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re- inventare la famiglia, Dispense di Pedagogia

riassunto di re-inventare la famiglia

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 29/06/2024

ame.
ame. 🇮🇹

3 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica re- inventare la famiglia e più Dispense in PDF di Pedagogia solo su Docsity! lOMoARcPSD| 1882907 Re-inventare la famiglia. PARTE PRIMA: lo sguardo dipende dall’azione. C’è un salto tra conoscere un oggetto interagendo con esso e conoscerlo attraverso una definizione. Toccare, annusare ecc. sono modi che il nostro corpo ha per attivare una percezione, ed essa non avviene se non c’è movimento. Anche nell’osservare ci sono diversi movimenti, come orientarsi verso l’oggetto e i micro movimenti dell’occhio. La vista non ha nulla di fisso. Se ci chiedono quanto pesa un oggetto e capiamo la domanda significa che sappiamo cosa significa il concetto di peso. Piaget spiega che i bambini imparano il concetto di peso attraverso il confronto di oggetti ed esperienze, scoprendo che il corpo risponde in modo diverso. Ci vogliono circa 6 anni di vita e tante esperienze, errori e fallimenti per distinguere e imparare le proprietà degli oggetti. E che per capire la domanda serve conoscere la lingua e il nome delle cose. Lo sguardo dipende dall’azione: se i processi di percezione e conoscenza dipendono da quello che noi facciamo nel mondo e dalle azioni che esercitiamo sugli oggetti, non sarà la loro definizione a farceli conoscere. La definizione deriva da azioni compiute da qualcuno. È complesso definire il concetto di famiglia perché risponde alla nostra descrizione. In base a ciò che facciamo e diciamo, le persone reagiscono. L’idea che ci facciamo degli altri è legata alle azioni comunicative nei contesti di tutte le persone coinvolte. È molto difficile per noi separare percezione, categorizzazione e giudizio, sono processi che avvengono insieme in automatico. Lavorare con la famiglia richiede una consapevolezza epistemologica, e un atteggiamento interrogante nei confronti dei nostri presupposti. Come si è formata in me l’idea di famiglia? Come ho imparato la famiglia? Quali sono i processi formativi più utili a un educatore che lavora con la famiglia? Scegliamo un punto di vista e delle premesse generali di carattere filosofico, epistemologico, ideologico. ① FARSI L’ORECCHIO: LE INVISIBILI PARTITURE DELLA FAMIGLIA Il gioco “se fosse…” è una via per aiutare la famiglia a raccontarsi, e spesso si usa la metafora musicale. I teorici dei sistemi hanno concepito la comunicazione umana come un insieme organico di livelli complessi, contesti multipli e circuiti riflessivi. “La differenza tra queste due strutture è che la composizione musicale possiede una partitura esplicita, scritta, appresa e ripetuta consapevolmente. La partitura di una comunicazione non è formulata per iscritto ed è appresa inconsapevolmente, almeno in parte.” La comunicazione non è trasmettere informazione tra A e B, ma è partecipare a un’interazione complessa. Non bisogna considerare l’individuo come singolo, ma bisogna rapportarlo alla sua famiglia. Il pregiudizio più diffuso tra giovani educatori è l’idea che tutti i comportamenti ed eventi si possano spiegare ricercandone le cause o le motivazioni a partire dalle intenzioni, dalle azioni e dai valori dei singoli soggetti. SISTEMA: syn e stena (stare insieme), indica un aggregato di parti interagenti, ciascuna delle quali può esistere in sé, ma è interdipendente dalle altre e dal tutto secondo determinate leggi e regole. Questo termine si usa in diverse discipline. Bertalanffy elaborò a Teoria Generale dei Sistemi, in cui è presente una logica multidisciplinare per unificare conoscenze e di cercare le leggi universali capaci di governare il funzionamento dei sistemi. Egli definiva il sistema come un insieme di unità in reciproca interazione. Gli esseri viventi sono sistemi aperti che vanno analizzati come un complesso di elementi in interazione tra loro. Ci si interessa alle relazioni e al contesto in cui avvengono. L’apertura al flusso delle cose garantisce lo scambio di energia, informazioni, materia e quindi il sistema può cambiare ed evolvere verso forme più complesse. Le proprietà dei sistemi sono: - Totalità: “il tutto è diverso dalla somma delle parti”. È un tutto inscindibile, se una parte cambia o si danneggia, tutte le parti del sistema vengono coinvolte. - Retroazione e circolarità: non si ha un determinismo lineare, ma circolare B, C o D tornano su A. può essere positiva quando genera la variazione, o negativa quando lo blocca, generando l’omeostasi. - Omeostasi: è lo stato stazionario di parametri entro i quali resta il sistema (equilibrio metastabile, che si ottiene con un continuo processo di retroazione negativa - Equifinalità: è l’equilibrio dei sistemi aperti, il loro funzionamento è legato al processo. Due sistemi con condizioni iniziali diverse possono raggiungere lo stesso risultato e viceversa lOMoARcPSD| 1882907 “Tutto avviene dentro le persone, che sia nella testa o nel cuore, o nell’inconscio, o anche nel corpo…”. Ci si influenza sempre in modo reciproco, in tutte le comunicazioni umane. La lettura soggettivistica degli eventi umani è legata al mito dell’individuo, in cui il senso della vita umana è legato alla capacità del soggetto di esistere, realizzarsi, aver successo e celebrare la propria unicità. È un mito egoistico, falsamente autonomo, non universale. L’approccio sistemico si fonda sull’ecologia delle idee e quindi sulla curiosità per tutto quello che non appare immediatamente valido o scontato. Un racconto è espressione di un sistema complesso di idee e immagini, che trascende l’individuo. La visione di sé che ciascuno sviluppa non nasce nel nulla: è la storia raccontabile, appresa nelle conversazioni e nelle circostanze. Ogni storia è una composizione a più mani. La mia famiglia è una rock band “Farsi l’orecchio” per l’educatore significa imparare tecniche di osservazione e di conversazione, concetti e teorie, modalità progettuali e di valutazione, assumere una postura per interfacciarsi con le situazioni in cui si trova 2 immerso, come se fosse uno strumento. Metafora della cassetta degli attrezzi: l’educatore usa il sapere tecnico per rispondere ai guasti. Metafora della band: la band è coerente con il tipo di musica che vuole creare, c’è una connessione tra il modo in cui una famiglia è composta e quello che crea. Per comprendere una famiglia è necessario ascoltarla con attenzione, e provare a suonarci insieme. Entrare nelle sonorità della famiglia è necessario per l’educatore così come per capire la musica bisogna ascoltare un gruppo e non limitarsi a leggere la biografia o i testi. L’educatore entra in una rete di relazioni e interdipendenze consolidate nel tempo. Una caratteristica della famiglia è la consuetudine e la ripetitività dei modelli di comunicazione. Bisogna provare tante volte per trovare soluzioni che convincano tutti al fine di “suonare insieme”. Insieme si ha un sound inconfondibile (senso del noi). I ruoli possono essere intercambiabili, se qualcuno si accorge di essere fuori tempo/accordo può provare a cercare soluzioni creative soprattutto quando i musicisti sono flessibili, preparati e motivati. Se non ci si accorge di essere fuori, perché si tende a isolare i suoni e non coglie le relazioni, magari cercherà comunque di partecipare escludendo gli altri dal suo campo di percezione. Se ci sono azioni scomposte e scoordinate tra i membri del sistema, si genera conflittualità e problematicità. Lavorare in modo sistemico significa apprendere i contesti, cioè mettersi in relazione e in interazione con i sistemi comunicativi, usando la comunicazione stessa come veicolo. Comunicare significa partecipare alla dinamica interattiva del sistema. Quando si suona insieme è necessario fare un lavoro attivo per tenere il ritmo perché nella complessità è facile perderlo. In famiglia qualcuno assume questa responsabilità, ma l’esito non dipende solo da lui, tutti contribuiscono in modo attivo. La famiglia è un’opera collettiva, incompiuta e sempre in costruzione. L’educatore che incontra la famiglia si trova spesso ad affrontare processi comunicativi e interattivi che producono disgregazione, conflitti e difficoltà. METAFORA: mutamento, è una figura retorica con la quale si esprime sulla base di una similitudine, una cosa diversa da quella nominata, trasferendo il concetto al di fuori del suo significato reale. Esse strutturano i processi di pensiero che stanno alla base della nostra conoscenza del mondo (la discussione è una guerra/danza evocano immagini diverse dello stesso concetto). La metafora consente di comprendere e vivere qualcosa di nuovo o complesso in termini di qualcos’altro che ci è noto e familiare. Il corpo e i sensi ci offrono metafore per capire il mondo, nascono dall’esperienza e dall’azione. Per Bateson essa comprende tutti i processi di conoscenza e di comunicazione che dipendono da somiglianze. Tutte le discipline si basano attorno a metafore e analogie, tuttavia possono avere limiti e rischi. COPIONI FAMILIARI: (script), è un modello operativo che racchiude le aspettative su cosa si deve fare in determinate situazioni ed eventi che hanno caratteristiche ridondanti. È l’insieme di aspettative condivise dalla famiglia di come i ruoli debbano essere rispettati all’interno di contesti differenti, in base a rappresentazioni condivise. Ciò crea dei personaggi con un ruolo. Il bambino è collaborativo e cerca di sintonizzarsi alle aspettative degli adulti, ma se sono troppo rigide gli impediscono di essere originale. RITUALI E RITI: insegnano ai membri le strutture della società in quanto entità più ampia, un sistema di prassi, convenzioni e regole procedurali che funziona come guida. Partecipando ai riti familiari si realizzano apprendimenti espliciti e impliciti, come si fa una cosa crea un senso di identità. I riti sono ripetitivi e ciclici, hanno natura analogica e simbolica. Feste e cerimonie sono riti che trasformano la vita familiare. lOMoARcPSD| 1882907 Perché ci vuole orecchio Il senso del noi si apprende per via informale, quotidiana e poco riflessiva. Attualmente ci sono diversi interventi che non celebrano il senso del noi, ma che puntano allo sviluppo di competenze individuali (problem solving). Quando una band non trova il suo sound, la soluzione non è dare lezioni di strumento ai solisti. È importante prendersi cura delle connessioni familiari. Per celebrare la dimensione sistemica e relazionale della vira familiare dobbiamo sostenere tutti i membri nella loro capacità di suonare insieme per dare forma al noi, sul piano reale e simbolico. La trasformazione naturale di ogni sistema umano ne trarrà grandi vantaggi, senza dover necessariamente forzare la mano. Bisogna tenere distinte e ben udibili le tante voci e offrire riconoscimento alle diversità, che costituisce il tessuto vitale della vita quotidiana nelle famiglie senza voler a tutti i costi cercare un suono unico. Spesso si pensa che il senso del noi debba essere monolitico e compatto, ma è nella continua trasformazione, nel dialogo e nel riconoscimento delle differenze che nasce il senso della famiglia. La vita familiare comprende molteplici livelli che vanno onorati e celebrati: - L’individuo come unità, come voce unica - Le relazioni io-tu, come possibilità di armonizzazione - Il noi o assoluto familiare, come totalità che trascende i singoli - Il rapporto con il contesto sociale, naturale, storico, per evitare dolorose de-sincronizzazioni. Il lavoro educativo con la famiglia è come un abbraccio, un ascolto benevolo per ciascuna delle persone che mettono voce, peculiarità, rigidità, goffaggine e immense bellezze. ② FORMARE LO SGUARDO ATTRAVERSO LE PRATICHE Di quale famiglia parliamo? Storia di una donna che voleva prendere i voti, ma si innamora di un’altra donna e decidono di avere un figlio con l’inseminazione artificiale. Nel 2010 c’è stata la Conferenza Nazionale sulla Famiglia a Milano, ci si concentrava sulle politiche sociali, sulle condizioni delle famiglie durante la crisi economica, sulla necessità di un rilancio delle politiche familiari. L’obiettivo era “mettere la famiglia in centro”, ma questo termine può avere diverse sfumature. Dalla definizione dipendono risorse, aiuti e sostegni economici. Dati ISTAT: in Italia si separa ¼ delle coppie, in 35 anni i matrimoni sono dimezzati, in 5 anni le unioni regolari sono calate quasi 17.500 unità, 1/3 è celebrato con rito civile. Le forme familiari sono sempre più variegate: single, coppie senza figli, famiglie mono-genitoriali, coppie non coniugate, coppie ricomposte da separazioni, unioni omosessuali. Se tutte queste non ricevono aiuti perché non conformi alla definizione, un pezzo di Italia non ha il diritto di essere una famiglia. La sterilità è aumentata e si ricorre sempre più a adozione o fecondazione assistita. “dietro ad ogni atteggiamento, c’è sempre una storia che attende di essere raccontata ” (Jedlowski, 2000, 41). I ruoli sociali (mamma, papà, fratello, sorella, zio, nipote…) esistono solo in una rete di rapporti. Il modo in cui è raccontata una storia provoca conseguenze concrete in chi parla e chi ascolta. Più le parti sono coese, congruenti e verosimili, più sono difficili da modificare. Di queste storie ci si può innamorare. La complessità non sta nella natura in sé, ma nei codici che utilizziamo per descriverla, ogni narratore ha la sua cultura e le sue abitudini. Educarsi a uno sguardo sulla famiglia significa connettere lo sguardo di quel determinato narratore con quello che vede. Moltiplicare e comporre gli sguardi Provenendo tutti da una famiglia, siamo portatori di una naturale sapienza, che spesso diventa un ostacolo per realizzare un apprendimento trasformativo. Ci sono convinzioni che costellano la nostra visione di famiglia, e spesso sono apprese nell’arco di una vita, cicatrizzate in seguito a ferite o sconfitte, raramente oggetto di riflessione scientifica o di elaborazione teorica. I pregiudizi più comuni negli studenti riflettono una concezione familistica che assume toni polarizzati. I legami familiari appaiono: salvifici (l’affetto ti aiuta a superare le difficoltà); generatori di malessere (i figli di separati hanno lOMoARcPSD| 1882907 problemi); assolutamente positivi (non ci sono screzi); congelati in un’aura mitica e irreale (i miei li ho visti sempre innamorati) o appiattiti in modo reciproco (i figli devono essere riconoscenti). PREGIUDIZIO: giudizio o sentenza anticipata, indica un’opinione errata dovuta a scarsa conoscenza dei fatti o all’accettazione acritica di errate opinioni altrui. Accezione negativa: giudizio malevolo nei confronti di minoranze designate. “pregiudizi e stereotipi si applicano a priori e spesso in maniera automatica e tacita all’identità sociale. In ambito sistemico ha valore positivo : sono inevitabili, in quanto si manifestano già attraverso il linguaggio. I pregiudizi sono nascosti, agiscono in modo inconsapevole. Sono ogni pensiero preesistente che contribuisca alla formazione del proprio punto di vista, delle proprie percezioni e delle proprie azioni. Non è sbagliato avere dei pregiudizi, ma pretendere di non averne, cercare di reprimerli o di ignorarli. Qualsiasi idea, fantasia o emozione influirà sulla relazione. L’indicazione è riconoscere i propri pregiudizi, discuterne apertamente anche con l’utente, chiedersi in che modo le azioni dell’operatore sono il frutto dei suoi pregiudizi. Essi guidano le azioni dell’educatore nell’incontro con l’altro, dando luogo a uno scambio continuo di pregiudizi reciproci. La riflessione sull’azione educativa sviluppa un approccio auto consapevole delle proprie idee, possiamo servircene, difenderle o essere irriverenti. Ritrovare una condizione di stupore, curiosità e autentico interesse per quanto ci accade può diventare il compito di un’intera esistenza. La ricompensa dell’impegno è la bellezza e un grande senso di appagamento. Solo dopo che si è compiuto il percorso si può stabilire l’itinerario che si è seguito; eppure i nostri pregiudizi su cosa significhi conoscere e imparare tracciano a priori il nostro agire e pensare. La qualità del tempo che trascorriamo con gli altri ci permette di comprendere il nostro punto di vista. È quando raccontiamo chi siamo a qualcuno che lo capiamo. Partire dalle pratiche Partire dalle pratiche invita a fare attenzione al contesto, alle peculiarità di ogni situazione, alla storia di chi apprende, i presupposti di ogni impresa formativa. Ogni incontro e relazione, ma anche la vita stessa costituiscono la principale materia da cui imparare. Passaggi della didattica di Beppe Pasini: 1. DOMANDARE PER ACCOGLIERE E RICERCARE Porre buone domande aiuta a problematizzare sollevando questioni su temi che appaiono scontati. Invita a una postura di ricerca e di accoglienza generativa. Porre domande anziché esordire con affermazione provoca, apre possibilità al ricercare insieme risposte soddisfacenti, invita alla molteplicità delle versioni, valorizza le differenze, suscita curiosità. Riattribuire responsabilità al soggetto come ente pensante e fautore di inedite conquiste cognitive. Imparare a formulare buone domande è un esercizio che produce effetti sulla qualità delle relazioni interpersonali, introduce elementi di novità euristica in un rapporto che rischia di essere scontato e prevedibile, promuovere l’attenzione per la complessità delle relazioni familiari dei servizi e di chi vi opera. Una buona domanda è allora quella che rende visibili i presupposti, li ridiscute e solleva questioni su aspetti assodati, problematizzandoli. Le domande sono potenti mezzi per indagare, descrivere, raccontare la realtà, significarla, trasformarla attraverso il linguaggio. Esse possono far nascere storie, innescare cambiamenti, predisporre alla ricerca, oppure chiudere le possibilità e le conversazioni, confermando storie già scritte. Perseguire l’ottica sistemica nella formulazione delle domande significa imparare l’arte della ristrutturazione e della connotazione positiva. Rivolgere su di sé le domande aiuta a valutarne l’efficacia e la generatività narrativa, riflessiva, le aperture che offrono. RISTRUTTURAZIONE: è un intervento della prima terapia familiare sistemica, nasce dall’osservazione di ciò che avviene in modo “naturale” nella comunicazione umana. Si intende l’adozione di un punto di vista nuovo rispetto ai precedenti significati attribuiti a una determinata situazione o comportamento. È un cambiamento di cornice, un intervento intenzionale volto a modificare gli schemi relazionali abituali della famiglia utilizzando elementi ed energie già presenti nel sistema. Agisce sul livello meta: non sull’oggetto, ma sul significato della situazione, sulla possibilità di affrontare diversamente la situazione. Un modo per ristrutturare il campo semantico è l’umorismo: ciò che diverte è la traslazione di senso tra cornici diverse, la leggerezza è ristrutturante. Quello che era fatica diventa piacere e privilegio. Per portare il problema fuori dalla sua struttura abituale occorre l’intelaiatura concettuale ovvero dei diversi punti di vista della famiglia, delle premesse linguistiche e culturali che utilizza, per uscirne, senza sfidarle o contrastarle. Può essere utile rompere gli schemi preesistenti con una dose di confusione. lOMoARcPSD| 1882907 CONNOTAZIONE POSITIVA: consiste in una meta-comunicazione che conferma e giustifica tutti i comportamenti dei membri della famiglia rispetto al problema riportato. È una ristrutturazione che nasce dall’attenzione dei sistemici per il contesto. Nel setting di colloquio familiare congiunto, la ristrutturazione del sintomo come messaggio positivo che il paziente offre ai familiari rischia di implicare una connotazione negativa dei comportamenti di chi combatte il sintomo. La connotazione positiva vede i comportamenti di tutti come corretti e sensati, con lo scopo di accedere alla famiglia come unità sistemica. Essa implica un giudizio morale, ma consente di definire la relazione di cura senza introdurre squalifiche. Ciò che fa la differenza sono i modi in cui porgiamo una domanda, gli aspetti prossemici, non verbali e para verbali. Formulare una buona domanda non è facile: merita molta cura, tatto e poca compiacenza. Le domande che appaiono più generative sono quelle che: - Esplorano presupposti – es. riesci a considerare questa famiglia come un sistema? Cosa fai per osservare le relazioni familiari? - Evidenziano interazioni complesse – es. che cosa è accaduto nel rapporto con/tra…? Come hanno reagito al coming out? Quali processi accompagnano la morte di un coniuge? - Focalizzano particolari culture domestiche – come sono spartiti i compiti in una famiglia? Come è tramandato un valore in questa famiglia? Queste domande personalizzano, contestualizzano e invitano alla narrazione e al ricordo, spostano lo sguardo. È diverso dire “qual è il problema?” o dire “chi vuole iniziare a raccontare le ragioni che vi hanno portato qui?”. È importante porre attenzione all’uso delle parole, dare voce e visibilità a tutti, ascoltare le loro risposte, dare loro legittimità, nell’ottica di una comune ricerca. Le domande sistemiche creano dunque nuovi sguardi, orientandoli alle storie molteplici, trasformative e rigenerative. SPERIMENTARE CONCETTI: le teorie vanno rispettate, non riverite Connettere, mettere in comunicazione, collegare sono azioni estetiche che esprimono la necessità di comporre in un universo ordinato e di senso le informazioni che acquisiamo. Piaget afferma che costruiamo attivamente il pensiero attraverso l’azione. La famiglia possiamo considerarla una rete di relazioni: fluida, polimorfa, instabile evolutiva, dinamica, caratterizzata da processi morfostatici e morfogenetici, oppure un’etnia con unsi e pratiche proprie. Siamo circondati dall’idea che la famiglia debba essere un luogo felice, un riparo sicuro, una consolazione e una fonte di benessere; ma non è sempre così, è anche un luogo i cui si soffre, si litiga, si viene violentati o maltrattati, da cui si può essere esclusi, stigmatizzati, abbandonati, porta ad assumere una posizione più critica e articolata. Se non possiamo sottrarci a ritenere valide le descrizioni che generiamo, anche con fatica, impegno e rigore, è possibile monitorare come lo facciamo, da dove vengono le nostre mappe e come le costruiamo. DEFINIZIONI DI FAMIGLIA: - Un insieme di legami che concorrono alla formazione e all’educazione dell’individuo attraverso la cura, l’attenzione e la condivisione di uno sguardo reciproco e unico. Può essere definita come luogo di riflessione, protezione, aiuto - È un luogo di incontro, di affetti, di emotività, di ricordi. Forti e importanti sono i legami associati a degli oggetti che ricordano un particolare episodio vissuto. Una famiglia è formata non solo della persona ma anche dai luoghi e dagli oggetti affettivizzati e familiari. - Unione scaturita dal senso di appartenenza dell’individuo verso il suo nido familiare. All’interno del quale il singolo ha un senso di dovere e responsabilità, pur mantenendo la propria identità. - Insieme di persone legate, oltre che dal vincolo di sangue, da un vincolo affettivo, in cui ogni individuo può esprimere sé stesso implicitamente o esplicitamente. Dove impara ad assumere, scoprire i valori che ti aiutano ad affrontare la vita quotidiana. La famiglia non è quella stereotipata dalle televisioni in cui tutto è perfetto ma quella in cui ogni giorno si affrontano problemi e difficoltà di ogni membro della famiglia. - Nucleo elementare della società umana, formato in senso stretto e tradizionale da genitori e figli, con l’eventuale presenza di altri parenti - Istituzione fondamentale in ogni società umana, attraverso la quale la società stessa si riproduce e perpetua, sia sul piano biologico, sia su quello culturale. Le funzioni proprie della famiglia comprendono il soddisfacimento degli istinti sessuali e dell’affettività, la procreazione, l’allevamento, l’educazione e la socializzazione dei figli, la produzione e il consumo dei beni - La repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. lOMoARcPSD| 1882907 La genitorialità e bio-culturale, ha le sue radici nella natura, nasce nel fatto biologico della riproduzione ma si sviluppa nella dimensione culturale e sociale. La condizione di esseri umani e plurale e in tutto il pianeta ci sono una pluralità e diversità di regole sociali, espressioni simboliche rituali che riguardano il rapporto di filiazione virgola di coppia virgola di affinità virgola che riguardano il fare famiglia. Per conoscere le tracce di famiglia è necessario restare in una complessità e interconnessione di piani che ci porta ad accogliere la dimensione locale nell’universale, a utilizzare l'attenzione al particolare, a vedere il dettaglio senza perdere di vista il contesto. per conoscere una traccia abbiamo bisogno di non perdere di vista l'insieme di circostanze ambientali, simboli che relazionali all'interno del quale è nata e si è sviluppata. Esempio: a qualità un bambino è capace di usare un coltello. Genitorialità, modelli di cura, educazione familiare, processi di crescita, sono una trama inestricabile di culturale, biologico, sociale e individuale e restando in tale complessità e intreccio possiamo comporre la storia della genitorialità. Sentirsi inadeguati, procedere per tentativi ed errori, abbandonare i sentieri delle certezze sono movimenti comuni al genere umano e ancora di più appartengono al mondo del vivente (p 86). Storicizzare e contestualizzare diventano due operazioni cruciali quando permettono di moltiplicare gli sguardi e creare le sfumature. Oltre l’istantanea fotografia “L'occhio dell'educatore è sempre mediato dalle proprie teorie, pregiudizi, storie familiari. È sempre situato in un orizzonte culturale, in un momento storico e in un contesto sociale; è sempre costruito nel linguaggio della comunità dell'osservatore” (Gaudio, 2008, p. 23). L'uso del verbo essere ricostruisce un solo fotogramma della famiglia, estraendolo dallo sfondo in cui è nato e si è sviluppato. Il tempo presente non riesce a restituire il legame con il passato EI progetti futuri costringendo quella famiglia dentro un eterno presente, infine l'osservatore buone dentro la propria cornice. Si ha un’evoluzione nel tempo. Artisti, ingegneri e bricoleur Entrambe convergono in un'idea di genitorialità come esito finale, raggiungimento di uno stato in cui il soggetto adulto può finalmente esercitare più la propria funzione oppure interpretare il ruolo. L’ adesione a uno dei due modelli pone dei problemi: il primo premia l’asimmetria e la dipendenza relazionale; il secondo è la responsabilità personale che viene meno. Entrambi i modelli pongono la genitorialità al di fuori della relazione, del contesto, della storia e delle storie. si apre una terza via: il modello evolutivo-ecologico, che rende conto di un processo relazionale è in continuo divenire. si opera per interdipendenza tra universale e locale, per cooperazione e conflittualità, per simmetria e relazionali Il sapere della comunità scientifica, le informazioni degli esperti e i messaggi dei media appaiono guidati da il mestiere genitoriale  modelli istruttivo, richiama alla L’arte e la libera interpretazione  modello istintivo, razionalità; il mestiere si pratica con sudore e fatica, è richiama la creatività; L'arte è un dono di natura, è osservanza di regole e uso di tecniche. Necessita di una sregolatezza. l'arte è creazione, inventiva, libertà addestramento e apprendistato espressiva. lOMoARcPSD| 1882907 dentro asimmetrie di piani e livelli, muovendosi verso una descrizione doppia di mondi possibili. Viene chiamato bricolage educatico per rendere conto della molteplicità e della complessità insita nell’evoluzione. DESCRIZIONE DOPPIA: è uno strumento epistemologico che origina modelli di ordine diverso. Si hanno punteggiature diverse dello stesso flusso di interazione. Per cogliere a un livello più elevato la struttura che connette, si cerca di vederle insieme. La visione monoculare è coerente con una descrizione di azioni semplici e isolate, con la visione binoculare si passa dal comportamento al contesto. Bateson usa il termine simmetrico per le interazioni che potevano essere descritte con competizione, rivalità, emulazione reciproca ecc. mentre usa il termine complementare per le azioni che si combinavano l’una con l’altra (autoritàsottomissione, dipendenza-assistenza…). Il bricoleur dà ai suoi materiali funzioni non previste per la produzione di un nuovo oggetto, cogliendo tutte le occasioni per modificare le vecchie strutture in nuove funzioni. Il bricoleur usa arte e mestiere, coordinando quotidianamente la dimensione dell’improvvisazione creativa con la progettazione del futuro, attingendo sia alla capacità riflessiva e teorizzante, sia alla necessità di fare e agire. Il bricolage mette in movimento, in relazione, collega l’oggi con una prospettiva futura, il presente con la storia vissuta, segnando il passaggio dal sapere al connettere. I genitori sanno essere artisti e ingegneri insieme e rimodulano continuamente il progetto iniziale con la capacità di: muoversi nella contingenza, accogliere l’imprevisto declinando nei vincoli, usare con creatività e flessibilità ciò di cui dispone, inventare nuove funzioni per vecchie strutture, riconoscere la ricchezza di materiali e tecniche diverse, ricombinare in base a ciò che c’è a portata di mano. Il genitore sarà chiamato a risolvere questioni nuove ogni giorno, a misurarsi con la non linearità, il cambiamento repentino. È la capacità di misurarsi con l’imprevisto il suo banco di prova, pertanto la flessibilità diventa una risorsa. ④ INTERAZIONI: OSSERVARE LA FAMIGLIA IN AZIONE Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai! (Luigi Pirandello). L'interazione umana non si ferma a livello puramente verbale, anzi grandissima parte della comunicazione ha luogo attraverso segnali, mimiche, gesticolazioni, posture e altre modalità di comportamento. L’osservazione è un procedimento selettivo e lo sguardo dell’osservatore è intenzionalmente guidato da premesse, pregiudizi e ipotesi che sono utili per ottenere le informazioni desiderate. Non si può osservare tutto: l’osservazione è una selezione e una scelta metodologica intenzionale. Soggettiva e coordinata con una comunità di osservatori. Non è possibile osservare in modo totale e nemmeno oggettivo. L’obiettività deve fare i conti con la difficoltà di stabilire confini netti e precisi tra chi osserva e chi viene osservato. Quando l’oggetto di osservazione è la famiglia, diventa ancora più complesso osservarla. L’esperienza pregressa di chi osserva, i suoi pregiudizi e preconcetti vengono messi in scena, con il rischio di non riuscire a cogliere gli aspetti che potrebbero modificare le sue ipotesi di partenza. Essere consapevoli dei propri pregiudizi e idee di famiglia può essere una strategia per introdurre novità e nuovi posizionamenti. Nel lavoro pedagogico, l’osservazione è una vera e propria pratica che richiede cura, attenzione e responsabilità: se osservo in un certo modo riesco a vedere alcune cose e non altre. OSSERVARE LA FAMIGLIA: è importante osservare il contesto di evoluzione e crescita di un bambino. Bisogna osservare le dinamiche relazioni di un gruppo che comprende il bambino e le figure di accudimento principali. Ci sono due grandi correnti di pensiero riguardanti l’influenza del contesto familiare: le metodologie che cercano di individuare i processi familiari di regolazione delle relazioni, e le metodologie che ricercano i processi di interiorizzazione delle relazioni. Reiss distingue la famiglia praticante (processi di regolazione delle relazioni con l’osservazione diretta) dalla famiglia rappresentata (processi di costruzione di rappresentazioni dell’esperienza relazionale e si indagano con la narrazione) . Il livello comportamentale- lOMoARcPSD| 1882907 osservativo e quello delle rappresentazioni-narrazioni si devono contaminare e integrare.Il bambino partecipa in modo attivo ai modelli di interazione e può condizionare il sistema come gli altri individui. La sistemica offre una cornice unificante nella quale si possono integrare tutti gli studi che mirano alla conoscenza della famiglia come unità. Il modello cibernetico ha una concezione circolare di causalità e non usa la visione lineare di causa-effetto. I comportamenti dei singoli si influenzano reciprocamente e influenzano anche le rispettive motivazioni, valutazioni e preferenze. Il valore dell’auto-osservazione sposta il processo osservativo dal piano diagnostico-valutativo al piano dell’intervento educativo vero e proprio Un esercizio di posizionamento Lettura dell’esperimento svolto dalla professoressa in aula, osservare una famiglia che sta per cenare. Ognuno di noi ha una propria e personale esperienza di famiglia, di genitorialità, di cura e dell’essere figli. È utile permettere a queste idee di emergere attraverso una posizione curiosa e interrogante. Offrire la possibilità di osservarsi, mettersi in gioco, cambiare posizione e punto di vista, per arrivare a riconoscersi nei pregi e nei difetti, nei vincoli e nelle possibilità, per poter diventare consapevoli di sé stessi e della propria modalità di entrare in interazione con gli altri. Come mi vedi? Spesso arrivano mamme che sembrano avere bisogno di questa risposta per calmare la propria paura di non essere all’altezza di un compito tanto complesso come il crescere un individuo che ha bisogni, necessità, diritti e personalità unica. Chiedono di essere giudicati quasi come se potesse essere un giudizio oggettivo. Hanno la sensazione di non essere in grado di prendersi cura al meglio dei propri figli. Magari di dedicarsi troppo al minore a discapito del maggiore. Il confronto con altri può far perdere di vista le proprie strategie e il proprio personale stile educativo, rendendo ancora più difficile l’ascoltarsi, il vedersi e il diventare consapevoli delle proprie esigenze, bisogni e desideri. Quello che sembra essere un bisogno di valutazione è soprattutto un bisogno di riconoscimento. L’uso di una videocamera è utile per creare uno sguardo possibile, il video mette a fuoco pratiche di cura quotidiana, generalmente svolte in totale autonomia e solitudine. Fermarsi a riflettere sul modo in cui si fanno le cose riuscendo a vedere, pensare e agire la cura diventa un passo per consolidare la propria idea di genitorialità e competenza. Che cosa vuoi mostrarmi? L’obiettivo di questa proposta di consulenza è dare visibilità alle strategie e risorse che vengono introdotte nella relazione con il figlio, per usare le immagini come base per la riflessione degli effetti delle azioni di cura e ai feedback tra i diversi partner relazionali. La richiesta è valutativa ma il percorso da fare è osservativo e riflessivo. Se esiste un dubbio o un giudizio negativo su di sé, si parte da quello perché è da lì che nasce la domanda di consulenza. Si invita il genitore a un circuito riflessivo armonico: si sostiene l’idea che qualcosa non funziona come dovrebbe, ma si dà il messaggio al genitore che è competente nell’esprimere quell’idea. L’efficacia delle riparazioni spesso non è riconosciuta dai genitori, in quanto troppo coinvolti nella fatica e nella paura di non aver fatto bene. La videocamera offre l’opportunità di fissare le immagini e le interazioni in movimento permettendo di guardare in più momenti e di giocarci attraverso distorsioni, composizioni, tagli, bricolage. Viene ripresa un’intera giornata per scegliere insieme ai genitori i momenti su cui concentrarci nell’osservazione congiunta. La presenza del pedagogista diventa parte integrante del setting relazionale e allo stesso tempo del sistema di famiglia osservato. L’inclusione dell’osservatore nel sistema osservato è inevitabile. Diventa impossibile per l’osservatore assumere una posizione neutra, perché la sua presenza influenza ciò che accade nel sistema, inoltre i suoi pregiudizi ed esperienze provocano atteggiamenti. Come ti vedi, osservandoti? I genitori scelgono, selezionano e spiegano gli scambi interattivi che sentono di aver vissuto con maggiore fatica e difficoltà. Portiamo l’attenzione sui momenti in cui ci si riconosce poco compenti nell’essere genitori o ci si sente inadeguati. Far riflettere sulle scene selezionate facendole interagire con altre sequenze marginali, stimola i genitori a creare connessioni, delineando così i contorni di altre figure e altre storie possibili, oltre quella sentita come propria e principale. Questo genera nuove possibilità di vedere strategie percorribili. Con la visione, selezione, taglio e montaggio delle scene i genitori hanno la possibilità di soffermarsi e prendersi cura lOMoARcPSD| 1882907 15 lOMoARcPSD| 1882907 nel sistema percettivo interno corrispondono a immaginare e visualizzare cose, ricordare o creare suoni, parole nella nostra mente, attivare il ricordo di sensazioni, percezioni corporee, emozioni vissute. Ogni stimolo sensoriale fa parte della comunicazione, le parole tendono a portare alla conoscenza certe parti della nostra esperienza e non altre. I nostri sistemi sensoriali raccolgono dall’ambiente informazioni filtrate dal sistema nervoso centrale in base alla loro rilevanza ed effettua delle operazioni di cancellazione, distorsione, generalizzazione. Ciò che percepiamo della realtà è tradotto in rappresentazioni che influenzano e condizionano il comportamento. Attraverso il canale privilegiato costruirà il suo sistema primario e gli altri due interverranno in modo secondario per la verifica delle informazioni ricevute. Privilegiare il canale visivo  postura dritta, sguardo frontale, dà importanza all’aspetto estetico delle cose e usa metafore visive. Privilegiare il canale uditivo  muove gli occhi lateralmente, respirazione toracica, impara ascoltando, ha più capacità riflessive, usa parole legate all’ascolto. Privilegiare il canale cenestetico  respirazione addominale, ama il contatto fisico e usare il tatto, gusto e olfatto, ha una gestualità più lenta, considera poco l’aspetto delle cose, memorizza facendo pratica e utilizza un linguaggio legato al sentire con il corpo. Per far comprendere le parole, devono essere in relazione al modello del mondo della persona a cui sono rivolte. Per entrare in rapporto con le persone è utile sintonizzarsi con il loro sistema rappresentativo. Il rapport è il processo con cui si stabilisce e si mantiene un buon rapporto interpersonale, di fiducia reciproca. Quando si crea intesa tra due persone, uno sarà portato a rispondere in modo positivo agli stimoli dell’altro e alla sua persona in generale. Empatia è partecipazione, rispettosa vicinanza, tentativo di comprendere e di vedere le cose dal punto di vista dell’altro; rispecchiamento e armonizzazione sono il punto di partenza per mettersi sulla stessa lunghezza d’onda dell’interlocutore, con il nostro atteggiamento rimandiamo all’altro lo stesso comportamento che appartiene al suo modello del mondo e ci permette di essere in sintonia senza essere invadenti; calibrazione ci sintonizziamo con una persona usando il suo stesso vocabolario verbale e con i suoi processi interni creando fiducia e accettazione; rispecchiare significa riproporre le modalità del nostro interlocutore: ricalco non verbale, paraverbale e verbale. Mettersi al passo significa riuscire a essere in sintonia col comportamento dell’altro, sia a livello verbale che extraverbale. Il film è uno strumento privilegiato per l’addestramento all’osservazione in quanto: - Racconta storie in modo efficace e in un tempo definito - Permette di esaminare uno spaccato di vita a più livelli (diversi punti di vista, tematiche e focus) - Consente di rivedere le sequenze dove le interazioni sono più complesse o significative per studiarle Nella letteratura sistemica, la famiglia viene definita come gruppo di individui con storia. Il film mette in scena processi costruttivi e trasformativi. È importante far emergere i pregiudizi personali di ciascuno riguardo al sistema familiare che andranno a incontrare al fine di arrivare all’incontro il più possibile consapevoli di quanto appartiene all’operatore e quanto alla famiglia. Il film viene visto da tutti contemporaneamente e risulta essere più oggettivo, visto da vari punti di vista e a più livelli di analisi. Eliminando il suono, si enfatizzano le immagini. L’informazione mancante costringe gli spettatori a completare i dati visivi facendo riferimento alla propria esperienza. Quali film? La scelta dei film dipende dall’obiettivo; ci sono due criteri generali: uno basato su contenuto e l’altro legato a situazioni comunicative specifiche che mostrano in modi efficaci come si costruiscono e si trasformano le relazioni umane. Se voglio evidenziare il cambiamento di identità reciproco dei comunicanti scelgo Pretty woman; se l’oggetto 2 è la costruzione della coppia, uso Green Card, un matrimonio per convenienza, in questo film ognuno porta il proprio standard di vita e la convivenza nel quotidiano li spinge a mettere in atto strategie di integrazione; ciascuno porta nella relazione non solo sé stesso, ma le proprie abitudini, lo stile della sua famiglia. Queste sono le differenze che appartengono al quotidiano, nella realtà della vita di coppia si scopre che le certezze del vivere vanno condivise e lavorate, per costruire una nuova storia devo pormi in una postura creativa rispetto alla mia storia. Questo è il processo del convivere, che significa portare una visione del mondo, della mia famiglia e cercare di costruirne al contempo una nuova. Per tematiche mirate all’evoluzione della famiglia c’è il film “La Famiglia” che mette a fuoco un processo evolutivo trigenerazionale. Il lungo corridoio simboleggia i cambiamenti e le trasformazioni dei membri della famiglia. È utile osservare famiglie diverse, nel film Chocolat è mono-parentale; nel film “diverso da chi” si può lavorare sui pregiudizi: la coppia gay può essere scambiata per amici senza audio. Aiuta a riflettere sulla complessità della definizione di famiglia, oltre che ad approfondire il tema delle appartenenze e dei pregiudizi legati all’omosessualità. Il processo osservativo I film sono storie, narrazioni di situazioni vissute. Questa modalità di formazione è efficace, l’uso del mezzo audiovisivo permette di avere la distanza che serve per addestrarsi a osservare. Le sequenze possono essere viste più volte, per affinare i propri canali percettivi. È un’operazione inusuale, gli studenti sono poco attrezzati a osservare forse per l’overdose del mezzo visivo che li rende meno attenti, più passivi rispetto alla ricchezza di pensieri che può lOMoARcPSD| 1882907 nascere dalla visione di un film. Il film è usato come strumento di formazione e occasione di apprendimento e di riflessività, è utile non rimanere legati solo alla storia raccontata. Per far affinare gli strumenti osservativi devono individuare delle sequenze, studiare il processo, analizzare le azioni e retroazioni dei singoli personaggi. Oppure tutti hanno una sequenza uguale che viene raccontata e commentata in modo diverso. È efficace togliere l’audio, l’immagine è evocativa, provoca molte possibili letture dal punto di vista personale. Il processo osservativo dipende dagli obiettivi formativi può essere mirato a livelli diversi: 1° livello: far emergere i pregiudizi . Di solito gli studenti leggono le interazioni in termini intrapsichici, inferendo quello che gli attori pensano o provano, e tendiamo a farlo anche nella vita di tutti i giorni. Separare ciò che si vede, da ciò che si pensa non è facile, se so che sono guidata dai pregiudizi posso metterli da parte. Il film è efficace perché ciascuno in qualche odo proietta un po’ di sé stesso in ciò che vede. Il confronto tra le diverse versioni e punteggiature rende palesi i pregiudizi. Il pregiudizio è una lente colorata che impedisce la visione della realtà al naturale. Non la distorce completamente, ma non la fa vedere nella sua policromia. Far emergere i pregiudizi è importante, se so come funzionano e sono consapevole di come penso, posso riconoscere più facilmente quando attribuisco all’altro qualcosa che viene da me. Se restiamo inconsapevoli, non sapremo mai se incontro veramente l’altro o qualcuno che voglio che sia come me lo aspetto. Il processo di conoscenza dei propri pregiudizi è una postura e una pratica di grande utilità nel lavoro educativo e di cura; se non sappiamo quanto ci mettiamo del nostro nell’osservare, rischiamo di attribuire alle persone e alle famiglie dei comportamenti e pensieri inesistenti. 2° livello: ricostruire i processi interattivi e comunicativi tra i personaggi. Il film si può interrompere e far tornare indietro, osservando in modo analitico le sequenze non verbali. Questo affina l’occhio sui processi relazionali, ogni azione comunicativa è preceduta e seguita da un’altra azione di uno o più personaggi del film. L’80% delle comunicazioni sono non verbali, se stiamo attenti solo al contenuto verbale, la nostra comprensione si riduce notevolmente. Tolto l’audio, si può approfondire lo studio della postura, dei gesti, dei modi di porsi, del modo di incontrare l’altro anche fisicamente, le interazioni… 3° livello: affinare le tecniche di comunicazione. L’osservazione può offrire strumenti all’operatore per entrare in relazione con le famiglie e le persone. Per lavorare su questo obiettivo è utile la PNL, che pone l’accento “sulle capacità creative e organizzatrici della nostra mente inconscia, ben distinta dall’inconscio psicoanalitico, sia come struttura che ha creato il problema psichico, che come struttura in grado di risolverlo” (Dilts…). L’intervento di cura dipende dall’arte di creare un rapporto più che dall’approccio utilizzato. I pregi della PNL sono l’aver elaborato uno strumento sensorialmente controllabile e aver sistematizzato un insieme di interventi che ampliano la possibilità di azione. La PNL aiuta l’operatore a entrare più facilmente in rapporto, e costruire quel processo con il quale si stabilisce e si mantiene un buon rapporto interpersonale di reciproca fiducia e di accordo; è inoltre la capacità di generare risposte in un’altra persona. Il rapport rimane la cosa più importante perché è 2 quella garantisce la relazione: se sono in relazione, allora posso cogliere nell’altro i bisogni, le situazioni, i desideri ecc. La PNL offre strumenti di lettura non verbale, che riguarda prima sé in quanto cogliamo il modo in cui ci poniamo, agiamo, e reagiamo alle domande, alle interazioni, con la posizioni degli occhi, la tensione dei muscoli, l’inclinazione della testa ecc. La capacità di auto osservazione apre possibilità diverse nel mettersi in relazione: modificare la postura significa invitare anche l’altro a farlo. Una volta consapevoli della persona che siamo, possiamo leggere ciò che accade nell’altro, in un’ottica circolare di azione e retroazione. Promuovere la messa in gioco di sé nella formazione La teoria è un punto di riferimento per la costruzione di una seria professionalità, ma sarebbe utile che fosse sempre accompagnata da micro-sperimentazioni, per permettere a ognuno di imparare e affinare abilità e competenze. Il film addestra lo sguardo, e aiuta nella costruzione del processo osservativo non verbali in un processo relazionale interattivo. Molto importante è far scoprire che ciascuno vede e impara in base a quello che già conosce, si apprende partendo dalle condizioni interne, dal modo in cui le nozioni si organizzano, e dalle variabili esterne che influenzano l’apprendimento. È importante studiare per ampliare il ventaglio di nozioni, aumentando la nostra conoscenza e diversificandola possiamo entrare in rapport e svolgere meglio il lavoro di cura. I film e i romanzi hanno un potenziale formativo equiparabile ai manuali tecnici, perché accrescono le professionalità di cura. Nelle storie narrate e di vita vissuta, sono contenute tutte le interazioni particolari che hanno dato origine a quella storia, teoria o metodologia. Il vantaggio del linguaggio narrativo è che ogni interazione può essere mostrata o narrata anche nel dettaglio. Vedendo film si può ampliare la propria visuale di osservazione sul mondo, il repertorio di informazioni; purché sia una visione attiva e riflessiva. Sentire e/è osservare… Sentire è la stessa cosa dell’osservare ma più complessa. Posso sentire con le orecchie e con il corpo e ci vuole lOMoARcPSD| 1882907 dell’identificazione di una condizione sfavorevole o problematizzante”. Il posizionamento di cura nelle famiglie è fortemente orientato alla prospettiva salutogenica, che privilegia la ricerca degli aspetti e dei temi funzionali, sani, riconducibili alle potenziali e alle risorse. L’intento è generare narrazioni che raccontino e descrivano qualcosa di diverso e più sano delle solite critiche o diagnosi e categorizzazioni. Bisogna porre l’attenzione verso i modi in cui il sistema familiare è raccontato/ si racconta. Il compito è intervenire in modo da maturare le attribuzioni pessimistiche che chiudono la speranza delle persone in difficoltà. Serve per comprendere le narrazioni e riconoscere gli impliciti della comunicazione che influiscono sulle relazioni, e poi intervenire nella narrazione stessa per promuovere i processi positivi già in atto o invitare gli attori a scoprire un vocabolario resiliente. La cura educativa orientata alla ricerca della bellezza “Agisci sempre per aumentare il numero delle possibilità” (Heinz von Foerster), questa frase invita alla ricerca e attivazione di diverse possibilità di percezione, di descrizione della realtà e dell’esperienza. Lavorare con storie familiari che generano sofferenza e fatica significa non inseguire il cambiamento o il raggiungimento di un’evoluzione prestabilita, ma perseguire l’apertura a nuove visioni del mondo, a narrative più articolate e pensate, più belle. L’apertura visionaria darà origine a cambiamenti e trasformazioni, a movimenti nuovi e più utili. Lavorare alla ricerca della salute, della speranza e della bellezza significa pensare e offrire storie rinunciando alla tentazione di influenzare l’altro verso un cambiamento desiderabile e predefinito perché ridurrebbe le possibilità e diventerebbe inefficace e anti-ecologico. Moltiplicare le storie implica proporre nuove punteggiature e versioni della realtà che vanno ad arricchire, rimodellare e integrare le versioni iniziali, monologiche, statiche, e chiuse su sé stesse. L’idea è di affrontare le criticità partendo dalle possibilità, dal riconoscimento e dal loro valore. Il lavoro di cura educativa consiste nell’introdurre variazioni, proporre sguardi differenti nei confronti delle proprie relazioni familiari, quindi di sé stessi e della propria storia, andando a cercare cose piccole e belle, lavorando nella convinzione che esistono sempre tracce di bellezza e che possono essere rese visibili dai componenti. È utile soffermarsi con attenzione e cura su queste tracce, accoglierle come un dono, valorizzarle, farle risplendere. Si privilegia la ricerca della bellezza e risiede nell’utilizzo della conversazione. Questo tipo di cura è nata grazie al lavoro con famiglie definite “multiproblematiche”, se è una relazione obbligata è perché c’è qualcosa che non funziona e c’è un problema che è stato rilevato dagli osservatori. Spesso ci sono problemi intrecciati tra loro a livelli diversi. È utile e indispensabile riflettere, quando si è immersi nei problemi. Chiedersi cosa possiamo fare in questa storia familiare. C’è modo e modo di stare nel tempo: lasciarlo transitare come indifferenziato o abitarlo disegnandone il senso” (Mortari, 2002, p 143). Innanzitutto, bisogna ascoltare il tipo di storia raccontata e poi andare a cercare e attivare ulteriori elementi di narrazione che rimettano in connessione la storia raccontata con le dimensioni della possibilità e della bellezza. Un posizionamento estetico nel lavoro di cura Iniziare cercando di incorniciare delle piccole belle variazioni alla storia irrigidita e all’emozione dominante. Trattare i problemi partendo dalla ricerca di momenti, emozioni, elementi e aspetti di salute e funzionamento aumenta il numero di possibilità, articolando la narrazione in una prospettiva più dinamica, salutare e educante. Non si tratta di incoraggiare, di essere ottimisti e dire “think positive”, e nemmeno di usare la connotazione positiva intesa come rilettura di comportamenti visti come negativi e patologici dentro una cornice di positività, scelta, funzionalità. Qui viene proposta una postura menta, una scelta dello sguardo, un’epistemologia o estetica del lavoro di cura con le famiglie e le loro storie. CORNICI: una cornice è qualcosa che inquadra, separa il contenuto dallo sfondo, gli dà senso e lo valorizza. Sul piano cognitivo, struttura e definisce; sul piano simbolico, contiene e crea attenzione. Il termine cornice di riferimento distingue due modi di pensare la comunicazione umana: le cornici politiche riguardano le interazioni, l’organizzazione dei comportamenti, le strategie relazionali tra le persone; le cornici semantiche riguardano lo sviluppo dei significati attraverso la comunicazione. I due modi non sono contrapposti, ma intrecciati in una relazione dialettica. Il primo è legato all’approccio sistemico. Quando le persone raccontano le loro esperienze usano le cornici di riferimento semantiche, chiedendo loro anche di descrivere gli eventi, chi fa cosa ecc. porta il racconto sul piano dell’interazione, aiuta a rilevare modelli ripetitivi ed effetti pragmatici delle diverse azioni comunicative. La cornice politica è più disponibile quando tutta la famiglia è presente, le loro azioni e reazioni reciproche sono allora visibili, ed è più facile diventare consapevoli dell’esistenza di cornici. lOMoARcPSD| 1882907 Rispetto alla definizione di un problema, la cornice politica definisce tutte le soluzioni tentate, mentre la cornice semantica definisce il modo di dare senso e significato alla situazione. Le due sono interconnesse (vedi esempio). Un buon osservatore deve saper riconoscere la differenza tra cambiare punto di vista entro un contesto dato per scontato, e cambiare quel contesto. Per riuscirci bisogna sperimentare diverse azioni di osservazione e ascolto. Ogni essere umano è immerso in cornici, cioè sistemi di premesse implicite, schemi abituali di interpretazione del mondo, dentro cui sviluppa il proprio punto di vista sulle cose. Ciò che ciascuno vede dipende dal proprio punto di vista sul mondo. Per vedere il proprio punto di vista è necessario cambiarlo, uscire dalla cornice di lettura abituale. Un buon osservatore è sostanzialmente un esploratore di altri mondi possibili, uno che sa come ci si connette a sé stessi e al mondo quando ci si predispone a vedere e valutare le stesse cose in modi che prima ci erano preclusi, perché non previsti dalle cornici che davamo per scontate. Saper accogliere altre cornici per Bateson si chiama apprendimento. Dell’apprendimento il pensiero sistemico ci ha insegnato a rispettare la complessità e a ragionare in termini di più universi, di una molteplicità di mondi culturali. L’incontro interculturale è l’esperienza paradigmatica per imparare a cambiare i nostri punti di vista. Finché entrambi restano immersi nella propria cornice la comunicazione sarà difficoltosa, se non impossibile. Per uscire dovranno cambiare cornice di riferimento e pensare che esistono altri mondi possibili, altri sguardi sulle cose. Non si tratta solo di recuperare la normalità del soggetto o della famiglia o di accettare l’altro, accoglierlo e riconoscerlo; e nemmeno di ricercare solo leggerezza e apertura ad altre prospettive. La proposta è più specifica e attiva: si tratta di andare insieme a cercare con uno sguardo curioso ed esplorativo, tracce di competenza e abilità, ma soprattutto di poesia e bellezza, di immaginazione e desiderio, per rintracciare e vivificare la narrazione familiare, trasformandola in romanzo. Si tratta di una postura mentale nel lavoro con la famiglia che si propone come estetica, ovvero sensibile alla bellezza delle relazioni tra le persone e cose… Bisogna cercare ogni segno di luce negli altri, e di aiutarli e rinforzarli in tutto ciò che di saggio vi sia in loro . (Bateson, cit. in Puviani, 2010, p.257). Assumere un posizionamento estetico significa guardare e ascoltare con curiosità l’altro, per apprezzare insieme la sapienza delle storie e trovare nuove prospettive con cui ripercorrere l’esperienza e le relazioni . La bellezza è solo da scoprire nella normalissima quotidianità, si tratta solo di risvegliarla, dispiegarla, vederla. Un posizionamento estetico è come “un pensiero che riunifica la mente con il corpo, i sensi, le percezioni, che riconcilia la ragione con la passione, che propone un soggetto cosciente che non teme le proprie emoziono, che è in grado da queste di trarre apprendimento e conoscenza” (Mustacchi, 2001, p.29). Questo modo di posizionarsi nella relazione educativa ricerca il sentire, il sensibile, il vivo e il riconoscibile. È l’atto del riconoscimento che definisce la bellezza, si tratta di pensarla non come qualcosa che sta di fronte a noi, ma come un accadimento autoriflessivo, che è in relazione a noi e ci parla anche di noi. Il bello è un oggetto che prende forma, è una storia che si trasforma, perché prende luce, diventa visibile, le si dà voce, viene tracciata, disegnata, scritta o cantata e scelta dal suo autore. Un progetto pedagogico che sia sensibile alla dimensione estetica delle relazioni e storie familiari può e deve riconoscere e coltivare la dimensione poetica non solo nei romanzi, negli eventi eccezionali, ma soprattutto nella quotidianità, nello sviluppo di uno sguardo che di tutti gli esseri umani degli artisti e di tutte le storie familiari dei romanzi. Essere sensibili alla dimensione estetica significa ricercare un atteggiamento mentale fondato sul potenziale curativo della circolare presa di coscienza che ogni storia è colma di interesse; significa avere la profonda convinzione che ogni vita è un romanzo e ogni vita merita un romanzo, e che uno dei compiti dell’educatore estetico consiste nell’operare come narratore delle storie raccolte. Il rischio maggiore e più frequente è quello di cadere nella trappola del “non c’è niente di bello”. È proprio in questi casi che diventa più utile e interessante cercare nuovi significati e bellezze, con attenzione e cura. Le parole non bastano: alla ricerca di nuove grammatiche Lavorare con le famiglie e le loro storie cercando la bellezza non è semplice. Usare domande ben pensate e la cura autoriflessiva e autoconsapevole del proprio posizionamento non sono sufficienti per generare cambiamenti e trasformazioni. La parola e il pensiero strutturato hanno dei limiti, presentano una forma fin troppo definita e convenzionale che non riesce a intercettare in modo esaustivo la bellezza, la complessità e l’autenticità che richiamano lo stato di grazia, armonia, integrazione e corrispondenza tra mondo interno ed esterno. Le parole spesso non bastano. Nel lavoro educativo e pedagogico è utile ricorrere a linguaggi e grammatiche che danno cove ad aspetti non totalmente verbalizzabili: racconto, metafora, poesia, segni preverbali, disegno… lOMoARcPSD| 1882907 Ricorrere all’immaginazione significa usare i linguaggi simbolici, metaforici e narrativi per creare nessi impensati, per riuscire a dar convivere e comporre elementi apparentemente estranei, per riunificare la mente con il corpo. L’immaginazione e il simbolico possono aiutare a riconoscere la complessità e la bellezza di cui ogni storia è portatrice, per onorarla e celebrarla ancor prima di volerla cambiare. La logica fantastica e il ricorso alla simbolizzazione accompagnano di continuo la nostra vita soprattutto nelle relazioni amorose e tra genitori e figli. Ognuno di noi usa i simboli, essi danno volto ai desideri, stimolano certe imprese, modellano un comportamento, avviano successi o fallimenti. Gianni Rodari, 1997, p. 104: il discorso materno è spesso immaginoso, poetico, trasforma in un gioco a due il rituale del bagno, del cambio, della pappa, accompagnando i gesti con continue invenzioni. Dà significato simbolico all’atto del mangiare, estraendolo dalla catena delle schiavitù quotidiane. Mangiare diventa un fatto estetico, un giocare a mangiare, un recitare la colazione. Spesso si propone di immaginare cosa succederebbe se…, che oggetto o simbolo sarebbe questa persona…? Anche nella supervisione si può ricorrere a queste ipotesi fantastiche, utili a generare altre visioni e nuovi punti di vista, per dare maggiore libertà al pensiero. Usare l’immaginazione simbolica permette di accedere in modo leggero e veloce a una dimensione affettiva, emotiva e spirituale, verso la quale l’operatore non può che adottare una postura rispettosa. La proposta è pensare il lavoro con immagini e l’immaginazione come uno dei tanti possibili per suscitare la ricerca della bellezza, per avere cura dell’altro e per attivare cura tra le relazioni. È uno strumento estetico di dialogo che a seconda dell’utilizzo, delle diverse declinazioni possibili e in connessione al contesto nel quale si svolge, può gettare luce tra le persone, familiari, sé stessi, ma anche tra l’operatore e l’idea o emozione di quella famiglia con cui lavora. Proporre un foglio bianco e dei colori con cui rappresentare creativamente noi stessi, le nostre relazioni familiari, oppure un’esperienza, un’emozione, un concetto, ma anche il problema per cui abbiamo chiesto aiuto è un modo per dare la libertà attraverso la libertà, prendendosi cura della vita della mente. ⑦ TRA MICRO E MACROSTORIA: LO SGUARDO BIOGRAFICO PER COMPRENDERE LA VITA FAMILIARE L’antropologo Pitkin negli anni 80 raccolse la biografia di una famiglia rurale italiana: tre generazioni in 80 anni. Giacomo era l’unico che portava i soldi a casa e i segni della modernità costavano caro, così doveva lavorare molto. L’approccio biografico e autobiografico soprattutto di generazioni, è utile a comprendere l’unicità della cultura di ogni famiglia, ci fa vedere le connessioni tra singolo sistema familiare e il contesto più ampio. Ogni storia è unica ma può essere simile a tante altre della stessa epoca e territorio. Si trasformano i consumi, le tecnologie, i nuovi bisogni. Le narrazioni familiari ci aiutano a comprendere come cambia la quotidianità e le relazioni in base a fattori interni alla famiglia, ma anche per l’influenza sociale, di classe, di territorio e di ruoli di genere. Questo racconto mostra il legame tra cultura familiare e cambiamento sociale. NARRATIVA FAMILIARE: La narrativa familiare è un insieme ampio e articolato di processi individuali e collettivi e di creazioni di storie che vengono condivise, modificate, arricchite, risignificate a ogni passaggio e consegnate agli interlocutori della famiglia. I fatti vengono tramandati alle generazioni successive, i racconti si trasformano in insegnamenti generalizzati e slegati dagli eventi originari. Il valore e la funzione di apprendimento della storia agiscono sempre su presente. Gli attori della famiglia si identificano con alcuni ruoli e personaggi, e adottano schemi di azione e soluzione offerte dalla narrazione ricevuta. MITI: ogni convinzione non razionale che esprima in qualche modo le aspirazioni di una collettività e che è di stimolo all’azione. Ferrera definisce il mito familiare come un certo numero di opinioni ben sistematizzate, condivise da tutti i componenti della famiglia, che riguardano i ruoli familiari e la natura della loro relazione. Egli lo connota in modo negativo e quasi patologico, come un modello di distorsione sistematica della realtà, un meccanismo di difesa utile per garantire l’equilibrio della famiglia. Aderire al mito riduce i cambiamenti al minimo. Fruggeri descrive alcuni miti familiari comuni: mito della famiglia felice e priva di problemi, mito del capro espiatorio (responsabilità dei problemi su un membro), mito della sfortuna che perseguita tutti i membri, mito dell’unità che esclude gli esterni, mito della trasparenza per cui non ci sono segreti, mito dell’incomunicabilità in cui non si parla e non ci si capisce. C’è la tendenza a confermare il mito. Formenti dà valore positivo e generativo ai caratteri di totalità e intoccabilità del mito, in quanto la mitizzazione favorisce la creazione e il rinforzo del senso di identità della famiglia nei momenti di transizione, è più funzionale allearsi con il mito invece che combatterlo. LEGGENDE: evento realmente accaduto che la fantasia popolare ha arricchito con elementi fantastici. Le leggende familiari sono racconti di eventi e situazioni specifiche che sono tramandati dalle generazioni con la parola. La leggenda narra sempre avvenimenti significativi, difficili, che mettono alla prova i membri della famiglia e le relazioni La leggenda contiene istruzioni implicite per attraversare delle situazioni difficili e per risolvere dei problemi. Il mito spiega, dà senso alla vita lOMoARcPSD| 1882907 pensiero e incide in misura maggiore nella vita di un individuo. Una buona parte della vita di relazione e di tutti gli esseri umani risale alla prima infanzia ed è inconscia. Bateson individua 4 fenomeni in questo A2: l’apprendere ad apprendere di tipo meccanico, l’apprendimento d’insieme, l’inversione, le nevrosi sperimentali - Apprendimento 3 , cambiamento dell’App 2, un ordine di apprendimento che riguarda solo l’uomo e quando una persona vive una profonda riorganizzazione del proprio caratter e. L’io di un soggetto è il prodotto dell’insieme di alternative entro le quali effettuare una scelta, un prodotto dell’A2 - Apprendimento 4, come cambiamento del 3 non si manifesta in alcun organismo adulto sulla terra. I media possono insegnare come affrontare dei problemi familiari e cambiare le visioni delle persone. Essere immersi tutti nello stesso discorso significa assorbire dei presupposti senza poter interrogarsi. I new media consentono l’interazione, contaminazione, trasformazione dei punti di vista. Queste tecnologie influenzano le relazioni familiari in modi prima impensabili: si può comunicare in vivo a distanza. Oggi l’incertezza viene collegata alla vulnerabilità, all’irrompere di un senso frammentato e fragile della vita quotidiana. La loro nuova vulnerabilità non è chiaramente identificabile come economica o sociale, ma è legata agli effetti dell’instabilità diffusa, diversi in relazione alle appartenenze sociali, ai contesti di vita, alle opportunità educative e formative, alla percepita solidità della famiglia. La complessità è una caratteristica del vivere, che può essere riconosciuta e conosciuta grazie alla composizione degli sguardi multipli. L’invenzione del privato La caratteristica più evidente della cultura familiare contemporanea è la vita privata, fatta di rituali domestici, compiti ripetuti, spazi connotati. La privatezza della casa, della vita intima, richiede nuovi spazi organizzati in modo più complesso e raffinato rispetto al passato. C’è stato un cambiamento dei ruoli dei membri, e sono cambiati gli usi e i significati delle stanze. La cucina diventa il regno della famiglia, e il bagno il luogo della cura di sé e della solitudine, le camere da letto sono personali e personalizzate, diventano un sacro spazio individuale per studiare, svagarsi, accogliere gli amici e marcare il proprio territorio. Lo spazio domestico evolve con la definizione dei confini tra la sfera pubblica e quella privata. Genera in modo simbolico il senso del privato. Il salotto è l’emblema della famiglia borghese della middle class ed è il luogo in cui si celebra il noi, distinto dal salotto per ricevere gli ospiti. Negli anni 60 guardare la tv era un rituale simbolo dei legami familiari. L’oggetto della condivisione è un prodotto culturale che educa ai nuovi valori sociali, al tempo stesso estrania e ha poco a che fare con la realtà dei sentimenti e delle relazioni di quel nucleo. Le relazioni private sono celebrate e negate, un doppio legame generalizzato. DOPPIO LEGAME: concetto nato da un progetto di ricerca sulla comunicazione schizofrenica avviato da Bateson, Haley e Fry. L’ipotesi era che l’incapacità di discriminare i tipi logici fosse all’origine dei sintomi schizofrenici, originati dalla difficoltà nell’identificare e interpretare in modo corretto i segnali metacomunicativi. Si passa da un modello psicopatologico a un modello basato sul concetto di informazione. Il contesto di apprendimento della comunicazione schizofrenica era la famiglia, in cui Bateson vedeva coalizioni simili al gioco a 5 (alleanze instabili). Nel gruppo entra anche Jackson e iniziano a lavorare a diretto contatto con i pazienti e a osservare i comportamenti nel contesto familiare. Notano che se il paziente migliora, un altro membro peggiora, e le famiglie sembravano incoraggiare e provocare comportamenti irrazionali nel paziente. Il modello omeostatico della famiglia con membro schizofrenico è alla base dell’articolo dove il doppio vincolo è proposto come struttura comunicativa di apprendimento che genera nel paziente una risposta comunicativa analoga . Le condizioni del doppio legame sono: a. Occorrono due o più persone (vittima, madre insieme a padre e fratelli) b. Un’esperienza ripetuta (non serve cercare un trauma infantile come causa, sono le sequenze comunicative caratteristiche e ripetute a strutturare un’aspettativa) c. Un’ingiunzione primaria negativa in un contesto familiare in cui è importante evitare la punizione (ricatto, odio) d. Un’ingiunzione secondaria in conflitto con la prima a un livello più astratto , la confusione tra i due livelli genera un paradosso; è un metamessaggio che si manifesta con gesti, tono di voce e atteggiamenti… e. Un’ingiunzione terziaria negativa che impedisce alla vittima di lasciare il campo Quando la vittima ha appreso a percepire il suo universo sotto l’angolazione del doppio legame, gli altri elementi non sono più necessari. Le vie sono la metacomunicazione, il sintomo e la creatività. L’ipotesi del doppio legame alimentò la curiosità di molti clinici e si diffuse, venne gradualmente abbandonata. Per Bateson il doppio legame era una teoria sulla metacomunicazione, la schizofrenia aveva un valore esemplificativo. Il rischio era di cadere in una concezione causale. Nel gruppo si erano generati nuovi orientamenti in cui non tutti erano d’accordo e si sciolse. Doppi legami istituzionali lOMoARcPSD| 1882907 Le contraddizioni sono interessanti perché evidenziano il potenziale trasformativo della cultura familiare, nello scarto tra le aspettative sociali e gli stili di vita privati. Nel lavoro educativo ci sono tendenze molteplici e contraddittorie, da un lato siamo testimoni della crescente privatizzazione della vita familiare e valorizzazione delle relazioni a scapito di quelle esterne, dall’altro la famiglia non appare libera di definire il proprio spazio d’azione e di vita. Una costante azione di controllo è esercitata da agenzie, istituzioni e servizi. Gli stati democratici esercitano un controllo e un’influenza sulle famiglie attraverso leggi e politiche sociali che fissano criteri condivisi sui quali viene valutata la sana vita familiare. Il concetto di famiglia sana e ben funzionante era impensabile anni fa, ora si mette in discussione il ruolo degli adulti nella famiglia e diffondere la retorica dell’incompetenza genitoriale di invenzione recente. Le scienze umane monitorano, osservano, valutano, fissano i criteri di qualità della vita privata, con la conseguenza di minarne alla base proprio la privatezza. È stato un processo graduale, avvenuto prima con la destituzione di autorità del padre e poi con la nuova parola di genitorialità per definire la qualità del lavoro di genitore, un lavoro poco riconosciuto ma sempre più valutato e sanzionato. La cura del bambino cominciò a essere concepita come un lavoro a tempo pieno, difficile e impegnativo per i genitori, soprattutto le mamme. Aumentano le aspettative e le prescrizioni e cambiano a ogni nuova tappa, bisogna imparare che cosa le istituzioni si aspettano dalla buona genitrice. Anche l’offerta commerciale è aumentata con numerosi accessori per ogni bisogno del bambino. Che tipo di creatura progettiamo, con i nostri stili di vita, con le nostre tecniche di allevamento? Nella diade madre-bambino , il presupposto è che lei abbia un enorme potere nel determinare il destino del suo bambino, la sua intelligenza, felicità, successo. Le mamme ricevono molte informazioni contraddittorie e fuorvianti e i papà sono lasciati in ombra e all’oscuro di tutto. Come può una donna sentirsi competente e sicura, e un uomo affrontare la paternità con gioia e fiducia? I racconti ricorrenti parlano di ansia, vulnerabilità, dipendenza dal parere altrui. Poche sono le storie di agentività, cioè narrazioni nelle quali il genitore parla di sé in prima persona, esprime le sue scelte, racconta di aver agito in modo attivo, di essersi opposto a pratiche non condivise, di aver espresso richieste. Molti racconti hanno come soggetto attivo il medico, l’ostetrica, il pediatra, lo psicologo…e il bambino, dai suoi umori dipende tutto. Nel rapporto tra pubblico e privato, la possibilità che un genitore perda i propri diritti a fronte di valutazione negativa dei suoi comportamenti, è molto alta, grazie alle numerose leggi che mettono al centro i diritti del bambino, diventando una conquista per l’umanità. Bisogna porre l’attenzione anche all’aumento del controllo sociale sulla famiglia e i rischi che comporta. Il controllo esercitato da pochi è sempre un rischio, se ostacola la possibilità di apprendere, di evolvere specialmente quando una famiglia viene connotata come fuori norma. Lo stigma sociale insito in uno sguardo valutante e condannante è un problema aperto nel lavoro con le famiglie. C’è modo di distinguere se la disobbedienza di una famiglia è controcultura o disattenzione e maltrattamento, ma richiede tempo e attenzione. Solo lavorando sulla cultura dei servizi, sulla cura dei legami e dei contesti, sulla formazione degli operatori che si può sperare di risolvere questo doppio legame istituzionale “sii adulto autonomo responsabile, ma come io te lo prescrivo” e a cui il genitore risponde “aiutami, ma lasciami stare”. Si tratta anche di superare alcune palesi ingiustizie, in quanto le famiglie non sono tutte sottoposte allo stesso modo alle pressioni del controllo sociale, sono soprattutto quelle vulnerabili, povere, di minoranze che hanno una maggiore probabilità di diventare clienti dei servizi e vedersi sottratti i figli. L’intrusione è più violenta quanto più la famiglia è lontana dalle aspettative sociali che ha infranto. In quanto educatori dovremmo insistere di più sull’apprendimento e sull’evoluzione come chiavi per comprendere le famiglie e il loro funzionamento e le possibilità di intervento. L’instaurarsi del Welfare portò alla nascita dei servizi, che si sostituirono alle risorse più tradizionali. La regione Lombardia segue una politica di sussidiarietà che decentra il potere dallo stato ai territori e alle realtà locali. Una famiglia isolata, monoparentale o di immigrati potrebbe trovarsi in alcuni momenti a chiedere aiuto o avere bisogno. Il problema nasce quando il supporto non ha il senso di aiutare a superare la temporanea difficoltà, ma stabilisce il cambiamento. Il sostegno temporaneo diventa presa in carico, occasione per esercitare pressioni verso la normalizzazione della famiglia. Quando gli operatori sono impreparati a gestire i propri pregiudizi, finiscono per imporre un modello di vita che a loro appare come il più sano, modello socialmente dominante e lontano dall’unicità di quella famiglia. Spesso gli operatori sono inconsapevoli dei propri pregiudizi, per riconoscerli e affrontarli devono attraversare processi di consapevolezza delle proprie emozioni, presse culturali e biografiche. In assenza di una formazione specifica, la sensibilità al pregiudizio è lasciata alla buona volontà del singolo operatore. la ricerca pedagogica sugli eventi cruciali della vita familiare mostra spesso la presenza di comunicazioni paradossali e doppi legami istituzionali. Le famiglie non sono passive, si organizzano, danno senso e significato alle situazioni e costruiscono strategie. Il lavoro educativo centrato sul singolo diventa controproducente per la famiglia e che un intervento iniziato all’insegna dell’aiuto è anti-ecologico per le relazioni e non funzionale. Un processo di cura che si occupa del problema in modo troppo lineare può produrre squilibri a lungo termine, che danneggiano le relazioni. Bisogna sviluppare una conoscenza più approfondita e sensibile dei processi di apprendimento, delle loro interconnessioni e lOMoARcPSD| 1882907 complessità, dell’ecologia complessiva nei sistemi familiari. Come si impara in famiglia? In famiglia si impara vivendo. L’apprendere è al centro della vita familiare: riguarda l’intero, i componenti e la relazione tra loro. Tutti imparano costantemente e reciprocamente. Abbiamo bisogno quasi tutti i giorni di verificare che cosa significhi essere parte di quella famiglia ed è necessario mettere in atto il proprio copione (che cambia continuamente) e misurare le relazioni degli altri. Si può apprendere da qualsiasi messaggio codificato indipendentemente dall’emittente. La famiglia educa per definizione perché è un sistema di ridondanze, di relazioni circolari e di comportamenti interdipendenti che danno vita a processi omeostatici e morfogenetici, è caratterizzata sia da permanenza che da cambiamento. Il pensare per storie riesce a restituire dinamicità e fluidità. È importante che nel rapporto tra le generazioni ci sia un passaggio di conoscenze e di memorie, così come sembra indispensabile una qualche dose libertà e creatività rispetto a queste storie, perché le nuove relazioni possano essere generative. Bateson afferma che è il carattere inconscio e simbolico delle relazioni a consentire che l’educazione familiare sia ecologica, cioè rispettosa della complessità del divenire umano. Quelle occasioni in cui qualcuno intende educare qualcun altro in modo consapevole e finalizzato danno origine a doppi legami e paradossi. Il paradosso può essere 2 generativo, purché sia un gioco creativo, leggero e umoristico. Convivere è il modo più comune per la famiglia di sviluppare, con interazioni quotidiane concrete, abitudini, conoscenze, identità che codificano la realtà e danno senso e ordine al mondo, l’uso di parole speciali, di metafore e immagini. La metafora della famiglia come cultura serve a lavorare come un etnografo, e per comprenderla si devono incrociare tre tipi di dati: l’osservazione della famiglia in azione per scoprire le ridondanze nel tessuto delle interazioni, la raccolta delle storie per svelare il mondo dei significati e la raccolta di artefatti, disegni, oggetti e altre creazioni simboliche, per esplorare l’immaginario di quel sistema, la sua metafora generativa, il mondo delle possibilità ancora da sognare. Verso la biograficità: l’esempio della nascita La famiglia è un insieme di individui, una comunità di osservatori accoppiati grazie al linguaggio che condividono, che è una pratica di convivenza e uno strumento di costruzione della realtà. Far parte di una famiglia significa sviluppare un sistema coordinato di storie e dunque condividere una buona parte della stessa epistemologia. Le storie che si raccontano nella famiglia possono essere considerate co-costruzioni collettive anche quando sono in contrasto tra loro e ne conosciamo una sola versione. La vita di una famiglia si può capire osservando come le storie di interconnettono e come sono collettivamente generate e trasformate. Quando i contesti e le relazioni si presentano rigidi e vincolanti per i soggetti, le storie si impoveriscono. Gli educatori hanno la responsabilità di creare contesti relazionali nei quali sia possibile narrare storie più ricche. Le donne parlano della nascita del figlio in modo diverso in base a chi ascolta, se è un professionista si soffermano sulle caratteristiche tecniche, se è un’amica si soffermano sulle emozioni che hanno provato. Le famiglie sono uniche se noi agiamo come se lo fossero. “mamma, lasciami essere madre, non trattarmi come una bambina”. L’approccio sistemico cerca di generare versioni diverse della stessa storia, differenze che fanno una differenza, moltiplicando sguardi e linguaggi. Si può lavorare preventivamente sui contesti in modo che producano di per sé storie più ricche e apprendimenti più funzionali. Si potrebbero prevenire molti disagi e storie difficili, con un buon intervento educativo che si prenda cura non solo del singolo soggetto, ma dei legami significativi che ha. La proposta narrativa può creare le premesse per una cura delle relazioni familiari, quando dà voce alle prospettive di tutti. Il contesto autobiografico costruisce uno spazio transazionale, dove le relazioni sono sufficientemente sicure non solo per raccontarsi, ma per aprirsi a nuovi apprendimenti. Quindi nell’approccio sistemico la biograficità non è solo una manifestazione della soggettività, ma è sempre intersoggettiva. L’apprendimento di secondo livello avviene quando si modificano le relazioni, cioè quando la storia raccontata dà un potere d’azione sul contesto di vita. Attraverso il racconto giochiamo già un ruolo più attivo, diventiamo autori e attori, ma la conferma esistenziale, l’effetto di testimonianza dipende dalle retroazioni al nostro narrare, dalle altre storie che suscita, dalla possibilità di combinare tanti punti di vista in modo creativo e giocoso. Tra il micro e il macro, la famiglia Sul piano sociale le storie illuminano le trasformazioni dei sistemi organizzativi, istituzionali in continuo movimento lOMoARcPSD| 1882907 mente una mappa di queste relazioni è il primo passo per analizzare il contesto, che può essere tante cose diverse. C’è un contesto sociale, che è una rete di relazioni significative, che possono essere silenti, conflittuali, appaganti, prossimali (chi mi conosce), istituzionali (operatori), distali o occasionali, ma acquisiscono valore trasformativo. Ci sono anche relazioni del passato che continuano ad agire sul presente. I soggetti sono parte attiva di tutte queste relazioni, offrono e ricevono sguardi che costruiscono la loro identità, il loro benessere e malessere, le loro possibilità evolutive, le loro definizioni di un problema e delle sue possibili soluzioni. La rete delle relazioni è la risorsa più importante che ognuno ha per crescere, per costruire la propria idea di sé e del mondo e per modificarla. Un educatore è qualcuno che sa come muoversi tra queste relazioni, le valorizza per sfruttarne le potenzialità, si prende cura dei legami riconoscendoli e rendendoli visibili. Per riuscirci bisogna 2 analizzare il contesto, e riflettere sul dove siamo. Per definire i significati che emergono è necessario identificare il luogo. C’è anche il contesto istituzionale, luogo concreto dentro il quale avviene l’intervento educativo: un’organizzazione di pratiche e di significati che propone cornici politiche e semantiche che definiscono cosa può e non può accadere in determinate circostanze. Il contesto istituzionale non è definito solo da mandati, compiti, progetti e contratti. Ogni servizio ha una sua epistemologia, ciò che si fa in quel contesto ha senso in riferimento alle sue cornici. Non si può lavorare fuori contesto. La caratteristica della comunicazione umana è la ripetitività, che rende prevedibile ciò che accadrà in un certo scambio. La tendenza umana a fondare contesti nasce dal bisogno di prevedere cosa farà l’altro. L’educatore che incontra la famiglia deve poter essere inquadrato dentro un sistema di attese e aspettative da parte degli altri, se le attese sono caotiche, scoordinate e scomposte (ognuno si aspetta cose diverse), ci sarà troppo imbarazzo e disordine per poter accompagnare una trasformazione, se sono coerenti e allineate confermeranno l’esistente e vanificano l’utilità dell’intervento educativo. Analizzare il contesto serve per realizzare una composizione delle cornici, per creare comunicazioni propizie alla trasformazione. È utile interrogarsi sulle caratteristiche costitutive dell’organizzazione di cui siamo parte. La conoscenza delle regole del macrosistema può aiutare l’educatore nel leggere i contesti: devono sconoscere le regole implicite e esplicite delle organizzazioni e sapere quali vincoli rispettare. L’obiettivo è che tutti stiano un po’ meglio e si traduce in un lavoro creativo tra operatori diversi per formazione, mandato istituzionale e sensibilità. Le equipe multiprofessionali, e gli incontri di rete possono diventare luoghi di costruzione di un pensiero complesso sulla famiglia e sulle possibilità di accompagnarne le trasformazioni, se tutti si mettono in gioco per comporre gli sguardi diversi. Ogni servizio ha la sua anima organizzativa, la sua metafora costitutiva alla quale tutti contribuiscono attivamente portando dentro quel luogo le proprie azioni e il proprio immaginario. Per analizzare il contesto bisogna comprendere come il servizio si evolve e si trasforma, magari un cambiamento a livello istituzionale porta a ridefinire tutti gli interventi in corso. L’evoluzione del sistema più ampio crea pressioni sul servizio: le politiche sociali, la crisi del WS e la sussidiarietà hanno portato a una frammentazione delle risorse che ha costretto alcuni servizi a movimenti rapidi, ma aprendo anche nuovi spazi di possibilità e pensabilità. Tutti gli operatori sono chiamati a una maggiore consapevolezza di ciò che accade intorno. Il lavoro educativo è la capacità di leggere e usare in modo creativo le risorse e i vincoli presenti, ridefinendo in tempo reale gli scenari, gli obiettivi e le azioni concrete. Abitare l’incertezza significa sapere che non c’è garanzia di continuità, l’azione educativa diventa ancora più locale e univa. Emerge l’utilità di prenderci cura delle relazioni e di creare comunità di pratiche e percorsi riflessivi. La capacità di riflettere sul proprio posizionamento, sulle proprie azioni in relazione a quelle degli altri professionisti diventa una competenza indispensabile per fare bene e stare bene nel proprio lavoro. Chiedersi gli strumenti che abbiamo per leggere ciò che accade, che cosa e come sappiamo della famiglia con cui lavoriamo, quali messaggi proponiamo. L’educatore che non si interroga rischia di stare male e di non essere utile alla trasformazione (burnout). Può essere che all’inizio la famiglia sia presentata in modo negativo: stigma, svalutazione, mancanza di ascolto. La famiglia viene etichettata come patologica, disfunzionale e incompetente. L’inizio della relazione è insidioso, presenta pregiudizi, mancanza di comunicazione, poca progettazione. In Italia prima si decide e poi si informa i genitori per far accettare le loro decisioni. Sono pratiche cattive perché non sono utili alla trasformazione e non tutelano le relazioni, non si occupano degli effetti a lungo termine. La violenza non può essere eliminata, ritorna ad altri livelli di funzionamento e prende altre forme ( linguaggio ). Gli ingredienti dell’intervento educativo Per leggere il lavoro educativo in chiave sistemica e positiva possiamo farci guidare da alcuni concetti che definiscono gli ingredienti base di ogni intervento. La domanda: di chi è questo intervento? A quale bisogno risponde? Il bisogno e la domanda sono da costruire e interpretare. La domanda è un esito, chi fa che cosa? Se sono contrastanti e paradossali cosa si fa? A chi dare retta? Esiste un modo di aiutare, che non si basi sul negativo, sul far sentir l’altro incompetente? Una possibilità è sostituire lOMoARcPSD| 1882907 ha a al bisogno il desiderio, all’aiuto la cura. La domanda è una co-costruzione in continua ridefinizione. Chi sono io per te e tu per me? Si generano domande movimento? Le domande legittime non hanno già una risposta, ma ci invitano al viaggio. L’invio: chi è l’invitante della famiglia? Chi ritiene che si debba fare questo intervento? L’invitante di solito è assente 2 alla seduta ed è un membro del sistema di comunicazioni intorno al problema. Spesso è determinante per la presenza della famiglia o per il significato dell’intervento. Queste cornici semantiche possono ostacolare l’ingaggio e la presa di responsabilità delle persone nel processo trasformativo. Uno dei problemi più frequenti è lo scontro di premesse tra chi pensa l’intervento soprattutto in termini di controllo sociale e chi ha in mente scopi educativi. A volte l’educatore obiettivi contrastanti. Una buona comunicazione tra operatori e famiglia non richiede di sacrificare una cornice vantaggio di un’altra, ma prova a comporle in un progetto sensato. È importante posizionarsi bene rispetto all’invio. Il mandato: all’educatore che lavora con la famiglia si chiede l’autorevolezza che deriva dalla professionalità che si è andata a costruire nel tempo e va sempre ricostruita e ricontrattata con gli altri operatori. Interrogarsi sul mandato e disporsi a interpretarlo e ridefinirlo rende l’operatore protagonista del proprio lavoro, aiuta a definire meglio finalità e obiettivi chiedendosi se sono coerenti con le aspettative della famiglia. Il mandato vincola al funzionamento organizzativo, è solo la sua capacità di trasformare il mandato e farlo proprio che garantisce nel tempo l’efficacia dell’azione organizzativa. Non dare per scontato il mandato, sospendere l’azione quando non si è convinti, chiedere incontri per concordare le finalità, avviare conversazioni riflessive dentro il proprio luogo di lavoro sono competenze che danno autorevolezza al lavoro dell’educatore. Le competenze non nascono da sole ma richiedono lunghi apprendistati, errori, esperienze fallimentari. Solo l’educatore che personalizza il proprio intervento, che si mette in gioco come persona a tutto campo, analizzando le proprie posture e pregiudizi, disposto a imparare e trasformarsi nel lavoro di cura, risulterà credibile nel momento in cui prova a ridefinire il proprio mandato. La convocazione di tutto il sistema: nell’approccio sistemico la convocazione è l’invito a tutta la famiglia a presentarsi al servizio. Un messaggio molto potente che scatena ipotesi, aspettative, rifiuti, trasformazioni. Mettere in gioco tutta la famiglia. I significati della convocazione familiare sono aperti: ognuno porta il suo e nell’interazione si prova a costruire una storia condivisa. È una questione delicata, in quanto c’è qualcosa che non va. La maggioranza degli interventi sociali e educativi che coinvolgono la famiglia è motivata dall’intento di tutelare un minore, il cui genitore è sospettato di incompetenza, e ci sono anche interventi di prevenzione. Molte famiglie sono divise in vittime e persecutori, persone da proteggere e far crescere, persone da controllare e sanzionare, soggetti di cui prendersi cura e soggetti da istruire perché cambino. Convocare significa definire chi fa parte di quella famiglia. Il mandato educativo si limita spesso al nucleo familiare, ma in un’ottica sistemica è famiglia l’insieme delle persone coinvolte nella cura, che vedono il bambino e chiedono aiuto, e contribuiscono a cercare soluzioni (posso essere inclusi anche i vicini di casa, insegnanti, amici di famiglia ecc.). A volte si parte da un singolo, allargando poi il contesto, altre volte si lavora tutti insieme o con una parte. L’operatore sistemico è sempre volto all’insieme delle relazioni e al desiderio di allargare il contesto, perché i sistemi viventi trovano i loro equilibri in modo naturale se hanno a disposizione tante risorse nell’ambiente circostante. L’educatore sa che c’è una rete di relazioni significative, ed è aperto a conoscerle e ascoltarle, non è frettoloso, è curioso. La costruzione del setting: è utile istituire un setting policentrico e flessibile. Flessibilità non significa confusione. I contesti hanno bisogno di marche ben definite: messaggi verbali e non, che dicono cosa stiamo facendo qui e accompagnano le eventuali ridefinizioni. Definire il setting come educativo, far capire che ci si prende cura dei legami, far sentire alle persone che ci si può fidare sono messaggi difficili da costruire. Molti operatori usano le marche di contesto in modo confuso o ingenuo, altri scambiano il setting per la dimensione pratica: procedure, spazi e tempi dell’intervento, compiti, rituali, linguaggi, strumenti operativi, metodologie di lavoro… Le pratiche sono ciò che si vede, definiscono le regole del gioco, ma è la dimensione simbolica e il senso che assumono a definire il setting. Ci si concentra sul come e non sul cosa. Alcune regole sono stabilite prima dell’intervento, in seguito si ha la possibilità di riflettere, verificare la funzionalità delle scelte operate, ridefinirle insieme agli utenti. La ritualizzazione connota il tempo dell’intervento come uno spazio speciale dedicato alla cura di sé e degli altri. L’operatore propone azioni specifiche e non quotidiane per la famiglia, per creare esperienze potenzialmente trasformative. Pensare e organizzare il setting nei minimi dettagli significa chiedersi quali messaggi si vogliono dare e ricevere, nell’intento di sostenere e accompagnare le trasformazioni delle relazioni familiari, prendersi cura dei legami, instillare senso di competenza, speranza e bellezza nelle situazioni problematiche. Il processo: contratto, intervento, valutazione e chiusura: abbiamo bisogno di concetti e pratiche che consentono di leggere e accompagnare le situazioni in termini di processi. Si mette in discussione la successione lineare delle operazioni. Il contratto educativo definisce gli obiettivi, ma l’intervento educativo non può solo avere gli esiti attesi. 2 L’intervento ha una durata e va definito in modo esplicito l’inizio e la fine, perché la vita della famiglia va oltre il tempo dell’intervento. Uno dei problemi più diffusi è la cronicizzazione dell’intervento educativo che mostra una lOMoARcPSD| 1882907 trasformazione bloccata negli utenti e nei servizi. L’approccio sistemico è tendenzialmente breve, mira alla perturbazione, attribuisce al sistema una capacità di autocura che va rivitalizzata. Una famiglia può trasformarsi molto rapidamente. Se l’intervento educativo ha come effetto collaterale un rallentamento delle naturali evoluzioni, c’è qualcosa che non va. Partire dai criteri di valutazione è utile perché essa ci dice a cosa diamo valore. Aspettative da definire in termini di apprendimento. Gli interventi centrati sul singolo problema, sul singolo soggetto non si pongono obiettivi più ampi. I criteri di valutazione dovrebbero essere fissati insieme alle famiglie, tenendo conto dei bisogni, dei desideri e dei punti di vista di ogni membro, questo consente di avviare conversazioni sul futuro anche se sono faticose. A Londra in un centro, l’intervento con le famiglie è costruito in termini di contesto e processo, partendo da un incontro di rete in cui sono convocati tutti gli operatori e la famiglia per decidere gli interventi. Viene condotta una conversazione a più voci guidata da alcune domande (vedi pag.228). Il processo è costantemente monitorato con strumenti di auto osservazione gestiti dalla famiglia insieme agli operatori. Le famiglie sono invitate a diventare esperte in un processo di auto-valutazione che è insieme auto-osservazione e auto-valorizzazione. Il monitoraggio in itinere è fatto ogni 2-3 settimane e mostra i progressi, riconosce le competenze, consente di operare adattamenti se emergono novità. Un contratto è un documento che sancisce un accordo tra liveri e fissa obblighi e diritti reciproci. Un contratto dovrebbe esplicitare tutti i vincoli non contrattabili e prevedere un margine di negoziazione per i contraenti. Consenso significa condividere il senso di qualcosa con qualcuno, è un sì che viene chiesto alla famiglia. Viene chiesto di aderire e diventare parte attiva assumendo una responsabilità. Il momento del contratto è trasformativo e può generare grandi bellezze e consapevolezze. Ma spesso firmiamo contratti che noi stessi e gli altri senza avere la possibilità di negoziare, chiedere, ridefinire e comprendere altri mondi possibili. La circolarità tradotta in comunicazione Il concreto lavoro educativo avviene in un flusso comunicativo incessante al quale le persone partecipano: parole, silenzi, gesti, interazioni, presenze, assenze… tutto ha valore di messaggio. I metodi della sistemica sono nati da questa consapevolezza grazie allo studio di processi comunicativi. L’operatore sistemico partecipa alla comunicazione in modo attivo, tiene conto del processo comunicativo in atto e prova a perturbarlo alla ricerca di nuove possibilità. Usa sé stesso come messaggio per introdurre differenze nel sistema che diventino informazioni. Il suo modo di comunicare non è centrato sull’intenzionalità del messaggio ma sugli effetti pragmatici (risposta, feedback). Ipotizzazione, circolarità e neutralità sono linee guida che portano da una concezione della conversazione come raccolta di informazioni sulla famiglia, all’idea sistemica di una conversazione a più voci nella quale si generano informazioni attraverso il gioco delle differenze. Le domande sono formulate in modo fa introdurre differenze spazzanti per la famiglia e ne riorientano il movimento in direzioni impreviste. Domande legittime che mettono in luce le relazioni, rendendole visibili e trasformabili. IPOTIZZAZIONE, CIRCOLARITA’ E NEUTRALITA’: riferimento a un’equipe che condivideva lo stesso modello epistemologico, che si basava sui diversi punti di vista. Ognuno poteva fare solo punteggiature e questo ha posto le idee prima delle persone, se si parte dall’idea di verità qualcuno la possiede e la conosce meglio. L’intervento nasce da una particolare conduzione del colloquio, si voleva superare l’idea che il successo della terapia fosse dovuto al carisma del terapeuta e sottolineare invece l’importanza delle azioni comunicative e del modo di porsi durante l’incontro con la famiglia. Ipotizzazione  capacità dell’equipe di formulare un’ipotesi sistemica fondata sulle informazioni in suo possesso, e funzionale a garantire l’attività dei conduttori nel ricostruire i giochi relazionali della famiglia. In quanto provvisoria, l’idea non è né vera né falsa, ma solo più o meno utile. serve a iniziare e organizzare il processo di indagine. Discutere tutto. L’idea che c’è sempre un’altra idea, non c’è mai un’idea finale e vera, la verità sfugge sempre, tu continui a cercarla ma non la trovi mai, e questo rende la conversazione terapeutica. Circolarità  conduzione basata sulle retroazioni della famiglia, sollecitate da domande che venivano poste in termini di rapporti, cioè di differenze e mutamenti (percepire le relazioni tra due, modi di reagire in circostanze specifiche) le L’equipe sistemica, con la postura dell’ipotizzazione, riconosce il valore parziale e temporaneo delle proprie idee sulla famiglia che saranno arricchite di continuo per garantire una visione circolare e utile al cambiamento. L’ipotesi sistemica è il prodotto di una conversazione generativa in cui gli operatori appaiono all’inizio lineari e ingenui, e discutendo prendono poi le distanze dai propri pregiudizi con l’ascolto reciproco. Ognuno vede un pezzetto che tende a categorizzare o valutare. L’incontro con le altre prospettive, la loro legittimazione e la discussione aperta disciplina lo sguardo, bisogna mettere insieme le diverse letture lineari, superando il giudizio e formulare un’ipotesi più complessa che tiene insieme le diverse visioni. Quando un’equipe diventa una mente sistemica riesce a sintonizzarsi sulla complessità della famiglia, a rispecchiarne la circolarità. La neutralità non è un dover essere ma una qualità emergente dalle azioni dell’equipe che sorge come esito di alleanza con la famiglia nel suo insieme, una forma di rispetto per ciò che la micro-cultura porta nella relazione. Lavorare in equipe è una condizione per poter lavorare in modo sistemico, per cogliere e onorare la complessa circolarità delle relazioni familiari e immaginare quello che potrebbero diventare. L’educatore sistemico lavorando a stretto contatto con lOMoARcPSD| 1882907 Il lieto fine Siamo sempre curiosi di sapere come andrà a finire un racconto. Sappiamo fin da bambini quale sia il lieto fine “e vissero insieme, felici e contenti, per tutta la vita” e per andare bene questo deve essere il finale e diventa un obiettivo. Siamo in attesa di vedere le modalità con cui si arriva al lieto fine, e nei racconti ha spesso a che fare con una coppia che si unisce o con dei figli che tornano a casa, rappresenta l’immagine di famiglia. Anche se le nostre intenzioni dichiarate vanno in altro senso, dobbiamo fare comunque i conti con il lieto fine ideale che segna soprattutto chi lavora con le famiglie in cui i più grandi non sembrano in grado di proteggere e promuovere i più piccoli o che diventano pericolosi per loro. L’orizzonte finale dell’intervento di tutela e del lavoro educativo nei servizi appare come una contrapposizione di idee: vivere/morire, insieme/separazione, felicità e contentezza/passione e sofferenza, illimitatezza/interruzione. Questi servizi sembrano invitare gli operatori a un’estrema semplificazione, e scegliere cosa sacrificare con un’operazione di polarizzazione semantica che rinuncia all’insieme o al felici e contenti. A un estremo crediamo che l’insieme possa essere sacrificato e che il bambino starà meglio in una comunità, lo immaginiamo più facilmente da solo e separato dalla sua famiglia; all’altro estremo pensiamo all’insieme come la cosa migliore e l’aspetto da salvaguardare e che si metta da parte il felici e contenti perché è più importante che la famiglia resti unita, e dove c’è separazione valutiamo l’esperienza come fallimento. Bisogna tenere conto non solo dei propri presupposti, ma quelli 2 di tutti i soggetti sulla scena, per mettere in crisi ogni visione della situazione. Non è facile perché quando osservo l’altro punto di vista, lo vedo a partire dal mio. Dal finale al percorrere Il contenuto del finale ci guida anche nel modo in cui conosciamo e agiamo durante l’intervento: ci troviamo a decidere quali parti del lieto fine ideali sacrificheremo e quali promuoveremo. Come se fosse una favola ci proponiamo di essere noi quelli che rivoluzionano la storia per arrivare al lieto fine. Il rischio è quello di operare in maniera cartesiana, occidentale, come se ci trovassimo di fronte a una macchina dove tutto è progettato prima e le relazioni tra i vari componenti sono prevedibili, misurabili, sostituibili, riparabili… dimenticando così la profonda differenza tra sistemi complicati che costruiti da esseri umani possono essere ricostruiti in dettaglio nei loro componenti e nelle relazioni interne, e possono essere determinati dall’esterno e sistemi complessi che invece si programmano da sé, hanno un loro punto di vista sul mondo e un loro modo di accoppiamento con l’ambiente e per questo non sono mai conoscibili e controllabili dall’esterno. Il lavoro educativo che si compie nell’ambito della tutela dei minori non può rinunciare alla dimensione relazionale che è essenziale, non vige la legge di causa/effetto, possibile solo nei rapporti tra oggetti. Nessuno credeva che quella madre e la sua bambina potessero vivere insieme, ma la madre ci credeva, e aveva accettato di percorrere una strada difficile in comunità, eppure ha saputo credere in un finale diverso da quel lieto fine con il quale si vuole misurarsi per verificare il successo o il fallimento di un intervento. Il paradosso dell’istituzionalizzazione nei servizi de-istituzionalizzati La legge n.149 del 28 marzo 2001 ha disposto la chiusura degli istituti per minori entro 5 anni, questa decisione è inserita nel processo di de-istituzionalizzazione e decentramento dei servizi che aveva avuto origine negli anni 70, in seguito a una forte critica alle istituzioni totali, attivando un processo per superarle. In campo psichiatrico ebbe origine grazie a Franco Basaglia, che puntò all’abolizione dei manicomi (legge 180 del 78). Questo processo di deistituzionalizzazione riguardò tutti i servizi socioassistenziali e sanitari, e portò anche alla chiusura degli istituti minorili. L’uomo tende a dormire, divertirsi e lavorare in posti differenti tra loro, accompagnandosi a persone diverse e rispondendo a diverse autorità, mentre le istituzioni totali rompono le barriere che separano queste tre sfere di vita. Dal superamento degli orfanotrofi nascono le comunità per bambini e per mamme e figli, e sono realtà più piccole, meno rigide, più aperte alla trasformazione. Sono servizi organizzati ad hoc, dove spesso si è obbligati ad DIFFERENZA: l’atto di tracciare una distinzione implica creare un ordire, far emergere opposizioni, generare identità a partire da ciò che si percepisce attraverso i sensi. Dietro ogni distinzione c’è un organismo che conosce. Il fenomeno è la realtà quale appare tramite le forme a priori della struttura conoscitiva dell’uomo, mentre la cosa in sé è la realtà considerata in modo indipendente dall’uomo e dalle sue forme a priori. Se tutti i fenomeni sono apparenze, con un atto percettivo l’uomo sceglie un fatto tra il numero infinito di fatti potenziali contenuti in un qualsiasi oggetto. Per Bateson, l’uomo sceglie il numero limitato di differenze che stanno intorno, dentro qualcosa. Ciò che si intende per informazione è una differenza che produca una differenza perché i canali neurali sono dotati di energia e sono pronti a essere innescati. Bateson definisce la differenza come un’entità astratta, tra realtà esterna e percezione interna sceglie la relazione, l’organismo nel suo ambiente. Se il territorio fosse uniforme, nulla verrebbe riportato sulla mappa se non i confini, dove l’uniformità cessa di esistere. INFORMAZIONE: significa dare forma alla mente, istruire. Il significato è diventato sempre più tecnico, rimanda alla trasmissione del contenuto di un messaggio o una notizia. È qualcosa che va oltre i contenuti e oltre l’idea di una trasmissione e ricezione di carattere lineare, ma implica una vera e propria trasformazione. Bateson pone il concetto di informazione a fondamento della sua epistemologia, e ne recupera il significato etimologico di trasformazione, i dati non sono eventi o oggetti ma registrazioni o descrizioni o memorie di eventi o di oggetti. Si pensa che il linguaggio serva a trasmettere informazioni perché puntiamo alla chiarezza del contenuto. Per il pensiero sistemico, le interazioni comunicative sono intrinsecamente non trasmissive. Il linguaggio non denota, ma connota. L’informazione è un concetto ingannevole se si pensa che la comunicazione tra A e B possa determinare come si comporterà B. lOMoARcPSD| 1882907 andare e dove occorre organizzare un setting che fornisca la contestualizzazione necessaria a promuovere una trasformazione. Alcuni elementi tipici delle istituzioni totali si trovano anche nelle comunità: - Gestire il potere - Regolare la vita dei singoli e dei gruppi - Assicurare equità di trattamento - Mantenere distacco tra le vite professionali e quelle degli ospiti - Segnare la differenza tra il dentro e il fuori, tra il prima e il dopo del servizio - Richiamare all’autorità giudiziaria come riferimento che fissa le premesse e le conseguenze di quella permanenza Sono elementi che richiedono un’attenzione e una cura costanti. Ci aiutano a comprendere quali significati assumono quegli elementi mentre prendono forma e sostanza sulla scena. Capitano che degli ospiti si arrabbino per gli obblighi della comunità, l’educatore può rispondere in modo istituzionalizzante (bisogna fare così) ma può essere un’occasione per conversare sull’autorità e sul potere, sul fatto che chi li esercita vi è sottoposto a sua volta, sulla possibilità di ottemperare agli obblighi e rispettare i divieti, pur criticandone il senso, con una certa serenità. La genitorialità se pur limitata può essere ancora esercitata dalla donna. Il limite non deve essere colto solo come negativo, ma anche come occasione di apprendimento. Nell’intervento di tutela minori è sempre presente il rischio di proporsi con un’ottica istituzionalizzante. Occorre che il processo riflessivo e auto-osservativo nei servizi tenga conto di due domande: possiamo immaginare che la genitorialità venga esercitata in piena coazione o non dobbiamo perseguire la capacità di autonoma iniziativa? Come facciamo a esercitare i nostri doveri di controllo e le necessità dell’organizzazione promuovendo insieme la libertà nei controllati? Il termine tutela non aiuta, perché la sua origine può indurre a interventi limitanti e chiusi; invece gli interventi per ogni famiglia possono essere pensati non sulla riduzione del rischio, ma sul conoscere la fase che sta attraversando in quel momento, sapendo che sempre possono esserci evoluzioni. È utile promuovere contesti 2 disponibili a dare posto a spiegazioni innovative dell’ordinario che capita. Da un lato c’è la necessità di riconoscere e promuovere le capacità della mamma, dall’altro l’opportunità che l’ingresso in comunità marcasse una differenza con quanto avvenuto prima e fuori. Sono esigenze contrapposte, irrinunciabili per costruire un contesto di protezione dei piccoli e di evoluzione delle famiglie. Riflettere sul processo e non negare i paradossi e contraddizioni che questo genera è l’unica via per non deviare nell’istituzionalizzazione dei servizi de-istituzionalizzati; da qui nascono 3 domande Genitori liberi o coatti? I servizi di tutela sono di solito caratterizzati da un significato coattivo: l presenza del tribunale che obbliga non è secondaria. La forzatura sulla dimensione coattiva non aiuta la famiglia a fare un salto evolutivo; si rischia al contrario di contrapporre due fronti immutabili, ma sottovalutare che ci si trovi in contesti d’obbligo sarebbe una mistificazione. Nelle situazioni obbligate si possono individuare e promuovere comunque degli spazi di libertà. Di solito il giudice prescrive il collocamento in comunità del figlio insieme alla madre o senza di lei, quindi ogni donna in comunità ha scelto di starci, ne è la prova che molti genitori optano per la separazione dai figli. Quando riusciamo a individuare insieme a loro spazi leciti e condivisi di libertà, allora possono fare passi avanti del tutto inaspettati. Si tratta di autorizzarsi alla libertà pur nei contesti limitati, di pensare e organizzare le comunità mamma bambino già prevedendo spazi di partecipazione alle decisioni da parte delle mamme ospiti, e immaginare comunità dove le madri possano pensarsi e vivere la loro genitorialità anche all’esterno, in un quotidiano più livero. Anche la gestione delle regole all’interno della comunità acquisisce un senso molto diverso a seconda di come viene posta. Un regolamento è un insieme di regole fisse e scritte da altri, alle quali ci si deve sottoporre oppure è un patto sottoscritto da tutti con la libertà che a ciascuno è possibile e che può variare nel tempo. Intervenire subito o dare tempo? Nelle comunità mamma bambino arrivano situazioni sempre più deteriorate o cronicizzate. L’istituzionalizzazione e la cronicizzazione sono fenomeni da sempre correlati, scambiandosi il ruolo di causa ed effetto anche a seconda dell’osservatore. C’è spesso il dubbio se intervenire subito con scelte come la separazione o se dare tempo. Posizioni contrapposte sul fare presto e sul dare tempo. È utile porre in relazione la quantità del tempo con la qualità di ciò che avviene in quel tempo, soprattutto nelle relazioni. Di solito la cronicizzazione non è data solo dal tempo, ma anche dal fatto che in quel tempo non si è riusciti a trasformare le relazioni. In questi casi dimentichiamo che intervenire subito non significa per forza sottrarre tempo e porsi in attesa non significa sospendere l’intervento. Categorie di utenza o storie singole da ascoltare? La conoscenza umana non può fare a meno della categorizzazione eppure la consuetudine di predisporre modalità di comprensione o d’azione a partire da categorie di utenza non è stata una strada utile. bisogna liberarsi dell’idea di spiegare i problemi e pensare gli interventi sulla base di categorie di utenza, anche se questa strada sia spesso suggerita da esigenze economiche e/o di rigore. Utile confrontarsi e chiedere a chi sta riflettendo con noi di lOMoARcPSD| 1882907 comprendere come mai la storia che si sta vivendo venga letta proprio a partire da quelle e non da altre possibili categorie. L’esigenza istituzionalizzante di predeterminare le letture su fattori oggettivi difficilmente ha un significato liberatorio e trasformativo. Assume molto più spesso un valore costrittivo. Il cantastorie fuori campo Il vivere insieme felici e contenti per tutta la vita è indiscutibilmente una bella storia che spesso si contraddice con la nostra percezione. Non tutti i personaggi potrebbero raccontarla così, il cantastorie sceglie come raccontarla. Anche nelle situazioni estreme la comprensione e la scelta di intervento non possono che venire attraverso un racconto da fare insieme tra gli operatori e le famiglie. Purtroppo, ci sono situazioni estreme in cui il pericolo per i piccoli è tale che vanno subito messi al sicuro, ma nel tempo di questa storia bisogna pure iniziare a parlare. Dei possibili finali anche lieti occorrerà cominciare a costruire premesse e decostruire illusioni. E magari saranno anche quelli che nella storia hanno il ruolo dei cattivi ad essere di aiuto. Prevedere l’imprevisto negli instabili equilibri Essere in bilico è una condizione che può dirci molto sullo stato precario delle famiglie, ma anche su noi che lavoriamo con esse. Il bilico è la posizione provvisoria di un corpo che si trova in equilibrio instabile (si rischia di cadere). Se noi lavoriamo con l’obiettivo di non cadere mai, saremo incapaci di ogni successo. Sottovalutare gli effetti della caduta potrebbe diventare mortale, nella tutela minori e delle loro famiglie. È opportuno tenere presente che non sappiamo a priori quale sarà l’equilibrio migliore. La tentazione è quella di banalizzare e semplificare pensando 2 che la cosa complicata possa essere tenuta sotto controllo. Aprire spazi di cura di relazioni, capaci di sollecitare, promuovere, osservare l’imprevisto. Si attribuisce nuovo senso a quei legami e si riscopre l’esistenza, si riconosce che la relazione viene prima. Possiamo prevedere che l’imprevisto potrà far luce sui legami presenti e possibili, sarà probabilmente il vero spazio educativo di quella storia. ③ TRACCIARE LE CONNESSIONI: L’ADM COME QUESTIONE DI FAMIGLIA Grazie a questa pratica educativa ci si interroga su questioni epistemologiche di senso e di azione che si rivelano sempre più importanti e decisive. La famiglia è il luogo privilegiato per il benessere dei bambini e rappresenta l’appartenenza e la storia di un essere umano in crescita, la sua identità. La possibilità per l’educatore di entrare in contatto con la famiglia nella sua casa è una risorsa speciale a livello educativo e pedagogico. Interagire con la famiglia nei propri ambienti permette di co-costruire nella quotidianità delle strategie e modalità interattive resistenti nel tempo, in grado di continuare anche dopo l’uscita dell’educatore. La curiosità permette ai percorsi educativi di prendere avvio dalle caratteristiche di quella famiglia, dalla conoscenza della sua storia, con i suoi vincoli e le sue possibilità. L’intervento quindi non può prescindere dal tenere in costante considerazione il sistema di relazioni complessive che dovrebbero offrire appartenenza e benessere a tutti i membri della famiglia. L’ADM è una questione di famiglia in cui tutti sono chiamati a mettersi in gioco (compreso l’educatore, in quanto il suo punto di partenza è la relazione e l’alleanza con la famiglia). CURIOSITA’ E IRRIVERENZA: manifestazione di un acuto desiderio di sapere qualcosa, non per la sua importanza, ma per capriccio; è il desiderio di sapere e di imparare. In questa definizione ci sono due pregiudizi condivisi dalla cultura popolare ovvero l’idea di una curiosità buona che anima il desiderio di conoscenza e l’idea di una curiosità inopportuna che reca fastidio e manca di rispetto. In ambito sistemico Cecchin scavalca entrambi i pregiudizi e regala a chi accoglie il suo invito la possibilità di percepire l’armonia dei sistemi in modo nuovo. L’operatore curioso si prende cura di qualcosa o qualcuno. La cura degli altri parte da quella per sé: la felicità del terapeuta è quella che conta di più; egli deve sentirsi bene per essere curioso. È impraticabile restare neutrali durante la seduta per evitare di condizionare i comportamenti dei membri di una famiglia, e il terapeuta rischiava di apparire freddo e cinico. La famiglia è contenta di avere una persona qualificata difronte, che le fa vedere dove sbaglia e risponde al suo bisogno di capire che cosa sta succedendo. Ma l’esperto che pensa di sapere e classifica la patologia osservata smette di ascoltare e di essere curioso, perché non gli serve cercare altre spiegazioni. Quando stabiliamo di aver trovato una spiegazione, spesso interrompiamo la ricerca di altre descrizioni. È utile avere una curiosità buona che porta a sperimentare e inventare punti di vista e mosse alternativi e che generano curiosità. Di solito rivolgiamo la curiosità buona verso persone, idee o comportamenti che rispettiamo e volgiamo il nostro interesse a tutte le cause che giustificano la nostra mancanza di rispetto. La curiosità fastidiosa agisce per cambiare qualcosa che non ci piace e insegnano alla famiglia un copione diverso. Finché esiste una molteplicità di alternative, siamo in grado di conservare uno stato di curiosità. La curiosità sistemica ci invita a fare un salto: anche nei casi più disperati riconosciamo che il sistema funziona ed è vivo. Si tratta di comporre due posizioni: quella di aiutare l’istituzione a svolgere la sua funzione di controllo e contenere la sofferenza del sistema, insieme a quella che accetta il sistema per quello che è. Invece di dare consigli l’operatore curioso cerca di capire il messaggio, seguendo l’idea basilare che tutti i comportamenti sono messaggi. Il pregiudizio sistemico afferma che se un sistema esiste vuol dire che qualcosa funziona. La curiosità ci fa cercare ciò che tiene insieme questo sistema. Il processo di ipotizzazione favorisce la ricerca continua di descrizioni e spiegazioni diverse, anche quando sembra impossibile immaginarne altre. Se ci sentiamo incapaci di sviluppare lOMoARcPSD| 1882907 narrazioni è la storia della famiglia e le modalità con cui si racconta. Interagire con una famiglia partendo dalle sue risorse e capacità può apparire a un educatore più faticoso perché implica che siano in relazione e cerchino di generare un’alleanza, non facile da sostenere e portare avanti. Anche l’educatore è chiamato a interrogare sé stesso, a mettersi in discussione, a modificarsi e questo genera sofferenza e fatica. L’operatore sistemico sa che c’è un’interdipendenza tra tutte le parti, ogni componente del sistema dà senso all’intervento educativo a partire dalle proprie premesse. Le possibilità di un percorso dipendono dal processo co-evolutivo che si genera nel tempo, tra tutti gli attori coinvolti. Una famiglia che si sente conosciuta diventa un insieme di persone che si sentono legittimate a chiedere aiuto quando hanno bisogno, senza sentirsi giudicate. Tutti gli attori devono stare bene e concorrere a costruire nuove storie agendo. ④ COMPORRE I LEGAMI MESSI ALLA PROVA DAL CARCERE Quando un genitore viene arrestato passano, ci vorrà del tempo prima che riprendano i contatti e che si abbiano notizie dell’altra persona. L’arresto del genitore è un momento che spezza i rapporti e mette in pericolo i legami, e le vittime principali sono i figli e il nucleo familiare, violato nella sua interezza e organizzazione. Il carcere sembrerebbe non consentire alcuna ricomposizione dei legami che si interrompono, eppure questo intervento è necessario e vitale, soprattutto per i figli che devono poter mantenere i contatti con il genitore, capire cosa è accaduto, ritrovare i punti cardinali per orientarsi e fare le proprie scelte quando sarà il momento; ma anche per il genitore che resta a occuparsi della famiglia rimasta orfana e senza sostegno economico. Il progetto di cura possibile e necessario è il ricongiungimento: immediato (colloquio in carcere) o lontano (ritorno a casa). La carcerazione determina una catena di eventi che la famiglia subisce e vive spesso in solitudine. La pratica compositiva lo è per diversi piani psico-socioeducativi che integra, lo è nell’obiettivo concreto di riconnettere i legami interrotti. Lavorare nel carcere è un buon esercizio per l’ascolto e la cura dell’altro e di sé. La composizione assume il valore di prevenzione sociale e protezione dei diritti dell’infanzia; tra cui il mantenimento dei legami con i genitori, diritto non sempre rispettato dal carcere in quanto luogo di contrasti e conflitti. Il carcere radicalizza tutti i temi della famiglia che incontriamo anche fuori, estremizzandoli. Il contesto istituzionale: il carcere e le sue leggi Sono migliaia i bambini che entrano in carcere ogni anno per incontrare un genitore detenuto. Di solito il colloquio dura un’ora e può ripetersi 6/8 volte al mese. Il colloquio è un momento prezioso e cruciale per la cura del legame, per questo le istituzioni devono fare in modo che avvenga nelle condizioni migliori. La detenzione ha una ricaduta sociale estesa, coinvolgendo anche una parte della società civile e le istituzioni locali. La famiglia è un sostegno affettivo importante durante la detenzione, e l’ambito in cui la persona detenuta può trascorrere parte della pena quando vengono adottate misure alternative al carcere, quindi la conoscenza, la tutela e la valorizzazione della rete primaria di relazioni del detenuto sono importanti. Negli istituti di pena uno degli obiettivi è la promozione della responsabilità genitoriale, se pure con motivazioni che non riguardano subito le conseguenze per i figli, ma soprattutto il buon esito del cosiddetto patto trattamentale mirato al miglioramento del clima e la sicurezza dentro il carcere. Il recupero della relazione con i figli aiuta i detenuti a ritrovare la motivazione al cambiamento attraverso l’assunzione di responsabilità. La legge 354 marca il passaggio da un sistema repressivo al riconoscimento della finalità rieducativa e risocializzante della pena. Le tappe di riforma successive segnano un’attenzione per le misure alternative alla detenzione. La legge Finocchiaro ha introdotto la detenzione domiciliare speciale per le madri con figli al di sotto dei 10 anni, anche per pene superiori a 4 anni purché non ci sia la possibilità di commettere altri reati e sia stato scontato 1/3 della pena. Inoltre, questa legge ha permesso anche l’uscita diurna dal carcere con rientro la sera, per recarsi a lavoro, aggiungendo del tempo di permanenza esterna per accudire i figli minori anche in assenza di un lavoro. C’è stata più attenzione al mantenere il rapporto genitori-figli, ed è stata fatta una legge di modifica nata dall’esigenza di far uscire i bambini dal carcere senza separarli dalle madri; questa modifica consente alle madri di bambini fino a 6 anni di scontare la pena in un luogo diverso dal carcere. In mancanza di alternative i bambini possono vivere con la mamma fino ai 3 anni, poi viene imposta la separazione forzata che assume tutte le caratteristiche di un evento traumatico. Un intervento a più livelli L’intervento di Bambinisenzasbarre combina due dimensioni: 1 la responsabilità contenuta nel mandato istituzionale e il rispetto dei suoi vincoli, la flessibilità e creatività dell’appartenenza al privato sociale, con la possibilità di fare ricerca, innovazione e sperimentazione nel lavoro di cura. Appare senza mediazioni possibili, invece essa è lo strumento da usare nello scambio relazionale con i genitori detenuti e i loro cari, con il personale penitenziario e con gli altri operatori. Una mediazione che consente di affrontare la specificità della comunicazione che si attiva in questo contesto. L’esperienza del carcere è l’esperienza della separazione che tocca corpo e mente. I figli diventano l’anello 2 debole di una catena di eventi lOMoARcPSD| 1882907 che li priva della risorsa affettiva più importante. È molto influente e cruciale la relazione con i genitori in tutti i passaggi di sviluppo, sul piano affettivo, cognitivo e morale. Il mantenimento della relazione durante il periodo di carcerazione è riconosciuto come diritto del bambino al legame fondamentale per crescere come diritto-dovere del genitore ad assumersi la responsabilità e continuità del suo ruolo. La tutela della relazione consente alla persona detenuta di recuperare un’identità genitoriale persa o a rischio. Si riconosce il bisogno di continuità del legame affettivo per tutte le persone coinvolte. Vengono fatti degli interventi di prevenzione sociale in quanto il figlio di un detenuto ha maggiori probabilità di trovarsi in conflitto con la legge e di ripetere l’esperienza del genitore. Si individua un percorso di accompagnamento e di sostegno psicopedagogico alla coppia genitore-figlio nel suo sistema di relazioni; si privilegia il diritto del figlio al mantenere la relazione e a favorire l’inserimento nel tessuto sociale. Prendersi cura della rete di relazioni significa costruire una rete nelle reti, dedicata al mantenimento del legame tra genitore e figlio. La cura dei legami in carcere: temi emergenti L’arresto della madre determina la rottura della relazione primaria e il collocamento in comunità del bambino, poiché si tratta spesso di donne sole, senza compagni o rete familiare a cui appoggiarsi. Dentro il carcere la relazione madrefiglio è molto intensa, quasi esclusiva. La questione femminile è uno dei primi temi a emergere: a San Vittore le detenute politiche insieme a un gruppo di detenute comuni furono impegnate in un lavoro di sensibilizzazione istituzionale; e anche per merito di queste lotte sono state approvate leggi penitenziarie in tema di figli che sono considerate molto avanzate in Europa, pur non risolvendo il problema della separazione forzata e traumatica nella prima fase (più delicata). L’intervento tempestivo di ricomposizione della comunicazione può essere determinante. Colpevoli e innocenti: la persona non è il reato; il carcere è un’istituzione totale connotata da regole e vincoli molto forti, che vanno superati per poter intraprendere un processo di consapevolezza che richiede sempre un certo grado di libertà o un uso creativo dei vincoli. Si crea l’automatismo che chi è dentro è colpevole e chi è fuori è innocente. La verità raccontabile: la persona che incontriamo in carcere ha un figlio assente, che si cerca di rendere presente. È un bambino che spesso non conosce la verità sulla condizione del genitore, ma questa può essere appresa solo all’interno dei canali familiari. Il nostro compito è sostenere il processo di consapevolezza sulla verità raccontabile, da parte del genitore in carcere e della famiglia fuori da esso. È un compito difficile perché ogni famiglia ha le sue strategie, il suo percorso possibile per far fronte all’esperienza della detenzione di un congiunto. Marie France Blanco sostiene che il primo passo sia quello di dire ai bambini la verità sui propri genitori con parole per loro accessibili, perché sono perfettamente in grado di capire cosa sia la legge in quanto anche loro sono sempre sottoposti a regole da rispettare, così come i genitori devono rispettare la legge e che sono non lo fanno vengono puniti come i bambini. Bisogna dire loro che la prigione pone dei limiti alla libertà di una persona ma non all’affetto e all’amore. Per loro è importante essere consapevoli che i loro genitori li continuano ad amare. Il silenzio e le bugie rendono impossibile crescere liberi. Quando si cancella un genitore, i legami diventano catene. Gli effetti della separazione: il genitore smette all’improvviso di essere un riferimento nella vita del figlio, e così lo incatena in un legame di lealtà che può far diventare tradimenti le sue libere scelte. L’interruzione del legame crea un disorientamento angoscioso, sentimenti di abbandono o rifiuto, fantasie nelle quali i genitori sono idealizzati o demonizzati. Ogni caso va valutato singolarmente perché ci sono molte variabili che intervengono (età de figlio, lunghezza della pena, dinamiche familiari, stabilità di coppia…). Se il bambino lo percepisce come un abbandono può essere sopraffatto dalla paura, dal risentimento e dalla rabbia, emozioni che esprime in modo esagerato fino a veri e propri sintomi. Quando i bisogni fondamentali del bambino sono frustrati e viene impedito di esprimere ciò che prova, il genitore diventa persecutore. La relazione evoca il rischio della perdita e ogni tentativo di affettività è svalutato. Il bambino che si sente abbandonato non si sente meritevole di amore, e cattivo. Emozioni contrastanti: il bambino è spesso arrabbiato, fatica a esprimere questo sentimento, il suo disagio non sempre viene compreso dai familiari. Le strategie di dissimulazione e negazione delle emozioni trasformano la naturale sofferenza in disadattamento. Aiutare a comprendere il comportamento incoerente dei figli è l’intervento primario per salvaguardare la relazione tra genitore e figlio, ma coinvolge tutto il nucleo familiare. Prendersi cura del legame genitoriale: il processo d’intervento Un genitore detenuto non è per questo un cattivo genitore ed è comunque il genitore con cui il figlio deve fare i conti per crescere (Sanna Mantovani). Spesso si ritiene che un carcerato non possa essere un buon genitore, invece se i 2 reati non riguardano la sua genitorialità sono considerati dei genitori sufficientemente buoni che hanno bisogno di essere aiutati a trovare la legittimazione del proprio ruolo. Separarsi dai figli significa sparire dal rapporto quotidiano e dalla rete sociale di riferimento. Perde le proprie prerogative di genitore e di adulto che ha potere d’azione e influenza sulla vita del figlio. Scegliere di relazionarsi alla persona e non al detenuto rende possibile lo scambio relazionale in un clima di rispetto reciproco. Nel processo d’intervento ci sono linee guida e approcci teorici che vengono costantemente messi alla prova e integrati da nuovi contributi. Il processo d’intervento si definisce come la realizzazione di un percorso strategico di lOMoARcPSD| 1882907 informazione, formazione, sensibilizzazione, come intervento di prevenzione sociale per i minori e la famiglia che coinvolge la rete interna del carcere e quella esterna sul territorio, per una presa in carico in un’ottica di cura dei legami relazionali e affettivi, finalizzati a mantenere il minore in famiglia. AZIONI DI CURA DEI LEGAMI: 1. Accoglienza dei bambini e degli accompagnatori nello spazio giallo, setting allestito per l’attesa, camera di decantazione delle emozioni e colloquio con il genitore detenuto 2. Intercettazione delle situazioni sommerse e presa in carico dell’intero nucleo familiare 3. Accompagnamento dei figli al colloquio, per consentire riservatezza solo alla coppia genitore-figlio 4. Gruppi di parola nel carcere, laboratori sulla genitorialità per la rielaborazione di temi e problemi comuni rispetto al proprio ruolo, in prospettiva di un progetto di re-inserimento 5. Punti di ascolto: colloqui individuali di sostegno al genitore, da cui parte il percorso di accompagnamento e presa in carico 6. Attivazione della rete interna all’istituzione: al centro l’interesse del figlio come soggetto da accogliere in modo adeguato in base ai suoi diritti e bisogni 7. Interventi di scambio informativo tra gli operatori e di sensibilizzazione degli agenti di polizia penitenziaria 8. Attivazione dei rapporti con la rete esterna al carcere 9. Azioni di sensibilizzazione e informazione rivolte alla società civile con l’intendo di modificare lo sguardo sul genitore detenuto, perché possa essere considerato cittadino a pieno titolo e destinatario dei servizi alla persona Spazio Giallo: l’accoglienza del bambino e della famiglia in carcere Lo spazio giallo è un luogo creato appositamente per l’accoglienza dei bambini che si preparano al colloquio. Uno spazio integrato socioeducativo, di gioco e di relazione, per uscire dall’anonimato che il carcere innesca. Gli operatori ne curano il setting facendo attenzione alle età e alle esigenze dei bambini per favorire la condivisione e la socialità. La cura dello spazio è un segnale di attenzione verso i bambini e adulti, uno stimolo a prendersi cura a loro volta di un luogo pensato per loro. Le relazioni vengono incentivate, favorendo l’interazione tra età e culture diverse, ascoltando le emozioni. Gli educatori prestano attenzione al processo più che il prodotto, per far vivere ai bambini momenti leggeri e relativamente liberi da aspettative. Questo spazio avvia il processo di intervento e dunque Connette l’interno e l’esterno tra istituzione totale e la vita reale. l'attenzione è tanto per i bambini quanto per i loro accompagnatori. Lo spazio giallo è uno spazio intermedio, che 1) Tutti i bambini possono giocare  un comportamento vivace o timido non comporta l’esclusione; se è turbolento, aggressivo o litigioso l’accompagnatore parteciperà all’attività per facilitarne l’inserimento, i bambini timidi non subiscono pressioni, ma si cerca di coinvolgerli rispettando le loro modalità, in quanto ogni bambino ha i suoi tempi 2) Evitare l’assistenzialismo  l’intervento è volto a sostenere l’azione dell’altro, senza creare dipendenza; non ci sostituiamo al genitore, ma lo invitiamo a fare le sue scelte, offrendo strumenti da usare in autonomia 3) Favorire il gioco di gruppo, giocare rispettando le regole  i coetanei vivono la stessa esperienza e possono sentirsi meno diversi e soli, scambiare conoscenze ed emozioni, anche se raramente parlano della detenzione. Le mamme sono permissive, e si invitano i bambini al rispetto delle regole per vivere l’esperienza con gli altri in modo sereno e preventivo 4) Nessun dialogo imposto  l’obiettivo è offrire un luogo sereno e a misura di bambino quindi non li forziamo mai a Dall’osservazione sistemica degli aspetti di efficacia di criticità abbiamo rilevato che: - I bambini vivono Questo spazio come un luogo in cui sono pensati e protetti, dentro al carcere, che non comprendono e di cui gli adulti non rivelano l'identità - i bambini possono parlare, dando voce forma le loro emozioni e sapendo che qualsiasi cosa dicano potrà essere accolta. l'attenzione non verbale e le attività ludiche creano un clima pensato con attenzione, compensa in parte le conseguenze di un ambiente familiare in difficoltà - per le famiglie questo spazio è una risorsa, la consuetudine e la fiducia negli operatori permette di rivolgere domande e dubbi, avanzare richieste, fino a considerarlo uno spazio di consulenza. - Si viene a conoscenza delle diverse modalità con cui le famiglie affrontano l'esperienza detentiva. Soluzioni di adattamento per ritrovare l'equilibrio. quando la detenzione viene accettata si innesca un processo di integrazione di questa realtà in una nuova quotidianità oppure avviarsi l'ingresso nel disagio sociale conclamato UN DECALOGO PER LO SPAZIO GIALLO: ecco alcune regole generali lOMoARcPSD| 1882907 lOMoARcPSD| 1882907 quanto categorizza la situazione familiare offrendo una codifica che per gli operatori appare chiara, ma fa perdere di vista l’originalità e la peculiarità della situazione che sta vivendo questa famiglia. Porta a chiudere la curiosità, l’immaginazione, la fantasia dell’operatore, ed è il problema di ogni diagnosi. L’azione deliberata Per favorire il cambiamento dobbiamo creare un contesto e introdurre azioni che producono nuove possibilità di vedere. Caruso propone la pratica dell’altravisione per mettere le persone in nuove posizioni rispetto a sé, alla propria storia ed emozioni, alle proprie relazioni. Lo scopo non è cambiare la persona o il comportamento, ma costruire insieme possibilità di assumere novità che si affianchino al noto assumere una nuova prospettiva. ALTRAVISIONE/SUPERVISIONE: Caruso propone un cambiamento di cornice nel comune modo di intendere la supervisione. La supervisione è effettuata soprattutto da psicologi e psichiatri come a confermare che il sapere psicologico sia più utile. In molti problemi portati in supervisione potrebbe essere utile lo sguardo di un pedagogista, un formatore, un consulente o altro. La supervisione stabilisce una gerarchia e rischia di aumentare rivalità e conflitto nei colleghi e tra professionalità. La relazione asimmetrica alimenta l'atteggiamento passivo dell'operatore che cerca risposte e dà potere al supervisore, legato alla sua presunta capacità di saperne di più. Nasce la scelta di usare una nuova parola: altravisione. È utile evocare una complementarietà di aree dove sono in gioco professioni, discipline dei modell i differenti. utile perché permette di introdurre differenti punti di vista che arricchiscono il gruppo di lavoro e favoriscono il processo di sviluppo Generare differenze a partire da ciò che si vive, si prova e si pensa, è un passo verso un autentico apprendimento. Massimo rifiuta di incontrare il padre ma emerge la sua sofferenza. Si vuole evitare di forzare il bambino a incontrarlo in quanto sarebbe controproducente. È stato fissato un incontro ogni 10 giorni. L’esternalizzazione incoraggia le persone a oggettivare e personificare i problemi che sentono opprimenti. In questo processo il problema diventa un'entità separata e quindi esterna alla persona. Portando fuori di sé il caos, disegnandolo e nominandolo, massimo può spostare il conflitto dalla figura del padre alla dinamica di relazione in cui è inserito. Costruisce con l'operatore una storia fatta di parole e immagini. Massimo trasforma i suoi simboli iniziali, Si avvia verso uno scenario più complesso e articolato. Pasta da ‘è tutta colpa del papà’ a ‘i miei genitori non sanno essere felici’. Nella storia emerge il movimento, si mobilitano e cooperano per trovare una soluzione e riescono a riutilizzare gli effetti negativi vissuti trovando ingredienti inaspettati. Moltiplicare le storie significa proporre nuove punteggiature e versioni della realtà che arricchiscono, integrano le versioni iniziali statiche chiuse su sé stesse. I genitori dopo aver ricevuto la storia accetta l'invito di incontrare gli operatori per parlarne. È la prima volta che si vedono fuori dal tribunale e con fatica parlano del dono del figlio. Iniziano a domandare e domandarsi, si concentrano sulla soluzione e non sul problema. La madre parla delle difficoltà di stare con l’ex, ma non lo accusa e interroga sé stessa. Pensa di riversare sul figlio la separazione. Il padre e sorpreso dalle capacità del figlio ma sembra ottimista per il futuro. il fine e la cura delle relazioni in funzione dei desideri, bisogni, valore, obiettivi dei partecipanti. Il tribunale ha decretato il padre come vincitore e torna la competizione e il conflitto. Allargare il contesto: nuove ipotesi sul conflitto Finora questo conflitto era apparso come interno al nucleo familiare. Propongo un contatto mediato ovvero un incontro tra padre e figlio attraverso il diaframma dello specchio unidirezionale. Propongo massimo di costruire il Genogramma familiare, una rappresentazione dell'albero genealogico per registra informazioni sui membri di una famiglia nel suo le loro relazioni nel corso di tre generazioni appunto mette in evidenza graficamente le informazioni della famiglia in modo da offrire una rapida visione d'insieme dei complessi pattern familiari. Lo Sollecito con alcune domande e si nota che il conflitto che coinvolge tutti i membri della famiglia e tutte le generazioni. massimo non vuole essere un traditore per la madre. gli viene chiesto di disegnare due blasoni familiari con rappresentazione grafico simbolica dei valori di una famiglia ed inserire disegni parole. Anche il padre fa lo stesso i due si confrontano. Le dinamiche delle due famiglie alimentano i conflitti. Il tribunale civile fa vincere il padre, la madre si arrabbia e il bambino non va più al servizio. La storia si conclude così. Attraverso il conflitto in modo generativo È una storia difficile e che non ha ancora una ricomposizione, ha messo in difficoltà l'operatore e il servizio. Si cercano sempre nuove possibilità, ma non si ha a disposizione la soluzione. Ognuno può avere imparato qualcosa donna situazione. L'ampliamento dello sguardo permette di vedere il carattere sistemico del conflitto. Non basta allargare lo sguardo, occorre posizionarsi continuamente rispetto a ciò che si vede il contatto con premesse diverse, sentire lo scontro e utilizzarlo come occasione di autoconsapevolezza. Si interviene per decreto su un equilibrio trovato da una famiglia e che però viene valutato come lesivo dei diritti di un bambino e disfunzionale per la sua crescita. E utile porsi delle domande. Occorreva convincere i genitori a comportarsi da adulti responsabili, smettendo lOMoARcPSD| 1882907 di coinvolgerlo nel loro conflitto. questo bambino ha raccontato bellezze limiti dei suoi genitori con saggezza. ho ri posizionarsi rispetto ai principi che hanno fondato l'intervento può sorgere domande nuove. È utile correggere la tendenza che tutti abbiamo a entrare nei conflitti con un arsenale di idee che potrebbero alimentarli o generare altri conflitti. Soppesare le idee osservare come interagiscono nella danza dei differenti sistemi che incontrano. check in consigliava di abbracciare le proprie premesse senza considerarle verità eterne, ma vulnerabili al cambiamento, proponeva curiosità come posizionamento sempre in divenire, nel tentativo di evitare il rischio di affezionarsi a idee perfette e pronte a confliggere con quelle della famiglia. posizionarsi è la premessa indispensabile per imparare a saper stare nell’incertezza, ad accogliere l'inedito e il conflitto che da qui scaturisce non come elemento negativo, ma come occasione per una crescita professionale che può provocare trasformazioni positive nell’agire. ⑥ COSTRUIRE CONSAPEVOLEZZA NELLA RELAZIONE CON LE FAMIGLIE Lavoro con gli adolescenti? Ci sono genitori che ti succhiano l’energia, e sono insistenti o ti mettono in difficoltà. Dopo qualche tempo, ti accorgi che il lavoro educativo con gli adolescenti non è come te lo aspettavi, perché bisogna tenere conto anche della loro famiglia. Questa consapevolezza trasforma in modi inediti l’azione degli educatori. L’educatore entra sempre in interazione con sistemi, anche se non sempre ne è consapevole; diventa parte di un sistema di cui tenta di conoscerne la complessità e in cui promuove azioni rivolte a qualche forma di cambiamento. Come si diventa consapevoli del nostro modo di conoscere i sistemi? Cosa rivelano di me le esperienze educative che vivo? Quali pratiche (pensiero, corpo, emozioni) mi permettono di sentirmi e pensarmi, ascoltarmi come parte del sistema? Che ruolo hanno le mie aspettative e cornici di riferimento ricevute dai sistemi quando mi approccio alla famiglia? È utile cercare il filo conduttore e l’auto consapevolezza che permette di conoscere sia il nostro stato d’animo sia il pensiero su di esso. Il legame tra conoscenza di sé e rapporto educativo ha solide fondamenta. “se non riuscirai a trovare dentro te stesso ciò che cerci non potrai trovarlo nemmeno fuori” (oracolo di Delfi). La conoscenza del mondo e di un sistema complesso tra famiglia e operatore non può prescindere dallo studio della mente che conosce e dei suoi condizionamenti. Il sapere dà più sapore alla vita e alle nostre relazioni educative. EMOZIONI: siamo abituati a connotarle come sentimenti, fenomeni intrapsichici, qualcosa che riguarda l’intimità e la sensibilità del singolo individuo. Oggi è riconosciuto che le emozioni sono un fenomeno complesso, relazionale, cognitivo, corporeo ed etico. Per costruire la teoria sistemica delle emozioni, ne si ricostruisce la storia. Fino all’800 il termine emozione indicava un movimento (tumulti del popolo), oggi indica la passione: un patimento fisico, un dolore morale, pena, sofferenza, un sentimento capace di dominare l’intera personalità dell’individuo. La parola passione evoca la passività di essere vittima degli eventi. L’emozione compromette le capacità intellettive e rende l’uomo debole. Un fenomeno che altera certi parametri fisiologici, una risposta disorganizzata che interferisce con il buon funzionamento della ragione e dell’azione. Mito delle passioni interne, legato alla metafora del corpo come contenitore. I fenomeni emotivi vengono separati dal contesto che li ha generati e che li alimenta. Per Bateson considerare le emozioni espressione di uno stato interno è servirsi di un principio dormitivo, secondo lui per i mammiferi le emozioni sono strutture di relazione. Il secondo mito considera il soggetto un’entità autonoma, composta da una parte emozionale e una razionale. Per lui separare l’intelletto dall’emozione è una cosa mostruosa, le emozioni sono pensiero, e seguono algoritmi raffinati e complessi da non poter proiettare sullo schermo della coscienza. Quando siamo perturbati diamo un nome a qualcosa che presumiamo essere dentro di noi e ne costruiamo teorie attraverso la narrazione. Ma le emozioni narrate differiscono dalle emozioni narranti, che rimangono inconsapevoli e definiscono la natura e il significato delle emozioni narrate. Quando la nostra attenzione vigile si sposta sulle emozioni narranti per farne oggetto di discorso esse diventano emozioni narrate. Il vocabolario definisce l’emozione come uno stato psichico affettivo e momentaneo che consiste nella reazione dell’organismo a percezioni o rappresentazioni che turbano l’equilibrio. La teoria relazionale delle emozioni implica la considerazione che le emozioni non sono mai solo interne ma sempre interne-esterne. Non reazioni a stimoli esterni, ma azioni effettive volte al mantenimento di cornici di significato che danno forma ai processi comunicativi entro i quali esse emergono. Le emozioni sono interattive e danno forma alle relazioni cui partecipiamo; le emozioni hanno natura biologica, sono disposizioni corporee dinamiche che differiscono i distinti ambiti di azione all’interno dei quali ci muoviamo. Il centro diurno “vivi ciò che sei” “il filo conduttore che anima il percorso della vita è la certezza che in ogni uomo vi sia un potenziale inespresso che aspetta solo di essere risvegliato” (P. Paoletti). Il centro in questione accoglie utenti solo dietro invio dei servizi sociali, quindi la gravità delle situazioni familiari è tale da prevedere un intervento dei servizi, ma non così grave da richiedere l’allontanamento del minore dalla famiglia. Il servizio prevede interventi di medio o lungo periodo caratterizzati da una metodologia educativa basata sul lOMoARcPSD| 1882907 gruppo, mantenendo una presa in carico individuale, attenta ai bisogni specifici dei singoli nuclei familiari. Non è possibile superare una situazione di disagio senza lavorare a livello sistemico. L’azione educativa con le famiglie si configura sia come educazione al ruolo genitoriale, sia come orientamento alle risorse del territorio e si esplicita attraverso contatti telefonici e incontri di verifica. Si ispira ai principi della Pedagogia per il Terzo Millennio (PTM) e alla base di tale approccio c’è l’idea che è necessario educarsi per educare; si configura come un terreno di ricerca che le equipe educative svolgono, grazie anche alla partecipazione a un intenso programma di formazione continua. Crescere con le famiglie Sono stati intervistati 6 educatori che hanno fatto parte di questo centro per 6 anni. Lo scopo è dare voce all’esperienza degli operatori con un invito alla riflessività. Questo permette di evidenziare alcuni aspetti del lavoro con le famiglie: 1. Interagiamo con sistemi  Sergio racconta di Sandro, un ragazzo corazzato che amava bullizzare i suoi compagni. Per la prima volta sente la presenza della sua famiglia. L’educatore è parte di un ampio sistema di relazioni entro il quale interviene, e l’’intervento da lui condotto può avere effetti che vanno oltre il bambino. Questo episodio è un esempio di retroazione omeostatica del sistema famiglia rispetto alle azioni condotte dagli educatori. Il primo approccio è quello di una famiglia assente: in cui non è in alcun modo considerata nella cornice di riferimento con cui si guarda al minore. È un nodo cruciale per i servizi ai minori la capacità di includere la famiglia originaria nel percorso educativo. Si cerca il contatto con tutto il nucleo per non escludere mai, ma per avvicinare e tenare di dare una nuova immagine alle persone spesso stigmatizzate. Emerge una difficoltà di comunicazione, una trama di diffidenze reciproche che finisce per vedere contrapposte figure educative quotidianamente e faticosamente impegnate a realizzare la cura educativa. Quando nelle comunità i genitori sono gli abusanti e i trascuranti, è difficile trovare un pensiero che vada al di là della stigmatizzazione. 2. Fare silenzio  quando ci sono scontri tra opposte visioni: la mamma vede la situazione come una minaccia per il figlio, e l’educatore vede i progressi che lui sta facendo, spesso le cornici di senso di educatori e genitori non coincidono, e due interpretazioni diverse conducono a un conflitto. Spesso l’operatore ha sensazione che la famiglia ostacoli il loro lavoro, e questo è un atteggiamento non produttivo. A volte l’educatore è deluso perché scorge nella domanda della famiglia un mancato apprezzamento per il lavoro svolto. Il genitore contiene il passato del ragazzo, mentre l’educatore punta al futuro; queste due dimensioni devono integrarsi in uno sguardo comune, condiviso, che considera le radici del mino e la bellezza dell’albero che può diventare. I conflitti sembrano inevitabili, ma sono tappe di un percorso compiuto assieme alla famiglia, durante il quale avviene la scoperta dell’altro e dei propri limiti. La svolta avviene con la consapevolezza dei propri meccanismi reattivi, a cui segue la ricerca di un ascolto più profondo. Arriva il momento in cui dobbiamo fare silenzio e ascolta il genitore, fino a quando la loro rabbia e rancore si consuma abbassando i toni, dato che non reagiamo, a quel punto possiamo inserirci in una direzione diversa. Il genitore inizierà ad ascoltare, senza giudizio, accusa o rabbia. E insieme si può costruire un nuovo percorso. 3. Trovare la posizione, né troppo né troppo poco  nell’interazione educativa accade di fare troppo o troppo poco. L’atto educativo è frutto di un posizionamento fisico e mentale, fatto di emozioni e pensieri. Gli educatori in diverse occasioni si sono accorti di fare troppo con le famiglie e di non aver avuto una corretta posizione. Consiste in una serie di azioni che sono risposte automatiche al senso di bisogno e necessità che una famiglia evoca. È solo con la riflessione in equipe che si prende consapevolezza dell’automatismo e riesce a introdurre tra lo stimolo famiglia e la risposta automatica di comprensione che permette un’azione intenzionale. Trovare la giusta posizione permette di orientare la naturale propensione all’altro entro un percorso studiato e condiviso, in cui è possibile ristabilire i giusti confini rispetto alle richieste della famiglia. Questo non posso farlo, ma posso fare quest’altro. 4. Famiglie disfunzionali  quasi tutti gli educatori riconoscono di avere avuto un pregiudizio molto forte nel primo approccio con le famiglie, in quanto già dai servizi sociali, la famiglia può essere dipinta come un nucleo negativo da cui è necessario allontanare il minore. Agli occhi degli educatori la famiglia diventa il luogo dove si rovina il lavoro fatto al centro. Gli educatori si sono accorti che questa rappresentazione poneva grandi limiti alla loro capacità di azione. È cruciale lavorare in gruppo con l’equipe e la supervisione. Senza lo sguardo dell’altro e senza il confronto di idee è molto difficile riconoscere i propri pregiudizi e schematismi mentali. Spesso il pregiudizio si scioglie dopo un rapporto approfondito con la famiglia. Juul afferma di non aver mai incontrato dei genitori e dei figli che non si amassero, ma di aver incontrato molti genitori e figli incapaci di trasformare i loro sentimenti di amore in un comportamento che lo esprima. La risposta alle delusioni è la speranza, la capacità di rinnovare la propria fiducia nelle possibilità di miglioramento delle persone. Un pregiudizio complementare è quello di avere uno sguardo troppo ingenuo sulle dinamiche familiari, soprattutto in situazioni di violenza che avvengono in casa, quindi l’idealizzare a priori la famiglia come porto sicuro. lOMoARcPSD| 1882907 migliorare l’insieme. ⑦ FARE SPAZIO E DARE VOCE: L’INCONTRO CON I FAMILIARI IN UN SERVIZIO PSICHIATRICO TERRITORIALE Storia di Anna, che smette di andare al centro diurno psichiatrico, così gli operatori vanno a trovarla a casa, è tornata con sua figlia a vivere con la madre dopo che si è separata dal marito. Anna quando li vede si chiude in camera. Allora gli operatori restano a parlare con la madre, la quale racconta le sue fatiche e le sue difficoltà nel gestire la situazione e il carattere della figlia. La madre racconta episodi di vita già noti agli educatori, ma con significati diversi, rivelando una fragilità e un’autenticità dissonanti dagli schemi nei quali gli operatori hanno classificato questa famiglia. Nelle narrazioni di Anna la madre è petulante, critica, incapace di riconoscere il lavoro fatto nella struttura, è un familiare troppo presente negli spazi istituzionali, ma non era mai riuscita a esplicitare una richiesta di aiuto. Gli educatori non avevano mai provato una tale empatia nei suoi confronti. Questo episodio ha dato la possibilità di riflettere sul fatto che nei progetti e nelle pratiche di cura del servizio mancano degli spazi per la famiglia. Mancano luoghi in cui un familiare possa dare voce alle emozioni, ai desideri, alla propria storia che non sempre coincide con quella del paziente. Così pensano uno spazio fisico e mentale da dedicare alle famiglie, uno spazio di ascolto in cui l’attenzione non è sulla malattia e sulla diagnosi, MA sul vissuto dei familiari, sull’interazione tra la malattia e il significato che la famiglia le attribuisce e sulla possibilità di trovare un senso, una prospettiva che possa rendere l’esistenza di nuovo sostenibile. Parte così il progetto Famiglie, partendo con ciò che viene inteso per famiglia. L’idea di progettare nel servizio un intervento pedagogico che offra ai familiari un luogo da co-costruire e in cui trovare le parole per narrare il dolore, parte dal presupposto che la famiglia è il luogo in cui il paziente vive e del quale condivide le dinamiche relazionali. È a partire dalla propria storia familiare che si costruiscono e si attribuiscono significati alle cose, agli eventi e alle persone, la famiglia è il palcoscenico dove mettiamo in atto gran parte dell’esistenza. La famiglia nella vita del paziente è una presenza ineluttabile e irrinunciabile sia nel bene che nel male: è inevitabile appartenere a un gruppo in cui si nasce e si vive, ciò che accade in tale gruppo influenza e determina le vicende individuali. Per questo di fronte alla malattia (soprattutto psichiatrica) è quasi sempre la famiglia che si fa carico dell’assistenza e delle cure necessarie alla sopravvivenza del paziente. DIAGNOSI: processo di identificazione di una malattia in base a sintomi o segni. Implica la descrizione dei sintomi al fine di dare un nome e classificare la malattia in base a schemi di categorizzazione convenzionali. La diagnosi è un atto di giudizio e di spiegazione, è obbligato perché il medico possa stabilire una cura e ristabilire l’equilibrio perturbato dalla malattia. Nel manuale diagnostico fino a qualche anno fa rientrava l’omosessualità come una malattia, nell’edizione successiva è stata tolta e di colpo milioni di persone sono guarite. Prima di esprimere un’opinione su quello che si osserva bisogna essere. sicuri. La diagnosi diventa una descrizione a cui l’osservatore attribuisce valore di verità. Boscolo e Cecchin considerano la diagnosi come il modello di ogni spiegazione lineare-causale: “l’uomo in quanto animale semantico ha bisogno di costruire definizioni di cos’è e cosa non è” (Boscolo e Cecchin, 1988, p.20). Le persone si definiscono reciprocamente attraverso un procedimento analogo; definiscono anche la realtà esterna: è una necessità di sopravvivenza il conoscere o credere di conoscere l’ambiente. L’uso del verbo essere attribuisce valore di essenza e di stabilità a quello che invece è un giudizio parziale relativo a una posizione dell’individuo nel sistema. La diagnosi in ambito medico e psichiatrico tende a diventare un concetto senza tempo, totalizzante, che reifica i comportamenti e posta con sé un significato di irreversibilità nella storia della persona. Un paziente psichiatrico finisce per essere inchiodato a una realtà rigida e violenta in cui tutto sembra inamovibile. A un primo livello la diagnosi può avere senso di garantire l’attività del curante e orientarne il progetto di cura: senza farsi un’idea di che cosa sta succedendo, non ci sarebbe cura né curante. A un secondo livello la categorizzazione può e deve essere superata in favore di una o più ipotesi. La competenza di un operatore sistemico si costruisce sulla capacità di analizzare il contesto rispettandone i molteplici livelli: comprendere quando è utile difendere il valore della diagnosi, quando cercare di capire come andare oltre le etichette univoche, come integrare e comporre uno sguardo e il linguaggio medico con altri Il progetto Il punto di partenza sono le nostre storie personali e di formazione, i vari stili di lavoro, i diversi approcci e i molteplici sguardi sulla famiglia. Il progetto si arricchisce con stimoli e richieste delle famiglie. Per renderlo credibile bisogna proporre obiettivi funzionali alla cura del paziente. L’intervento è pensato come uno spazio di ascolto in un clima di accoglienza, in cui sia possibile definire la situazione familiare, attribuire senso e significato agli eventi e alle relazioni in corso, cercando insieme un nuovo punto di vista che apra nuovi orizzonti vivibili in maniera più dignitosa. Uno spazio in cui racconta la propria storia degna di ascolto e che diventa più tollerabile perché rivela significati. Si allestisce un contesto in cui favorire la comunicazione come possibilità di elaborare significati, sul piano emotivo e cognitivo tra i membri della famiglia, dove la sofferenza possa essere legittimata e riconosciuta per portare al cambiamento. Allargare il campo al contesto sociale e relazione per valorizzare l’ambiente in cui si vive come risorsa vuol dire coinvolgere la famiglia non solo per gli aspetti legati alla malattia, ma per costruire le modalità relazionali e di comunicazione sviluppatesi nel tempo al suo interno, per portare alla luce le risorse dimenticate o nuove necessarie ad affrontare la situazione. Non si deve avere fretta di arrivare alle conclusioni in quanto sono la parte più effimera della ricerca. L’intervento non intende risolvere i problemi dall’esterno, o fornire risposte a interrogativi o elaborare modelli di comunicazione più funzionali, MA mettere le famiglie nella condizione di esplorare il proprio disagio, dargli un nome, riconoscere e condividere le proprie esperienze ed emozioni, offrendo un’occasione per comprendere ciò che succede tutti i giorni e uno spazio dove trovare legittimazione del proprio ruolo di genitori, prima di pensare a dei modi diversi di esserlo. Si parte dal presupposto che problema e soluzione appartengano a loro. L’intervento non intende spiegare, ma svelare quei segnali, tracce, modi, stili, dissonanze esistenti che, portati alla luce possono aprire a una trasformazione sostenibile, perché fondata sulla comprensione di ciò che le persone già conoscono senza saperlo. Prendersi cura dei legami L’apertura alla famiglia è il pretesto per osservare e farsi raccontare immagini, e costruire una relazione a partire dall’accoglienza come gesto di cura capace di trasformare l’estraneità in famiglia. L’accoglienza non è solo un forte interesse per l’altro ma costruzione di luogo ospitale, uso di parole capaci di veicolare le emozioni, i timori, le speranze di generare dialogo. Significa riconoscere che ogni famiglia è diversa e unica, e sfugge dalla categorizzazione. Accogliere significa chiedersi chi è l’altro, esserne incuriositi, farsi stupire, cogliere la bellezza e la peculiarità delle storie familiari. Non va trascurato il loro punto di vista, ma interrogato perché quello che ci raccontano non è banale, ma una ridefinizione di un contesto di appartenenza i cui componenti compiono azioni sulla base di informazioni, rappresentazioni e aspettative condivise. L’importanza del contatto Il contatto permette di creare un significato condiviso su ciò che si fa insieme. La richiesta di guarigione e speranza che tutto torni come prima della malattia. L’intervento parte da aspettative e richieste sempre differenti. Domandi, priorità, obiettivi possono essere ridefiniti nel tempo. Formenti li colloca in un continuum di apprendimento, crescita, apertura a nuove possibilità che deve caratterizzare il lavoro con la famiglia. Ci sono genitori che devono affrontare momenti di transizione molto destabilizzanti. Accade spesso che il riconoscimento e l’accettazione avvengano in momenti diversi. C’è chi ha costruito significati e comportamenti non compresi dal coniuge perché mai comunicati. A volte si propongono incontri con tutti i componenti, nella convinzione che ognuno di loro debba avere l’opportunità di raccontare il proprio punto di vista e che abbia le risorse necessarie per farlo. È importante accogliere tutti coloro che esprimono un bisogno, anche solo di essere ascoltati. La famiglia viene accolta da un’educatrice e un’infermiera, all’inizio ci si conosce e si valutano insieme i tempi e i contenuti degli incontri. Durante il percorso si valutano insieme ai familiari l’opportunità di allargare l’invito anche al figlio. L’intero gruppo di lavoro si trovare per condividere le tematiche, le emozioni, le riflessioni che di volta in volta gli incontri con le famiglie fanno emergere e per decidere e valutare come e in quale direzione proseguire. Le storie I familiari si presentavano spesso con una ripetizione lamentosa, sempre uguale e di un copione che offriva il vantaggio di ricondurre la loro tragica esperienza entro una dimensione di canonico e ordinario, di comprensibile e accettabile. Un copione sempre uguale costruito negli anni per sopravvivere, dove tutto trova una spiegazione. È faticoso allontanarsi dal copione, e dare un nome alle cose e alle emozioni. Proponendo un nuovo modo di parlare e pensare alla situazione si può aprire la possibilità diversa di con la propria famiglia. Facilitare l’espressione livera e autentica di tutti permette di condividere, pensare e dare un nome alla propria esperienza, di raccontare i desideri inconfessabili perché poco adeguati al ruolo di genitore. A volte è stato necessario presidiare lo stile e le regole della comunicazione con il rischio di semplificare le narrazioni. La narrazione biografica può diventare una via per rimettere in moto queste storie, ricominciare a condividere con gli altri i propri significati emotivi e cognitivi, oltre che conoscere altri significati e altri punti di vista. Diventa una pratica di pensabilità, confronto e riflessione in cui si può cominciare a interrogarsi sulle scelte e sulle posizioni prese. I genitori 2 raccontano e scoprono di saper narrare e di essere portatori di un punto di vista parziale. Ognuno sceglie quale storia raccontare. È una rivisitazione della propria storia. Come viene gestito il dolore e l’inevitabile cambiamento apre possibilità di apprendimento, tanto più interessante in quanto effettuato partendo da ciò che si conosce meglio. Un accompagnamento irriverente Chi narra diventa meno estraneo perché ci ha trasmesso una parte di sé. Questo ci permette di avere una curiosità irriverente, che ci consente di rendere elastico e flessibile il nostro modo di comunicare. Ri-descriviamo l’esperienza raccontata esplicitando i dubbi o chiedendo esempi, con l’idea che ci possa essere dell’altro. La curiosità ci aiuta a continuare a cercare descrizioni e spiegazioni diverse anche quando non siamo in grado di immaginarne altre. Questo atteggiamento esplorativo, paziente, flessibile ci ha spinto a caratterizzare sempre più il nostro intervento come un intervento educativo, una pratica riflessiva, di autoformazione, di apprendimento, che diventa un atteggiamento cognitivo verso l’human becoming. L’intervento con i familiari si concentra sull’unicità della storia di ognuno e sulle risorse, sugli apprendimenti e relazioni che hanno dato vita a quella storia, valorizzati e sollecitati come opportunità da utilizzare in questo continuo processo di ridefinizione e aggiustamenti che è la genitorialità. Il fine è la mobilitazione delle risorse per dare forma a mondi possibili. Gli interventi con le famiglie sono diversi e costruiti negli obiettivi e nella modalità con chi ci sta accanto. Un bilancio provvisorio Molti hanno lasciato per diversi motivi. Questo progetto non ha ancora trovato un suo riconoscimento istituzionale e culturale, perché ci si concentra di più sulla malattia che sulla famiglia, coinvolgendola, toglierla dall’isolamento e cambiandone il rapporto con il servizio. Le storie che vengono raccontate parlano di relazioni, identità e ricordi che dicono chi sono stati, chi sono e chi potrebbero essere. Tutta la famiglia viene vincolata dalla diagnosi del malato. Manca uno spazio fisico definito e riconoscibile a tutti come luogo dedicato all’incontro con le famiglie. ⑧ APPARECCHIARE CONTESTI DI APPRENDIMENTO PER PROMUOVERE COMPETENZE Storia di un’educatrice che organizza un incontro con i bambini e i genitori che vivono situazioni di disagio familiare. Durante il primo incontro avvengono le presentazioni, e presentarsi come educatrici può essere un punto di forza. Con il tempo le differenze lasciano spazio a un crescente senso di familiarità e condivisione: ognuno trova un suo modo di esprimersi e sviluppa un maggior senso di fiducia verso il gruppo come luogo sicuro e protetto dove poter consegnare delle parti di sé e della propria famiglia. Alla fine, si percepisce un senso di soddisfazione generale. Quando una famiglia si ritira tutto il gruppo subisce uno scossone. Circolano vissuti di inadeguatezza, la separazione è percepita come fallimento e abbandono. Ci si chiede cosa avremmo potuto fare per evitare l’allontanamento. Il compito diventa aiutarsi a capire l’accaduto e a spostare l’asse del sentire comune dalla colpa alla responsabilità. Il sentimento di timore dell’abbandono ha reso molto delicato trattare le assenze viste con elasticità ma vanno motivate. Seconda fase: ampliare lo sguardo Si cerca di portare lo sguardo fuori dal gruppo. L’obiettivo era aprire nuove possibilità di pensiero attorno alle connessioni intergenerazionali dei comportamenti e degli stili genitoriali. I genitori si interrogano sull’origine di alcuni loro atteggiamenti e abitudini, i figli pensano a come alcuni limiti dei genitori si associno all’assenza di alternative legate ai loro percorsi di vita. Ci sono state diverse reazioni emotive. È prezioso che i genitori si raccontino ai figli, creando un clima di grande complicità e circolano nuove immagini e possibilità di interpretazione. Si osservano movimenti di riflessione più autonomi, alcuni portano a casa ciò che accade, gli stimoli suggeriti e poi consegnano il loro contributo l’incontro successivo. L’obiettivo è agevolare la costruzione di legami significativi. Terza fase: verso la conclusione A un gruppo è stato chiesto di porre l’attenzione all’ambiente di origine e alla comunità di appartenenza per esortarli a trasferire alcune riflessioni maturate all’interno del laboratorio anche nel contesto della propria quotidianità. Si è cercato di far sentire le famiglie all’interno di un sistema allargato con altre famiglie, istituzioni, agenzie con cui ognuno si confronta e che influenzano il proprio modo di essere e fare famiglia. La comunità è un supporto per la famiglia. L’altro gruppo è stato invitato a restituire agli altri come uno specchio l’immagine che ognuno si era costruito. La chiusura è faticosa per entrambi i gruppi, che manifestano la voglia di continuare il laboratorio, ma è necessario esplicitare che alcuni percorsi finiscono e va bene così significa che siamo arrivati fino in fondo e se ci dispiace vuol dire che sono stati importanti e piacevoli. Valutazione delle esperienze Tra gli indicatori utili per fare un bilancio del laboratorio ci sono le presenze e le assenze: alcuni sono sempre stati presenti, altri in modo altalenante e altri hanno abbandonato. Il percorso è stato faticoso per gli adolescenti. Chi ha partecipato con continuità ha mostrato le potenzialità dell’intervento, con la possibilità di creare un luogo pubblico anche per le famiglie che di solito si sottraggono a questo confronto. Un altro indicatore è il livello di partecipazione, di scambio, il clima emotivo e la capacità di elaborazione sono stati diversi. Nelle serate più difficili, il sentimento di sconforto invadeva le operatrici, si respirava delusione e irritazione. Le risposte emotive sono state di volta in volta elaborate grazie a un attento lavoro di comprensione dei significati all’interno dell’equipe, e grazie alla consapevolezza che dietro ad ogni azione, anche di attacco ci fosse una comunicazione da interpretare. La composizione eterogenea del gruppo aiuta: chi è più attrezzato circa le capacità cognitive e di elaborazione simbolica aiuta chi ha meno strumenti Bisogna curare l’adesione degli adolescenti per evitare che boicottino il lavoro con un rifiuto ostinato. La strategia per affrontare i momenti faticosi è mantenere la mente capace di commuoversi e di farsi sorprendere. Le tracce sedimentate Gli operatori dei servizi hanno intravisto la possibilità di costruire contesti nei quali non si porge solo la funzione di aiuto e sostegno e controllo, ma dove le famiglie possono esprimere le loro competenze, guardare vedere il proprio modo di fare famiglia senza giudizio. Un modo di avvicinare la genitorialità non a partire da ciò che la caratterizza nei deficit, ma per come si esprime. La traccia rimane esterna al lavoro diretto degli operatori però è entrata nelle loro rappresentazioni la possibilità di offrire l’esperienza del laboratorio. Il territorio ha chiesto al privato sociale di reperire le risorse per poter replicare l’esperienza offrendola a nuovi nuclei familiari. Non sappiamo se le famiglie abbiano utilizzato l’esperienza per innescare cambiamenti nel loro modo di genitorialità. Le tracce che possiamo rilevare riguardano quanto le famiglie mostrano nel processo e ci restituiscono alla conclusione Il laboratorio sollecita la capacità dei singoli di stare in un contesto sociale con piacere, permette di fare un’esperienza in larga parte positiva, accanto ai propri familiari, mette in luce le competenze e i ruoli di ciascuno. Per il futuro Quando ci avviciniamo alle famiglie, prima di avere degli obiettivi bisogna avere in mente riconoscimento, rispetto e dignità come presupposti della relazione con l’altro, sui quali si può cominciare a prefigurare il lavoro. Non è la tipologia della famiglia che caratterizza l’azione di aiuto: è la prefigurazione della relazione, le immagini di competenza e di difficoltà con cui ci incontriamo e a scontriamo, è la capacità di immaginarci che si può sempre progettare insieme, anche se a volte l’idea di progetto si trasforma drasticamente rispetto alle nostre aspettative. Il lavoro con le famiglie presenta un grosso ostacolo: l’idea di buona famiglia o buon genitore. Il mito del buon genitore che fa la cosa giusta per educare i figli sembra creare sempre più genitori disorientati, che si chiedono se stanno sbagliando o cosa devono fare. Il mito del cattivo genitore spinge gli operatori a dare per scontato che da 2 famiglie in difficoltà cresceranno figli fragili, sofferenti e inadeguati. Per lavorare con le famiglie bisogna sfatare questi miti: la capacità di essere un adulto di riferimento per i piccoli non sta nel fare o dire la cosa giusta, ma nella capacità di sbagliare e provare a raddrizzare il tiro. Un problema non serve a trovare le soluzioni, ma a imparare dalle soluzioni che non si trovano. È necessario fare pensieri che non siano solo la conferma delle nostre aspettative e riposizionare i sentimenti di delusione, rabbia, impotenza, stanchezza dentro una ricerca di significati possibili. Non riteniamo importante che i significati che si attribuiscono alle cose siano particolarmente elaborati, complessi e simbolici; l’importante è che esistano, siano nominati e rappresentati per diventare quel senso comune che si va costruendo insieme, attorno all’oggetto che ci sta a cuore, cioè la crescita e l’educazione dei bambini. Lavorare con le famiglie significa trovare modalità e strumenti innovativi perché possano trovare luoghi pubblici di parola, cioè luoghi condividi, attraversati da legami vitali, e così uscire da problema della privatizzazione del compito educativo, della solitudine, delle distorsioni relazionali amplificate nelle mura domestiche. ⑨ INTERROGARE LE RAPPRESENTAZIONI RECIPROCHE, TRA RICERCA E FORMAZIONE È il viaggio che copie il ricercatore a fare la differenza sul racconto del luogo ignoto, ricco di meraviglia e spiazzamenti. La ricerca si presenta differente in base a chi e a come la guarda. Quale contributo può dare la ricerca nella formazione degli educatori? Possiamo dire che i partecipanti a una ricerca sono ingaggiati in un’esperienza formativa? Il rapporto tra ricerca e formazione nella pedagogia della famiglia viene esplorato in relazione a 2 esperienze: 1) con gli studenti, 2) con operatori e famiglie di due servizi educativi. Ci si interroga sull’immaginario degli educatori: cos’è la ricerca per un educatore? Ricerca e lavoro educativo sono come mondi separati o come dimensioni intrecciate? Come coniugano nel quotidiano? È un lavoro di ricerca sulla famiglia o con la famiglia? Una cornice per la ricerca Con quale res stai entrando in ricerca? Qual è la tua domanda? Cosa ti muove? Che cosa cerchi da questo viaggio? Come costruisci con i partecipanti il senso dell’indagine? La res fa la differenza: può mostrare una città in tumulto o una strada calma e solitaria. Si costruisce a partire dall’interrogarsi sulle rappresentazioni reciproche di operatori e famiglie. L’intento è osservare una relazione in corso, pensandola come una danza che non può essere fermata o fotografata senza perdere la bellezza dei gesti e dei movimenti di cui è costituita. Si deve pensare a ciò che si osserva come una relazione in continua trasformazione. In un’ottica processuale e dinamica nessuno è in un dato modo in termini assoluti di tempo e contesto. Ogni persona vive dentro un tempo e un logo, è inserita in una storia individuale, familiare, sociale, socioassistenziale e
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