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re-inventare-la-famiglia, Dispense di Pedagogia

riassunto completo esame consulenza familiare

Tipologia: Dispense

2017/2018

Caricato il 30/11/2018

convefede
convefede 🇮🇹

4.2

(64)

40 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica re-inventare-la-famiglia e più Dispense in PDF di Pedagogia solo su Docsity! RE-INTENTARE LA FAMIGLIA Introduzione Il libro si basa su una forma di “ermeneutica pratica”, un pensiero operativo che nasce dall’azione e ritorna all’azione costruendo il senso, la teoria, a partire dall’apparente caoticità dell’esperienza. Il senso non è insito nell’azione, né nell’esperienza in sé, ma nasce da un percorso dialogico, basato sulla riflessività e sullo scontro di cornici. Ogni educatore sa che è impossibile fare un buon lavoro educativo senza tener conto del fatto che l’utenza faccia parte di una complessa rete di relazioni di cura (parte integrante dell’itervento). La rete primaria delle relazioni di cura coincide in larga parte con la “famiglia” (bisogna andare oltre la definizione tradizionale di famiglia che risulta astratta e riduttiva; superare la teorizzazione generalista che non riesce a rendere la pluralità e la specificità delle situazioni e ne distrugge l’unicità). La famiglia, come soluzione specifica al bisogno umano di cura, protezione, educazione, ha preso forme diverse accomunate solo dalla loro organizzazione auto-mito-poietica. Nessuno può re-inventare la famiglia a tavolino. Re- inventare vuol dire, dunque, re-inventarci come osservatori delle famiglie, rivedere le prospettive che mettiamo in campo (spostare il focus dalla disciplina, dal sapere accademico al sisema per come si presenta e come funziona). La nostra prospettiva è sistemica. La sistemica non richiede una semplice adesione a dei concetti, obbliga a un altro modo di guardare, di sentire, di concepire le relazioni. Un modo di com-porsi nella relazione con le famiglie, che richiede di essere praticato, diventando uno stile di pensiero se non uno stile di vita. Noi tutti abbiamo esperienza di ciò che significa famiglia, la famiglia è già stata inventata. Siamo immersi in questa continua invenzione, ma non ne siamo consapevoli (il mondo non si dà come oggettivo, ma come il prodotto delle nostre pratiche). Il compito dell’educazione e della formazione è, quindi, quello di costruire riflessività e consapevolezza rispetto ai modi i cui la famiglia, “quella famiglia”, è stata inventata e re-inventata continuamente. Il professionista dell’educazione è dunque portatore di uno sguardo, ha un’idea di famiglia, ma non ne è consapevole fino a quando non si confronta/scontra con altri e con le sue idee. Ovviamente deve fare i conti con ciò che è, non può entrare in un contesto e modificarlo in maniera onnipotente. Il libro vuole offrire l’occasione per riflettere: qual è la mia idea di famiglia? Come l’ho imparata? Infatti, se il professionista entra nel sistema famigliare armato delle sue idee e dei suoi pregiudizi, poco propenso a modificarli, il sistema di relazioni (la famiglia) non sarà desideroso di muoversi verso la direzione stabilita dal professionista. Non è questione di resistenza, ma di fedeltà a se stesso. Ogni famiglia tende ad essere profondamente coerente con se stessa, magari diventando incoerente con le aspettative della società più ampia oppure con i desideri o i bisogni di uno dei suoi membri. Smontare i pregiudizi e le invenzioni è il primo passo per re-inventare la famiglia. Il secondo passo consiste nell’acquisire competenze e capacità di riconoscere quello che c’è: cultura famigliare, strategie per affrontare le crisi, copioni dei ruoli ..tutto quello che non si vede al primo sguardo. Il terzo passo sarà inventare nuovi pensieri, nuove visioni e nuove possibilità. Non si tratta di cambiare le famiglie in direzioni prestabilite, ma di comprendere cosa possa far star tutti un po’ meglio. Non esistono azioni “buone in sé” ma solo azioni deliberate e contestualizzate. Metodo: deriva da una visione fortemente integrata del rapporto teoria/prassi, dove la teoria è costantemente costruita e validata attraverso l’azione. PRIMA PARTE: lo sguardo dipende dall’azione La percezione non avviene senza movimento. Noi disegniamo il mondo estraendo da esso le distinzioni che cerchiamo, grazie a un apparato percettivo organizzato in un certo modo. Lo stesso schema, azione- percezione, funziona con i processi cognitivi superiori. Lo sguardo dipende dall’azione: se i processi di percezione e di conoscenza dipendono da quello che noi facciamo nel mondo, cioè dalle azioni specifiche che noi esercitiamo sugli oggetti, non sarà la definizione di questi oggetti a farceli conoscere. Il nome non è inerente a una cosa ma appartiene alla società, a una famiglia a una biografia. Ogni definizione che arriveremo a dare sarà legata a delle azioni che noi stessi avremo compiuto oppure ereditate da altri. La tesi di questa prima parte è che lavorare con la famiglia richiede una consapevolezza epistemologica, cioè un atteggiamento interrogante nei confronti dei nostri presupposti. Il modello a cui ci siamo ispirati, quello sistemico, mette l’idea di comunicazione al centro di tutti i processi umani: tutto è messaggio. La metafora dello sguardo è parziale: nella conoscenza della famiglia tutti i sensi sono coinvolti. 1. Farsi l’orecchio: le invisibili partiture della famiglia I teorici dei sistemi hanno concepito la comunicazione umana come un insieme organico di livelli complessi, contesti multipli e circuiti riflessivi. Comunicare è partecipare a un’interazione complessa. Metafora musicale per introdurre il concetto di sistema: siamo così abituati a pensarci come solisti, come unica nota, che per incontrare le famiglie dobbiamo abituare l’orecchio, addestrarlo alla ricerca ecologica delle connessioni e delle armonie. Definizione di sistema p. 7 L’approccio sistemico si fonda su una ecologia delle idee e quindi sulla curiosità per tutto quello che non appare immediatamente valido o scontato. Si adotta una postura di curiosità, aprendo lo sguardo sulla famiglia per cercare di afferrare le verità che si nascondono dentro le storie. Un racconto infatti è espressione di un sistema complesso di idee e immagini che trascende l’individuo. La mia famiglia è una rock band “farsi l’orecchio” per l’educatore sicuramente significa imparare tecniche di osservazione e comunicazione, concetti e teorie, ma soprattutto significa assumere una postura, cioè apprendere a interfacciarsi con le situazioni nelle quali si trova immerso come se fosse lui stesso uno strumento. La metafora con la quale possiamo spiegare la famiglia è quella di una band (p.10). C’è una connessione tra il modo in cui la famiglia è composta (le sue relazioni) e ciò che crea: paradigmi, modelli educativi, storie, benessere o malessere. Per comprendere una specifica famiglia è necessario ascoltarla attentamente, provare a suonarci insieme. Una caratteristica delle famiglie è la consuetudine, la ripetitività e la ridondanza dei modelli di comunicazione. Ognuno prova a dare il suo contributo che, unito alla voce degli altri, darà vita al sound unico e specifico di quella famiglia. Gli strumenti sono specifici e diversi, ma non è la loro somma a dare il tutto, ma è il modo peculiare in cui si amalgamano e armonizzano. Imparare a lavorare in modo sistemico significa, prima di tutto, imparare ad “apprendere i contesti” cioè mettersi in interazione e relazione con i sistemi comunicativi, usando la comunicazione stessa come veicolo. Dal punto di vista sistemico, l’educatore non è un direttore d’orchestra, né un manager, né un ascoltatore della famiglia anche se occasionalmente si trova a gestire questi copioni (= modello operativo che racchiude le aspettative su cosa si deve fare in determinate situazioni. Un sistema di aspettative implicite che organizzano eventi ripetitivi entro un dato contesto. Il copione è una forma di conoscenza schematica.) la famiglia è un’opera collettiva, incompiuta e sempre in costruzione. Con-vivenza: le condizioni materiali di vita Per farci l’orecchio sul sistema familiare dobbiamo partire da ciò che innanzi tutto la qualifica, cioè la convivenza, che vuol dire abitare concretamente uno spazio condiviso nel quale sono date alcune possibilità di interagire mentre alcune sono precluse. Non è la stessa cosa suonare in una piccola cantina o in una grande sala da concerti. Non sempre lo spazio abitativo è percepito come la casa di tutti, del “noi”. La casa è un simbolo molto forte del noi e contemporaneamente dei sé: riconosciamo come casa quel luogo in cui possiamo essere autenticamente noi stessi, dove possiamo prenderci cura delle nostre passione, ferite, delle persone che amiamo, luogo dove sostare e riposare, incontrare amici, fare nido. Convivenza vuol dire anche tempi e ritmi condivisi: il tempo familiare si impone sui ritmi personali. Oggi più che mai il dilemma tra tempo per sé e tempo per la famiglia è acuito dal mito dell’adulto che persegue il proprio progetto contrapposto al sentimento della famiglia. Quindi, la convivenza è uno spazio d’interazione condiviso che dobbiamo imparare ad osservare con curiosità e rispetto. Non ci sono modi di convivenza giusti o sbagliati. Non esistono case totalmente felici o totalmente tristi. Quello che si può cercare di comprendere nel presente Il fatto che non possiamo non provenire da una famiglia e che, quindi, siamo portatori di una naturale sapienza, costituisce il principale ostacolo con cui fare i conti per realizzare un apprendimento trasformativo. I pregiudizi più comuni riflettono una concezione familistica che assume toni polarizzati. I legami familiari appaiono di volta in volta salvifici-generatori di malessere, assolutamente positivi- congelati in un’aure mitica e irreale. Come trasformare l’esperienza di vita e l’appartenenza a un contesto sociale e familiare in sapere utile che renda mobile e molteplice il proprio sguardo sulla famiglia? Partire dalle pratiche Si tratta di una cornice per l’azione che invita a fare attenzione al contesto, alla peculiarità di ogni singola situazione e ai presupposti di ogni impresa formativa. Passaggi cruciali di questa didattica: • Domandare per accogliere e ricercare: l’arte di porre domande aiuta a problematizzare sollevando questioni su temi che appaiono scontati. Porre domande apre possibilità a ricercare insieme risposte soddisfacenti, invita alla molteplicità delle versioni, valorizza le differenze, suscita curiosità. Una buona domanda è quella che rende visibili i presupposti, li ridiscute e solleva questioni su aspetti assodati, problematizzandoli. È un’esperienza generativa: le domande sono potenti strumenti per indagare, descrivere e raccontare la realtà. Significarla e trasformala attraverso il linguaggio. Le domande possono far nascere storie, innescare cambiamenti, oppure chiudere le possibilità e le conversazioni confermando storie già scritte. Perseguire l’ottica sistemica nella formulazione delle domande significa imparare l’arte della ristrutturazione (p.49) e della connotazione positiva: da una parte per non chiudere troppo lo sguardo dentro interpretazioni pregiudiziali, dall’altra per evitare la retorica della generalizzazione e del moralismo, che condanna e colpevolizza a priori le famiglie. Ciò che fa la differenza sono i modi in cui noi poniamo la domanda, gli aspetti prossemici, non verbali e preverbali. Le domande che appaiono più generative sono quelle che: esplorano presupposti, evidenziano intenzioni complesse, focalizzano particolari culture domestiche. Sono domande che personalizzano, contestualizzano, invitano alla narrazione e al ricordo dettagliando e circoscrivendo. Domande che spostano lo sguardo. • Sperimentare concetti (le teorie vanno rispettate non riverite): connettere, mettere in comunicazione, collegare sono azioni estetiche che esprimono la necessità di comporre in un universo ordinato e di senso le informazioni che noi acquisiamo. La ricerca si scontra con il paradosso di dover operare delle distinzioni per poi unirle. Nell’acquisire il linguaggio prendiamo l’abitudine di far coincidere le parole con la realtà che descrivono. Dando nomi alle cose sottraiamo al tempo, alla relazione, al movimento, ciò che perennemente cambia. Aprire le parole per liberarle verso nuove sonorità e costellazioni di significati consente di formulare nuove storie. • Pensare ad alta voce: il lavoro educativo non si effettua in solitudine, ma in gruppi di lavoro costruiti attorno a un progetto. Alla complessità del lavoro educativo con la famiglia in quanto sistema deve corrispondere una complessità di idee e progettualità. Pensare insieme è faticoso, ma costituisce per gli educatori un’insostituibile opportunità di ambientamento alla complessità di cui si occuperanno. L’attenzione e la cura che i membri di un’organizzazione investono nei propri rapporti interni corrisponde alla qualità dei servizi erogati. Allenarsi a pensare insieme significa incontrare oltre il proprio, il pensiero dell’altro. Pensare ad alta voce significa accorgersi del proprio pensiero. Si favorisce la scoperta di se stessi, dei propri pregiudizi e stereotipi. La proposta è quella di condividere in gruppo quanto prodotto individualmente, per aprirsi allo stupore dell’alterità collettiva come patrimonio cui attingere. • Trasformare l’esperienza in sapere: la riflessione è il processo in cui si valutano criticamente il contenuto, il processo o le premesse dei nostri sforzi finalizzati a interpretare un’esperienza e darle significato. L’attenzione sistemica è piuttosto orientata alle pratiche che l’osservatore ha per attribuire significato all’esperienza tramite il linguaggio, costruendo mappe composte da premesse, culture, valori. È grazie a queste che arriviamo a definire e classificare. L’esperienza biografica dovrebbe potersi trasformare in sapere comunicabile e riconoscibile. Vedere ogni famiglia come portatrice di risorse non significa condividerne ingenuamente ogni scelta, ma adottare un pregiudizio di fiducia nelle possibilità generative. Un risvolto di questa pratica è la possibilità di guardare con occhi diversi la propria famiglia. 3. Alla ricerca delle tracce. I sensi della genitorialità tra frammenti autobiografici e teorie evolutive Tracce: un impegno di ricerca La memoria autobiografica, cioè il recupero più o meno improvviso di ricordi, il riemergere ad un livello consapevole di frammenti di storia vissuta contribuiscono a far comprendere e comprender-ci, non necessariamente ed esclusivamente nella dimensione cognitiva. Nella memoria autobiografica ci sono le testimonianze visibili e palpabili di ciò che abbiamo raccolto e conservato. La spinta al cambiamento e alla ricerca avviene tutte le volte che non troviamo “una spiegazione soddisfacente dal punto di vista cognitivo, morale, estetico e pratico. È lì che costruiamo le teorie. Ogni teoria è un frammento di qualche autobiografia. Ciascuna teoria è tale solo se ha senso per me, se ha una collocazione nella mia storia, un legame con le mie azioni. La famiglia non costruisce teorie nel vuoto, ma sempre collegate al sistema dei saperi accreditati. Se vogliamo individuare tracce di famiglia il primo movimento risiede nel volgere uno sguardo, curioso e non interpretativo, alle teorie così come i singoli le costruiscono, alle relazioni tra saperi familiari e saperi accreditati. Uno dei peggiori mali del nostro tempo è la banalità, per questo è bene imparare a riconoscere l’originalità e la complessità delle relazioni elaborate dalla famiglia. Siamo quotidianamente chiamati a rielaborare i nostri saperi, a connetterli e coordinarli, utilizzando strategie volte alla ricerca di una presa di posizione che meglio permetta di controllare i mutamenti in atto che stanno coinvolgendo i sistemi in cui siamo coinvolti. Ogni mento della famiglia costruisce teorie locali. Qui c’è odore di famiglia Se il primo passo del cercatore di tracce è verso il riconoscimento della teoria , in quanto teoria locale, il movimento immediatamente successivo va verso l’esplorazione dei nessi che intercorrono tra il sapere e l’esperienza, tra il pensiero e l’azione. La cultura occidentale si basa su dualismi. Una visione radicata è quella che oppone la teoria e la pratica, il pensiero e l’azione, la mente e il corpo, dove solo al primo polo del binomio è attribuito un valore di presunta scientificità e la pratica diventa mera applicazione della teoria, e il corpo un semplice contenitore della mente. L’approccio autobiografico può fornirci tracce quando restiamo nell’intrinseca complessità delle storie. I frammenti autobiografici ci parlano di percezioni, di emozioni, di sensi e sensazioni, di gesti, corpo, mente e pensieri. Ecce homo: pater et mater Le teorie evolutive di stampo sistemico- costruttivista possono offrirci alcune indicazioni per riconoscere altre tipologie di tracce di famiglia. Ma come imparare a riconoscere altre tracce? Proviamoci sul tema della genitorialità. La genitorialità è prettamente umana, è strettamente intrecciata con la nostra umanità. La genitorialità è universale, è un tratto specie-specifico dell’uomo, al pari del pensiero simbolico e del linguaggio verbale. Quando pensiamo alla genitorialità ci viene in mente l’immagine di un uomo e una donna adulti con due bambini. È quando vogliamo cercare di spiegare la genitorialità che ci rendiamo conto della molteplicità che questo concetto implica. Riconosciuta l’universalità della genitorialità le sue tracce vanno ricercate nel tempo. Storicizzare e contestualizzare: operazioni cruciali L’antropologia ha molto da insegnare agli educatori che lavorano nella famiglia. La genitorialità è bio- culturale: ha le sue radici nella natura, nasce dal fatto biologico della riproduzione, ma si sviluppa nella dimensione culturale e sociale. La nostra condizione di essere umani è una condizione plurale e in tutto il pianeta ci sono una pluralità di regole sociali, espressioni simboliche e rituali che riguardano il rapporto di filiazione, di coppia e il fare famiglia. Per riconoscere le tracce di famiglia è necessario restare in una complessità e interconnessioni di piani che ci porta ad accogliere la dimensione locale nell’universale. Abbiamo bisogno di non perdere di vista l’insieme di circostanze ambientali, simboliche e relazionali all’interno delle quali la traccia è nata e si è sviluppata. Uno sguardo storico e contestuale può fornirci tracce che raccontano altre storie. Il genitore, la famiglia che oggi ho davanti è anche l’esito, provvisorio e in divenire, di un modo di intendere la genitorialità costruito in un processo storico e in uno specifico contesto di cui sono parte sia la famiglia sia l’educatore-cercatore di tracce. Nel processo di re-inventare la famiglia, storicizzare e contestualizzare diventano due operazioni cruciali quando permettono di moltiplicare gli sguardi. Oltre l’istantanea fotografia L’occhio dell’educatore è sempre mediato dalle proprie teorie, pregiudizi, storia familiari; è sempre situato in un orizzonte culturale, in un momento storico e in un contesto sociale; è sempre costruito nel linguaggio e nella comunità dell’osservatore. Questa famiglia è adeguata e quella è inadeguata. L’uso del verbo essere restituisce un solo fotogramma della famiglia, estraendolo dallo sfondo in cui è nato e si è sviluppato; l’uso del tempo presente non riesce a restituire il legame con il passato e i progetti futuri, costringendo quella famiglia dentro un eterno presente. Per riconoscere le tracce della famiglia non è sufficiente una macchina fotografica, ma è necessario affinare tutti i nostri sensi, gusto compreso. Artisti, ingegneri e bricoleur Una volta individuate le tracce abbiamo due possibilità: vestire i panni dell’ingegnere, e iniziare a misurare e quantificare; oppure vestire l’abito dell’artista, e dipingere, cantare e danzare. Arte e mestiere: quanto la prima richiama creatività, quanto il secondo ci porta alla razionalità. Il figlio ne sarà il prodotto o l’opera. L’adesione a una dei due modelli pone comunque un problema: il primo premia l’asimmetria relazionale e la dipendenza; nel secondo è la responsabilità personale che viene meno. Entrambi i modelli pongono la genitorialità al di fuori della relazione, del contesto, della storia e delle storie. Ritengo possa esserci una terza via: un modello ecologico-evolutivo: in cui si opera per interdipendenza tra universale e locale, per cooperazione e conflittualità, muovendosi verso una descrizione doppia (p. 92) o verso la costruzione di mondi possibili. Un processo evolutivo provvisorio e parziale, fatto di sovrapposizioni culturali che ho chiamato bricolage evolutivo. Il bricoleur usa arte e mestiere, coordinando quotidianamente l’improvvisazione creativa con la progettazione del futuro, attingendo sia alla capacità riflessiva e teorica, sia alla necessità di fare e agire. 4. Interazioni: osservare la famiglia in azione l’interazione umana non si ferma a livello puramente verbale, anzi grandissima parte della comunicazione ha luogo attraverso segnali, mimiche, gesticolazioni, posture e altre più esclusive modalità di comportamento. L’osservazione è uno strumento selettivo che si differenzia dal semplice guardare o vedere in quanto lo sguardo dell’osservatore è intenzionalmente guidato dalle premesse, pregiudizi e ipotesi che sono la guida nell’ottenere informazioni desiderate. Non si può osservare tutto. L’osservazione è sempre e comunque un processo di selezione e di scelta metodologica intenzionale, soggettiva e coordinata con una comunità di osservatori. L’oggetto osservato non può essere considerato indipendente da chi osserva, perché l’atto di osservare modifica o altera in modo incontrollabile il comportamento dell’osservato. Per questo è necessario essere consapevoli dei propri pregiudizi e della propria idea di famiglia. Come mi vedi? Questo è l’interrogativo che pongono molti genitori agli esperti che li osservano, vogliono sapere come sono, chiedono di essere giudicati. Ma non si possono adottare delle misurazioni oggettive per definire se un genitore è bravo. Quello che sembra essere un bisogno di valutazione è in primo luogo bisogno di riconoscimento: il desiderio di essere visti e riconosciuti nel ruolo di genitori, calati nella concretezza dell’agire quotidiano. Di fronte a questo bisogno ho pensato che si poteva proporre un uso trasformativo e riflessivo della video camera: avere la possibilità di fermarsi a riflettere sul modo in cui si fanno le cose, non limitarsi, quindi, ad agire la cura, ma riuscire a vederla e pensarla, può essere considerato come un primo passo consolidare, esplicitandola, la propria idea di genitorialità. Che cosa vuoi mostrarmi? L’obiettivo principale della consulenza è dare visibilità alle strategie e risorse che vengono messe in campo nella relazione con il figlio, per poi utilizzare le immagini come base per una riflessione in merito agli effetti delle azioni di cura e ai feedback in circolo tra i diversi partner relazionali. La richiesta avanzata dai genitori è di tipo valutativo, ma la risposta è di tipo osservativo-riflessivo. Se esiste un dubbio o un giudizio negativo Il riconoscimento reciproco, la possibilità di essere visti e “ben raccontati” dai propri famigliari è un bisogno che in qualche modo e con regole semantiche specifiche di ogni microcultura familiare accompagna la vita di ciascuno. Lavorare con le famiglie allora significa portare l’attenzione sugli aspetti di narrazioni e sul tipo di storie che reciprocamente i vari membri si raccontano per definire se stessi e gli altri. Spostare l’attenzione dalle dinamiche interattive a quelle narrative significa prima di tutto accettare che l’idea che le storie e narrazioni rappresentano uno strumento di (auto)formazione e (auto)coscienza molto potente. Significa riconoscere nelle storie il potere di creare connessioni e strutture, organizzando l’esperienza umana secondo un inizio, in proseguimento e una fine. Le narrazioni si costituiscono come una forma particolare di conoscenza che agisce sulla formazione dell’identità personale e che usiamo per dare forma e significato, vincoli e possibilità alla nostro fluida esistenza. Sono i racconti generati nelle e dalle pratiche comunicative a definire le appartenenze, i significati, i confini del sistema famigliare, l’identità di ciascuno e l’identità della famiglia. Storie saturate da una prospettiva unica Il rischio educativo che si profila è che la famiglia venga rappresentata attraverso narrazioni fisse, dove ogni apprendimento sembra da escludersi. “la mia famiglia è così, la tengo così punto e basta”. Si potrebbe anche dire che le storie narrate, così irrigidite e automatiche rischiano di non onorare più la complessità delle relazioni e dei soggetti che vi partecipano, rischiano di diventare storia a cui non ci si pensa più, facendo così venir meno un aspetto fondamentale della cura del sé. Un’azione di cura della vita e della mente è “il raccontare ciò che accade” la costruzione del proprio spazio simbolico richiede che la mente si impegni a narrare sempre di nuovo ciò che avviene e ciò che le accade di pensare. C’è un nesso profondo tra pensiero riflessivo e narrazione, cura delle relazioni e cura di sé. Riflessione formativa: la riflessività diventa autoformazione quando interrompe la riproduzione automatica del passato, genera distanza dalle storie tramandate e innesca cambiamenti. Nelle storie fisse, statiche, il problema diventa la lente attraverso cui interpretare e leggere ogni esperienza: tutto è ricondotto agli aspetti negativi della famiglia e dei suoi componenti. un sistema può essere definito patologico quando ha perso la capacità di ricevere informazioni e dunque di generare differenza. Si parla di “storia bloccate”. Quando un bambino impara a raccontare una storia coerente con quello che ha fatto impara a pensarsi. Infatti contemporaneamente alla storia costruisce gli schemi, delle strutture nelle quali la inserisce. Il suo racconto di sé non potrà prescindere dalla qualità delle storie che avrà imparato a raccontare. Cosa e come racconta l’educatore? Cosa e come guarda? È bene interrogarsi sullo stile narrativo e sulla semantica che gli operatori usano per raccontare e descrivere la famiglia per due ragioni: la prima per il benessere degli operatori stessi. Anche gli educatori, come le famiglie, chiedono aiuto ad altri (supervisione) quando le proprie storie, e quindi le proprie idee, non appaiono generative di qualcosa di utile. Quando gli operatori sono intrappolati da interpretazioni e orientamenti chiusi alla negoziazione, in genere espressi in termini impersonali avvertono sempre una notevole fatica. La seconda ragione riguarda il livello interattivo tra la famiglia e gli operatori. La questione non è solo capire come la famiglia si racconta, ma chiedersi come gli operatori interagiscano con i suoi componenti, come li vedono, che cosa vedono e che cosa cercano. In breve, come contribuiscono con la loro presenza e le loro azioni comunicative alla co-costruzione di certe narrazioni e non altre. Dalla patologia alla speranza Nel lavoro di cura possiamo individuare due grandi orientamenti: quello patogenico e quello salutogenico. La prima stabilisce una relazione causa-effetto tra fattore scatenante ed effetti provocati, tra agente patogeno e sintomo. L’aspetto centrale è posto sulle debolezze. L’orientamento alla salutogenesi, invece, senza negare i problemi, pone i propri fondamenti sui punti di forza e sulle risorse. L’orientamento alla cura che propongo è fortemente orientato verso la salutogenesi. La cura educativa orientata alla ricerca della bellezza Il lavoro di cura educativa consiste nell’introdurre variazioni , proporre sguardi differenti da quelli che i protagonisti posseggono già nei confronti delle proprie relazioni familiari e quindi di se stessi e delle propria storia, lavorando nella condizioni che esistono sempre tracce di bellezza e che queste possono essere viste dagli stessi componenti della famiglia. Si devono riconoscere queste tracce, accoglierle, valorizzarle e farle risplendere. Un posizionamento estetico nel lavoro di cura Non si tratta solo di recuperare la normalità del soggetto o della famiglia; non si tratta solo di cercare leggerezza e apertura ad altre prospettive. La proposta è più specifica e attiva: si tratta di andare insieme a cercare, con uno sguardo curioso ed esplorativo, tracce di competenza e abilità, ma soprattutto di poesia e la bellezza, di immaginazione e desiderio, per rintracciare e vivificare la narrazione familiare e trasformarla in un romanzo. Assumere un posizionamento estetico significa guardare e ascoltare con curiosità l’altro, raccontarsi e rivelarsi per apprezzare insieme la sapienza delle storie e trovare così nuove prospettive con cui ripercorrere l’esperienza e la relazione. Un posizionamento estetico è come un pensiero che riunisce mente e corpo. Le parole non bastano Le parole però hanno dei limiti, per questo nel lavoro educativo bisogna cercare di utilizzare linguaggi e grammatiche capaci di dar voce ad aspetti della vita umana che non sono totalmente verbalizzabili: il racconto, la metafora, la poesia, il disegno, il suono… per cercare di riunificare la mente e il corpo. La proposta è quella di utilizzare il lavoro con le immagini e l’immaginazione come uno dei modi possibili per suscitare la ricerca della bellezza, per aver cura dell’altro e per attivar cura tra le relazioni. 7. Tra micro e macrostoria: lo sguardo biografico per comprendere la vita famigliare L’approccio biografico e autobiografico, specialmente se plurigenerazionale, è la via per comprendere l’unicità della cultura di ogni famiglia; allo stesso tempo ci permette di vedere le connessioni tra singolo sistema familiare e il contesto più ampio. Le narrazioni famigliari ci aiutano a comprendere come cambia la vita quotidiana e come cambiano le relazioni, non solo per fattori interni a quella famiglia, ma per l’influenza delle determinanti sociali, delle appartenenze di classe, territoriali e di genere. Costruzioni biografiche Per comprendere l’impatto della dimensione biografica sulla vita famigliare ci è necessaria l’immaginazione auto/biografica, cioè la capacità di comporre sguardi multipli, andando oltre le nostre cornici disciplinari e professionali. Attraverso le storie emergono i paradigmi familiari, cioè il complesso di presupposti, immagini reali e ideali, rappresentazioni e concetti che costruiscono un modello cognitivo, emotivo, valoriale ed etico con cui la famiglia sceglie di dare forma alle sue azioni. Il paradigma è una variabile sistemica in quanto esprime caratteristiche che appartengono alla famiglia nel suo insieme. Per dare significato alla vita familiare abbiamo bisogno di costruire ricordi condivisi. Le storie che raccogliamo ci aiutano a capire e ricordare che lo scenario cambia continuamente e le soluzioni creative che ogni famiglia mette in atto, a ogni nuova generazione, sono una combinazione di adattamenti e exattamenti che permette di stare al passo con i tempi pur mantenendo un’identità, una coerenza. È solo attraverso le storie che possiamo comprendere il presente: un divorzio, una maternità assistita, la scelta omogenitoriale. Mettere l’accento sulla cultura significa affrontare il tema dell’educazione come processo che avviene continuamente nella famiglia, per lo più inconsapevolmente attraverso l’immersione quotidiana nei modelli comunicativi, negli stili di vita, nella materialità dei rituali, dei gesti e dei discorsi. Disordine e incertezza: quale idea di apprendimento per la famiglia? L’educazione può fare la differenza, rispetto all’impatto automatico e omologante di certi fattori. La biograficità è l’esito di un percorso auto-educativo del soggetto che si osserva, si racconta, si riflette, prende le distanze e sceglie il proprio cammino. Come si impara oggi nelle famiglie? Oggi siamo continuamenti circondati di informazioni e di possibilità di apprendere, ma tutto questo non sembra rendere le famiglie di oggi più funzionali o più felici di quelle dei nostri nonni. L’educazione non può permettersi oggi d ridurre la complessità delle storie a uno o pochi fattori presi separatamente, né di connotare il disordine e l’incertezza come solamente negativi: la complessità è una caratteristica costitutiva del vivere che può esser riconosciuta grazie alla composizione degli sguardi multipli. L’invenzione del privato La caratteristica della cultura famigliare contemporanea è la vita privata, un’invenzione recente fatta di rituali domestici, compiti ripetuti, spazi connotati. Come si impara in famiglia? In famiglia si impara vivendo, il copione non è fisso, cambia continuamente. La famiglia educa per definizione, proprio perché è un sistema di ridondanze, di relazioni circolari e di comportamenti interdipendenti. è caratterizzata sia dalla permanenza sia dal cambiamento. I processi narrativi sono educativi, ma non intenzionali. Far parte di una famiglia significa sviluppare in sistema coordinato di storie e dunque condividere una buona parte della stessa epistemologia, dello stesso paradigma. La vita di una famiglia non si può capire dalla sommatoria delle storie dei suoi membri presi separatamente, ma dobbiamo capire come le storie di interconnettono e come sono collettivamente generate e trasformate. Come educatori abbiamo il dovere di creare contesti relazionali nei quali sia possibile narrare storie più ricche; se siamo consapevoli che noi con le nostre domande e i nostri feedback esercitiamo vincoli su quello che può o non può essere raccontato e come la nostra attenzione per gli atti comunicativi a cui partecipiamo diventa più acuta. L’approccio sistemico cerca di generare versioni diverse della stessa storia, differenze che fanno la differenza moltiplicando sguardi e linguaggi. La pedagogia della famiglia può così celebrare la complessità e la dinamicità invece di ridurre la vita famigliare a una sola versione. SECONDA PARTE: Azioni cruciali nei servizi: verso un sapere incarnato, dinamico, riflessivo Tutela minori, assistenza domiciliare minori, spazio neutro… sono tutti servizi rivolti alle famiglie che sono spesso rappresentati con delle sigle o nomi apparentemente inequivocabili: parlare di tutela o assistenza, sembra denotare in modo molto chiaro i valori e le finalità dell’intervento. Altre parole definiscono l’utenza, che è quasi sempre individuale, debole e incompetente. La premessa più importante che veicolano queste parole è quella del deficit. Ciò che fa un servizio non è nel suo nome, ma nelle pratiche, nelle azioni e interazioni che si svolgono, nei processi che realizza. Ogni luogo di lavoro incarna un’epistemologia, un paradigma, un modo di definire la realtà. Gli abitanti del servizio, educatori e utenti, lo connotano a modo loro, interpretando attivamente il loro copione, dando senso ai vincoli e agli eventi. Quello che fa apparire sistemico un certo modo di agire in educazione è la presenza di azioni cruciali che denotano un certo tipo di pensiero. Non è un pensiero applicativo, che cerca di verificare idee o teorie sistemiche nella prassi, ma un pensiero operativo, cioè che si manifeste dentro un’azione, attraverso processi. La domanda è: quali azioni caratterizzano l’operatività di un educatore che incontra la famiglia e desidera fortemente celebrarne la complessità sistemica? Si cercherà di rispondere mostrando come agiscono nel concreto alcune premesse e convinzioni proprie dell’approccio sistemico. Abbiamo visto come il filo conduttore sia il racconto delle esperienze e/o delle pratiche. Il racconto dell’esperienza è più centrato sull’autore, come persona che ha vissuto una determinata situazione. Mentre il racconto della pratica mette al centro l’azione agita. Entrambi i racconti però confluiscono in una riflessività che nasce dall’azione stessa del raccontare: restituire gli eventi in modo sincero richiede che si scelga una punteggiatura, e quindi è un invito a pensare, a dare una direzione, un senso. La prima tesi è che il sapere educativo è sempre incarnato e relazionale, fatto di corpi, sensi, interazioni concrete, scambi comunicativi, che incarnano almeno tre livelli: soggettivo, relazionale, istituzionale. Il racconto è la via più immediata e coerente per accedere ai saperi dell’educatore costruiti nella relazione con gli utenti, con altri, e con il servizio in quanto sistema. Visto che la teoria è incarnata nelle relazioni concrete che fanno l’azione educativa, il racconto diventa l’unico modo sensato per comprendere e ricostruire a posteriori tale teoria. Ma dobbiamo tener presente che c’è una complessità che nessun racconto riuscirà mai restituire in modo completo: panta rei, tutto scorre. Se c’è qualcosa che caratterizza lo sguardo sistemico è proprio la dinamicità, la metafora del flusso, che nessuna fotografia o racconto potrà mai fissare. La seconda tesi che giustifica l’uso della narrazione è che nelle storie c’è un prologo, uno svolgimento e un epilogo. Pensare alle storie inserisce il tempo nelle nostre vite. Il lavoro educativo è un muoversi per mettere in movimento. Anche il raccontare è un movimento che genera, a certe condizioni, un pensiero che genera l’azione. L’agire sistemico non è mai passivo ed è policentrico. tenendo conto dei bisogni, dei desideri e dei punti di vista di ogni membro. Questo consente di avviare proficue conversazioni sul futuro. Il processo così viene ad essere costantemente monitorato attraverso strumenti di (auto)osservazione gestiti dalla famiglia insieme agli operatori. La circolarità tradotta in comunicazione Il concreto del lavoro educativo avviene in un flusso comunicativo incessante al quale le persone partecipano. Non si esce mai dal significato, dal linguaggio. L’operatore sistemico partecipa alla comunicazione in modo attivo, tiene conto del processo comunicativo in atto e prova a perturbarlo alla ricerca di nuove possibilità. Usa se stesso come messaggio. È responsivo, cioè adotta una postura di grande attenzione per i feedback, quelli da dare e quelli da ricevere. L’equipe sistemica, adottando la postura dell’ipotizzazione, riconosce il valora parziale e temporaneo delle proprie idee sulla famiglia, che saranno coltivate e arricchite continuamente, per garantire una visione circolare e utile al cambiamento. Quando un equipe diventa una mente sistemica riesce a sintonizzarsi sulla complessità della famiglia, a rispecchiarne la circolarità. Nel lavoro con le famiglie spesso le azioni agite diventano la base per introdurre un nuovo modo anche di parlare. Compito dell’educatore è allestire un contesto operativo come nuova matrice di significati, uno sfondo nel quale la circolarità delle comunicazioni sia presente e possa trasformarsi. Quali movimenti per stare tutti un po’ meglio? Emergono quattro dimensioni della cura, fortemente intrecciate: la fedeltà del soggetto a se stesso, la cura dei legami, la cura del noi, l’apertura al sistema più ampio, sociale e naturale. Il primo punto riguarda il singolo: dire sì a ciò che ci fa star bene e no a quello che ci fa star male. l’integrità del bambino può essere rispettata fin dai primi giorni di vita se c’è comprensione delle sue competenze e della sua capacità di dire di no. Se l’adulto comprende l’importanza della fedeltà a se stesso. Il secondo livello riguarda il prendersi cura dei legami che significa puntare lo sguardo su qualcosa che c’è già ma è stata forse trascurata, dimenticata o negata. Significa ricreare le condizioni materiali e psicologiche affinchè i “pezzi” della famiglia possono avere un incontro reale. Ricomporre i legami messi a rischio o interrotti dalle transizioni della vita. Significa recuperare la capacità simbolica. Anche la cura del noi trae vantaggio dalla composizione che tiene insieme il piano reale con quello simbolico. Il senso del noi fa stare tutti un po’ meglio. Coltivare insieme i due livelli significa trovare soluzioni creative a vecchi dualismi: indipendenza/dipendenza,individualità/appartenenza, differenziazione/unità familiare. Per quando riguarda il rapporto tra famiglia e mondo più ampio abbiamo visto che una delle caratteristiche delle famiglie che incontriamo è l’isolamento sociale, derivato dallo stigma sociale. Cura è costruire proposte educative che creino occasioni naturali di partecipazione, non perché qualcuno ha deciso che è bene partecipare o perché ci si debba adeguare, ma perché il desiderio dell’altro, la voglia di esserci, di confrontarsi nascono quando c’è il contesto giusto. 2. Prevedere l’imprevisto nella tutela dei minori Con tutela dei minori generalmente si definiscono quelle funzioni pubbliche e quei servizi che hanno il compito di affiancare i bambini e i ragazzi in favore dei quali è chiesto un controllo. Questo controllo può divenire penalizzante dei diritti di qualcuno della famiglia, per tanto è richiesto che le decisioni in proposito siano assunte da un’autorità giudiziaria. Ci troviamo in contesti dove è necessario conoscere, decidere ed agire assicurandosi di aver visto e previsto giusto. Intervenire in questo modo richiede oggettività: da un lato è necessario per l’operatore non dimenticare i propri riferimenti epistemologici, dall’altro è necessario garantire che decisioni cos’ difficili non scaturiscano banalmente da opinioni. Previsto/imprevisto Gli episodi imprevisti devono poter essere messi al centro della riflessione pedagogica: essi costituiscono una differenza, cioè un’informazione che può essere percepita e che rappresenta l’elemento fondamentale del processo di conoscenza. Dare senso all’imprevisto per noi umani è vitale, ed essendo occidentali, il principale riferimento che adottiamo per dare senso all’imprevisto è quello di metterlo in relazione ai risultati, al finale. Cerchiamo quindi un lieto fine. Anche nei racconti e nelle favole che ascoltavamo da bambini ritroviamo il lieto fine: “e vissero felici e contenti”. In questo lieto fine spesso ritroviamo una coppia che si unisce o dei bambini che tornano a casa: è proprio l’immagine di una famiglia. E questo lieto fine ideale segna gli operatori a stretto contatto con quelle famiglie in cui gli adulti non sembrano in grado di proteggere e promuovere i più piccoli, o addirittura li mettono in pericolo. L’orizzonte finale dell’intervento educativo diventa, allora, una contrapposizione di idee: vivere/morire, insieme/separazione, felicità/ sofferenza. Dal finale al percorrere Come se fossimo in una favola, ci proponiamo di essere noi quelli che potranno rivoluzionare la storia per arrivare al lieto fine. Rischiando però di agire come se ci trovassimo di fronte ad una macchina dove tutto è progettato prima e le relazioni tra i componenti sono prevedibili, misurabili, riparabili. Dimenticando così la profonda differenza tra sistemi complicati: sono costruiti da essere umani e possono essere ricostruiti in dettaglio nei loro componenti, nelle relazioni intere e possono essere determinati dall’esterno. E sistemi complessi che invece si programmano da sé, hanno un loro autonomo punto di vista sul mondo, e proprio per questo non sono mai conoscibili o controllabili dall’esterno. Il lavoro educativo che si compie nell’ambito della tutela dei minori non può rinunciare alla dimensione relazionale che è essenziale. La separazione tra essere umani non ha mai un significato anestetico. Il paradosso dell’istituzionalizzazione nei servizi de-istituzionalizzati L’imprevisto investe anche il funzionamento dei servizi e lo stile dei nostri interventi. Vivere in comunità non è come vivere in un istituto, ma non è nemmeno privo del tutto di elementi istituzionali. Infatti si tratta di servizi organizzati ad hoc, dove si arriva spesso per obbligo e dove occorre comunque organizzare un setting che fornisca quella contestualizzazione necessaria a promuovere una trasformazione. Gli interventi per ogni famiglia possono essere pensati non sulla base della riduzione del rischio, ma sul riconoscere la fase che quella famiglia sta attraversando in quel momento, sapendo che sempre ci possono essere delle evoluzioni. Porre in atto e mantenere riflessioni su tutto il processo e non negare i paradossi e le contraddizioni che esso genera è l’unica via per non deviare nell’istituzionalizzazione dei servizi de- istituzionalizzati. Questa riflessione può essere sollecitata da tre interrogativi: 1. Genitori liberi o coatti? I servizi di tutela sono generalmente caratterizzati da un significato coattivo: la presenza del trinale che obbliga. I genitori alla ricerca di spazi di libertà, pur tra gli obblighi spesso lo fanno contrapponendosi ai servizi o nascondendosi. Quando riusciamo ad individuare insieme a loro spazi leciti e condivisi di libertà, allora possono fare passi avanti del tutto inaspettati. Si tratta, dunque, per molti genitori, di autorizzarsi alla libertà, pur nei contesti limitati. Una legge, delle regole, pur essendo molto rigorose acquisiscono un senso molto diverso a seconda di come vengono poste. Un regolamento può rappresentare un insieme di regole fisse, imposte, alle quali l’ospite deve aderire o invece può essere un patto, sottoscritto da tutti con la libertà che a ciascuno è possibile e che può variare nel tempo. 2. Intervenire subito o dare tempo? Gli educatori si trovano spesso davanti a questa domanda, con il rischio che dando tempo dopo sia troppo tardi. Per me è sempre stato utile porre in relazione la quantità del tempo con la qualità di ciò che avviene in quel tempo, soprattutto nelle relazioni. 3. Categorie di utenza o storie singole da ascoltare? La conoscenza umana non può fare a meno della categorizzazione. Nonostante questo in ambito educativo è rischioso pensare esclusivamente in termini di categorie. L’esigenza istituzionalizzante di predeterminare le letture sui fatti oggettivi difficilmente ha un significato liberatorio e trasformativo. Assume molto più spesso un valore costrittivo. Prevedere l’imprevisto negli instabili equilibri Essere in bilico è una condizione che può dirci molto sullo stato precario delle famiglie, ma anche su noi che lavoriamo con le famiglie. Sottovalutare gli effetti della caduta potrebbe diventare mortale, nella tutela dei minori e delle loro famiglie. L’operatore dovrà farsi carico di attenuare gli effetti del passaggio da un equilibrio ad un altro, evitando la caduta. Quando capita che qualcuno scivoli, sia chi cade sia chi trattiene da cadere riscoprono nell’imprevisto il senso di quel legame. 3. Tracciare le connessioni: l’ADM come questione di famiglia La famiglia rappresenta il luogo ideale del benessere per i bambini, spazio simbolico e materiale dell’appartenenza, della cura, dell’affettività. La possibilità per un educatore di entrare in contatto con la famiglia proprio nel suo ambiente di vita è una risorsa speciale a livello educativo e pedagogico. Poter interagire con la famiglia all’interno dei propri ambienti permette di co-costruire nella quotidianità delle strategie e modalità interattive resistenti nel tempo in grado di continuare anche dopo l’uscita di casa dell’educatore. Condizione perché esso avvenga è la curiosità. L’ADM è una questione di famiglia, in cui tutti si devono mettere in gioco, educatore compreso. ADM: una riflessione pedagogica tra premesse e definizioni Ascoltando le definizioni di ADM fatte dagli educatori che la vivono ogni giorno, sempre di più ADM appariva ai miei occhi come un contenitore ampio e dai margini indefiniti. Per l’appunto il termine ADM viene utilizzato per indicare in maniera approssimativa e generica interventi di vario tipo, che hanno come oggetto evidente il minore, ma poi assumo sfaccettature e connotazioni differenti, dall’assistenza all’animazione, dal sociale all’educativo, dal ludico al ricreativo… Assistenza: viene per lo più interpretato come dare il proprio contributo con la presenza. Domiciliare: riferito al luogo dell’intervento. Minori: indica il soggetto principale di tale intervento. La casa: punto di partenza, di transito, di arrivo? Il fatto che l’ADM si debba fare a casa della famiglia è un tratto distintivo da altri interventi educativi che si svolgono in setting costruiti ad hoc. L’entrare nel mondo intimo della famiglia è un’operazione delicata, nella quale non è possibile non posizionarsi. Nella maggior parte dei casi l’educativa domiciliare è un intervento coatto, cioè decretato dal giudice. Per questo motivo l’operatore, che rappresenta il servizio sociale, non può essere visto a prima vista come potenziale risorsa dai membri della famiglia. La diffidenza, la chiusura o addirittura l’aggressività possono essere viste come legittime. Primo compito dell’educatore è quindi conquistarsi questa fiducia che permetta alla famiglia di aprire non solo la loro porta ma anche la loro storia, per iniziare un processo trasformativo. La casa parla: di abitudini, di relazioni, di vissuti. Saper leggere queste forme, osservare gli spazi senza caricarli di giudizi e categorizzazioni, significa imparare molto sugli abitanti di quegli spazi. E così la casa diventa il setting educativo per eccellenza, un setting privilegiato. La casa può essere anche un punto di transito, da cui partire per andare in altri luoghi. Ma anche un vincolo da cui bisognava uscire in maniera creativa. Può diventare quasi una gabbia dalla quale bisogna uscire per poter sviluppare la propria autonomia. L’epistemologia sistemica invita a concentrarsi non solo sul bambino, come elemento separato da tutto il resto, ma sull’intero sistema di cure di interazioni in cui è inserito quotidianamente. La famiglia e l’educatore: dal sostituire al valorizzare le relazioni Con la sua presenza l’educatore modifica gli equilibri che la famiglia si era creata. Molti interventi domiciliare si trasformano in una sorta di sostituzione del genitore da parte dell’educatore nella funzione di sostegno e supporto ai figli. Questo è un rischio che porta alla deresponsabilizzazione progressiva degli stesi genitori rispetto al loro ruolo educativo, e ad alimentare la convinzione della loro incapacità di badare ai figli. Non sempre intervenire primariamente sul minore è la cosa migliore per il bambino. Il rischio degli interventi centrati sui piccoli è quello di rendere la famiglia invisibile. Spesso la famiglia viene trascurata proprio perché ritenuta inadeguata. In realtà dobbiamo considerare il sistema familiare come il centro dell’intervento educativo, come rete essenziale della rete relazionale del bambino, da cui è impossibile prescindere. Ogni membro della famiglia è come è perché è in relazione con qual particolare sistema familiare. Il compito dell’educatore è quello di trovare le strategie per potenziare la risorse della famiglia e insieme a questa co-costruire nuove risorse. Verso la trasformazione Il compito è con la e non su o per la famiglia. L’obiettivo è sostenere l’autonomia nel trovare di volta in volta, nei momenti di crisi, le strategie più funzionali al superamento della crisi stessa, alla ricerca di un nuovo equilibrio che permetta a tutti di stare bene. Una famiglia che viene riconosciuta per quello che è se sente questa sua valorizzazione si sentirà anche legittimata a chiedere aiuto nel momento del bisogno. processi di apprendimento a partire dalla crisi che ha portato all’ingresso nel servizio. Il percorso a Spazio Neutro prevede diversi tipo di intervento: • Colloqui individuali con i genitori • Colloqui con i minori • Incontri protetti L’esperienza del conflitto: eventi ed emozioni Spesso a Spazio Neutro si incontrano storie già scritte, con un copione rigido, ripetutamente proposte a interlocutori che hanno un mandato educativo e di conseguenza fissate nei loro significati. Il bisogno di convincere l’interlocutore è talmente in primo piano che taglia spazio ad altre sfere e irrigidisce i punti di vista: tutto viene riletto in termini “ho ragione io e le cose sono accadute per colpa di un altro”. La rappresentazione estetica: dare forma al conflitto Ricercare una rappresentazione estetica, sensibile e immaginativa del conflitto significa sia proporre concretamente alle persone con cui lavoro la ricerca di una rappresentazione alternativa del problema, si ascoltare le metafore, le immagini che emergono spontaneamente nei loro racconti. Cambiare il linguaggio è un’operazione che in sé mira a cambiare la rappresentazione dei “fatti”. La comprensione intelligente: verso una teoria del confronto Le punteggiature delle narrazioni, i modi in cui i racconti sono riportati, le rappresentazioni estetiche sono elementi diversi ed eterogeni che si aprono nel corso delle conversazioni. Da tutti questi elementi costruiamo una teoria locale della situazione, ognuno dalla propria prospettiva. Il conflitto è uno di quei concetti astratti che si vivono e si strutturano attraverso metafore. La metafora che ci porta il bambino sembra essere il “caos” nella sua vita, dove riportare ordine attraverso la giusta ri-collocazione dei ruoli. La madre, solitamente, porta il conflitto come un ostacolo enorme, insormontabile; mentre il padre marca il passaggio da un prima in cui poteva vedere il figlio, all’oggi dove invece non può farlo. L’azione deliberata Per favorire il cambiamento dobbiamo creare un contesto e mettere in campo azioni che producono nuove possibilità di “vedere”. Si propone la pratica dell’altravisionecome possibilità di mettere le persone in nuove posizioni rispetto a sé, alla propria storia ed emozioni, alle proprie relazioni. Il mio scopo non è cambiare la persona o il suo comportamento, ma costruire insieme la possibilità di assumere una nuova prospettiva. L’altravisione è un cambiamento di cornice nel comune modo di intendere la supervisione. Essa permette di introdurre diversi punti di vista che arricchiscono il gruppo e favoriscono il processo di sviluppo di creatività, senza pretendere di dare risposte, valutazioni o suggerimenti su come il professionista dovrebbe lavorare. Generare differenze a partire da ciò che si vive, si prova e si pensa è un primo passo verso un autentico apprendimento. Allargare il contesto: nuove ipotesi sul conflitto Penso di allargare lo sguardo verso dove ancora non si era esplorato: verso le famiglie di origine. Il blasone famigliare è una rappresentazione grafico-simbolica dei valori di una famiglia: disegnare su un foglio uno “scudo” dividendolo in parti, inserire disegni e parole. Attraverso il conflitto in modo generativo L’ampliamento dello sguardo mi ha permesso di vedere il carattere sistemico del conflitto: nella famiglia nucleare, rispetto alle famiglie allargate, tra operatori e famiglia, tra i diversi piani della realtà d’intervento. Ma non basta allargare lo sguardo. Occorre anche posizionarsi continuamente rispetto a ciò che si vede: posizionarsi significa entrare in contatto con premesse diverse (le mie, quelle del servizio, del tribunale, della famiglia), sentire lo scontro e utilizzarlo come occasione di (auto)consapevolezza. 6. Costruire consapevolezza nella relazione con le famiglie Lavoro con gli adolescenti? C’è una cosa che il più delle volte rimane celata, inaspettata, non esplicitata: i ragazzi adolescenti hanno delle famiglie. Questa consapevolezza trasforma in modi inediti il lavoro dell’educatore. L’educatore entra sempre in interazione con i sistemi, anche se non ne è consapevole. Infatti, l’educatore entra a far parte di un sistema di cui tenta di conoscere la complessità e all’interno del quale propone azioni rivolte a qualche forma di cambiamento. Per diventare consapevoli della propria maniera di conoscere questi sistemi, ogni educatore deve fare affidamento sulle proprie molteplici esperienze e cioè sulla sua “auto-cosapevolezza”, quella forma di attenzione non reattiva e non critica verso i propri stati interiori, che permette di conoscere sia il nostro stato d’animo che il pensiero su di esso. Crescere con le famiglie Sono stati intervistati 6 educatori di un centro diurno per adolescenti, usando la metodologia dell’intervista narrativa. Il primo approccio alla famiglia da parte degli operatori ricalca quello della “famiglia assente”: la famiglia non è in alcun modo considerata nella cornice di riferimento con cui si guarda al minore. Da notare che per qualsiasi servizio ai minori la capacità di includere la famiglia originaria nel percorso educativo rappresenta un nodo cruciale. Subito dopo il modello della famiglia assente viene quello della diffidenza verso una famiglia vista come distante o potenzialmente problematica. Ci sono casi in cui la famiglia viene etichettata definitivamente come “sbagliata”: carente, deviante, se non patologica. Le cornici di senso di genitori ed educatori a volte non coincidono. Due interpretazioni diverse spesso portano a un conflitto. Una reazione tipica dell’operatore è la sensazione che la famiglia ostacoli il lavoro del servizio. A volte l’educatore è deluso perché scorge nella domanda della famiglia un mancato apprezzamento per il lavoro svolto. Potremmo dire che il genitore contiene il passato del ragazzo, mentre gli educatori puntano al futuro. Due dimensioni di vita che devono integrarsi in uno sguardo comune, condiviso. I conflitti sembrano inevitabili, ma possono diventare tappe di un percorso compiuto assieme alle famiglie, fatto di alti e bassi, durante il quale avviene la scoperta dell’altro e dei propri limiti. Nell’interazione educativa accade di fare troppo o troppo poco. L’atto educativo è frutto di un posizionamento, che è fisico, ma soprattutto mentale, fatto di emozioni e pensieri. Trovare la giusta posizione, anche attraverso percorsi di riflessione in equipe, permette di orientare la naturale propensione all’altro, entro un percorso studiato e condiviso, all’interno del quale è possibile ristabilire i giusti confini rispetto alle richieste della famiglia. Quasi tutti gli educatori riconoscono di aver avuto un pregiudizio molto forte nel primo approccio con le famiglie. Agli occhi degli educatori la famiglia diventa il luogo dove “si rovina il lavoro del servizio”. Questa rappresentazione pone, ovviamente, grandi limiti alla capacità d’azione degli educatori. In questo caso è fondamentale il lavoro di gruppo e il confronto, perché senza lo sguardo dell’altro, è difficile riconoscere i propri pregiudizi o schemi mentali. In alcuni casi il pregiudizio di scioglie con la costruzione del rapporto con la famiglia e la scoperta del desiderio dei genitori di migliorare per i figli. La risposta alla delusione è la speranza, la capacità di rinnovare la propria fiducia nella possibilità di miglioramento delle persone. L’atto educativo consiste nell’offrire ai ragazzi e alle famiglie un punto di vista diverso, che colloca i conflitti in una cornice di senso più ampia, all’interno di una vicenda personale e relazionale di crescita. Nella mente dell’educatore p. 352 L’automatismo della risposta pone grosse domande di senso nell’agire dell’educatore. Rende necessario un costante lavoro di auto-addestramento che sveli queste risposte automatiche e introduca una pausa tra stimolo e risposta, creando uno spazio nel quale sia possibile ampliare le proprie possibilità di scelta. È uno stato da ricercare e allenare, che potrebbe assomigliare alla consapevolezza mindful. Una pratica di consapevolezza nella relazione L’esercizio dell’auto-formazione consiste nella ricerca continua di una stato d’attenzione verso di sé. Questa pratica suscita una nuova coscienza di sé che ci permette di decentrarci noi confronti di noi stessi, e quindi di riconoscere le nostre carenze, lacune e debolezze, ma anche delle nostre strategie, capacità e punti di forza. L’esercizio comincia con la registrazione del maggior numero di dati sui noi stessi, per poi procedere con la successiva analisi di questi dati, per indagare non più sul cosa ma sul come, per arrivare ad un ipotesi plausibile sul perché. La caratteristica fondamentale dell’osservazione è la neutralità, cioè la distinzione dati e informazioni. Alla ricerca della posizione: la mediazione La mediazione è l’azione che permette l’incontro dei saperi tra educatore ed educando affinchè si verifichi un effettivo cambiamento. Il punto di contatto tra i due soggetti varia da relazione a relazione, e per individuarlo occorre un grande impegno valutativo da parte dell’educatore. Legge dei 100 passi: l’educatore può arrivare a compiere anche 99 passi, pur di riuscire a trovare un luogo della comunicazione, in grado di stimolare l’educando a compiere l’ultimo passo. L’educatore che fa 100 passi corrisponde a colui che si sostituisce al soggetto. Chi non ne compie neanche uno si arrende. 7. Fare spazio e dare voce: l’incontro con i familiari in un servizio psichiatrico territoriale Nel confronto con un caso ci siamo accorti che nei servizi manca un luogo dove un familiare possa, pur nel riconoscimento del suo ruolo all’interno della famiglia, dare voce alle emozioni, ai desideri, alla propria storia, che non necessariamente coincide con quella del paziente. Si configura come uno spazio di ascolto, in cui l’attenzione non sia posta sulla diagnosi, sulla malattia, ma sul vissuto che di esse hanno i familiari, sull’interazione tra la malattia e il significato che la famiglia le attribuisce e sulla possibilità di trovare un senso, una prospettiva che possa rendere l’esistenza di un nuovo sostenibile. Parte così il Progetto Famiglie. L’idea di progettare all’interno di un servizio un intervento educativo- pedagogico, che offra ai familiare un luogo da co-costruire e in cui trovare le parole per narrare il dolore, parte dal presupposto che la famiglia è i luogo per eccellenza in cui il paziente vive e del quale condivide le dinamiche relazionali. È a partire dalla propria storia familiare che si attribuiscono significati alle cose, agli eventi e alle persone. La famiglia è una presenza ineluttabile e irrinunciabile sia nel male sia nel bene. Il progetto Il nostro intervento, dunque, è pensato prima di tutto come uno spazio di ascolto, in cui sia possibile, in un clima di accoglienza, definire l’attuale situazione familiare, attribuire senso e significato agli eventi e alle relazioni in corso, cercando insieme in nuovo punto di vista che apra a orizzonti nuovi e vivibili in maniera più dignitosa. Uno spazio dove poter raccontare la propria storia e quindi dove la propria sofferenza possa essere riconosciuta e legittimata. L’intento non è quello di interpretare o trasformare i significati, ma di curare la narrazione e interrogare l’esperienza, per aprire nuove possibilità di comprensione e spostare l’attenzione alla complessità della situazione specifica e alla pluralità dei soggetti coinvolti in essa. Definiti gli obiettivi, si trattava di trovare in noi le posture che avrebbero potuto facilitare la ricerca di nuove situazioni e significati relazionali, che avrebbero favorito un atteggiamento di ascolto attivo. L’attenzione è quindi posta sulle competenze relazionali, di comunicazione non direttiva, di rispetto verso l’interlocutore, di facilitazione, sostegno e accettazione della comunicazione, di valorizzazione di quanto ci viene narrato, di astensione dalle valutazioni. Il nostro intervento mette le famiglie nella condizione di poter esplorare a fondo il proprio disagio, di riuscire a dargli un nome, a riconoscere e condividere la propria esperienza, le proprie emozioni, per comprendere ciò che succede tutti i giorni, ma anche legittimare il proprio modo di essere genitori, prima di pensare ad eventuali modi diversi di esserlo. Questi interventi possono aprire le possibilità per una trasformazione sostenibile, perché sono fondati sulla comprensione di ciò che le persone già conoscono, senza saperlo. Prendersi cura dei legami L’accogliere come priamo momento di cura significa riconoscere che ogni famiglia è diversa, ha qualcosa di unico, che sfugge alla categorizzazione e al monitoraggio di un modello medico. Accogliere significa chiedersi chi è l’altro, esserne incuriositi, farsi stupire, far cogliere la bellezza e la peculiarità di ogni storia familiare. In questi interventi il contratto è fondamentale: permette di co-creare un significato condiviso su ciò che si fa insieme. L’intervento, quindi, parte delle aspettative e dalle richieste ogni volta differenti, e allo stesso modo può evolvere in direzioni impensate. Proponendo un nuovo modo di parlare e di pensare alla situazione si può aprire una possibilità diversa di stare con il proprio familiare. La narrazione biografica può diventare una via per rimettere in moto queste storie, ricominciare a condividere con gli altri i propri significati emotivi e cognitivi, oltre che conoscere
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