemica, non è però da confondere con l’idea di sistema famigliare così scontato ai giorni nostri e divenuto quasi banale. La sistemica obbliga a un altro modo di guardare, di sentire, di concepire le relazioni. Un modo di com-porsi nella relazione con le famiglie, che richiede di essere praticato, diventando uno stile di pensiero se non uno stile di vita. Noi tutti abbiamo esperienza di ciò che significa famiglia, la famiglia è già stata inventata. Siamo immersi in questa continua invenzione, ma non ne siamo consapevoli. Il compito dell’educazione e della formazione è, quindi, quello di costruire riflessività e consapevolezza rispetto ai modi i cui la famiglia, “quella famiglia”, è stata inventata e re-inventata continuamente. Il professionista dell’educazione è dunque portatore di uno sguardo, ha un’idea di famiglia, ma non ne è consapevole fino a quando non si confronta/scontra con altri e con le sue idee. Il libro vuole offrire l’occasione per riflettere: qual è la mia idea di famiglia? Come l’ho imparata? Infatti, se il professionista entra nel sistema famigliare armato delle sue idee e dei suoi pregiudizi, poco propenso a modificarli, il sistema di relazioni (la famiglia) non sarà desideroso di muoversi verso la direzione stabilita dal professionista. Non è questione di resistenza, ma di fedeltà a se stesso. Ogni famiglia tende ad essere profondamente coerente con se stessa, magari diventando incoerente con le aspettative della società più ampia oppure con i desideri o i bisogni di uno dei suoi membri. Smontare i pregiudizi e le invenzioni è il primo passo per re-inventare la famiglia. Il secondo passo consiste nell’acquisire competenze e capacità di riconoscere quello che c’è: cultura famigliare, strategie per affrontare le crisi, copioni dei ruoli ..tutto quello che non si vede al primo sguardo. Il terzo passo sarà inventare nuovi pensieri, nuove visioni e nuove possibilità. PRIMA PARTE: lo sguardo dipende dall’azione La percezione non avviene senza movimento. Noi disegniamo il mondo estraendo da esso le distinzioni che cerchiamo, grazie a un apparato percettivo organizzato in un certo modo. Lo stesso schema, azione-percezione, funziona con i processi cognitivi superiori. Lo sguardo dipende dall’azione: se i processi di percezione e di conoscenza dipendono da quello che noi facciamo nel mondo, cioè dalle azioni specifiche che noi esercitiamo sugli oggetti, non sarà la definizione di questi oggetti a farceli conoscere. Il nome non è inerente a una cosa ma appartiene alla società, a una famiglia a una biografia. Ogni definizione che arriveremo a dare sarà legata a delle azioni che noi stessi avremo compiuto oppure ereditate da altri. La tesi di questa prima parte è che lavorare con la famiglia richiede una consapevolezza epistemologica, cioè un atteggiamento interrogante nei confronti dei nostri presupposti. Il modello a cui ci siamo ispirati, quello sistemico, mette l’idea di comunicazione al centro di tutti i processi umani: tutto è messaggio. La metafora dello sguardo è parziale: nella conoscenza della famiglia tutti i sensi sono coinvolti. 1. Farsi l’orecchio: le invisibili partiture della famiglia I teorici dei sistemi hanno concepito la comunicazione umana come un insieme organico di livelli complessi, contesti multipli e circuiti riflessivi. Comunicare è partecipare a un’interazione complessa. Metafora musicale per introdurre il concetto di sistema: siamo così abituati a pensarci come solisti, come unica nota, che per incontrare le famiglie dobbiamo abituare l’orecchio, addestrarlo alla ricerca ecologica delle connessioni e delle armonie. Definizione di sistema p. 7 L’approccio sistemico si fonda su una ecologia delle idee e quindi sulla curiosità per tutto quello che non appare immediatamente valido o scontato. Si adotta una postura di curiosità, aprendo lo sguardo sulla famiglia per cercare di afferrare le verità che si nascondono dentro le storie. Un racconto infatti è espressione di un sistema complesso di idee e immagini che trascende l’individuo. La mia famiglia è una rock band “farsi l’orecchio” per l’educatore sicuramente significa imparare tecniche di osservazione e comunicazione, concetti e teorie, ma soprattutto significa assumere una postura, cioè apprendere a interfacciarsi con le situazioni nelle quali si trova immerso come se fosse lui stesso uno strumento. La metafora con la quale possiamo spiegare la famiglia è quella di una band (p.10). C’è una connessione tra il modo in cui la famiglia è composta (le sue relazioni) e ciò che crea: paradigmi, modelli educativi, storie, benessere o malessere. Per comprendere una specifica famiglia è necessario ascoltarla attentamente, provare a suonarci insieme. Una caratteristica delle famiglie è la consuetudine, la ripetitività e la ridondanza dei modelli di comunicazione. Ognuno prova a dare il suo contributo che, unito alla voce degli altri, darà vita al sound unico e specifico di quella famiglia. Gli strumenti sono specifici e diversi, ma non è la loro somma a dare il tutto, ma è il modo peculiare in cui si amalgamano e armonizzano. Imparare a lavorare in modo sistemico significa, prima di tutto, imparare ad “apprendere i contesti” cioè mettersi in interazione e relazione con i sistemi comunicativi, usando la comunicazione stessa come veicolo. Dal punto di vista sistemico, l’educatore non è un direttore d’orchestra, né un manager, né un ascoltatore della famiglia anche se occasionalmente si trova a gestire questi copioni (= modello operativo che racchiude le aspettative su cosa si deve fare in determinate situazioni. Un sistema di aspettative implicite che organizzano eventi ripetitivi entro un dato contesto. Il copione è una forma di conoscenza schematica.) la famiglia è un’opera collettiva, incompiuta e sempre in costruzione. Con-vivenza: le condizioni materiali di vita Per farci l’orecchio sul sistema familiare dobbiamo partire da ciò che innanzi tutto la qualifica, cioè la convivenza, che vuol dire abitare concretamente uno spazio condiviso nel quale sono date alcune possibilità di interagire mentre alcune sono precluse. Non è la stessa cosa suonare in una piccola cantina o in una grande sala da concerti. Non sempre lo spazio abitativo è percepito come la casa di tutti, del “noi”. La casa è un simbolo molto forte del noi e contemporaneamente dei sé: riconosciamo come casa quel luogo in cui possiamo essere autenticamente noi stessi, dove possiamo prenderci cura delle nostre passione, ferite, delle persone che amiamo, luogo dove sostare e riposare, incontrare amici, fare nido. Convivenza vuol dire anche tempi e ritmi condivisi: il tempo familiare si impone sui ritmi personali. Oggi più che mai il dilemma tra tempo per sé e tempo per la famiglia è acuito dal mito dell’adulto che persegue il proprio progetto contrapposto al sentimento della famiglia. Quindi, la convivenza è uno spazio d’interazione condiviso che dobbiamo imparare ad osservare con curiosità e rispetto. Non ci sono modi di convivenza giusti o sbagliati. Non esistono case totalmente felici o totalmente tristi. Quello che si può cercare di comprendere nel 2. Formare lo sguardo attraverso le pratiche Di quale famiglia parliamo? Le forme familiari sono sempre più variegate: coppie senza figli, famiglie mono-genitoriali, le coppie non coniugate, le unioni omossessuali… vi è poi la questione cruciale della cosiddetta “naturalità” della famiglia centrata sull’unione tra uomo e donna. In crisi non è dunque la famiglia in sé, ma la sua visione monolitica. Bisogna cercare di imparare a raccogliere una storia di relazioni familiari, così che questa, una volta narrata, modificherà la percezione dei fatti per aiutare a capirne la complessità, prevede una postura educativa che si calibra in itinere. Le storie non fanno altro che connettere le vicende, rendendo esplicita una dimensione interattiva naturalmente sistemica. Una storia, però, non vale l’altra: il modo in cui è raccontata provoca conseguenze concrete. Moltiplicare e comporre gli sguardi Il fatto che non possiamo non provenire da una famiglia e che, quindi, siamo portatori di una naturale sapienza, costituisce il principale ostacolo con cui fare i conti per realizzare un apprendimento trasformativo. I pregiudizi più comuni riflettono una concezione familistica che assume toni polarizzati. I legami familiari appaiono di volta in volta salvifici-generatori di malessere, assolutamente positivi- congelati in un’aure mitica e irreale. Come trasformare l’esperienza di vita e l’appartenenza a un contesto sociale e familiare in sapere utile che renda mobile e molteplice il proprio sguardo sulla famiglia? Partire dalle pratiche Si tratta di una cornice per l’azione che invita a fare attenzione al contesto, alla peculiarità di ogni singola situazione e ai presupposti di ogni impresa formativa. Passaggi cruciali di questa didattica: • Domandare per accogliere e ricercare: l’arte di porre domande aiuta a problematizzare sollevando questioni su temi che appaiono scontati. Porre domande apre possibilità a ricercare insieme risposte soddisfacenti, invita alla molteplicità delle versioni, valorizza le differenze, suscita curiosità. Una buona domanda è quella che rende visibili i presupposti, li ridiscute e solleva questioni su aspetti assodati, problematizzandoli. È un’esperienza generativa: le domande sono potenti strumenti per indagare, descrivere e raccontare la realtà. Significarla e trasformala attraverso il linguaggio. Le domande possono far nascere storie, innescare cambiamenti, oppure chiudere le possibilità e le conversazioni confermando storie già scritte. Perseguire l’ottica sistemica nella formulazione delle domande significa imparare l’arte della ristrutturazione (p.49) e della connotazione positiva: da una parte per non chiudere troppo lo sguardo dentro interpretazioni pregiudiziali, dall’altra per evitare la retorica della generalizzazione e del moralismo, che condanna e colpevolizza a priori le famiglie. Ciò che fa la differenza sono i modi in cui noi poniamo la domanda, gli aspetti prossemici, non verbali e preverbali. Le domande che appaiono più generative sono quelle che: esplorano presupposti, evidenziano intenzioni complesse, focalizzano particolari culture domestiche. Sono domande che personalizzano, contestualizzano, invitano alla narrazione e al ricordo dettagliando e circoscrivendo. Domande che spostano lo sguardo. • Sperimentare concetti (le teorie vanno rispettate non riverite): connettere, mettere in comunicazione, collegare sono azioni estetiche che esprimono la necessità di comporre in un universo ordinato e di senso le informazioni che noi acquisiamo. La ricerca si scontra con il paradosso di dover operare delle distinzioni per poi unirle. Nell’acquisire il linguaggio prendiamo l’abitudine di far coincidere le parole con la realtà che descrivono. Dando nomi alle cose sottraiamo al tempo, alla relazione, al movimento, ciò che perennemente cambia. Aprire le parole per liberarle verso nuove sonorità e costellazioni di significati consente di formulare nuove storie. • Pensare ad alta voce: il lavoro educativo non si effettua in solitudine, ma in gruppi di lavoro costruiti attorno a un progetto. Alla complessità del lavoro educativo con la famiglia in quanto sistema deve corrispondere una complessità di idee e progettualità. Pensare insieme è faticoso, ma costituisce per gli educatori un’insostituibile opportunità di ambientamento alla complessità di cui si occuperanno. L’attenzione e la cura che i membri di un’organizzazione investono nei propri rapporti interni corrisponde alla qualità dei servizi erogati. Allenarsi a pensare insieme significa incontrare oltre il proprio, il pensiero dell’altro. Pensare ad alta voce significa accorgersi del proprio pensiero. Si favorisce la scoperta di se stessi, dei propri pregiudizi e stereotipi. La proposta è quella di condividere in gruppo quanto prodotto individualmente, per aprirsi allo stupore dell’alterità collettiva come patrimonio cui attingere. • Trasformare l’esperienza in sapere: la riflessione è il processo in cui si valutano criticamente il contenuto, il processo o le premesse dei nostri sforzi finalizzati a interpretare un’esperienza e darle significato. L’attenzione sistemica è piuttosto orientata alle pratiche che l’osservatore ha per attribuire significato all’esperienza tramite il linguaggio, costruendo mappe composte da premesse, culture, valori. È grazie a queste che arriviamo a definire e classificare. L’esperienza biografica dovrebbe potersi trasformare in sapere comunicabile e riconoscibile. Vedere ogni famiglia come portatrice di risorse non significa condividerne ingenuamente ogni scelta, ma adottare un pregiudizio di fiducia nelle possibilità generative. Un risvolto di questa pratica è la possibilità di guardare con occhi diversi la propria famiglia. 3. Alla ricerca delle tracce. I sensi della genitorialità tra frammenti autobiografici e teorie evolutive Tracce: un impegno di ricerca La memoria autobiografica, cioè il recupero più o meno improvviso di ricordi, il riemergere ad un livello consapevole di frammenti di storia vissuta contribuiscono a far comprendere e comprender- ci, non necessariamente ed esclusivamente nella dimensione cognitiva. Nella memoria autobiografica ci sono le testimonianze visibili e palpabili di ciò che abbiamo raccolto e conservato. La spinta al cambiamento e alla ricerca avviene tutte le volte che non troviamo “una spiegazione soddisfacente dal punto di vista cognitivo, morale, estetico e pratico. È lì che costruiamo le teorie. Ogni teoria è un frammento di qualche autobiografia. Ciascuna teoria è tale solo se ha senso per me, se ha una collocazione nella mia storia, un legame con le mie azioni. La famiglia non costruisce teorie nel vuoto, ma sempre collegate al sistema dei saperi accreditati. Se vogliamo individuare tracce di famiglia il primo movimento risiede nel volgere uno sguardo, curioso e non interpretativo, alle teorie così come i singoli le costruiscono, alle relazioni tra saperi familiari e saperi accreditati. Uno dei peggiori mali del nostro tempo è la banalità, per questo è bene imparare a riconoscere l’originalità e la complessità delle relazioni elaborate dalla famiglia. Siamo quotidianamente chiamati a rielaborare i nostri saperi, a connetterli e coordinarli, utilizzando strategie volte alla ricerca di una presa di posizione che meglio permetta di controllare i mutamenti in atto che stanno coinvolgendo i sistemi in cui siamo coinvolti. Ogni mento della famiglia costruisce teorie locali. Qui c’è odore di famiglia Se il primo passo del cercatore di tracce è verso il riconoscimento della teoria , in quanto teoria locale, il movimento immediatamente successivo va verso l’esplorazione dei nessi che intercorrono tra il sapere e l’esperienza, tra il pensiero e l’azione. La cultura occidentale si basa su dualismi. Una visione radicata è quella che oppone la teoria e la pratica, il pensiero e l’azione, la mente e il corpo, dove solo al primo polo del binomio è attribuito un valore di presunta scientificità e la pratica diventa mera applicazione della teoria, e il corpo un semplice contenitore della mente. L’approccio autobiografico può fornirci tracce quando restiamo nell’intrinseca complessità delle storie. I frammenti autobiografici ci parlano di percezioni, di emozioni, di sensi e sensazioni, di gesti, corpo, mente e pensieri. Ecce homo: pater et mater Le teorie evolutive di stampo sistemico- costruttivista possono offrirci alcune indicazioni per riconoscere altre tipologie di tracce di famiglia. Ma come imparare a riconoscere altre tracce? Proviamoci sul tema della genitorialità. La genitorialità è prettamente umana, è strettamente intrecciata con la nostra umanità. La genitorialità è universale, è un tratto specie-specifico dell’uomo, al pari del pensiero simbolico e del linguaggio verbale. Quando pensiamo alla genitorialità ci viene in mente l’immagine di un uomo e una donna adulti con due bambini. È quando vogliamo cercare di spiegare la genitorialità che ci rendiamo conto della molteplicità che questo concetto implica. Riconosciuta l’universalità della genitorialità le sue tracce vanno ricercate nel tempo. Storicizzare e contestualizzare: operazioni cruciali L’antropologia ha molto da insegnare agli educatori che lavorano nella famiglia. La genitorialità è bio-culturale: ha le sue radici nella natura, nasce dal fatto biologico della riproduzione, ma si sviluppa nella dimensione culturale e sociale. La nostra condizione di essere umani è una condizione plurale e in tutto il pianeta ci sono una pluralità di regole sociali, espressioni simboliche e rituali che riguardano il rapporto di filiazione, di coppia e il fare famiglia. Per riconoscere le tracce di famiglia è necessario restare in una complessità e interconnessioni di piani che ci porta ad accogliere la dimensione locale nell’universale. Abbiamo bisogno di non perdere di vista l’insieme di circostanze ambientali, simboliche e relazionali all’interno delle quali la traccia è nata e si è sviluppata. Uno sguardo storico e contestuale può fornirci tracce che raccontano altre storie. Il genitore, la famiglia che oggi ho davanti è anche l’esito, provvisorio e in divenire, di un modo di intendere la genitorialità costruito in un processo storico e in uno specifico contesto di cui sono parte sia la famiglia sia l’educatore-cercatore di tracce. Nel processo di re-inventare la famiglia, storicizzare e contestualizzare diventano due operazioni cruciali quando permettono di moltiplicare gli sguardi. Oltre l’istantanea fotografia L’occhio dell’educatore è sempre mediato dalle proprie teorie, pregiudizi, storia familiari; è sempre situato in un orizzonte culturale, in un momento storico e in un contesto sociale; è sempre costruito nel linguaggio e nella comunità dell’osservatore. Questa famiglia è adeguata e quella è inadeguata. L’uso del verbo essere restituisce un solo fotogramma della famiglia, estraendolo dallo sfondo in cui è nato e si è sviluppato; l’uso del tempo presente non riesce a restituire il legame con il passato e i progetti futuri, costringendo quella famiglia dentro un eterno presente. Per riconoscere le tracce della famiglia non è sufficiente una macchina fotografica, ma è necessario affinare tutti i nostri sensi, gusto compreso. Artisti, ingegneri e bricoleur Una volta individuate le tracce abbiamo due possibilità: vestire i panni dell’ingegnere, e iniziare a misurare e quantificare; oppure vestire l’abito dell’artista, e dipingere, cantare e danzare. Arte e linguaggio del corpo gioca un ruolo determinante. Secondo la PNL ai cinque sensi corrispondono tre canali d’ingresso: visivo, uditivo e cinestetico. Le informazioni sono codificate e organizzate in modo da essere tradotte in esperienze soggettive, che acquisiscono per l’individuo un preciso significato. La capacità percettiva è appresa e dunque migliorabile. Se si vuole entrare in rapporto con le persone è utile sintonizzarsi con il loro sistema rappresentativo. Il film si presta a essere uno strumento per l’addestramento all’osservazione in quanto: • Racconta una o più storie • Permette di esaminare uno spaccato di vita a più livelli • Consente, ogni volta che serve, di riveder le sequenze dove le interazioni sono più complesse o significative Nella lettura sistemica la famiglia viene definita come “gruppo di individui con storia”. Aggiungerei che è un gruppo di individui con storia che mentre di fa si disfa, per permettere a ciascuno di sviluppare le proprie individualità e quindi realizzare la propria vita. Il film mette in scena proprio questi processi costruttivi e trasformativi. Esercitarsi con i film consente anche di far emergere le proprie visione di famiglia e i propri pregiudizi, in modo tale da arrivare nel lavoro con le famiglie il più consapevoli possibile. Quali film? La scelta dei film dipende dall’obiettivo. Ci sono due criteri generali: il primo basato sul contenuto, il secondo legato a situazioni comunicative specifiche, presenti nel film, che mostrano in modi efficaci come si costruiscono e si trasformano le relazioni umane. Il processo formativo I film sono storie, proprio come quelle che le persone portano nei contesti educativi e di cura. L’uso del mezzo audiovisivo permette quell’utile distanza che serve ad addestrarsi all’osservare. Il film è usato come strumento di formazione, occasione di apprendimento e dunque di riflessività. Il processo osservativo può essere mirato a livelli diversi: 1. Primo livello. Far emergere i pregiudizi: separare ciò che si deve da ciò che si pensa non p facile, ma ci si può addestrare. Il confronto tra i diversi modi di interpretare un film (il quale è uguale per tutti), rende palesi i pregiudizi. Il pregiudizio è una lente colorata che impedisce la visione della realtà naturale. 2. Secondo livello. Ricostruire i processi interattivi e comunicativi tra i personaggi: l’80% della comunicazione è non verbale, quando prestiamo attenzione solo al verbale perdiamo tantissimo. Tolto l’audio possiamo approfondire lo studio dei gesti, della postura, dei modi di persi… e in più emergono ancora di più i pregiudizi, perché senza audio l’interpretazione personale di ognuno è più libera ed emergerà con più evidenza. 3. Terzo livello. Affinare le tecniche di comunicazione: l’osservazione può offrire all’operatore strumenti per entrare in relazione con le persone. La PNL si basa sulle capacità creative e organizzatrici della nostra mente inconscia. Essa ha elaborato un sistema sensoriale controllabile e ha sintetizzato un insieme di interventi che ampliano la possibilità di azione. La capacità di auto-osservazione apre alla possibilità di mettersi in relazione: modificare la postura significa invitare l’altro a farlo. Sentire e/è osservare Osservare è la stessa cosa che sentire, ma con sentire la questione è più complessa. Posso sentire con le orecchie e con il corpo e anche in questo caso ci vuole addestramento. Un operatore del sociale dovrebbe essere in grado di declinare tutti i canali percettivi. Grazie all’addestramento sull’osservazione è possibile riconoscere le modalità con cui entriamo in relazione, adattandosi al canale percettivo dell’altro per poter accedere al suo mondo e sostenerne le trasformazioni. 6. Posizionamenti estetici e ricerca della bellezza Il riconoscimento reciproco, la possibilità di essere visti e “ben raccontati” dai propri famigliari è un bisogno che in qualche modo e con regole semantiche specifiche di ogni microcultura familiare accompagna la vita di ciascuno. Lavorare con le famiglie allora significa portare l’attenzione sugli aspetti di narrazioni e sul tipo di storie che reciprocamente i vari membri si raccontano per definire se stessi e gli altri. Spostare l’attenzione dalle dinamiche interattive a quelle narrative significa prima di tutto accettare che l’idea che le storie e narrazioni rappresentano uno strumento di (auto)formazione e (auto)coscienza molto potente. Significa riconoscere nelle storie il potere di creare connessioni e strutture, organizzando l’esperienza umana secondo un inizio, in proseguimento e una fine. Le narrazioni si costituiscono come una forma particolare di conoscenza che agisce sulla formazione dell’identità personale e che usiamo per dare forma e significato, vincoli e possibilità alla nostro fluida esistenza. Sono i racconti generati nelle e dalle pratiche comunicative a definire le appartenenze, i significati, i confini del sistema famigliare, l’identità di ciascuno e l’identità della famiglia. Storie saturate da una prospettiva unica Il rischio educativo che si profila è che la famiglia venga rappresentata attraverso narrazioni fisse, dove ogni apprendimento sembra da escludersi. “la mia famiglia è così, la tengo così punto e basta”. Si potrebbe anche dire che le storie narrate, così irrigidite e automatiche rischiano di non onorare più la complessità delle relazioni e dei soggetti che vi partecipano, rischiano di diventare storia a cui non ci si pensa più, facendo così venir meno un aspetto fondamentale della cura del sé. Un’azione di cura della vita e della mente è “il raccontare ciò che accade” la costruzione del proprio spazio simbolico richiede che la mente si impegni a narrare sempre di nuovo ciò che avviene e ciò che le accade di pensare. C’è un nesso profondo tra pensiero riflessivo e narrazione, cura delle relazioni e cura di sé. Riflessione formativa: la riflessività diventa autoformazione quando interrompe la riproduzione automatica del passato, genera distanza dalle storie tramandate e innesca cambiamenti. Nelle storie fisse, statiche, il problema diventa la lente attraverso cui interpretare e leggere ogni esperienza: tutto è ricondotto agli aspetti negativi della famiglia e dei suoi componenti. un sistema può essere definito patologico quando ha perso la capacità di ricevere informazioni e dunque di generare differenza. Si parla di “storia bloccate”. Quando un bambino impara a raccontare una storia coerente con quello che ha fatto impara a pensarsi. Infatti contemporaneamente alla storia costruisce gli schemi, delle strutture nelle quali la inserisce. Il suo racconto di sé non potrà prescindere dalla qualità delle storie che avrà imparato a raccontare. Cosa e come racconta l’educatore? Cosa e come guarda? È bene interrogarsi sullo stile narrativo e sulla semantica che gli operatori usano per raccontare e descrivere la famiglia per due ragioni: la prima per il benessere degli operatori stessi. Anche gli educatori, come le famiglie, chiedono aiuto ad altri (supervisione) quando le proprie storie, e quindi le proprie idee, non appaiono generative di qualcosa di utile. Quando gli operatori sono intrappolati da interpretazioni e orientamenti chiusi alla negoziazione, in genere espressi in termini impersonali avvertono sempre una notevole fatica. La seconda ragione riguarda il livello interattivo tra la famiglia e gli operatori. La questione non è solo capire come la famiglia si racconta, ma chiedersi come gli operatori interagiscano con i suoi componenti, come li vedono, che cosa vedono e che cosa cercano. In breve, come contribuiscono con la loro presenza e le loro azioni comunicative alla co-costruzione di certe narrazioni e non altre. Dalla patologia alla speranza Nel lavoro di cura possiamo individuare due grandi orientamenti: quello patogenico e quello salutogenico. La prima stabilisce una relazione causa-effetto tra fattore scatenante ed effetti provocati, tra agente patogeno e sintomo. L’aspetto centrale è posto sulle debolezze. L’orientamento alla salutogenesi, invece, senza negare i problemi, pone i propri fondamenti sui punti di forza e sulle risorse. L’orientamento alla cura che propongo è fortemente orientato verso la salutogenesi. La cura educativa orientata alla ricerca della bellezza Il lavoro di cura educativa consiste nell’introdurre variazioni , proporre sguardi differenti da quelli che i protagonisti posseggono già nei confronti delle proprie relazioni familiari e quindi di se stessi e delle propria storia, lavorando nella condizioni che esistono sempre tracce di bellezza e che queste possono essere viste dagli stessi componenti della famiglia. Si devono riconoscere queste tracce, accoglierle, valorizzarle e farle risplendere. Un posizionamento estetico nel lavoro di cura Non si tratta solo di recuperare la normalità del soggetto o della famiglia; non si tratta solo di cercare leggerezza e apertura ad altre prospettive. La proposta è più specifica e attiva: si tratta di andare insieme a cercare, con uno sguardo curioso ed esplorativo, tracce di competenza e abilità, ma soprattutto di poesia e la bellezza, di immaginazione e desiderio, per rintracciare e vivificare la narrazione familiare e trasformarla in un romanzo. Assumere un posizionamento estetico significa guardare e ascoltare con curiosità l’altro, raccontarsi e rivelarsi per apprezzare insieme la sapienza delle storie e trovare così nuove prospettive con cui ripercorrere l’esperienza e la relazione. Un posizionamento estetico è come un pensiero che riunisce mente e corpo. Le parole non bastano Le parole però hanno dei limiti, per questo nel lavoro educativo bisogna cercare di utilizzare linguaggi e grammatiche capaci di dar voce ad aspetti della vita umana che non sono totalmente verbalizzabili: il racconto, la metafora, la poesia, il disegno, il suono… per cercare di riunificare la mente e il corpo. La proposta è quella di utilizzare il lavoro con le immagini e l’immaginazione come uno dei modi possibili per suscitare la ricerca della bellezza, per aver cura dell’altro e per attivar cura tra le relazioni. 7. Tra micro e macrostoria: lo sguardo biografico per comprendere la vita famigliare L’approccio biografico e autobiografico, specialmente se plurigenerazionale, è la via per comprendere l’unicità della cultura di ogni famiglia; allo stesso tempo ci permette di vedere le connessioni tra singolo sistema familiare e il contesto più ampio. Le narrazioni famigliari ci aiutano a comprendere come cambia la vita quotidiana e come cambiano le relazioni, non solo per fattori interni a quella famiglia, ma per l’influenza delle determinanti sociali, delle appartenenze di classe, territoriali e di genere. Costruzioni biografiche Per comprendere l’impatto della dimensione biografica sulla vita famigliare ci è necessaria l’immaginazione auto/biografica, cioè la capacità di comporre sguardi multipli, andando oltre le nostre cornici disciplinari e professionali. Attraverso le storie emergono i paradigmi familiari, cioè il complesso di presupposti, immagini reali e ideali, rappresentazioni e concetti che costruiscono un modello cognitivo, emotivo, valoriale ed etico con cui la famiglia sceglie di dare forma alle sue azioni. Il paradigma è una variabile sistemica in quanto esprime caratteristiche che appartengono alla famiglia nel suo insieme. Per dare significato alla vita familiare abbiamo bisogno di costruire ricordi condivisi. Le storie che raccogliamo ci aiutano a capire e ricordare che lo scenario cambia continuamente e le soluzioni creative che ogni famiglia mette in atto, a ogni nuova generazione, Ogni azione è un fatto mentale. L’educatore lavora su situazioni che sono naturali, fino a quando non interviene un ostacolo: è nel momento della crisi, dell’errore che si rende necessario l’apprendimento, il cambiamento e, in questi casi quando è necessario, l’intervento esterno. Il contesto: dove siamo? Che cosa stiamo facendo? C’è una rete di relazioni significative intorno alla famiglia; sono necessarie alla sua sopravvivenza. Il contesto sociale è costellato da diverse relazioni: ci sono reti di relazioni significative, relazioni prossimali (le persone che mi “vedono” mi conoscono) relazioni istituzionali (gli operatori delle diverse agenzie che hanno a che fare con la famiglia), relazioni occasionali. I soggetti sono parte attiva di tutto queste relazioni, offrono e ricevono sguardi che costruiscono la loro identità, il loro benessere e malessere, le loro possibilità/impossibilità evolutive, le loro definizioni di un problema e le loro possibili soluzioni. L’educatore dovrebbe sapere come muoversi tra queste reti di relazioni, come valorizzarle per sfruttarne le potenzialità, come prendersi cura dei legami riconoscendoli e rendendoli visibili. Un aspetto più specifico del contesto sociale è il contesto istituzionale, il luogo concreto entro il quale l’intervento educativo avviene: un’organizzazione di pratiche e significati che propone cornici politiche e semantiche, le quali definiscono che cosa può e non può accadere in determinate circostanze. Ciò che si fa in quel contesto ha senso in riferimento alle sue cornici. L’analisi del contesto non ha lo scopo di bloccare il movimento o abbattere le differenze di prospettiva, ma serve per realizzare una composizione delle cornici per creare comunicazioni propizie alla trasformazione. È evidente come la conoscenza delle regole del macrosistema può aiutare l’educatore nel leggere i contesti. L’equipe multi-professionali, gli incontri di rete possono diventare luoghi di costruzione di un pensiero complesso sulla famiglia e sulle possibilità di accompagnarne le trasformazioni, se tutti si mettono in gioco per comporre gli sguardi diversi. L’analisi del contesto dunque va oltre un prendere atto dell’organigramma, dei mansionari o delle procedure istituite. Ma deve mirare alla comprensione di come il servizio evolve e si trasforma. Un cambiamento a livello istituzionale porta a ridefinire tutti gli interventi in corso. Tutti gli operatori sono chiamati a una maggior consapevolezza di ciò che accade intorno. Il lavoro educativo si connota dunque come la capacità di leggere e usare in modo creativo le risorse e i vincoli presenti, ridefinendo in tempo reali gli scenari, gli obiettivi e le azioni concrete. La capacità di riflettere sul proprio posizionamento, sulle proprie azioni in relazione a quelle degli altri, diventa una competenza indispensabile per far bene e star bene nel proprio lavoro. L’educatore che non si interroga non è utile alla trasformazione. Gli ingredienti dell’intervento educativo La domanda Il bisogno e la domanda sono da costruire ed interpretare. Più che un punto di partenza la domanda è un esito. Esiste un modo per aiutare, che non si basi sul negativo, che non si basi sul fatto che l’altro è incompetente? Una possibilità consiste nel sostituire il bisogno con il desiderio, l’aiuto con la cura. La domanda sarà così una co-costruzione, in continua ridefinizione. Non si parla di generare una domanda come se fosse pre-esistente alla relazione, ma di generare domande multiple capaci di dare senso alla relazione e alle sue continue trasformazioni. L’invio Chi è l’inviante della famiglia? Chi ritiene che si debba avere un intervento esterno? Se l’intervento viene imposto o non ne vengono comprese le necessità, ovviamente queste cornici semantiche possono ostacolare il processo di presa di responsabilità e di cambiamento. Uno dei problemi più frequenti riguarda lo scontro di premesse tra chi pensa l’intervento in termini di controllo sociale e chi ha in mente scopi educativi. Una buona comunicazione tra educatore e famiglia non richiede di sacrificare una cornice a vantaggio di un’altra, ma prova a comporle in un progetto sensato. Il mandato Interrogarsi sul mandato e disporsi a interpretarlo e ridefinirlo rende l’operatore protagonista del proprio lavoro. Non è necessario subire passivamente il mandato. Porre domande sul proprio mandato è un dono che l’educatore fa al proprio servizio, perché lo aiuta a definire meglio finalità e obiettivi chiedendosi se sono coerenti con le aspettative della famiglia. Non dare per scontato il mandato, sospendere l’azione quando non si è convinti, chiedere incontri per concordare le finalità, avviare conversazioni riflessive, sono competenze che danno autorevolezza al lavoro dell’educatore. Solo l’educatore che personalizza il proprio intervento, che si mette in gioco, analizzando le proprie posture e pregiudizi, disposto ad imparare e trasformarsi nel lavoro di cura, risulterà credibile nel momento in cui prova a ridefinire il proprio mandato. In alcuni servizi però la rigidità del mandato è tale che questo tipo di operatore non riesce ad adattarvisi. La convocazione di tutto il sistema È l’invito a tutta la famiglia di presentarsi al servizio. Un messaggio potentissimo che scatena ipotesi, aspettative, rifiuti, trasformazioni. I significati della convocazione familiare sono aperti: ognuno porta il suo e nell’interazione si prova a costruire una nuova storia condivisa il messaggio esplicito è “c’è qualcosa che non va”. La convocazione contiene in sé i presupposti dello stigma. Un altro aspetto della convocazione riguarda i confini: attraverso la convocazione si definisce chi fa parte di quel sistema familiare, chi sono i soggetti coinvolti. Costruzione del setting È utile istituire un setting policentrico e flessibile. La flessibilità non significa confusione, caos, relativismo metodologico. I contesti per diventare matrici di significato hanno bisogno di marche ben definite: messaggi verbali e non verbali che indicano “che cosa ci facciamo qui”. Costruire un setting operativo, far capire che in quel luogo ci si prende cura dei legami, far sentire alle persone che ci si può fidare, sono messaggi difficile da far capire. Alcuni educatori pensano che basta esplicitare questi messaggi; altri che scambiano la costruzione del setting per la sua dimensione pratica: procedure, spazi e tempi d’intervento, compiti e mansioni. Alcune regole del setting sono stabilite prima dell’intervento però c’è sempre la possibilità di riflettere, verificare la funzionalità, le scelte operative e ridefinirle con i componenti della famiglia. Pensare al setting e prendersene cura vuol dire chidersi continuamente, riflessivamente, quali messaggi si vogliono dare e ricevere, nell’intento di sostenere e accompagnare le trasformazioni delle relazioni familiari, prendersi cura dei legami, di instillare senso di competenza, speranza e bellezza nelle situazioni problematiche. Il processo: contratto, intervento, valutazione, chiusura La prima operazione da fare è mettere in discussione l’ordine logico del titolo. Il contratto si fa all’inizio, ma ne siamo sicuri? Nel contratto sono definiti gli obiettivi, ma l’intervento educativo non può solo avere gli esiti attesi, il bricolage evolutivo proprio dei sistemi viventi, farà scoprire in itinere altri aspetti, non conoscibili all’inizio. L’intervento ha una durata, è bene definire i tempi di inizio e chiusura, anche per dare un chiaro segnale che la vita della famiglia oltre il tempo dell’intervento. L’approccio sistemico è tendenzialmente breve, mira alla perturbazione non alla presa in carico. Attribuisce al sistema una capacità di autocura che va rivitalizzata. Inoltre, i criteri di valutazione dovrebbero essere fissati insieme alla famiglie, tenendo conto dei bisogni, dei desideri e dei punti di vista di ogni membro. Questo consente di avviare proficue conversazioni sul futuro. Il processo così viene ad essere costantemente monitorato attraverso strumenti di (auto)osservazione gestiti dalla famiglia insieme agli operatori. La circolarità tradotta in comunicazione Il concreto del lavoro educativo avviene in un flusso comunicativo incessante al quale le persone partecipano. Non si esce mai dal significato, dal linguaggio. L’operatore sistemico partecipa alla comunicazione in modo attivo, tiene conto del processo comunicativo in atto e prova a perturbarlo alla ricerca di nuove possibilità. Usa se stesso come messaggio. È responsivo, cioè adotta una postura di grande attenzione per i feedback, quelli da dare e quelli da ricevere. L’equipe sistemica, adottando la postura dell’ipotizzazione, riconosce il valora parziale e temporaneo delle proprie idee sulla famiglia, che saranno coltivate e arricchite continuamente, per garantire una visione circolare e utile al cambiamento. Quando un equipe diventa una mente sistemica riesce a sintonizzarsi sulla complessità della famiglia, a rispecchiarne la circolarità. Nel lavoro con le famiglie spesso le azioni agite diventano la base per introdurre un nuovo modo anche di parlare. Compito dell’educatore è allestire un contesto operativo come nuova matrice di significati, uno sfondo nel quale la circolarità delle comunicazioni sia presente e possa trasformarsi. Quali movimenti per stare tutti un po’ meglio? Emergono quattro dimensioni della cura, fortemente intrecciate: la fedeltà del soggetto a se stesso, la cura dei legami, la cura del noi, l’apertura al sistema più ampio, sociale e naturale. Il primo punto riguarda il singolo: dire sì a ciò che ci fa star bene e no a quello che ci fa star male. l’integrità del bambino può essere rispettata fin dai primi giorni di vita se c’è comprensione delle sue competenze e della sua capacità di dire di no. Se l’adulto comprende l’importanza della fedeltà a se stesso. Il secondo livello riguarda il prendersi cura dei legami che significa puntare lo sguardo su qualcosa che c’è già ma è stata forse trascurata, dimenticata o negata. Significa ricreare le condizioni materiali e psicologiche affinchè i “pezzi” della famiglia possono avere un incontro reale. Ricomporre i legami messi a rischio o interrotti dalle transizioni della vita. Significa recuperare la capacità simbolica. Anche la cura del noi trae vantaggio dalla composizione che tiene insieme il piano reale con quello simbolico. Il senso del noi fa stare tutti un po’ meglio. Coltivare insieme i due livelli significa trovare soluzioni creative a vecchi dualismi: indipendenza/dipendenza, individualità/appartenenza, differenziazione/unità familiare. Per quando riguarda il rapporto tra famiglia e mondo più ampio abbiamo visto che una delle caratteristiche delle famiglie che incontriamo è l’isolamento sociale, derivato dallo stigma sociale. Cura è costruire proposte educative che creino occasioni naturali di partecipazione, non perché qualcuno ha deciso che è bene partecipare o perché ci si debba adeguare, ma perché il desiderio dell’altro, la voglia di esserci, di confrontarsi nascono quando c’è il contesto giusto. 2. Prevedere l’imprevisto nella tutela dei minori Con tutela dei minori generalmente si definiscono quelle funzioni pubbliche e quei servizi che hanno il compito di affiancare i bambini e i ragazzi in favore dei quali è chiesto un controllo. Questo controllo può divenire penalizzante dei diritti di qualcuno della famiglia, per tanto è richiesto che le decisioni in proposito siano assunte da un’autorità giudiziaria. Ci troviamo in contesti dove è necessario conoscere, decidere ed agire assicurandosi di aver visto e previsto giusto. Intervenire in questo modo richiede oggettività: da un lato è necessario per l’operatore non dimenticare i propri riferimenti epistemologici, dall’altro è necessario garantire che decisioni cos’ difficili non scaturiscano banalmente da opinioni. Previsto/imprevisto Gli episodi imprevisti devono poter essere messi al centro della riflessione pedagogica: essi costituiscono una differenza, cioè un’informazione che può essere percepita e che rappresenta l’elemento fondamentale del processo di conoscenza. Dare senso all’imprevisto per noi umani è vitale, ed essendo occidentali, il principale riferimento che adottiamo per dare senso all’imprevisto è quello di metterlo in relazione ai risultati, al finale. Cerchiamo quindi un lieto fine. Anche nei racconti e nelle favole che ascoltavamo da bambini ritroviamo il lieto fine: “e vissero felici e progressiva degli stesi genitori rispetto al loro ruolo educativo, e ad alimentare la convinzione della loro incapacità di badare ai figli. Non sempre intervenire primariamente sul minore è la cosa migliore per il bambino. Il rischio degli interventi centrati sui piccoli è quello di rendere la famiglia invisibile. Spesso la famiglia viene trascurata proprio perché ritenuta inadeguata. In realtà dobbiamo considerare il sistema familiare come il centro dell’intervento educativo, come rete essenziale della rete relazionale del bambino, da cui è impossibile prescindere. Ogni membro della famiglia è come è perché è in relazione con qual particolare sistema familiare. Il compito dell’educatore è quello di trovare le strategie per potenziare la risorse della famiglia e insieme a questa co-costruire nuove risorse. Verso la trasformazione Il compito è con la e non su o per la famiglia. L’obiettivo è sostenere l’autonomia nel trovare di volta in volta, nei momenti di crisi, le strategie più funzionali al superamento della crisi stessa, alla ricerca di un nuovo equilibrio che permetta a tutti di stare bene. Una famiglia che viene riconosciuta per quello che è se sente questa sua valorizzazione si sentirà anche legittimata a chiedere aiuto nel momento del bisogno. 4. Comporre i legami messi alla prova dal carcere L’arresto del genitore è un momento topico che spezza i rapporti e mette in pericolo i legami. I primi a esserne vittima sono i figli e il nucleo familiare , violato nella sua interezza e organizzazione. La carcerazione determina una catena di eventi che la famiglia subisce e vive per lo più in solitudine, sperimentando barriere dentro la società libera, che prende distanze di sicurezza da chi impatta col carcere, illudendosi che la sicurezza sia nella distanza, che invece rinforza e amplifica debolezze e squilibri. In dieci anni di lavoro con le famiglie “detenute” ho potuto sperimentare quella che possiamo definire una pratica compensativa. Compensativa per i diversi piani psico-socio-educativi che integra e per l’obiettivo concreto di ri-connettere i legami interrotti. Nel lavoro educativo con le famiglie in carcere il mantenimento dei legami con i genitori è lo scopo primario, specialmente per i minori che si ritrovano a subire le maggiori conseguenze. Il carcere radicalizza tutti i temi della famiglia che incontriamo anche fuori, estremizzandoli. Il contesto istituzionale Il colloquio in carcere è un momento prezioso e cruciale per la cura del legame, per questo le istituzioni devono fare in modo che avvenga nelle condizioni migliori. L’area Pedagogica degli istituti di pena ha tra i propri obiettivi la promozione della responsabilità genitoriale, ma soprattutto il buon esito del “patto trattamentale”, mirato alla riduzione della recidiva e a migliorare il clima e la sicurezza dentro il carcere. Al sostegno dei rapporti familiare viene riservata una particolare attenzione nell’ordinamento penitenziario italiano: legge 230/2000, alla quale seguono una serie di norme a sostegno della genitorialità. Nel 2011 è stata applicata una modifica alla Legge Finocchiaro, che consente ai bambini di uscire dalle carceri, pur senza separarsi dalle madri. Le madri con bambini fino a 6 anni possono scontare la pena in un luogo diverso, sia esso l’abitazione o una casa di accoglienza. In mancanza di misure alternative al carcere, oggi i bambini possono vivere in detenzione con la madre fino ai 3 anni d’età, dopo di che viene imposta la separazione forzata. Un intervento a più livelli L’intervento in carcere combina due dimensioni: da un lato la responsabilità contenuta nel mandato e il rispetto dei suoi vincoli, dall’altro al creatività e la flessibilità dell’appartenenza del privato sociale, con la possibilità di fare ricerca, innovazione e sperimentazione nel lavoro di cura. Il carcere è l’esperienza della separazione, che tocca il corpo e la mente. Il carcere è il racconto della separazione. Nel prenderci cura delle relazioni familiare mettiamo al centro l’interesse del bambino, sapendo che questo non è raggiungibile indipendentemente da quello degli adulti. Inoltre, il recupero dei legami consente alla persona detenuta di recuperare un’identità genitoriale persa o a rischio, che cerchiamo di rendere visibile o valorizzare. Lavorare in questo ambito non significa solo avere a che fare con la diade genitore-figlio, ma con una rete molto complessa di rapporti affettivi, ma anche istituzionali: i servizi interni al carcere, i servizi sociali territoriali, il tribunale per i minori, i servizi di sussidiarietà del privato sociale. La cura dei legami in carcere: temi emergenti La questione femminile è uno dei primi temi a emergere: l’arresto della madre determina la rottura della relazione primaria e il collocamento in comunità del bambino, in quanto solitamente si tratta di donne sole senza compagni né una rete familiare a cui appoggiarsi. Aspetto fondamentale che l’educatore deve sempre ricordare è che la persona non è il reato che ha commesso. È una distinzione che diventa linea-guida prioritaria di qualsiasi intervento educativo in carcere. Il carcere è un’istituzione totale connotata da regole e vincoli molto forti, che devono essere superati per poter intraprendere un percorso di consapevolezza. Il nostro compito è sostenere il processo di consapevolezza della verità raccontabile da parte del genitore in carcere e della famiglia fuori dal carcere. Un compito difficile perché ogni famiglia ha le sue strategie, il suo percorso possibile per far fronte all’esperienza della detenzione di un congiunto. Il silenzio e le bugie vincolano, rendono impossibile crescere liberi: quando non si dice ad un bambino dov’è il genitore o per quanto tempo starà via, si lascia il bambino in un universo immaginario che è molto più terrorizzante della realtà. Soprattutto nel caso di adolescenti, i figli devono conoscere la verità per poter effettuare delle scelte e penare di progettare un futuro diverso per sé. Questa possibilità di scelta è possibile solo se avviene un processo di separazione psicologica, che consente l’individuazione e la capacità di intraprendere nuovi legami affettivi, pur mantenendo quelli originari. Se la separazione fisica avviene in modo brusco, improvviso, senza preparare il bambino con esperienze che avviano il processo simbolico, in assenza di relazioni affettivi sufficientemente rassicuranti, è difficile per il bambino ancorare la propria posizione all’interno del nucleo familiare. L’interruzione del legame crea così un disorientamento angoscioso, sentimenti di abbandono e rifiuto. Ma è sempre rischioso generalizzare sull’impatto della separazione: ogni caso va valutato singolarmente. Quando i bisogni fondamentali del bambino sono frustrati e viene impedito di esprimere ciò che prova, il genitore può trasformarsi in un persecutore da distruggere o evitare. Il bambino che incontriamo è spesso arrabbiato, ma fatica ad esprimere questo sentimento; il suo disagio può essere profondo, ma i familiare, impegnati ad affrontare il proprio non ne comprendono la portata. Prendersi cura del legame genitoriale: il processo d’intervento Separarsi dai figli significa sparire non solo dal rapporto quotidiano, ma dalla rete sociale di riferimento: la scuola, i servizi sociali, i soggetti coinvolti nella storia familiare. Il processo di intervento: p. 298 Spazio giallo: l’accoglienza del bambino e della famiglia in carcere Lo spazio giallo è innanzitutto in luogo: uno spazio fisico creato appositamente per l’accoglienza dei bambini che si preparano al colloquio. Uno spazio integrato e socioeducativo, di gioco e di relazione, per uscire dall’anonimato del carcere. Le relazioni vengono incentivate, favorendo l’interazione tra età e culture diverse, prestando ascolto ai contenuti emotivi espressi durante il gioco strutturato e non. È uno spazio utile per avviare il processo d’intervento, quindi l’attenzione è sia sul minore sia sull’adulto. È, dunque, uno spazio intermedio che connette l’interno e l’esterno, una terra di mezzo tra istituzione totale e realtà. Decalogo dello spazio giallo: p. 303 In questo luogo i bambini si sento protetti, sono liberi di parlare, danno voce e forma alle loro emozioni, e per questo lo spazio giallo è una risorsa per la famiglia. In questo spazio si viene a conoscenza delle diverse modalità attraverso cui le famiglie affrontano l’esperienza detentiva. L’accompagnamento del genitore detenuto: gruppi di parola e punti d’ascolto Gruppi di parola sono incontri collettivi di discussione e confronto. I temi principali sono: i bisogni dei figli, la sofferenza, l’interculturalità. Il gruppo di parola permette lo scambio di informazioni e il confronto, il racconto autobiografico che è anche il racconto sociale e comunitario. I punti d’ascolto: individuano un tempo e uno spazio per il colloquio con il genitore. Prevedono la reciprocità. Si parte dalla storia del soggetto per ricavarne i bisogni. In entrambe i casi ci si prende cura delle storie familiari. 5. Posizionarsi nel conflitto: l’educatore a Spazio Neutro Dal conflitto (due punti di vista che non riescono a trovare una forma di convivenza), possono nascere delle conseguenze positive, ma la maggior parte delle volte è visto come un nemico da combattere, che porta sofferenza e violenze. Nella maggior parte delle famiglie il conflitto è affrontato normalmente come un fatto della vita. Spazio neutro Lo Spazio Neutro è nato per sostenere e favorire il mantenimento della relazione tra bambino e genitore o adulto di riferimento per lui significativo, in quelle vicende familiare in cui questo bisogno non è rispettato, a causa di conflitti familiari o situazioni di malattia o disagio. Le famiglie che giungono a questo tipo di servizio sono inviate dal Tribunale in modo coatto, attraverso provvedimenti nei quali l’autorità giudiziaria intende sostenere e/o controllare la relazione tra adulto e bambino in un luogo protetto. Il bambino è il punto di partenza per gli operatori, il fulcro da cui iniziare a punteggiare descrizioni, storie, la trama stessa dell’intervento. Molte famiglie sono inviate perché stanno vivendo una separazione “altamente conflittuale”, nella quale si chiede ai bambini di schierarsi o coinvolti nelle dinamiche tra genitori. Al servizio dello Spazio Neutro è richiesto di costruire con la famiglia un progetto che renda possibile il mantenimento del diritto di vista e relazione con il bambino. L’obiettivo di lungo termine è quello di lavorare affinchè questi possa mantenere i contatti con entrambe i genitori in un clima che non sia pregiudizievole per la sua crescita. Lo Spazio Neutro deve rendere conto, attraverso relazioni scritte, al tribunale che ha emesso il decreto. La sfida è quella di riuscire a passare da un intervento di mera garanzia della relazione, alla possibilità di innescare processi di apprendimento a partire dalla crisi che ha portato all’ingresso nel servizio. Il percorso a Spazio Neutro prevede diversi tipo di intervento: • Colloqui individuali con i genitori • Colloqui con i minori • Incontri protetti L’esperienza del conflitto: eventi ed emozioni Spesso a Spazio Neutro si incontrano storie già scritte, con un copione rigido, ripetutamente proposte a interlocutori che hanno un mandato educativo e di conseguenza fissate nei loro significati. Il bisogno di convincere l’interlocutore è talmente in primo piano che taglia spazio ad altre sfere e irrigidisce i punti di vista: tutto viene riletto in termini “ho ragione io e le cose sono accadute per colpa di un altro”. La rappresentazione estetica: dare forma al conflitto Ricercare una rappresentazione estetica, sensibile e immaginativa del conflitto significa sia proporre concretamente alle persone con cui lavoro la ricerca di una rappresentazione alternativa Alla ricerca della posizione: la mediazione La mediazione è l’azione che permette l’incontro dei saperi tra educatore ed educando affinchè si verifichi un effettivo cambiamento. Il punto di contatto tra i due soggetti varia da relazione a relazione, e per individuarlo occorre un grande impegno valutativo da parte dell’educatore. Legge dei 100 passi: l’educatore può arrivare a compiere anche 99 passi, pur di riuscire a trovare un luogo della comunicazione, in grado di stimolare l’educando a compiere l’ultimo passo. L’educatore che fa 100 passi corrisponde a colui che si sostituisce al soggetto. Chi non ne compie neanche uno si arrende. 7. Fare spazio e dare voce: l’incontro con i familiari in un servizio psichiatrico territoriale Nel confronto con un caso ci siamo accorti che nei servizi manca un luogo dove un familiare possa, pur nel riconoscimento del suo ruolo all’interno della famiglia, dare voce alle emozioni, ai desideri, alla propria storia, che non necessariamente coincide con quella del paziente. Si configura come uno spazio di ascolto, in cui l’attenzione non sia posta sulla diagnosi, sulla malattia, ma sul vissuto che di esse hanno i familiari, sull’interazione tra la malattia e il significato che la famiglia le attribuisce e sulla possibilità di trovare un senso, una prospettiva che possa rendere l’esistenza di un nuovo sostenibile. Parte così il Progetto Famiglie. L’idea di progettare all’interno di un servizio un intervento educativo- pedagogico, che offra ai familiare un luogo da co-costruire e in cui trovare le parole per narrare il dolore, parte dal presupposto che la famiglia è i luogo per eccellenza in cui il paziente vive e del quale condivide le dinamiche relazionali. È a partire dalla propria storia familiare che si attribuiscono significati alle cose, agli eventi e alle persone. La famiglia è una presenza ineluttabile e irrinunciabile sia nel male sia nel bene. Il progetto Il nostro intervento, dunque, è pensato prima di tutto come uno spazio di ascolto, in cui sia possibile, in un clima di accoglienza, definire l’attuale situazione familiare, attribuire senso e significato agli eventi e alle relazioni in corso, cercando insieme in nuovo punto di vista che apra a orizzonti nuovi e vivibili in maniera più dignitosa. Uno spazio dove poter raccontare la propria storia e quindi dove la propria sofferenza possa essere riconosciuta e legittimata. L’intento non è quello di interpretare o trasformare i significati, ma di curare la narrazione e interrogare l’esperienza, per aprire nuove possibilità di comprensione e spostare l’attenzione alla complessità della situazione specifica e alla pluralità dei soggetti coinvolti in essa. Definiti gli obiettivi, si trattava di trovare in noi le posture che avrebbero potuto facilitare la ricerca di nuove situazioni e significati relazionali, che avrebbero favorito un atteggiamento di ascolto attivo. L’attenzione è quindi posta sulle competenze relazionali, di comunicazione non direttiva, di rispetto verso l’interlocutore, di facilitazione, sostegno e accettazione della comunicazione, di valorizzazione di quanto ci viene narrato, di astensione dalle valutazioni. Il nostro intervento mette le famiglie nella condizione di poter esplorare a fondo il proprio disagio, di riuscire a dargli un nome, a riconoscere e condividere la propria esperienza, le proprie emozioni, per comprendere ciò che succede tutti i giorni, ma anche legittimare il proprio modo di essere genitori, prima di pensare ad eventuali modi diversi di esserlo. Questi interventi possono aprire le possibilità per una trasformazione sostenibile, perché sono fondati sulla comprensione di ciò che le persone già conoscono, senza saperlo. Prendersi cura dei legami L’accogliere come priamo momento di cura significa riconoscere che ogni famiglia è diversa, ha qualcosa di unico, che sfugge alla categorizzazione e al monitoraggio di un modello medico. Accogliere significa chiedersi chi è l’altro, esserne incuriositi, farsi stupire, far cogliere la bellezza e la peculiarità di ogni storia familiare. In questi interventi il contratto è fondamentale: permette di co-creare un significato condiviso su ciò che si fa insieme. L’intervento, quindi, parte delle aspettative e dalle richieste ogni volta differenti, e allo stesso modo può evolvere in direzioni impensate. Proponendo un nuovo modo di parlare e di pensare alla situazione si può aprire una possibilità diversa di stare con il proprio familiare. La narrazione biografica può diventare una via per rimettere in moto queste storie, ricominciare a condividere con gli altri i propri significati emotivi e cognitivi, oltre che conoscere altri significati e altri punti di vista. Nella narrazione i soggetti compiono un atto di visibilità rispetto a se stessi, di riconoscimento, di identificazione della propria posizione rispetto agli altri membri della famiglia. Una regola da tenere sempre in mente è quella di non avere fretta di arrivare alle conclusioni, esse sono la parte più effimera di una ricerca. Molti familiari hanno abbandonato questo progetto perché interessati a soluzioni immediate o dopo averci dimostrato, come loro avrebbero predetto, che non sarebbe cambiato niente. In un contesto fortemente dominato dal modello medico è difficile distogliere lo sguardo dal paziente designato. Con la diagnosi, la storia di tutta la famiglia, non solo quella del paziente, viene vincolata dalla malattia. 8. Apparecchiare contesti di apprendimento per promuovere competenze In questo capitolo si parla di un laboratorio creato per le famiglie, tutte in carico dai servizi sociali. Nel primo incontro si esplicitano gli obiettivi e le ragioni di questo laboratorio (p. 378). Parlando di famiglia a carico dei servizi sociale è bene fare una precisazione sulla definizione di stigma: è un marchio, un segno sul corpo di una persona che la definisce diversa, non-normale. Perché un laboratorio Volevamo un luogo di poter sperimentare, provare ad agire in diretta attraverso attività formative. Quindi non solo delle riunioni o discussioni con adulti, ma un posto vivo vivace dove adulti e bambini o ragazzi, ognuno nel proprio ruolo, in diretta e sulla scena, provano ad osservarsi e parlarsi dei loro modi di stare insieme. L’idea a cui sono rivolti, essendo presi in carico dai servizi sociale, è quella di una famiglia malata, disfunzionale, in grave affaticamento. Questa fotografia è veritiera, ma parziale. I “cattivi genitori” non sono tali 24 al giorno e quindi si tratta di trovare le parti buone e funzionanti, farle uscire allo scoperto, incoraggiarle, sostenerle e se è possibile arricchirle. Per questo abbiamo pensato ad un laboratorio dove i partecipanti si possano sentire attivi, coinvolti e competenti. Una delle fatiche che tutti i genitori vivono è l’isolamento sociale. Il laboratorio propone uno spazio “Pubblico” dove poter esibire gli stili educativi e sperimentare i ruoli famigliari senza ripetere necessariamente gli stessi copioni che caratterizzano il privato di ogni famiglia e che causano cortocircuiti relazionali. Questo avvia il confronto per gli uni e per gli altri, all’interno della singola famiglia e tra le famiglie. La finalità è quella di rendere un po’ più dinamica e gradevole un’immagine di famiglia che si ipotizza statica e disarmonica. Nel vivo dei laboratori La varietà dei vissuti raccontati nei laboratori mostra la fatica e la resistenza del gruppo ad aprirsi allo sconosciuto, ma ciò ha permesso di rivolgere lo sguardo indietro al percorso, ha reso queste persone consapevoli e orgogliose del lavoro svolto, col risultato che ciascuno ha valorizzato l’esperienza del laboratorio e di riflesso il proprio contributo alla scrittura di una storia collettiva. Una delle attività proponeva la lettura di una storia in cui gli adulti si sostituivano ai bambini. L’intento era quello di produrre una riflessione su come i genitori imparano schemi e modelli a loro volta dai loro genitori e come questi siano trasmessi attraverso le azioni. Per gli adulti l’obiettivo era riflettere sull’esperienza di essere stati bambini. Il divenire del gruppo Prima fase: la nascita del gruppo In primo luogo si è cercato insieme di definire l’identità del gruppo e si sono stabilite delle regole, per cercare anche di instaurare un senso di appartenenza. Abbiamo riconosciuto un bisogno urgente di individuare elementi di continuità e normalità tra le esperienze e i modi di fare famiglia che venivano mostrati e raccontati. In generale, osserviamo la tendenza a identificare ciò che accomuna, a cercare conferme anche nelle conduttrici di tali somiglianze. Le famiglie faticano invece ad accettare le differenze come elementi di ricchezza con cui confrontarsi. Con il tempo le diffidenze lasciano spazio ad un crescente senso di familiarità e condivisione: ognuno trova il suo modo per esprimersi e sviluppa un maggior senso di fiducia verso il gruppo come luogo sicuro e protetto dove poter consegnare piccole o grandi parti di sé e della propria famiglia. A partire da questi primi passi insieme, i componenti del gruppo hanno cominciato a esprimere l’esigenza di una continuità: le assenze o i ritardi venivano fatti notare alle conduttrici. Il sentimento diffuso di timore dell’abbandono ha reso molto delicato il trattamento delle assenze, dei ritardi o delle violazioni del setting. Seconda fase: ampliare lo sguardo Una volta costituito il gruppo abbiamo cercato di portare lo sguardo fuori di esso. Ad ogni famiglia è stato chiesto di raccontare la propria storia, in modo tale da aprire nuove possibilità di pensiero attorno alle connessioni intergenitoriali dei comportamenti e deli stili genitoriali. Nonostante le fatiche e le resistenze, ci sembra preziosa l’opportunità per i genitori di raccontarsi ai figli. Terza fase: verso la conclusione Per preparare la conclusione del laboratorio e lo scioglimento del gruppo, abbiamo condotto gli ultimi incontri con l’intento di indirizzare lo sguardo dei partecipanti un po’ più all’esterno. La proposta era quella di provare a riconoscere come e in che senso la comunità può rappresentare un supporto per la propria famiglia. Valutazione delle esperienze Quali indicatori per fare il bilancio di questa esperienza? • Le presenze e le assenze • Il livello di partecipazione Tracce sedimentate Gli operatori hanno intravisto la possibilità di costruire contesti nei quali non si porge solo la funzione di aiuto e sostegno, spesso unita al controllo, ma dove le famiglia possono esprimere le loro competenze, guardare, vedere, nominare il proprio modo di fare famiglia senza che questo sia sottoposto a giudizio. Per le famiglie, invece, il laboratorio si configura come un luogo non terapeutico, ma un luogo che si avvicina molto alla normalità, sollecita la capacità dei singoli di stare in un contesto sociale con piacere, permette di fare un’esperienza in larga parte positiva accanto ai propri familiari, mette in luce le competenze e i ruoli di ciascuno. P. 403 9. Interrogare le rappresentazioni reciproche, tra ricerca e formazione
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