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Re - inventare la famiglia, Appunti di Pedagogia dell'infanzia e pratiche narrative

Riassunto re - inventare la famiglia

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 22/04/2019

mira-pochini
mira-pochini 🇮🇹

4.5

(226)

213 documenti

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Scarica Re - inventare la famiglia e più Appunti in PDF di Pedagogia dell'infanzia e pratiche narrative solo su Docsity! Re – inventare la famiglia Scrivere e pensare, leggere e immaginare il lavoro educativo: istruzioni per l’uso di questa guida Il libro si basa su una forma di “ermeneutica pratica”, un pensiero operativo che nasce dall’azione e ritorna all’azione, costruendo il senso – la teoria – a partire dalla caoticità dell’esperienza. Ogni azione, infatti, contiene una teoria incorporata. Eppure, il senso non è insito nell’azione, né nell’esperienza in sé, ma nasce da un percorso dialogico, composizionale, basato sulla riflessività e sullo scontro di cornici. Senso pratico, direzione, sensibilità: il senso è il “luogo comune” che diventa luogo in comune. Tra le condizioni dell’ermeneutica pratica ci sono la scrittura, per depositare le tracce dell’esperienza, e la conversazione a più voci per interrogarle. Per questo abbiamo adottato una forma di scrittura narrativo – riflessiva, che invita il lettore a interrogare la propria esperienza. Riconoscendosi e differenziandosi. Questa guida vuole essere un invito concreto a riconoscere nelle famiglie la totalità, la bellezza, la ridondanza, caratteristiche proprie dei sistemi complessi, e a posizionarsi nei loro confronti in modi utili, sensati, etici. Bisogna sempre tener conto delle reti di relazioni di cura di ciascuno. Quel “qualcuno” che si occupa di loro, deve essere parte integrante dell’intervento. Re – inventare la famiglia: dalla pedagogia alla composizione La “pedagogia della famiglia” è una disciplina che fatica a distinguersi da altre. Oggi vi è l’urgenza di una composizione di sguardi. Vera urgenza è la multidisciplinarità intelligente, che non mescola tutte le prospettive in un unico indistinto minestrone, ma che si avvale delle distinzioni, della molteplicità di sguardi e storie, per garantire una pluralità di sapori, approcci e visioni. Vera urgenza, quindi, è superare lo sguardo pan – psicologico, che sembra riuscire a cogliere solo ciò che sta dentro le teste e i cuori, senza tener conto delle pratiche organizzative, relazionali, sociali e culturali. Superare, quindi, la teorizzazione astratta e generalista che non riesce a rendere la pluralità e la specificità delle situazioni, le loro bellezza e unicità. Re – inventare la famiglia vuol dire re – inventarci come osservatori delle famiglie, rivedere le prospettive e le pratiche che mettiamo in atto. Spostare il focus dalla disciplina al sistema “per quello che è”, per come si presenta e come funziona. Nel mondo delle famiglie reali non vi sono la sociologia e la pedagogia, ma relazioni, scambi di informazioni e comunicazioni, oggetti, corpi, case. La nostra prospettiva è sistemica. La sistemica non richiede una semplice adesione a dei concetti, ma obbliga a un altro modo di guardare, di sentire, di concepire le relazioni. Un modo di com – porsi nella relazione con le famiglie, che richiede di essere praticato, diventando uno stile di pensiero, se non uno stile di vita. Nel libro sosterremo più volte l’utilità di uno sguardo aperto e curioso: se la famiglia non è un dato, per poterla comprendere bisogna mettersi nella prospettiva della ricerca. Del non sapere. Del perdersi. Il compito dell’educazione è costruire riflessività e consapevolezza rispetto ai modi in cui una famiglia è stata ed è inventata e re – inventata continuamente. Il professionista dell’educazione è portatore di uno sguardo, ha un’idea di famiglia, ma non ne è consapevole fino a quando non si confronta / scontra con altri e altre idee. Molti operatori pensano “questa famiglia è così”. Il libro mira a smontare l’uso del verbo essere: le famiglie appaiono, si mostrano, presentano certe caratteristiche in relazione al contesto. I sistemi, infatti, si adattano alle situazioni ed elaborano strategie. Imparano. Smontare i pregiudizi e le invenzioni è il primo passo per re – inventare la famiglia. Il secondo passo consiste nell’acquisire competenze e capacità di riconoscere quello che c’è: la cultura familiare, le sue strategie per far fronte alle crisi, i copioni di ciascuno dei membri e anche quello che non si vede a un primo sguardo. Terzo passo sarà inventare nuovi pensieri, nuove visioni e nuove possibilità. Come si impara tutto questo? Il libro propone un percorso di conoscenza che richiede al lettore una postura attiva, una vera e propria messa in gioco. La direzione è quella proposta dalla sistemica: un approccio espistemologicamente fondato, che coniuga azione e percezione in una cornice estetica e una propensione a stare nei contesti. Alla fine di ogni capitolo, vi sono delle attività per mettersi alla prova. Sono attività di quattro tipi, che si connettono in un percorso “a spirale” attraverso i movimenti propri della trasformazione, dell’apprendimento e della cura: [Mosse interconnesse che dovrebbero portare l’operatore a rinforzare] • L’esperienza autentica Rinforza il contatto con il presente, con il corpo e i suoi segnali, con le proprie emozioni, vissuti, sentimenti e con l’altro • La rappresentazione estetica La capacità di mettersi in gioco e tradurre in simboli e messaggi sensibili i propri pensieri, l’immaginazione, il sogno per riuscire a riconoscerli nell’altro • La comprensione intelligente La capacità di formulare ipotesi complesse sulle situazioni sperimentate, moltiplicando gli sguardi e le voci, riconoscendo le differenze, partecipando a conversazioni che cercano composizione intelligente • L’azione deliberata L’attitudine a scegliere, cioè ad assumere corsi d’azione deliberata, responsabile, aperta alle conseguenze e disposta a misurarsi con un nuovo ciclo di esperienza PARTE PRIMA Lo sguardo dipende dall’azione C’è un salto logico, anzi epistemologico, tra riconoscere un oggetto interagendo con esso (prendere in mano, guardare, annusare, sfogliare – tutto ciò che il nostro corpo ha per attivare una percezione) e riconoscerlo attraverso una definizione. La percezione non avviene se non c’è movimento. Nella visione siamo convinti di guardare, da fermi, un mondo stabile. Non è così. La vista non ha nulla di fisso: il mondo che guardiamo è in movimento. Alcuni autori considerano la percezione come esempio particolare di conoscenza, arrivando a dire che noi disegniamo il mondo estraendo da esso le distinzioni che cerchiamo, grazie a un apparato percettivo organizzato e sviluppato. Lo sguardo dipende dall’azione: se i processi di percezione e di conoscenza dipendono da quello che noi facciamo nel mondo, cioè dalle azioni specifiche che esercitiamo sugli oggetti che incontriamo, non sarà la definizione di questi oggetti a farceli conoscere. Ogni definizione sarà legate a delle azioni, che noi stessi avremo compiuto sugli oggetti o ereditato da altri. L’idea che ci facciamo degli altri, quindi, è strettamente legata alle azioni comunicative nei contesti. Tutti contribuiscono a definire il senso di quell’azione, alla percezione di quell’azione. La tesi di questa prima parte è che lavorare con la famiglia richiede una consapevolezza epistemologica, cioè un atteggiamento interrogante nei confronti dei nostri presupposti. Il modello di riferimento in questo libro è quello sistemico. Un modello che mette l’idea di comunicazione al centro di tutti i processi umani e non. La metafora dello sguardo è parziale. Nella conoscenza della famiglia tutti i sensi sono coinvolti. Il gusto di lavorare con la famiglia non è qualcosa che si insegna. Eppure noi vorremo far toccare con mano a chi legge la possibilità di cogliere l’insieme, di celebrare a complessità e la bellezza delle interrelazioni familiari. Non sempre lo spazio abitativo è la casa di tutti, dove si compone armoniosamente il senso della totalità, del senso e le voci dei singoli. La casa è un simbolo molto forte del noi e contemporaneamente del sé: riconosciamo come casa quel luogo in cui possiamo essere noi stessi levandoci le corazze e le maschere della vita sociale, dove possiamo prenderci cura delle nostre passioni e delle nostre ferite, delle persone che amiamo, il luogo dove sostare e riposare, fare il nido e incontrare gli amici. Quando l’educatore entra in una casa non pretende di nascondere o cancellare i pregiudizi (che tende orribili), ma li riconosce per differenza (comunque non è casa tua) e questo lo aiuta ad assumere una postura di curiosità. Così, piano piano, scopre il mondo di questa famiglia, o almeno una sua piccola parte. Con – vivenza vuol dire anche tempi e ritmi condivisi: gli orari scandiscono la giornata, organizzano le attività e i copioni, definiscono chi sta con chi, per quanto tempo e come. Il tempo familiare si impone sui ritmi personali. Il dilemma tra tempo per sé e tempo della famiglia è acuito dal mito dell’adulto che persegue un proprio progetto, contrapposto al sentimento della famiglia. Per comporre questi due miti è necessaria la creatività e la flessibilità. Spazi e tempi si modificano rapidamente e continuamente. Le esigenze di autonomia dei singoli cambiano. Quando un membro cambia la sua posizione rispetto agli altri, questo incide sulla vita di tutti. Quindi la con – vivenza è uno spazio d’interazione condiviso, che bisogna osservare con curiosità (perché non ci sono modi di convivenza più corretti di altri) e rispetto. La prospettiva storica è importante per comprendere il sistema familiare nella sua complessità. Conoscere l’evoluzione della vita quotidiana ci aiuta ad assumere una posizione più curiosa. Oggi c’è una grande varietà di stili di vita, gli uni accanto agli altri. Viviamo in una multi – culturalità diffusa, perché ogni famigli si presenta come una cultura essa stessa, con il suo linguaggio, le sue storie, gli oggetti che crea, le routine, le credenze che condivide. Quello che ci interessa è mettere a fuoco l’insieme di relazioni che sono prodotte e che insieme producono questa cultura. Il modello relazionale interroga gli usi della convivenza, nello spazio e nel tempo, come indizi della cultura di quella famiglia, per poter andare oltre. Politica della vita familiare: verso l’azione deliberata Questo è il lavoro educativo con la famiglia: aprire possibilità perché tutti stiano meglio. Riconoscere ciò che si mostra, nella complessità delle relazioni familiari, per rendere possibili delle trasformazioni. Farsi l’orecchio sulla famiglia e inserirsi con la propria musica e trovare nuovi modi di suonare. La linea politica di una famiglia è sancita dai genitori. La direzione da prendere, le misure adottate, sono un compito degli adulti e rappresentano la parte istituente del sistema familiare. Oggi si parla di genitorialità. Nessuno è genitori per decreto o per nascita. Nessuno è il prototipo del genitori, perché è nell’unicità e nella specificità di “quella relazione lì”, con quei figli, in quel contesto, che al genitorialità prende forma. Mi sento genitori quando i miei figli me lo riconoscono, quando so di essere determinante nella loro vita e sono sicura del mio ruolo, essendo così un punto di riferimento per loro e assumendo responsabilità nei loro confronti. Ogni esito educativo, compreso il senso di libertà, è il prodotto complesso di una serie di azioni e retroazioni concatenate; è una realtà dinamica. Si produce più nel correggere i tanti errori, che non in una libertà data come premessa. Il senso del noi Ogni famiglia si presenta come unità, come una totalità di relazioni portatrice di un’identità. Bisogna far uscire la famiglia dall’invisibilità, che è dovuta dalla sua quotidianità. La famiglia sfugge all’attenzione perché come tutto ciò che ci è familiare è percepita come qualcosa di ovvio. La vita quotidiana in famiglia è fatta di pratiche, ambienti e relazioni che abitiamo senza pensarci, senza prestare attenzione agli apprendimenti che questo genera. L’apprendere in famiglia è un processo poco conosciuto. Il senso della famiglia è intrecciato, nel suo divenire, al mondo, alla cultura, al territorio nel quale vive. Il senso del noi non è solo un vissuto e sembra andare oltre a ciò che è conscio ed esprimibile a parole. Per comprenderlo bisogna osservare con occhi curiosi cosa accade in quella determinata famiglia. Uno sguardo che va oltre le parole e oltre il quotidiano. Il senso del noi si nutre di momenti dove tutti stanno bene, cioè partecipano al gioco, rispettano i turni e sono emotivamente sintonizzati. Importante sarà il ruolo del linguaggio e la punteggiatura che noi daremo nel comunicare e meta – comunicare sulla famiglia, nel dare senso al nostro stare insieme. Come osserviamo la famiglia? Se vogliamo comprendere il senso del noi, il primo quesito da sciogliere è: chi è l’osservatore di questa famiglia e quale idea di famiglia sostiene il suo sguardo? Parlare di famiglia implica presupposti, valori e ideologie. Il senso del noi dipende dalla nostra posizione nel sistema. Una posizione che non è solo metaforica, ma anche fisica. Secondo Bateson, quando osserviamo un sistema, siamo inevitabilmente condizionati a percepire solo un piccolo arco della sua complessità interconnessa. Quando osserviamo non dobbiamo avere pregiudizi, dobbiamo descrivere azioni concrete e mettere a fuoco tutte le persone coinvolte nell’interazione. Questi sono aspetti fondamentali per cogliere il noi. L’obiettivo primario è la rappresentazione estetica, cioè mettere in parole quello che si presenta ai sensi. Distinguere la percezione di ciò che c’è dal ragionamento e dalle interpretazioni. Il noi ci appare come un dato percettivo. Si vede. Il senso del noi è riferibile a qualcosa che percepiamo con i sensi, con cui risuoniamo emotivamente, cogliendolo in modo sincretico, come una gestalt – un tutto. Quando l’osservatore della famiglia possiede strumenti concettuali e metodologici, grazie ai quali si definisce esperto, il processo che viene messo in atto sembra essere diverso, più strutturato. Il professionista tende a esprimere valutazioni più esplicite e articolate, veri e propri giudizi derivanti dai saperi posseduti. Il professionista che osserva una famiglia in azione ha uno sguardo peggiorativo: vede (solo) i problemi, le carenze, le bruttezze; tende a isolare i singoli comportamenti etichettandoli e sottovaluta l’armonia dell’insieme. Accantona il buon senso e il coinvolgimento emotivo propri dello sguardo ingenuo, ma anche necessari a una comprensione umana delle relazioni familiari. Sviluppare una molteplicità di sguardi e di strumenti per analizzare e categorizzare le diverse dimensioni della famiglia è importante, fa parte della formazione di un operatore. C’è dunque una composizione da realizzare tra due sguardi: quello che distingue, analitico, finalizzato, razionale e rigoroso, sguardo tecnico dell’esperto che osserva ed esprime categorizzazioni; e quello che abbraccia e celebra, che riconosce la ricerca di equilibrio e di struttura, sguardo che con – partecipa, risuona, onora la bellezza. Il senso del noi, dell’essere una famiglia, si appoggia su entrambi, ma soprattutto nasce dalla con – posizione dalla danza interattiva. Il corpo familiare Ognuno dei comportamenti della famiglia si muove e si trasforma in relazione agli altri. Non c’è apprendimento che non coinvolga tutto il sistema. Possiamo rilevare ripetizioni e ridondanze, coerenze e interdipendenze: esse suscitano la sensazione di essere in presenza di un tutto, di un organismo sovra individuale. La metafora del corpo familiare esprime bene l’idea del sistema: il con – porsi degli individui nella danza interattiva non è un accostamento casuale, né la sommatoria di azioni separate. E nemmeno sono le intenzioni dei singoli individui a dare senso alla danza. Qualcosa io faccia, o creda di fare con mio figlio, il senso comunicativo del mio gesto verrà costruito dalla sua reazione. È nella continua interazione che si sviluppa il senso. La famiglia non va mai a dormire. La conposizione, l’interdipendenza, creano vincoli: se uno dei danzatori si sposta o cambia il ritmo, anche gli altri dovranno farlo, per mantenere l’equilibrio o ritrovarlo. Non è possibile sottrarsi, una volta che si è nel noi. Questa lettura sposta l’attenzione dal livello dell’individuo, alle relazioni. La famiglia è ridondanza, copioni, memoria incarnata. Quando un gruppo umano interagisce abbastanza a lungo sviluppa strutture al di là dei discorsi. Per vederne la coerenza dobbiamo spegnere l’audio. Siamo così abituati al dominio delle parole e dei contenuti che queste veicolano, da diventare ciechi ai modi straordinari con cui gli individui si con – pongono. La famiglia struttura l’esperienza e dà corpo ai suoi membri. Più di ogni altro sistema di con – vivenza, perché i processi familiari avvengono nella quotidianità e riguardano le sfere più immediate del vivere. La famiglia educa al di là di qualsiasi finalità cosciente o intento educativo finalizzato. La famiglia reale: una coreografia complessa Il noi nasce dalla famiglia in azione: reazioni reali, regole interattive, abitudini e ripetizioni che la vita familiare impone ai corpi, educando a una certa postura, a un modo di respirare e camminare tutti i membri. Questa è la famiglia praticante, visibile, reale, sensibile. Per comprendere la coreografia di una famiglia è importante distinguere tra due livelli: la descrizione della nostra esperienza sensoriale e la sua categorizzazione. La natura relazionale della famiglia emerge nei coordinamenti reciproci delle azioni; il senso può essere costruito a posteriori chiedendo alle persone di osservarsi in relazione, di diventare riflessive rispetto al loro modo di danzare, diventando anche osservatori di se stesi. La rappresentazione estetica del noi, cioè qualsiasi strumento che possa far vedere l’insieme, è un modo per celebrare le relazioni familiari nella loro complessità. La presenza di un altro aiuta a mostrare che le descrizioni sono sempre connesse a una qualche specie di sistema simbolico interiorizzato (lingua) il quale prescrive certe maniere di prendere contatto col mondo attraverso i sensi. Pensare in termini di corpo familiare significa vedere le interconnessioni. La famiglia si mostra – come su un palcoscenico. La famiglia simbolica: il potere dell’oggetto evocativo Le immagini, le storie, i simboli che usiamo per rappresentare la famiglia non sono estranei alla famiglia reale. Davide Reiss ha distinto tra famiglia in azione e famiglia rappresentata. Ma se a rappresentazione è incorporata, allora il confine tra le due diventa più sfumato. In molte situazioni c’è corrispondenza, se non sovrapposizione, tra la famiglia reale e quella simbolica. Che cosa accade nel disegnare la famiglia in simboli? Caillè e Rey definiscono queste rappresentazioni simboliche della famiglia “oggetti fluttuanti”: danno forma a qualcosa che trascende il singolo, cioè il sapere familiare, privato e mobile, intuitivo. Essi lo definiscono anche “Assoluto familiare”. Gli oggetti fluttuanti lo rendono in parte visibile. Essi rappresentano il noi, creando uno spazio intermedio nel quale si può essere creativi e vedere le relazioni in una luce nuova. Propongono un senso del noi dinamico. La rappresentazioni simbolica materializza le relazioni e convoca la capacità ricettiva dei soggetti. Perché ci vuole orecchio Come si impara il senso del noi? Avviene in via informale, quotidiana, poco riflessiva. Purtroppo gli interventi puntano allo sviluppo di competenze individuali, funzionali alla soluzione dei problemi. La visione dominante della famiglia è di tipo carenziale e quindi la visione dominante dell’educazione della famiglia è di tipo istruttivo. Per celebrare la dimensione sistematica e relazionale della vita familiare dobbiamo sostenere tutti i membri nella loro capacità di suonare insieme per dare forma al noi. Bisogna, però, mantenere distinte le tante voci, celebrarle e onorarle una per una, in modo da offrire riconoscimento alle diversità, che costituisce il tessuto vitale della vita quotidiana familiare. Un risvolto di questa pratica è la possibilità di guardare anche la propria famiglia con occhi nuovi. Atteggiamenti usuali, rituali collaudati e assodati divengono oggetti di un’attenzione nuova, interrogante, inquieta. Tutto improvvisamente parla, racconta, rievoca. Fare ricerca sulla propria famiglia è una scelta che non bisogna scoraggiare, ma va ponderata. Il ricercatore è fortemente implicato nell’oggetto della ricerca. Si crea un circuito bizzarro che mette a dura prova anche i ricercatori esperti in quanto comporta una doppia presa di distanza, da sé stessi e dall’oggetto d’indagine, per mantenere una posizione di curiosità anche verso qualcosa che si presume di conoscere molto bene. Pietre parole: una pratica per rinnovare lo sguardo Educatori si diviene anche grazie alle importanti e indelebili eredità familiari che hanno segnato la vita. Ripercorrerle e interrogarle ci consente di capire che educatori siamo e cosa abbiamo ereditato e quale ricaduta ha sul nostro modo attuale di prenderci cura degli altri. Nell’aula ci sono tante pietre sparse per terra. I presenti sono invitati ad avvicinarsi e prendere contatto con quello spazio così inusuale. La professoressa annuncia che tra queste pietre incontreranno una persona della loro famiglia. Ne udiranno anche la voce. Infatti, queste emettono suoni se vengono fatte rotolare. La prof propone infine un’eterografia, ossia una scrittura dell’altro attraverso di sé. Si tratta di immedesimarsi in un familiare, prendendo il suo posto e raccontando come se fosse lui / lei. Le pietre prendono corpo, sassi non più statici, divengono profili vivi. CAPITOLO 3 – Alla ricerca delle tracce. I sensi della genitorialità tra frammenti autobiografici e teorie evolutive Tracce: un impegno di ricerca Le nostre pratiche sono intrise di immagini, azioni, gesti compiuti in altri contesti, in altri momenti della nostra esistenza e dei quali ci sembrava di esserci completamente dimenticai, ma che ugualmente determinano il nostro modo di muoverci oggi. La memoria autobiografica, il recupero consapevole di frammenti di storia vissuta, contribuiscono a far comprendere e comprender – ci. Nella memoria autobiografica ci sono le testimonianze visibili e indivisibili di ciò che abbiamo raccolto e conservato, segni iscritti nel corpo, nella pelle, nei sensi. Possiamo affermare che la spinta al cambiamento e alla ricerca avviene tutte le volte che non troviamo una spiegazioni soddisfacente dal punto di vista cognitivo, morale, estetico e pratico. È lì che costruiamo teorie. L’approccio autobiografico ci permette di intuire il ruolo potente della storia di vita nella costruzione del sapere, nei processi di apprendimento, nelle posture che assumiamo, nelle motivazioni che ci portano alle scelte di vita. Ciascuno di noi cerca, riflette, connette, agisce per trovare una spiegazione soddisfacente del mondo, costruendosi la propria teoria locale, una personale visione connessa all’esperienza. La famiglia non costruisce teorie nel vuoto, ma sempre collegate al sistema dei saperi accreditati. Se vogliamo individuare tracce di famiglia, il primo movimento risiede nel volgere lo sguardo – curiosa e non interpretativo – alle teorie così come i singoli le costruiscono. Siamo quotidianamente chiamati a rielaborare i nostri saperi, a connetterli e coordinarli, utilizzando strategie volte alla ricerca di una presa di posizione che meglio permetta di controllare i mutamenti in atto che stanno coinvolgendo. La famiglia, o meglio ogni suo membro, costruisce teorie locali; dai frammenti autobiografici appare quanto esse siano uniche, originali, complesse, interconnesse alle teorie generali, alla storia familiare. Qui c’è odore di famiglia Siamo soliti considerare il linguaggio come denotativo, univoco, inequivocabile. Heinz von Foerster parla di linguaggio connotativo, un linguaggio che parla di noi più che del mondo; il linguaggio poetico parla anche di come noi intendiamo il mondo. Possiamo imparare a riconoscere un odore di famiglia? Se ci pensiamo abbiamo bisogno di una buona teoria e una buona pratica, interconnesse. Se il primo passo del cercatore di tracce è verso il riconoscimento della teoria, in quanto teoria locale, il movimento successivo v verso l’esplorazione dei nessi che intercorrono tra il sapere el’esperienza, tra il pensiero e l’azione nelle relazioni educative in famiglia e con la famiglia. L’approccio autobiografico può fornirci tracce quando re restiamo nell’intrinseca complessità delle storie. I frammenti di autobiografia ci parlano di sensi, di percezioni, di emozioni e sensazioni. Ci parlano quindi di corpo e di mente e di gesti e di pensieri. Ci parlano di teorie e di pratiche, interconnesse. Ecce homo: pater et mater Nell’evoluzione il motore del cambiamento risiede nella diversità individuale e solo una visione storica e narrativa e autobiografica ci porta a comprendere il mondo del vivente nella sua interezza. È in questo pensare evolutivo e biografico, universale e locale, mondo e individuo, che possiamo comprendere altre trame di significati. Una comprensione parziale e provvisoria, dubitante e interrogante, fatta di tracce, indizi, frammenti. Come imparare a riconoscere altre tracce? Proviamoci sul tema della genitorialità. Che cos’è? Cosa la caratterizza? Essa è un’avventura squisitamente umana, appartiene all’individuo e alla specie. Oggi come ieri è strettamente intrecciata con la nostra umanità. Siamo abituati a guardare alla famiglia in generale e ala genitorialità in particolare con un occhio legato alla storia recente. La genitorialità, infatti, ha perso il carattere di universalità che l’ha contraddistinta per lungo tempo, per assumere sempre più un carattere di individualità e di unicità. La genitorialità è universale, un tratto specie – specifico del genere homo sapiens al pari del pensiero simbolico e del linguaggio verbale. Quando diciamo genitorialità, l’immagine più diffusa è quella di un uomo e una donna con due bambini. Ma, per cercare altre tracce, questo non basta. Storicizzare e contestualizzare: operazioni cruciali Uno sguardo su scala planetaria può cambiare la nostra collocazione nel mondo. L’antropologia ci ha mostrato culture che siamo pronti a definire elementari o primitive. Non esiste società che non abbia elaborato teorie, pratiche, rappresentazioni e organizzazioni relative ai rapporti tra genitori e figli. La genitorialità è bio – culturale. Ha le sue radici nella natura, nasce dal fatto biologico della riproduzione, ma si sviluppa nella dimensione culturale e sociale. Quando si parla di universale si corre il rischio che il termine sia interpretato nella direzione dell’omologazione, del modello unico e generale. Per riconoscere le tracce di famiglia è necessario restare in una complessità e interconnessione di piani che ci porta ad accogliere la dimensione locale nell’universale, a utilizzare l’attenzione al particolare, a vedere il dettaglio senza perdere di vista il contesto. Per riconoscere una traccia abbiamo bisogno di non perdere di vista l’insieme di circostanze ambientali, simboliche e relazionali all’interno delle quali è nata e si è sviluppata. Quando entriamo nelle storie che ciascuna famiglia ci racconta, sforzandoci di connetterle con il contesto nel quale nascono ed evolvono, possiamo anche scorgere indizi che ci parlano di de – sincronizzazione tra osservatore ed osservato, tra famiglia e cultura, tra membro familiare e sistema di appartenenza. Uno sguardo storico e contestuale può fornirci tracce che raccontano altre storie. Le difficoltà genitoriali familiari, del singolo sono da ricondurre a un mal funzionamento interno? Genitorialità, modelli di cura, educazione familiare, processi di crescita, sono una trama inestricabile di biologico, culturale, storico, sociale e individuale e solo restando in tale complessità e intreccio di livelli abbiamo la possibilità di comporre quella singola traccia in quell’unica e particolare storia. Nel processo di re – inventare la famiglia, storicizzare e contestualizzare diventano due operazioni cruciali quando permettono di moltiplicare gli sguardi e creare le sfumature. Intendere la genitorialità come processo ontogenetico offre la possibilità di creare storie possibili, costruire il senso in modo molteplice e agire per aumentare le possibilità di inventarsi genitore. Oltre l’istantanea fotografia Lo sguardo che si posa sulla famiglia presuppone un guardare e osservare, un osservare e un conoscere, un conoscere che è sempre un agire. L’occhio dell’educatore è sempre mediato dalle proprie teorie, pregiudizi, storie familiari; è sempre situato in un orizzonte culturale, in un momento storico e in un contesto sociale; è sempre costruito nel linguaggio e nella comunità dell’osservatore. “Questa famiglia è adeguata”. L’uso del vero essere restituisce un solo fotogramma della famiglia, estraendolo dallo sfondo in cui è nato e si è sviluppato. L’uso del tempo presente non riesce a restituire il legame con il passato e i progetti futuri, costringendo quella famiglia dentro un eterno presente. Artisti, ingegneri e bricoleur Con quale postura, quale sguardo, quali domande, con quale ruolo? Potremmo calarci nei panni dell’ingegnere e iniziare a misurare, quantificare, catalogare, oppure vestire l’abito dell’artista e dipingere, cantare danzare. Parlare di genitorialità come arte o come mestiere comporta impliciti riferimenti a due distinte prospettive (modello istintivo – modello istruttivo). Arte e mestiere: quanto la prima richiama la creatività, tanto il secondo si pratica con sudore e fatica. Il mestiere necessita di un addestramento e apprendimento, l’arte è creazione, inventiva, libera espressività. È la contrapposizione tra le due Ognuno di noi ha una propria e personale esperienza di famiglia, di genitorialità, di cura, dell’essere figli. Questa esperienza viene inevitabilmente evocata quando nel lavoro educativo o di consulenza siamo chiamati a interagire con un genitore che chiede aiuto a vari livelli. Nel lavoro di consulenza bisogna offrire loro la possibilità di osservarsi, mettersi in gioco, cambiare posizione e punto di vista, per arrivare a riconoscersi nei pregi e nei difetti, nei vincoli e nelle possibilità, per poter diventare consapevoli di se stessi e della propria modalità di entrare in interazione con gli altri. Come mi vedi? Questo è l’interrogativo con cui molti genitori si rivolgono agli operatori. Vogliono una risposta, sembrano averne bisogno per calmare la propria paura di non essere all’altezza di un compito tanto complesso come il crescere un individuo che ha bisogni, necessità, diritti e una personalità unica. In questa situazione di sbandamento il confronto con altri, invece di portare aiuto e sostegno, può far perdere di vista quelle che sono le proprie strategie e il proprio personale stile educativo, rendendo ancora più difficile l’ascoltarsi, il vedersi e il diventare consapevoli delle proprie esigenze, bisogni e desideri. Quello che sembra essere un bisogno di valutazione è in primo luogo un bisogno di riconoscimento: il desiderio di essere visti e riconosciuti nel ruolo di genitore. Si potrebbe proporre un uso trasformativo e riflessivo della videocamera come strumento che crea uno sguardo possibile. Il video è in grado di mettere a fuoco le pratiche di cura quotidiana. Avere la possibilità di fermarsi a riflettere sul modo in cui fanno le cose, non limitarsi ad agire la cura, ma riuscire a vederla e pensarla, può essere considerato come un primo passo per consolidare, esplicitandola, la propria idea di genitorialità e di competenza. Che cosa vuoi mostrarmi? L’obiettivo principale di questa proposta di consulenza è dare visibilità alle strategie e risorse che vengono messe in campo nella relazione con il figlio, per poi utilizzare le immagini come base per una riflessione in merito agli effetti delle azioni di cura e ai feedback in circolo tra i diversi partner relazionali. La richiesta è di tipo valutativo, ma la risposta è di tipo osservativo – riflessivo. Il primo passo è riconoscere quale dubbio si instaura nei genitori e partire proprio da quello, perché è lì che nasce la domanda di consulenza. Questo passo invita il genitore in un circuito riflessivo armonico: da un lato lo sostiene nella sua idea che qualcosa non funziona come dovrebbe; dall’altro dà il messaggio che il genitore è competente nell’esprimere quell’idea. Meritano un’attenzione specifica la coordinazione errata e le modalità attraverso cui gli errori relazionali vengono riparati dagli attori coinvolti. Per rendere più accurata l’osservazione e permettere anche ai genitori di osservarsi in azione l’operatore sceglie di utilizzare la videocamera, che offre l’opportunità di fissare le immagini e le interazioni in movimento permettendo di guardarle in più momenti e di giocarci attraverso distorsioni, com – posizioni, tagli, bricolage. Nel concreto, l’operatore riprende un’intera giornata in maniera continuativa, per poi scegliere insieme ai genitori i momenti su cui concentrarci nell’osservazione congiunta. Dopo i primi minuti in cui l’adulto sembra inibito dalla presenza del consulente e dalla videocamera, sono i bisogni e le richieste del figlio ad avere il sopravvento e riportare il genitore sul compito di cura. L’operatore non riuscirà ad assumere una posizione neutra, in due sensi: da un lato la mia presenza influenza inevitabilmente ciò che accade nel sistema, le configurazioni relazionali possibili, le interazioni concrete; dall’altro i suoi pregiudizi ed esperienze precedenti provocano nell’operatore risonanze e atteggiamenti che arrivano poi, attraverso differenti canali comunicativi, a interagire con quelli degli altri componenti. Come ti vedi, osservandoti? Il passaggio successivo alla ripresa delle immagini è quello di ritrovarsi insieme ad osservarle. Ai genitori si chiede di scegliere gli scambi interattivi che sentono di aver vissuto con maggiore difficoltà e fatica. Portiamo l’attenzione sui momenti in cui ci si riconosce poco competenti nell’essere genitori, o anche francamente inadeguati. Si può iniziare a introdurre domande aperte, circolari e riflessive che possono mettere in luce l’idea di genitorialità. Si invitano i genitori ad allargare lo sguardo: dal vissuto e agito personale ai feedback degli altri (cosa mi stava dicendo in quel momento il bambino). È un processo che stimola i genitori a creare connessioni. È un processo di co – costruzione che genera nuove possibilità di vedere strategie percorribili. Attraverso il processo di visione, selezione, taglio e montaggio delle scene, i genitori hanno la possibilità di soffermarsi e prendersi cura di sé e della propria storia. Vi è la possibilità, quindi, di attribuire nuove punteggiature possibili alla stessa scena, ri – significarla e ri – connotarla. Questo fa emergere il nuovo, le potenzialità, le risorse e permette un maggior coinvolgimento emotivo della famiglia stessa. Dal punto di vista simbolico, prendere in mano la propria storia, le proprie immagini e sceglierle puntando l’attenzione sugli aspetti che sono avvertiti come difficoltosi, ha il senso di isolare il momento difficile da tutto il resto, contestualizzarlo e legittimarlo. Riconoscere e circoscrivere l’incompetenza o l’errata coordinazione permette di salvare tutto il resto, tutto ciò che c’è e che rischia di essere coperto, offuscato, rendendo accessibili altre risorse e strategie. “Come ti vedi, osservandoti?” Dare una risposta vedendosi da fuori crea delle differenze e degli spiazzamenti. L’effetto composizionale offre la possibilità di nominare le emozioni e di creare uno spazio di contaminazione, riflessione e confronto tra il proprio vissuto (riflessione in azione) e ciò che si può osservare da fuori (riflessione sull’azione). La possibilità di vedersi concretamente in interazione pone il genitore nella condizione di riuscire a riconoscere e comprendere il proprio stile interattivo e relazionale, rapportandolo con quello degli altri. Il genitore diventa consapevole degli effetti che le sue proposte di relazione e azioni di cura hanno sugli altri membri del sistema. La consapevolezza dello stile educativo e delle sue precomprensioni crea presupposti per modulare l’azione di cura, metterla in movimento, passando da una situazione di immobilità alla possibilità del cambiamento. La post – produzione e la possibilità di confrontarsi genera uno spazio di condivisione tra il genitore che si sente in difficoltà e quello che vive con più distacco la situazione di novità. L’obiettivo è far sì che il genitore in difficoltà viva meno la solitudine. In questa proposta vengono messi in primo piano gli aspetti concreti, educativi e pedagogici, di cura e di relazionale. Ma soprattutto attiva il senso del noi: la costruzione di un’idea comune di cosa sia essere e fare i genitori in questa famiglia. Dall’auto – osservazione alla costruzioni di altre – storie Si attua una sorta di visione dall’alto di se stessi in interazione. È questo il processo di distanziamento e riavvicinamento a sé che viene man mano costruita una nuova microteoria di sé e della propria famiglia, un’idea non più latente e vissuta come faticosa, ma consapevole, chiara e condivisa. Il lavoro di post – produzione può essere utile a identificare le modalità e le strategie con cui le famiglie affrontano la crisi, i conflitti o i problemi legati alla routine familiari. La tappa successiva consiste nell’utilizzare le immagini scelte dai genitori e com – porle allo scopo di creare punteggiature differenti, altre storie possibili, basate non più sull’incapacità o incompetenza, ma sulle risorse e sulle strategie messe in campo. Storie che i genitori possono vivere come belle, se la riconoscono come la loro. Vi è una maggiore consapevolezza del fatto che la propria storia, il proprio punto di vista non è l’unico, ma uno dei tanti possibili, e che le strade da percorrere sono tante e ogni volta nuove. Si passa quindi dal blocco (non sono capace di fare quello che dovrei fare) alla riflessività creativa (cosa faccio e cosa posso fare di diverso?). Una posizione diversa nello stile e nell’idea di famiglia che porta a un linguaggio differente, non più centrato sulla mancanza, ma sulle risorse, sulle strategie creative, sulle possibilità. CAPITOLO 5 – L’ABC dell’osservare Questo capitolo mette a fuoco un’azione specifica, quell’osservare, e un pratica che utilizza il mezzo audiovisivo come strumento di lettura delle interazioni umane. Vi è quindi l’utilizzo, ad esempio, della proiezione di film. L’obiettivo è imparare a osservare, fermandosi su quelle interazioni che, a prima visione, risultano difficili da leggere e rifarlo tutte le volte che serve per addestrare e affinare le proprie capacità percettive. Osservare perché, cosa e come? La comunicazione è il fondamento delle relazioni umane: essa diventa l’oggetto osservativo nei suoi vari livelli, nei diversi stili, nelle svariate modalità. Il fine ultimo è affinare lo strumento, in modo che l’operatore possa migliorare il suo modo di comunicare ed entrare in interazione con le persone di cui si occupa. Cosa osservare: i processi interattivi nei quali la comunicazione si sviluppa, usando come lente il modello e i principi della Programmazione Neurolinguistica (PNL), un approccio che nasce dall’esigenza di dare origine a una base teorica appropriata per la descrizione dell’interazione. Il film si presta a essere uno strumento privilegiato per l’addestramento all’osservazione, in quanto: • Racconta una storia o più storie • Permette di esaminare uno spaccato di vita • Consente di rivedere le sequenze dove le interazioni sono più complesse o più significative e ne permette lo studio Nelle letteratura sistematica, la famiglia viene definita come gruppo di individui con storia che mentre si fa si disfa, per permettere a ciascuno di sviluppare la propria individualità e quindi realizzare la propria vita. L’obiettivo è quello di far emergere i pregiudizi personali di ciascuno riguardo al sistema familiare, per prenderne atto per trasformarli. Attraverso il film c’è la possibilità di condividere un contesto e uno stesso oggetto, che può essere visto con e da vari punti di vista e a più livelli di analisi. Quale film? La scelta del film o sequenze da proiettare dipende dall’obiettivo. Ci sono due criteri: il primo basato sul contenuto (trama, temi trattati); il secondo legato a situazioni comunicative specifiche, presenti nel film, che mostrano in modi efficaci come si costruiscono e si trasformano le relazioni umane. Il processo osservativo I film sono storie, proprio come quelle che le persone portano nei contesti educativi e di cura: narrazioni di situazioni vissute. L’uso del mezzo audiovisivo permette quell’utile distanza che serve ad addestrarsi all’osservare. Ciascuno deve attrezzarsi e affinare i propri canali percettivi sulle interazioni comunicative. Cosa e come racconta l’educatore? Bisogna pensare la famiglia come interconnessa ad altri contesti e soggetti. Gli operatori che lavorano con le famiglie descrivono certe situazioni allo stesso modo, come se nulla cambiasse o potesse cambiare. Diventa interessante anche in questi casi, come nel lavoro con le famiglie, interrogarsi sullo stile narrativo e sulla semantica che gli operatori usano per descrivere e raccontare la famiglia, almeno per due ragioni. La prima riguarda il benessere degli operatori. Non vi sono operatori felici di descrivere le famiglie o il proprio lavoro con loro attraverso storie prive di speranza e possibilità. Prive di riconoscimento. Anche gli operatori chiedono aiuto ad altri quando le proprie storie, le proprie idee non appaiono generative di qualcosa di utile, non aprono possibilità, quando hanno la sensazione di essere bloccati in una certa relazione o progetto. La seconda ragione riguarda il livello interattivo tra la famiglia e gli operatori. In una prospettiva eco sistemica ci si interroga su come i fattori e contesti esterni alla famiglia influiscano nella co – costruzione di narrazioni e rappresentazioni. La questione è chiedersi come gli operatori interagiscono con i componenti della famiglia, come li vedono, che cosa vedono, che cosa cercano. Come contribuiscono, con al loro presenza e le loro azioni comunicative, alla co – costruzione di narrazioni familiari. Dalla patologia alla speranza Nel lavoro di cura possiamo individuare due principali teorie o posizionamenti: quello patogenico (patologia + creazione) e quello salutogenico (salute + creazione). L’orientamento alla patogenesi stabilisce una relazione lineare di causa – effetto tra fattore scatenante ed effetti provocati. L’orientamento alla salutogenesi invece pone i fondamenti sui punti di forza, sulle risorse delle famiglie e delle persone come base su cui costruire la propria normalità, collocare i processi di risoluzione e / o ripresa a seguito dell’identificazione di una condizione sfavorevole o aromatizzante. Questo orientamento privilegia la ricerca degli aspetti e dei temi funzionali, sani, riconducibili alle potenzialità e alle risorse. L’obiettivo è generare delle narrazioni che raccontino e descrivano qualcosa di diverso e più sano. La cura educativa orientata alla ricerca della bellezza “Agisci sempre per aumentare il numero delle possibilità”. Questo imperativo invita alla ricerca e attivazione di diverse possibilità di percezione e descrizione delle realtà e dell’esperienza. Moltiplicare le storie, infatti, implica proporre nuove punteggiature e versioni della realtà che vanno ad arricchire, integrare, rimodellare le versioni iniziali, statiche, chiuse su se stesse. Il lavoro di cura educativa consiste nell’introdurre variazioni, proporre sguardi differenti nei confronti delle proprie relazioni familiari, quindi di se stessi e della propria storia, andando a cercare cose piccole e belle, lavorando nella convinzione che esistono sempre tracce di bellezza. Bisogna accogliere queste tracce come un dono, valorizzarle e farle ri – splendere. L’idea di cura educativa orientata alla ricerca delle bellezza è nata grazie al lavoro con le famiglie multiproblematiche. Riflettere, quando si è immersi in innumerevoli problemi, sul proprio posizionamento mentale e sulla propria epistemologia della cura diventa un’operazione indispensabile. Un posizionamento estetico nel lavoro di cura Trattare i problemi partendo dalla ricerca di momenti, emozioni, elementi e aspetti di salute e di funzionamento aumenta il numero delle possibilità, articolando la narrazione in una prospettiva più dinamica, salutare ed educante. La proposta è specifica e attiva: si tratta di andare insieme a cercare, con uno sguardo curioso ed esplorativo, tracce di competenza e abilità, ma soprattutto di poesie e di bellezza, di immaginazione e desiderio, per rintracciare e vivificare la narrazione familiare. Si tratta di una postura mentale che si propone come estetica, ovvero sensibile alla bellezza delle relazioni tra per persone. Si tratta di cercare ogni segno di luce negli altri. Assumere un posizionamento estetico significa guardare e ascoltare con curiosità l’altro: è una sorta di reciproco spiazzamento al suo raccontarsi, per apprezzare insieme la sapienza delle storie. La bellezza vi è già nella quotidianità e quindi si tratta di risvegliarla, dispiegarla, vederla. Questo modo di posizionarsi nella relazione educativa ricerca il sentire, il sensibile, il vivo e il ri – conoscibile. È l’atto del ri – conoscimento che definisce la bellezza, in quanto si tratta di pensare la bellezza non come qualcosa che sta di fronte a noi, la fuori, ma come un accadimento auto – riflessivo, che è in relazione a noi e ci parla anche di noi. “Che cos’è il bello?” Un oggetto che pende forma, una storia che si trasforma perché prende luce, diventa visibile, le si dà voce, viene disegnata e scelta dal suo autore. Le parole non bastano: alla ricerca di nuove grammatiche L’utilizzo di domande ben pensate e la cura auto – riflessiva e auto – consapevole del proprio posizionamento on sono sufficienti per generare un cambiamento. Si scopre che la parola e il pensiero strutturato hanno dei limiti, in quanto presentano una forma definita, che non riesce a intercettare in modo esaustivo dimensioni come la bellezza, la complessità e l’autenticità. Proprio per questo, si utilizzano più spesso linguaggi e grammatiche capaci di dare voce ad aspetti della vita umana che non sono totalmente verbalizzabili: il racconto, la metafora, la poesia e i segni pre – verbali, il disegno, il suono della voce, con l’obiettivo di creare nessi impensati, per riuscire a far con – vivere e comporre elementi estranei, per ri – unificare la mente con il corpo. L’immaginazione e il ricorso al simbolico è una funzione dell’esperienza che lancia dei ponti, raduna elementi separati. Ognuno di noi usa i simboli. Essi danno volto ai desideri, stimolano certe imprese, modellano un comportamento, avviano successi o fallimenti. È possibile, infatti, lavorare con i simboli che una famiglia evoca, piuttosto che con i dati. L’operatore assiste, aiuta, accompagna la nascita dei simboli e delle connessioni che essi suscitano, nella profonda convinzione che l’altro, la famiglia, ne farà buon uso. Usare ‘immaginazione simbolica permette di accedere in modo leggero e veloce a una dimensione affettiva, emotiva e spirituale. CAPITOLO 7 – Tra micro e macrostoria: lo sguardo biografico per comprendere la vita familiare L’approccio biografico e autobiografico, soprattutto quando diventa plurigenerazionale, è una via per comprendere l’unicità di ogni famiglia; ci permette di vedere le connessioni tra il singolo sistema familiare e il contesto più ampio. Le narrazioni familiari ci aiutano a comprendere come cambia la vita quotidiana e come cambiano le relazioni per l’influenza delle determinanti sociali, delle appartenenze di classe, territoriali, dei ruoli di genere. Questo capitolo esplora il rapporto tra microstoria e macrostoria, tra lo sguardo educativo e quelli di altre discipline che mostrano l’influenza del discorso dominante sulle storie singole, sulle vite concrete delle persone. Per non dimenticare mai che le famiglie sono inserite in un contesto più ampio. Vi è una connessione tra la cultura familiare e il cambiamento sociale. Costruzioni biografiche Le pratiche biografiche e autobiografiche possono illuminare il nostro sguardo sulle famiglie e sviluppare una cornice pedagogica come possibile alternativa alla contrapposizione di due sguardi (psicologico e sociologico). Le storie possono offrire un modo di leggere le trasformazioni della vita familiare e un metodo di intervento educativo. La tradizione di ricerca biografica è molto sviluppata nel campo dell’educazione degli adulti. La vita è vissuta in presa diretta e per poterle dare senso dobbiamo guardarla retrospettivamente; solo le storie che raccontiamo ci aiutano a costruire tale senso. Per comprendere l’impatto della dimensione biografica sulla vita familiare c è necessaria l’immaginazione autobiografica, cioè la capacità di comporre sguardi multipli, andando oltre le nostre cornici disciplinari e professionali. Memorie familiari Le famiglie, nelle ultime 3 / 4 generazioni, sono cambiate. L’introduzione degli elettrodomestici nella vita di tutti i giorni e di tutte le famiglie è solo un esempio di come il mondo esterno entra continuamente nel microcosmo familiare. L’impatto della scolarizzazione dei figli è un altro esempio. A ogni nuovo ciclo generazionale, relazionarsi con la scuola è uno dei modi, per la famiglia, di aprire i propri confini, di rimettere in discussione i paradigmi consolidati. Le funzioni della memoria familiare sono: la continuità delle storie tramandate, che consente di conoscere le proprie radici; il racconto della nascita; il ricordo personale; la riflessività che nasce dal prendere le distanze e fare connessioni. Disordine e incertezza: quale idea di apprendimento per la famiglia? La discontinuità è la cifra della cultura familiare dei nostri tempi. Il concetto di ciclo di vita familiare diventa oggi controverso perché è andata in frantumi la regolarità e sequenzialità delle tappe, la loro durata e soprattutto i significati che si attribuiscono ai vari movimenti. Si esce di casa, ma non per sempre. Si crea un legame, ma preservando una forte individualità. Questo però non è un cambiamento omogeneo. Vediamo coesistere modelli e stili di vita differenti nella stessa area geografica, nello stesso condominio e nella stessa casa. Le trasformazioni più evidenti sono proprio nelle relazioni familiari, tra i generi e le generazioni, sia all’interno sia nel rapporto con il mondo la fuori. L’assenza di un modello unico, però, porta in primo piano la necessità di accompagnare a una scelta deliberata da parte dell’operatore. Sono richiesti nuovi apprendimenti, nuovi processi d comunicazione e di negoziazione. La famiglia in disordine, fondata sui sentimenti e sulle libertà individuali, richiede un surplus di negoziazione. Oggi c’è bisogno di parlarne, di conversare per costruire visioni e significati coordinati. Questo richiama una necessità di apprendimenti raffinati: abilità nella comunicazione, auto – consapevolezza emotiva e riflessività. Il disordine non sembra però ratificare la morte della famiglia, piuttosto testimonia quanto sia altro il desiderio di famiglia, di quel tipo di relazioni che chiamiamo familiari. Le storie ci dicono quanta energia e quante aspettative siano investite in quest’idea. Ci dicono anche quali apprendimenti vengono realizzati, a vari livelli: capacità di scegliere in un ventaglio più ampio di possibilità, nell’incontro con altre premesse ed altre epistemologie. creare le premesse per una cura delle relazioni familiari, quando dà voce alle prospettive di tutti, piccoli e grandi, interni ed esterni al sistema. Il contesto auto biografico costruisce uno spazio transizionale, dove le relazioni sono sufficientemente sicure non solo per raccontarsi, ma per aprirsi a nuovi apprendimenti. Tra il micro e il macro, la famiglia Abbiamo esplorato le biografie familiari a livello macro e micro: sul piano sociale le storie illuminano le trasformazioni dei sistemi organizzativi, istituzionali in continuo movimento sia a livello formare (leggi) sia a livello informale (stili di vita). A livello micro, le storie raccontano trasformazioni che avvengono nello sviluppo di un sapere biografico significativo. Due livelli che ritroviamo, contrapposti in una visione dualistica che contrasta il sociale con il soggettivo. una via verso la ricomposizione potrebbe essere quella di soffermarsi di più sul livello intermedio, cioè quello delle trasformazioni nelle relazioni concrete. Le interazioni che accompagnano ogni apprendimento individuale, infatti, avvengono a livello meso. Nella famiglia i contesti non sono semplicemente ambienti per l’apprendimento, ma sono essi stessi evolutivi, co – evolvono con noi. La vita familiare ha luogo questo livello, che è connesso sia al macro (che definisce vincoli e possibilità) che al micro (ogni componente della famiglia nella sua unicità porta un’informazione con cui fare i conti). L’apprendimento familiare è un deuteroapprendimento, cioè va oltre l’acquisizione di nuovi comportamenti o l’elaborazione di nuovi significati, che comporterebbero semplicemente un adattamento di cornici precedenti alle nuove informazioni in ingresso. La vita familiare chiede molto spesso di cambiare cornice. Questo è possibile perché viene offerta un cambio una cornice simbolica alla quale aggrapparci. È il noi, l’assoluto familiare. PARTE SECONDA Azioni cruciali nei servizi: verso un sapere incarnato, dinamico, riflessivo Sarebbe interessante sapere come le parole veicolano premesse. La premessa più potente è quella del deficit. I soggetti sottoposti a intervento educativo sono visti in una luce negativa: il rom, l’alcolista, il carcerato. Parole che non raccontano più una storia, non suscitano curiosità, possono ricominciare a farlo se proviamo a interrogarle e interrogarci sugli effetti che producono. Ciò che fa un servizio non è nel suo nome, ma nelle pratiche, nelle azioni e interazioni che vi si svolgono, nei processi che realizza. Se si tratta di un servizio educativo, stiamo parlando di processi trasformativi: apprendimento, cambiamento, scelta. Diventa indispensabile passare dall’epistemologia dei nomi e delle definizioni all’epistemologia delle azioni e delle storie. Proveremo a mostrare la molteplicità di situazioni, di relazioni e di condizioni lavorative in cui si muove un educatore professionale quando è sensibile alla famiglia. CAPITOLO 1 – Movimenti: il lavoro educativo con la famiglia Esempio di Silvia, Leyla e Jecky. La richiesta della mamma – potresti chiamare tu – genera un circuito riflessivo: a livello di contenuto (primo livello) Jecky sta chiedendo un favore, mentre a livello di messaggio (secondo) dice a Silvia “tu sei più capace di me”. La teoria della prof Formenti è semplice: ogni azione è un fatto mentale. Convoca forme di pensiero, sia verbale – razionale che pre – verbale, intuitivo, immaginativo. Noi sappiamo comunicare, sappiamo rispondere ai messaggi a livelli diversi e uscire in modo creativo dai circuiti riflessivi bizzarri. Ogni educatore lavora su situazioni che sono naturali fino a quando non interviene un ostacolo: è nel momento del breakdown, della crisi, dell’errore che si rende necessario l’apprendimento, il cambiamento e qualche volta un intervento esterno è utile. In termini di teorie accreditata, potremmo categorizzare l’azione di Silvia come qualcosa a metà tra lo scaffolding (l’allievo esegue il compito con l’assistenza dell’esperto) e il fading (l’allievo procede autonomamente, l’esperto fornisce solo suggerimenti). Attraverso questa telefonata, Leyla e Jecky acquisiscono specifiche conoscenze e competenze, e così facendo imparano ad apprendere. Ma soprattutto imparano nuovi contesti relazionali. Dove l’autonomia individuale non minaccia la relazione, dove si può affrontare un compito difficile perché l’altro ti è accanto. Un nuovo senso del noi? L’educatrice si trova in tempo reale a valutare ciò che c’è e c’è stato (le capacità individuali, la relazione tra mamma e figlia, la fiducia reciproca costruita e testata nelle interazioni precedenti) per scegliere un corso d’azione che sia utile alla trasformazione. L’educatrice offre una struttura che però non sorregge le persone, ma le azioni. Il contesto: dove siamo? Cosa stiamo facendo? Nulla di tutto ciò che abbiamo detto sopra avrebbe senso, se fuori di contesto. C’è una rete di relazioni significative intorno a ogni famiglia; sono necessarie alla sua sopravvivenza. Avere in mente una chiara mappa di queste relazioni è il primo passo dell’analisi del contesto. Quando parliamo di contesto nel lavoro con la famiglia intendiamo tante cose diverse. C’è un contesto sociale, o meglio una rete di relazioni significative, fluida e continuamente ridefinita: alcune relazioni sono silenti, altre si accendono o si smorzano, alcune sono conflittuali. Ci sono anche relazioni del passato che continuano ad agire come se fossero presenti: una volta che si è instaurato un legame possiamo spegnerlo come si fa con un interruttore. Ma il legame resta. I soggetti sono parte attiva di tutte queste relazioni, offrono e ricevono sguardi che costruiscono la loro identità, il loro benessere e malessere, le loro possibilità / impossibilità evolutive, le loro definizioni di un problema e delle sue possibili soluzioni. La circolarità delle comunicazioni, dei feedback, delle ridondanze, definisce il contesto come matrice di significati, ovvero dà senso a ciò che accade tra le persone. La rete delle relazioni è la risorsa più importante che ognuno di noi ha per crescere, per costruire la propria idea di sé e del mondo e per modificarla. Un educatore è qualcuno che sa come muoversi tra queste relazioni, come valorizzarle per sfruttarne le potenzialità, come prendersi cura dei legami riconoscendoli e rendendoli visibili. Per riuscirci deve fare quella che i sistemici chiamano analisi del contesto. Un aspetto più specifico del contesto sociale è il contesto istituzionale, il luogo concreto dentro il quale avviene l’intervento educativo: un’organizzazione di pratiche e di significati che propone cornici politiche e semantiche, le quali definiscono cosa può e non può accadere in determinate circostanze. Il contesto istituzionale non è definito solo da mandati, compiti o progetti. Ogni servizio ha una sua epistemologia e una sua ermeneutica pratica; ciò che si fa in quel contesto ha senso in riferimento alle sue cornici. Non si può lavorare fuori contesto; la caratteristica di base della comunicazione umana è la ripetitività, che rende prevedibile ciò che accadrà in un certo scambio. L’educatore che incontra la famiglia deve poter essere inquadrato dentro un sistema di attese. Se questi sistemi di attese sono caotici, scoordinati, scomposti (ognuno si aspetta cose diverse) ci sarà troppo imbarazzo e disordine per poter accompagnare una trasformazione. È utile interrogarsi sulle caratteristiche costitutive del’organizzazione di cui siamo parte, letta come una forma di vita che emerge dalle relazioni, nell’azione e nel linguaggio. La conoscenza delle regole del macrosistema può aiutare l’educatore nel leggere i contesti: se lavoro a scuola devo conoscere le regole esplicite e implicite di questa organizzazione, sapere se ci sono vincoli da rispettare o da interpretare in modo creativo. Se lavoro nel privato sociale devo sapere che il rapporto pubblico – privato è costitutivo del mio contesto. La logica della com – posizione ci viene in aiuto: l’obiettivo che tutti stiano un po’ meglio si traduce in un lavoro creativo tra operatori diversi per formazione, mandato istituzionale e sensibilità. Le equipe multi – professionali, gli incontri di rete possono diventare luoghi di costruzione di un pensiero complesso sulla famiglia e sulle possibilità di accompagnarne le trasformazioni, se tutti si mettono in gioco per comporre gli sguardi diversi. Se ognuno rimane incollato alle proprie verità, le altre professioni, gli altri modelli operativi, le altre visioni sono potenziali minacce al proprio ruolo, non occasioni di apprendimento e di trasformazione per sé, per il proprio servizio e per la rete territoriale. Bisogna comprendere che ogni scuola, ogni ospedale e ogni casa famiglia ha la sua anima organizzativa, la sue metafora costitutiva alla quale tutti contribuiscono attivamente portando dentro quel luogo le proprie azioni e il proprio immaginario. L’analisi del contesto dunque va oltre un prendere atto dell’organigramma. C’è del’altro: comprendere come il servizio evolve e si trasforma. Un cambiamento a livello istituzionale porta a ridefinire tutti gli interventi in corso. Tutti gli operatori sono chiamati a una maggiore consapevolezza di ciò che accade intorno. Il lavoro educativo si connota dunque sempre più come la capacità di leggere e usare in modo creativo le risorse e i vincoli presenti, ridefinendo in tempo reale gli scenari, gli obiettivi e le azioni concrete. Abitare l’incertezza, oggi, significa anche sapere che non c’è garanzia di continuità, l’azione educativa diventa ancora più unica. Emerge l’utilità di prendersi cura delle relazioni, di creare comunità di pratiche e percorsi riflessivi. La capacità di riflettere sul proprio posizionamento, sulle proprie azioni in relazione a quelle degli altri professionisti, diventa una competenza indispensabile per fare bene e stare bene nel proprio lavoro. C’è poi il contesto qui – e – ora, della relazione specifica con questa famiglia. Interrogarsi è importante. L’educatore che non si interroga rischia di essere balzato via o di essere fagocitato, di stare male e comunque di non essere utile alla trasformazione. Come nasce la relazione tra educatore e sistema familiare? Molte storie di relazioni tra famiglie e servizi raccontano l’impatto dello stigma, della svalutazione, della mancanza di ascolto. La famiglia è etichettata come patologica e disfunzionale, i genitori come incompetenti. L’inizio della relazione presenta molte insidie: pregiudizi non verificati, mancanza di comunicazione tra operatori che incontrano la famiglia in luoghi diversi, scarsa propensione alla costruzione condivisa di un progetto portano a cattive pratiche, che non tutelano mai abbastanza le relazioni. Sono cattive pratiche quando non si preoccupano degli effetti collaterali, degli esiti a lungo termine. Quando sono miopi o violente. Gli ingredienti dell’intervento educativo Per cominciare a leggere il lavoro educativo in chiave sistematica e positiva possiamo farci guidare da alcuni classici concetti che definiscono gli ingredienti base di ogni intervento: La domanda Di chi è questo intervento? A quale bisogno risponde? Il bisogno e la domanda sono da costruire, da interpretare. Più che un punto di partenza, la domanda è un esito. Esiste un modo per aiutare, che non si basi sul negativo, sul far sentire l’altro incompetente? Tra le vie suggerite, una possibilità consiste nel sostituire al bisogno il desiderio, all’aiuto la cura. La domanda sarà così una co – costruzione, in continua ridefinizione; una delle tante declinazioni dell’unica domanda vera, generativa, quella della relazione: chi sono io per te? Chi sei tu per me? Non si parla più di analizzare la domanda come se fosse un dato pre – esistente alla relazione, ma di generare domande multiple, capaci di dare senso alla relazione e alle sue continue trasformazioni. Le domande legittime di Heinz von Foerster sono quelle che non contengono già in sé la risposta, ma ci invitano al viaggio. L’invio Chi è l’inviante della famiglia? Chi ritiene che questo intervento s’ha da fare? Questo ci porta, a ritroso, al contratto. Un contratto è formalmente, un documento che sancisce un accordo tra liberi, contiene un do ut des (io do affinché tu dia) nel quale vengono fissati obblighi e diritti reciproci. Per essere davvero onesto, un contratto dovrebbe esplicitare tutti i vincoli non contrattabili e prevedere comunque un margine di negoziazione per i contraenti. Dal punto di vista relazionale, un contratto è un sì che viene chiesto alla famiglia e ai suoi membri. Viene chiesto di aderire a una proposta e di diventare parte attiva, assumendo una responsabilità. Il momento del contratto è uno dei più fertili dal punto di vista trasformativo. Un processo nel processo, che può generare grandi bellezze e consapevolezze. La circolarità tradotta in comunicazione Il concreto del lavoro educativo avviene in un flusso comunicativo incessante al quale le persone partecipano. Parole, silenzi, gesti, interazioni, presenze, assenze..tutto, nel sistema familiare e nel sistema famiglia – servizi, ha un valore di messaggio. Non si esce mai dal significato, dal linguaggio. I metodi della sistemica sono nati da questa consapevolezza. L’operatore sistemico partecipa alla comunicazione in modo attivo, tiene conto del processo comunicativo in atto e prova a perturbarlo alla ricerca di nuove possibilità. Usa se stesso come messaggio,usa la propria posizione nel sistema. Per provocare apprendimenti e deuteroapprendimenti. È responsivo, cioè adotta una postura di grande attenzione per i feedback, quelli da dare e quelli da ricevere. Il suo modo di comunicare non è centrato sull’intenzionalità del messaggio, ma sugli effetti pragmatici. Questa postura epistemologica è evidente nelle procedure inventate dai terapeuti della famiglia per condurre colloqui familiari congiunti: ipotizzazione, circolarità e neutralità sono le linee guida di una conversazione a più voci nella quale si generano informazioni attraverso il gioco delle differenze. L’equipe sistemica, adottando la postura dell’ipotizzazione, riconosce il valore parziale e temporaneo delle proprie idee sulla famiglia, che saranno coltivate e arricchite continuamente, per garantire una visione circolare e utile al cambiamento. L’ipotesi sistemica è il prodotto di una conversazione generativa nella quale gli operatori appaiono inizialmente lineari e ingenui, e solo discutendo riescono a prendere le distanze dai propri pregiudizi, grazie all’ascolto reciproco. L’incontro con le altre prospettive, la loro legittimazione, la discussione aperta, disciplina lo sguardo: è evidente che nessuno è nel giusto, che bisogna cambiare di livello, mettere insieme le diverse letture lineari, superando il giudizio, e formulare un’ipotesi più complessa, che tiene insieme le diverse visioni. Quando un’equipe diventa una mente sistemica riesce a sintonizzarsi sulla complessità della famiglia, a rispecchiarne la circolarità. La linea guida della neutralità sorge quindi come esito, come forma di rispetto per ciò che questa microcultura porta nella relazione. C’è però una grande differenza tra il lavoro terapeutico e quello educativo. I terapeuti sistemici incontrano la famiglia tra le mura di una stanza, una volta al mese, usano il linguaggio verbale per esprimere domande e sono vincolati soprattutto alla richiesta di cambiamento propria della domanda di psicoterapia. L’educatore sistemico, allestito quel setting mobile e policentrico, lavorando a stretto contatto con la famiglia in situazioni di vita quotidiana, dovendosi coordinare necessariamente con gli altri professionisti, ha altre possibilità per esprimere ipotesi sistemiche, per celebrare la circolarità e per assumere posizioni neutrali. I linguaggi animativi, propri della professione educativa, hanno il potere di convocare tutti, mente e corpo, e di far emergere le qualità sistemiche delle relazioni familiari senza necessariamente nominarle. Compito dell’educatore è allestire un contesto operativo come una nuova matrice di significati, uno sfondo nel quale la circolarità delle comunicazioni sia presente e possa trasformarsi. Alle tre linee guida della conduzione sistemica dobbiamo aggiungerne una quarta: la creatività, l’immaginazione. Giocare ruoli diversi, copioni diversi, immaginare altrimenti, sognare il futuro, sono azioni cruciali per la trasformazione educativa. La famiglia non va mai a dormire Quale teoria ci serve per inquadrare il lavoro educativo con la famiglia? Quale epistemologia? Ogni azione educativa con le famiglie è comprensibile se vediamo i singoli, le famiglie e i servizi come sistemi dinamici interconnessi e in continua trasformazione. L’azione educativa è uno dei tanti che interviene nella danza dei movimenti familiari più o meno armonici. L’azione educativa di carattere istruttivo corre il rischio di essere disarmonica. Può bloccare quello che era un passaggio naturale, può deviarlo, può intensificarlo, cambiarne il ritmo. L’azione educativa basata sull’idea di perturbazione ha qualche chance di essere ecologica se sviluppa una grande sensibilità verso il contesto e verso i processi comunicativi che lo costruiscono e commentano continuamente. La metafora del movimento permette di riconoscere delle forme e non sposa quindi l’idea del caos o del caso, ma di un tutto organizzato. D’altro lato, questa metafora, apre la mente verso territori nuovi per molti educatori. Di fronte a qualsiasi movimento, se lo interpretiamo come espressione della vita, della conoscenza di quel sistema, diventiamo curiosi. Dove ci porterà? Quali movimenti per stare tutti un po’ meglio? Dalle pagine di questo libro emergono quattro dimensioni della cura, fortemente intrecciate: la fedeltà del soggetto a se stesso, la cura dei legami, la cura del noi, l’apertura al sistema più ampio, sociale e naturale. Il primo punto sembra che riguardi il singolo; in realtà definisce la qualità delle relazioni. Imparare la fedeltà a se stessi, dire sì a quello che ci rende felici e no a quello che ci rende infelici, non dovrebbe essere così difficile. L’integrità del bambino può essere rispettata fin dai primi giorni di vita, se c’è comprensione delle sue competenze e della sua capacità innata di dire no. Se l’adulto comprende l’importanza della fedeltà a se stesso. Il secondo livello di cura riguarda le relazioni. Prendersi cura del legami significa innanzitutto puntare lo sguardo su qualcosa che già c’è, ma è stato forse trascurato, negata. Significa ricreare le condizioni materiali, psicologiche, organizzative per far incontrare i pezzi della famiglia che erano stati separati e garantire che l’incontro sia reale, cioè che avvenga in modo da ricomporre il senso delle interconnessioni, anche riconoscendone la complessità e la difficoltà. Prendersi cura dei legami non significa negare i problemi. Pendersi cura dei legami richiede un’attenzione per quei fili sottili, a volte sottilissimi, che tengono insieme il tessuto delle relazioni familiari, che possono essere ritrovati, riannodati, rinforzati se serve. Anche la cura per il noi, per la famiglia come tutto interconnesso, trae vantaggio dalla composizione, che tiene insieme il piano reale con il simbolico. Il senso del noi fa stare tutti un po’ meglio. La rappresentazione estetica del noi come insieme di parti interconnesse è un modo concreto di dare visibilità e celebrare le parti e il tutto, nutrendo il senso della famiglia all’interno. C’è il singolo e c’è il noi. Per concludere, una dimensione di cura indispensabile tocca il rapporto tra la famiglia e il mondo più ampio. Cura è costruire proposte educative che creino occasioni di partecipazione, perché il desiderio dell’altro, la voglia di esserci, di confrontarsi, nascono quando c’è il contesto giusto. Nel futuro dell’educazione con le famiglie dovrebbe esserci una prospettiva più aperta e consapevole della risorsa che è il mondo in cui tutti viviamo. CAPITOLO 2 – Prevedere l’imprevisto nella tutela dei minori I percorsi professionali sorprendono anzitutto chi li vive. Con tutela dei minori generalmente si definiscono quelle funzioni pubbliche e quei servizi che hanno il compito di affiancare le bambini, i bambini, le ragazze e i ragazzi in favore dei quali è richiesto un controllo, il quale può divenire palizzate dei diritti di qualcuno della famiglia. Pertanto è richiesto che le decisioni in proposito siano assunte da un’autorità giudiziaria. Ci troviamo, quindi, in contesti dove è necessario conoscere, decidere e agire assicurandosi più di qualche garanzia di avere visto giusti e di avere previsto giusto. Intervenire in una famiglia controllando, limitando, separando non può essere lasciato all’improvvisazione e richiede addirittura oggettività. Un imprevisto: Emilia ci sorprende potevano anche avere significati diversi da quelli istituzionali. Significati tutti da inventare. Ne era nata una bella metafora sulla genitorialità che poteva essere ancora esercitata dalla donna. Il limite poteva essere accolto non solo come negativo, ma come occasione di apprendimento. Credo che il processo de – istituzionalizzazione non possa essere considerato compiuto con la chiusura dell’ultimo istituto perché nell’intervento di tutela minori, in particolar modo se prevede l’accoglienza in comunità, è sempre presente il rischio di proporsi con un’ottica istituzionalizzante. Ottica che può presentarsi sulla scena in ogni momento, e non solo da parte degli operatori, ma che gli operatori devono essere in grado di riconoscere. Occorre che il processo riflessivo e auto – osservativo nei nostri servizi tenga sempre in meno due domande di fondo: come facciamo a esercitare i nostri doveri di controllo e le necessità dell’organizzazione, promuovendo insieme la libertà nei controllati? Domande che ci invitano a tenere viva una condizione paradossale, piuttosto che pensare di risolverla. Porre in atto e mantenere riflessioni su tutto il processo e non negare i paradossi e le contraddizioni che questo genera è l’unica via per non deviare nell’istituzionalizzazione dei servizi de – istituzionalizzati. Questa riflessione può essere utilmente sollecitata da tre interrogativi: • Genitori liberi o coatti? I servizi di tutela sono solamente caratterizzati da un significato coattivo: la presenza del tribunale che obbliga non può essere considerata secondaria. La dimensione coattiva non aiutala famiglia a fare un salto evolutivo, anzi si rischia di contrapporre due fronti immutabili. D’altra parte, sottovalutare che ci si trovi in contesti di obbligo sarebbe una mistificazione. Nelle situazioni obbligate si possono comunque individuare e promuovere spazi di libertà. Nella comunità mamma bambino, gran parte delle ospiti è collocata in forza di una decisione del tribunale. Normalmente, il giudice prescrive il collocamento in comunità del figlio insieme alla madre e, qualora questa non aderisca, solo del figlio. Questo significa che ogni donna in comunità, pur in una situazione apparentemente obbligata, ha scelto di starci. • Intervenire subito o dare tempo? Nelle comunità mamma bambino arrivano oggi situazioni sempre più deteriorato o cronicizzate. Sembra che certe famiglie in crisi non siano state viste prima, o forse siano stati offerti loro interventi che non hanno colto nel segno. L’istituzionalizzazione e la cronicizzazione sono fenomeni da sempre correlati, scambiandosi il ruolo di causa ed effetto anche a seconda dell’osservatore. Come operatori della tutela dei minori ci troviamo spesso nel dubbio se intervenire subito con scelte come la separazione o se dare tempo. Forse in alcuni casi, ancora guidati dal filtro creativo del lieto fine, dimentichiamo che intervenire subito non significare sottrarre tempo e porsi in attesa non significa sospendere l’azione. La cronicizzazione, anzi, potrebbe essere provocata da questo modo di vedere le cose. • Categorie di utenza o storie singole da ascoltare? Diverse teorie in ambito psicologico, sociologico e psicosociale ci hanno insegnato che la conoscenza umana non può fare a meno della categorizzazione. Però pensare e agire per categorie di utenza non è mai stato utile. Bisogna abbandonare l’idea di spiegare i problemi i di pensare gli interventi sulla base di categorie di utenza. Non bisogna seguire oggettive premesse. Il problema non è arrivare alla giusta categorizzazione, per attivare la giusta spiegazione e il giusto percorso. Al contrario, è utile confrontarsi con chi sta riflettendo con me (collega o utente) e comprendere come mai la storia che si sta vivendo venga letta proprio a partire da quelle e non da altre possibili categorie. L’esigenza istituzionalizzante di predeterminare le letture su fattori oggettivi assume spesso un valore costrittivo. Il cantastorie fuori campo Ritorniamo al lieto fine, senza l’intenzione di contestarne i contenuti: vivere insieme felice e contenti per tutta la vita è indiscutibilmente una gran bella storia. Ma è una storia che spesso contraddice la nostra percezione. Il cantastorie l’ha vista così e noi ci siamo accontentati, ma tutti i personaggi potrebbero raccontarla così? Non possiamo saperlo, e non è la loro condizione a dircelo: sono loro a potercelo dire e noi con loro a scoprirlo. Anche nelle situazioni più estreme, dove i più grandi sono pericolosi per i più piccoli, la comprensione e la scelta di intervento non possono che venire attraverso un racconto da fare insieme, tra gli operatori e le famiglie. In qualsiasi caso, con toni imprevisti. Dei possibili finali anche lieti occorrerà cominciare a costruire premesse e de – costruire illusioni. Prevedere l’imprevisto negli instabili equilibri Ci si trova in bilico. Essere in bilico è una condizione che può dirci molto sullo stato precario delle famiglie, ma anche su noi che lavoriamo insieme ad esse. Il bilico è la posizione provvisoria di un corpo che si trova in equilibrio instabile. È la condizione umana che ci pone in bilico. Stando in bilico, si rischia di cade. Se noi lavoriamo con l’obiettivo di non cadere mai, saremo certamente incapaci di ogni successo. Sottovalutare gli effetti della caduta potrebbe diventare mortale (funambolo). Noi purtroppo non sappiamo a priori quale sarà l’equilibrio migliore per noi, per i minori o per le famiglie. La tentazione che tutti noi proviamo in queste situazioni è quella di banalizzare e semplificare, pensando che la cosa possa essere tenuta sotto controllo. Ma non è così: possiamo solo cercare di assicurarci vicendevolmente, ma possiamo anche aprire spazi di cura delle relazioni, capaci di sollecitare, promuovere, osservare l’imprevisto. Quando capta che qualcuno scivoli, sia chi cade sia chi trattiene dal cadere riscoprono imprevisto il senso di quel legame. Non solo si attribuisce nuovo senso a quei legami, ma addirittura se ne riscopre l’esistenza, si riconosce che la relazione viene prima. Da operatori possiamo prevedere che l’imprevisto potrà far luce su legami preseti e possibili, sarà probabilmente il vero spazio educativo di quella storia. CAPITOLO 3 – Tracciare le connessioni: l’ADM come questione di famiglia Che cosa fa di preciso un educatore di ADM? La famigli è considerata come il luogo privilegiato per il benessere dei bambini; essa rappresenta materialmente e simbolicamente l’appartenenza e la storia di un essere umano in crescita, la sua identità. La possibilità per un educatore di entrare in contatto con la famiglia proprio nel suo ambiente di vita, costituisce una risorsa speciale a livello educativo e pedagogico. Poter interagire con la famiglia all’interno dei propri ambienti permette di co – costruire nella quotidianità delle strategie e modalità interattive resistenti nel tempo. Condizione perché trasformazione avvenga è la curiosità, un posizionamento che consente ai percorsi educativi di prendere avvio dalla caratteristiche di quella famiglia. In questo senso bisogna affermare che l’ADM è una questione di famiglia, in cui tutti sono chiamati a mettersi in gioco. ADM: una riflessione pedagogica tra premesse e definizioni Per dare senso all’ADM, viene chiesto a diversi educatori cosa sia per loro fare ADM. Prendendo in considerazione tre definizioni, emergono tante premesse e obiettivi eterogenei. I pregiudizi relativi all’ADM riguardano non solo quello che viene richiesto all’educatore, il suo mandato, ma anche il modo di considerare il bambino e la famiglia nell’intervento educativo, in modo di dare senso alle relazioni tra i diversi attori sociali coinvolti nell’intervento. L’ADM viene considerato sempre più uno spazio di possibilità nel quale poter inserire ogni volta qualcosa di differente. Il termine ADM viene usato per indicare in maniera approssimativa e generica interventi molto diversi, che hanno come oggetto evidente il minore, ma poi assumo sfaccettature e connotazioni differenti, dall’assistenza all’animazione, dal sociale all’educativo. La famiglia, secondo la lente che si sceglie, può apparire come figura principale, come sfondo o contesto da tenere più o meno in considerazione, a volte come risorsa, altre come vincolo o addirittura come motivo di sofferenza, difficoltà e disagio – per il minore e anche per l’operatore. Il nome ADM indica “Assistenza Domiciliare Minori”. Tre termini che apparentemente non presentano alcuna ambiguità, ma quando sono declinati nella prassi, nel fare, si rivelano complessi e sfumati. Assistere viene per loro interpretato come dare il proprio contributo con la presenza. L’assistenza, quindi, è un’attività di sostegno e di aiuto offerto o ricevuto da privati o enti. Ad – sistere è già sostenere, aiutare, testimoniare, accompagnare e sviluppare. La specificità di questa assistenza è legata al luogo dove avviene e al suo principale destinatario. Questa definizione presenta due ordini di problemi: da un lato non riesce a includere tutte le descrizioni che gli educatori fanno del proprio relazione; conoscersi, interrogarsi e osservarsi a vicenda in modo da esplorare sia le premesse di partenza sia nuove possibili strategie, è la vita perché un intervento educativo domiciliare riesca e diventi uno strumento di facilitazione verso la trasformazione. È necessaria una pedagogia della famiglia capace di tenere sempre presenti e valorizzare le risorse dei membri di quella famiglia, la loro storia e le loro evoluzioni. È proprio la storia di quella famiglia, le modalità con cui i membri del sistema la raccontano e si raccontano, la base da cui partire per co – costruire nuove storie e nuove narrazione. Interagire con una famiglia partendo dalle sue risorse e capacità può apparire a un educatore più faticoso. In gioco non c’è solo l’aspetto professionale, ma quello personale: anche l’educatore è chiamato a interrogare se stesso, a mettersi in discussione, a modificarsi e questo può generare fatica, sofferenza. Una famiglia che si sente conosciuta e riconosciuta nelle sue peculiarità e capacità diventa un insieme di persone che si sentono legittimate a chiedere aiuto nel momento di bisogno, senza sentirsi giudicate negativamente per questo. Nell’ecologia dei sistemi, lavorare con la famiglia vuol dire sperimentare percorsi, strategie, posizionamenti che permettano a tutti gli attori coinvolti di stare bene e di concorrere alla co – costruzione di storie nuove e condivise seguendo il principio di “agisci in modo da aumentare il numero delle possibilità”. CAPITOLO 4 – Comporre i legami messi alla prova dal carcere Mamma arrestata. E Michele? Michele viene ospitato in una comunità. Ci vorrà del tempo perché i contatti con la mamma riprendano. Nel frattempo non hanno notizie l’uno dell’altra. In questa frattura comunicativa si inseriscono gli interventi raccontati in queste pagine. L’arresto del genitore è un momento topico che spezzai rapporti e mette in pericolo i legami. I primi a esserne vittima sono i figli e il nucleo familiare, violato nella sua interezza e organizzazione. Il carcere sembrerebbe non consentire alcuna ricomposizione. Eppure è il luogo dove questo intervento è necessario. Lo è per i figli, che devono mantenere i contatti con il genitore detenuto, comprendere ciò che è avvenuto, ritrovare i punti cardinali per orientarsi e fare le proprie scelte. Lo è per il genitore che resta a casa a occuparsi della famiglia rimasta orfana. Lo è per la comunità che, in un’ottica di prevenzione, ha tutto l’interesse a salvaguardare una parte vitale e strutturale dei suoi stessi legami. Il progetto di cura che appare possibile e necessario è il ricongiungimento: da quello più immediato, cioè il colloqui in carcere, a quello più lontano nel tempo, un ritorno a casa dove sia possibile riprendersi la vita. La carcerazione determina una catena di eventi che la famiglia subisce e vive. È necessaria una pratica compositiva. Compositiva per i diversi piani psico – socio – educativi che integra. Compositiva nell’obiettivo concreto di ri – connettere i legami interrotti. Lavorare in un’istituzione totale come il carcere è un buon esercizio per l’ascolto e la cura, dell’altro e di sé. Vi è bisogno di una pratica strutturata e da qui nasce Bambinisenzasbarre. Una pratica sostenuta da una posizione etico – filosofica che guarda alla comunità sociale in una prospettiva solidale e inclusiva, dove la composizione assume il valore di prevenzione sociale e protezione dei diritti dell’infanzia, che resta la parte più debole e più a rischio quando l’ambiente sociale non si fa carico dei suoi bisogni fondamentali. Tra questi, il mantenimento dei legami con i genitori è il primario. Non sempre i bisogni trovano nei diritti la soluzione, e questo ci fa entrare nel vivo del problema della cura delle relazioni. Il contesto istituzionale: il carcere e le sue leggi I bambini che entrano in carcere per incontrare un genitore sono tantissimi. Il colloquio è un momento prezioso e cruciale per la cura del legame; per questo le istituzioni devono fare in modo che avvenga nelle condizioni migliori. La famiglia rappresenta non solo un sostegno importante durante la detenzione, ma l’ambito in cui la persona detenuta può trascorrere parte della pena, quando vengono adottate misure alternative al carcere. Particolare attenzione deve quindi destinarsi alla conoscenza, tutela e valorizzazione della rete primaria di relazioni. L’Area Pedagogica degli istituti di pena ha tra i propri obiettivi la promozione della responsabilità genitoriale. Il recupero della relazione con i figli sembra portare la persona detenuta, attraverso l’assunzione di responsabilità a ritrovare una motivazione al cambiamento. Vi sono molte norme a favore della genitorialità, proprio volte alla tutela delle relazioni familiari. Quella che rappresenta un evento importante nel quadro complessivo delle riforme dell’ordinamento penitenziario è la legge Finocchiaro, che permette l’uscita diurna per recarsi a lavorare o per accudire i figli. Importante perché attribuisce specifica attenzione al rapporto genitori – figli. Nonostante tutti gli sforzi di umanizzazione delle relazioni nel carcere e di adeguamento degli ambienti e dei comportamenti, la cultura carceraria, le strutture, le prassi, incidono in modo determinante sulla possibilità di prendersi effettivamente cura dei legami e di rispondere appieno ai bisogni dei bambini e delle famiglie. Un intervento a più livelli L’intervento di Bambinisenzasbarre combina due dimensioni: da un lato la responsabilità contenuta nel mandato istituzionale e il rispetto dei suoi vincoli, dall’altro la flessibilità e creatività dell’appartenenza al privato sociale, con la possibilità di fare ricerca, innovazione e sperimentazione. È una cura che appare senza mediazioni possibili a primo approccio. Invece proprio la mediazione è lo strumento chiave da mettere in campo nello scambio relazionale con i genitori detenuti e i loro cari, con il personale penitenziario e con gli altri operatori. Una mediazione che consente di affrontare le specificità della comunicazione che si attiva in questo contesto. Una comunicazione dove ci si sente tutti più scoperti. È come se ognuno fosse più parlante. Quando si è lì dentro, anche per chi è libero di uscire, i corpi sono sottoposti a un contenimento del tutto particolare, sul piano simbolico e reale. L’esperienza del carcere è l’esperienza della separazione, che tocca il corpo e la mente, e forse separa ulteriormente moltiplicando le separazioni possibili. Il carcere è il racconto della separazione. Quella dai figli è forse la più dolorosa. La nostra attenzione va innanzitutto al bambino, seguendo l’ipotesi che la sanzione penale, interrompendo i rapporti affettivi, intervenga come un fatto traumatico nella sua vita. I figli, attori invisibili, che subiscono scelte e regole dettate dagli adulti, diventano l’anello debole di una catena di eventi che li priva della risorsa affettiva più importante. Nel prenderci cura delle relazioni familiari mettiamo al centro il benessere del figlio, sapendo che questo non è raggiungibile indipendentemente dal benessere del genitore. Per analizzare obiettivi così complessi agiamo a più livelli: le attività di carattere psico – pedagogico in carcere e le azioni di rete a livello locale, nazionale e internazionale. Il mantenimento della relazione durante il periodo di carcerazione è riconosciuto come diritto del bambino al legame fondamentale per crescere e come diritto – dovere del genitore ad assumersi la responsabilità e continuità del suo ruolo. La tutela della relazione consente alla persona detenuta di recuperare un’identità genitoriale persa o a rischio, che cerchiamo di rendere visibile e valorizzare. Ciò significa riconoscere il bisogno profondo di continuità del legame affettivo per tutte le persone coinvolte. È necessario privilegiare il diritto del figlio al mantenimento della relazione e di favorirne l’inserimento nel tessuto sociale, mettendo a fuoco per ogni bambino il quadro complesso della sua realtà psicologica, scolastica e familiare. Nei confronti del genitore, parallelamente, è necessario realizzare un lavoro di mediazione che gli consenta di riconnettersi con la rete di relazioni da cui è separato a causa della detenzione e con una rete di rapporti istituzionali che coinvolge i servizi interni al carcere, i servizi sociali territoriali, il Tribunale per i minorenni. Una rete che si allarga alla famiglia affidataria, se presente, o alla comunità che ospita i figli, alla scuola, all’ospedale e alle relazioni amicali e prossimali. Prendersi cura di questa rete di relazioni complesse significa costruire di fatto una rete nelle reti, specifica, dedicata al mantenimento del legame tra genitore e figlio. La cura dei legami in carcere: temi emergenti L’arresto della madre determina la rottura della relazione primaria e il collocamento in comunità del bambino. La questione femminile è uno dei primi temi a emergere: le donne iniziarono un lavoro di sensibilizzazione istituzionale per imporre all’attenzione del legislatore il problema dei figli. Anche per merito di queste lotte sono state approvate leggi penitenziarie in tema di figli, anche se incapaci di risolvere il problema della separazione forzata e traumatica della prima fase dopo l’arresto, la più delicata. Periodo in cui il bambino non ha più contatti con la madre, non sa cosa sia successo, mentre la madre a sua volta non ha notizie del figlio. Questa condizione può durare diversi mesi, e un intervento tempestivo di ricomposizione della comunicazione può risultare determinante. Colpevoli e innocenti: la persona non è il reato. Una distinzione che diventa linea – guida prioritaria di qualsiasi intervento educativo in carcere. Tocca la coppia figlio – genitore, ma anche gli operatori e il personale di polizia penitenziaria. Il carcere è un’istituzione totale connotata da regole e vincoli. La resistenza più evidente è lo squilibrio relazione che divide colpevoli e innocenti. Chi sta dentro è colpevole; chi sta fuori è innocente. Questo automatismo investe soprattutto gli operatori, che vivono quotidianamente dentro il carcere. • Non assecondare bugie né grosse né piccole non ci sostituiamo al genitore per raccontare la verità sul genitore detenuto, ma nemmeno alimentiamo le bugie. Il fine è guardare la fiducia del bambino rispettando i diritti della persona • Attenzione al bambino prendersi cura di ogni singolo bambino • Attenzione al genitore, ricerca di alleanza e offerta di modelli positivi in un’ottica di accompagnamento alla presa di responsabilità genitoriale, mostriamo all’adulto, con le nostre posture e parole, modalità di comportamento funzionali ai bisogni e alle emozioni dei figli, ma senza atteggiamenti istruttivi • Scambio e condivisione di storie se si conosce la storia del bambino e del genitore, si può avviare quel processo di cura dei legami • Ascolto e sostegno nei confronti delle madri il benessere del bambino è direttamente influenzato dalla sua relazione con la madre L’accompagnamento del genitore detenuto: gruppi di parola e punti d’ascolto I gruppi di parole e i punti d’ascolto rappresentano il lavoro storico dell’associazione. Da queste attività nasce il lavoro di sostegno, mediazione e presa in carico, con l’obiettivo di innescare tutti i meccanismi d’aiuto disponibili, nella prospettiva di una ricomposizione dei legami affettivi e sociali. I gruppi di parola sono incontri collettivi di discussione e confronto. I temi che occupano queste riunioni sono principalmente l’esplorazione dei bisogni dei figli e la sofferenza, che il gruppo aiuta a stemperare facendo scoprire analogie, superando la paura di esporsi e sperimentando il valore delle differenze. Il gruppo di parola permette lo scambio di informazioni e il confronto, il racconto autobiografico che è anche racconto sociale e comunitario. Il gruppo è anche possibilità di mettere in discussione le modalità di comunicazione, individuare le proprio e scoprire un modo diverso di fare comunità, basato sull’accettazione dell’altro. Un tema centrale è quello dello svelamento della condizione detentiva. Lo svelamento è un processo che comporta un lavoro di auto – svelamento, dove il primo a doversi misurare con l’accettazione della propria storia e della detenzione è il genitore. Un processo che richiede, da parte degli operatori, un accompagnamento, che mette in campo l’ascolto attivo. I punti d’ascolto: “punti” in quando individuiamo un tempi e uno spazio per il colloquio individuale con il genitore. “D’ascolto” perché è la modalità con cui si svolgono, che prevede una reciprocità. Tempo, spazio e modalità sono determinanti: in carcere significano conquistare uno spazio per sé, protetto, con un tempo definito, scandito, per condividere decisioni e interventi. Dalla storia individuale parte l’analisi dei bisogni e inizia il lavoro di rete interno all’istituzione, innanzitutto con l’Area Pedagogica del carcere. Prosegue con la rete esterna, la famiglia, i servizi e così via. I gruppi di parola e i gruppi d’ascolto si sono confermati come strumenti formativi ed educativi di grande impatto. Prendersi cura dei legami significa realizzare una sorta di mediazione integrale, in primo luogo da parte degli operatori, ma che diventa un esercizio a cui invitare anche i genitori e le famiglie. In questi incontri è possibile prendersi cura delle storie familiari. Lo Spazio Giallo ha permesso uno sbocco sul territorio, rivelando nuove potenzialità nel lavoro di connessione tra dentro e fuori. È fuori dal carcere, infatti, che il genitore deve affrontare la prova di realtà, ritrovare il proprio posto nella famiglia, con i figli, nel lavoro e in una rinnovata responsabilità sociale. CAPITOLO 5 – Posizionarsi nel conflitto: l’educatore a Spazio Neutro La parola conflitto richiama immediatamente l’idea di opposizione di due o più punti di vista che non riescono a trovare una forma di convivenza, di complementarietà e si scontrano in modo simmetrico. Gli effetti dell’urto possono variare. Dal conflitto possono nascere conseguenze positive: il processo di differenziazione dall’altro e di emancipazione prevede sempre momenti conflittuali. Dal conflitto possono derivare effetti negativi, sofferenze, violenze, tanto che può essere visto come un nemico da combattere, da eliminare. E in famiglia? In alcune famiglie il conflitto assume termini e proporzioni da generare sofferenze, in altre è visto come un tabù da evitare, ma nella maggior parte è affrontato come un fatto della vita e usato per fare passi avanti significativi nelle relazioni e nello sviluppo individuale. Spazio Neutro È nato per sostenere e favorire il mantenimento della relazione tra il bambino e il genitore o adulto di riferimento per lui significativo, in quelle vicende familiari in cui questo bisogno non è rispettato, a causa di conflitti intrafamiliari o situazioni di disagio. I servizi “per il diritto di visita e di relazione” diffusi in molta parte del mondo occidentale devono la loro diffusione a un mutamento di sensibilità che riguarda le relazioni tra genitore e figli e l’idea stessa d’infanzia. Molti Stati recepiscono nel proprio sistema giuridico la Dichiarazione dei diritti dell’infanzia: gli Stati devono rispettare il diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi di mantenere le relazioni personali e contatti diretti in modo regolare con entrambi i genitori, salvo quando ciò sia contrario all’interesse superiore del fanciullo. Le famiglie che giungono al servizio sono inviate dal Tribunale per i Minorenni in modo coatto attraverso provvedimenti nei quali l’autorità giudiziaria intende sostenere e / o controllare la relazione tra adulto e bambino in un luogo protetto. I principi teorici su cui si fonda Spazio Neutro si riferiscono al valore del legame parentale, al significato delle origini personali, al diritto dell’individuo a tenere vive le proprie radici biologico – storiche, alla centralità del bambino inteso come essere più fragile all’interno delle relazioni intra – familiari. Molte famiglie sono inviate perché stanno vivendo una situazione si separazione altamente conflittuale; casi in cui i figli vengono affidati a uno dei due genitori e questi ultimi chiedono loro di schierarsi. È faticoso quindi trovare uno spazio per mantenere un legame sereno con entrambe le figure di riferimento. In questi casi, uno spazio neutro, non appartenente a nessuno dei due genitori, può facilitare i genitori nel riconoscere il bisogno / diritto del bambino a veder rispettati i suoi affetti. Al servizio Spazio Neutro è richiesto di costruire con la famiglia un progetto che renda possibile il mantenimento del diritto di visita e di relazione del bambino. Il lavoro è svolto in stretta connessione con i colleghi della Tutela Minori. Rispetto all’incarico ricevuto, Spazio Neutro deve rendere conto attraverso relazioni scritte al Tribunale che ha emesso il decreto. Alla famiglia viene quindi prescritto di collaborare con Spazio Neutro, ma può rappresentare una difficoltà. I fruitori che non scelgono liberamente di ricorrere a Spazio Neutro possono incontrare diverse difficoltà nell’accettare l’imposizione e possono rifiutarsi di vivere la relazione in uno spazio semi – pubblico, sottoposto ad osservazione e valutazione. In questo servizio è molto importante passare da un intervento di mera garanzia della relazione, in cui l’azione di controllo è in primo piano, alla possibilità di innescare processi di apprendimento a partire dalla crisi che ha portato all’ingresso nel servizio. Questo passaggio richiede un lavoro di relazione che implica la collaborazione attiva di tutti i protagonisti. Il percorso a Spazio Neutro prevede diversi tipi di intervento: • Colloqui individuali con i genitori • Colloqui con i minori • Incontri protetti tra il bambino e il genitore escluso per effetto del conflitto o ritenuto dannoso L’esperienza del conflitto: eventi ed emozioni La storia di Massimo (“mi sono arrabbiato con la mamma, ma non ho aggredito nessuno” – “voglio decidere di non venire più qui per vederti”) arriva a Spazio Neutro attraverso una richiesta del Tribunale Ordinario. Alla separazione il padre esce di casa e ritorna dalla famiglia d’origine. Massimo rimane con la madre e vede il padre due volte a settimana. Gli adulti riportano difficoltà rispetto alla gestione dei rapporti; si susseguono accuse di incompetenza nel prendersi cura del figlio. Poi vi è un momento critico, un litigio tra i genitori per questioni di soldi, nel quale il padre prende a pugni la macchina dove la madre si trova col figlio. Quest’ultimo definisce l’episodio “l’aggressione”. Spesso a Spazio Neutro si incontrano storie già scritte, con un copione rigido, ripetutamente proposte a interlocutori che hanno mandato valutativo e di conseguenze fissate nei loro significati. La rappresentazione estetica: dare forma al conflitto Ricercare una rappresentazione estetica, sensibile e immaginativa del conflitto significa sia proporre concretamente alle persone con cui lavoriamo la ricerca di una rappresentazione alternativa del problema, sia ascoltare le metafore, le immagini che emergono spontaneamente nei loro racconti, come parole chiave che rintracciamo nel testo che l’altro ci porta. La situazione conflittuale spesso ha come sintomo le storie che vengono raccontate dai protagonisti. In queste situazioni si assiste a racconti saturati di attribuzioni di colpe. Come fa notare Prandin Se il racconto saturato dal problema non permette di ricontestualizzare l’esperienza, di costruire versioni diverse e rinnovate della storia, è improbabile che queste trame narrative permettano agli adulti coinvolti, ma soprattutto ai figli, di sviluppare salutari rappresentazioni di sé e della propria famiglia. CAPITOLO 6 – Costruire consapevolezza nella relazione con le famiglie Lavoro con gli adolescenti? Quartiere Barona di Milano, colloquio di selezione per un centro diurno per adolescenti. Inizi a lavorare con i ragazzi di 12 / 14 anni: è il mondo che ti aspettavi, fatto di piccoli amori e mille domande, di storie del quartiere, della scuola che annoia. Ma è tutto qui il lavoro dell’educatore? Il lavoro educativo con gli adolescenti non è come te lo aspettavi. C’è una cosa strana che era rimasta velata, inaspettata, veramente singolare: i ragazzi hanno una famiglia. Un problema centrale è: come conosciamo la conoscenza? L’educatore entra sempre in interazione con sistemi, anche se non sempre ne è consapevole. Ancor più: l’educatore diventa parte di un sistema di cui tenta di conoscere la complessità e all’interno del quale promuove azioni rivolte a una qualche forma di cambiamento. Come possiamo diventare consapevoli della nostra maniera di conoscere questi sistemi? Quali pratiche – del corpo, del pensiero e delle emozioni – mi permettono di sentirmi, pensarmi, ascoltarmi come parte del sistema e quindi di agire efficacemente con esso? Questo itinerario si snoda all’interno di relazioni concrete, vissute tra persone, alla ricerca di quel filo conduttore che tiene insieme le molteplici esperienze di un educatore, e cioè la sua autoconsapevolezza. Il legame tra conoscenza di sé e rapporto educativo ha solide fondamenta. La conoscenza del mondo e del sistema complesso come quello tra famiglia e operatori, non può prescindere dallo studio della mente che conosce e dei suoi condizionamenti. Il Centro diurno: “Vivi ciò che sei” Il Centro diurno “Vivi ciò che sei” accoglie ragazzi e ragazze tra gli 11 e i 17 anni. Il Centro accoglie utenti solo dietro invio dei servizi sociali, alcuni con decreto del Tribunale per i minorenni. Il livello di gravità delle situazioni familiari è tale da prevedere un intervento dei servizi, ma non così grave da richiedere l’allontanamento del minore dalla famiglia. Il servizio si configura come realtà d’intervento di medio o lungo periodo caratterizzata da una metodologia educativa basata sul gruppo, pur mantenendo una presa in carico individuale. Crescere con le famiglie La metodologia dell’intervista permette di dare voce all’esperienza degli operatori: sono loro a decidere quali sono i temi e i ricordi pertinenti. Nelle interviste c’è un invito alla riflessività: ogni episodio raccontato viene anche riletto dagli intervistati nelle sue implicazioni di senso. Questo consente di mettere in evidenza alcuni aspetti importanti nel lavoro con le famiglie: Interagiamo con sistemi Sergio racconta quando ha sentito per la prima volta la presenza della famiglia nella sua interazione con un ragazzo che amava terrorizzare i suoi compagni con azioni di bullismo. (Sandro sorride – fratello maggiore lo insulta e insulta il Centro per il lavoro che fa con Sandro) Questa situazione mostra chiaramente che l’educatore è parte di un ampio sistema di relazioni entro il quale interviene, e l’intervento da lui condotto può avere effetti che vanno oltre il bambino. Il primo approccio alla famiglia da parte degli operatori ricalca il modello della famiglia assente: la famiglia non è in alcun modo considerata nella cornice di riferimento con cui si guarda al minore. La capacità di includere la famiglia originaria in un servizio per i minori rappresenta un nodo cruciale. Subito dopo questo modello viene quello della diffidenza verso una famiglia vista come distante o potenzialmente problematica. Vi sono poi situazioni in cui la famiglia è etichettata definitivamente sbagliata: carente, deviante, patologica. Fare silenzio (Livio – maltrattato da un compagno. Madre – non soddisfatta di ciò che sta facendo il Centro) Questo racconto mostra uno scontro tra opposte visioni: la mamma vede nella situazione una minaccia per il suo bambino, l’educatrice vede i progressi che lui sta facendo. Le cornici di senso di genitori ed educatori a volte non coincidono. Due interpretazioni diverse spesso conducono a un conflitto. Una reazione tipica dell’operatore è la sensazione che la famiglia ostacoli il lavoro del Centro. A volte l’educatore è deluso perché scorge nella domanda della famiglia un mancato apprezzamento per il lavoro svolto. Potremmo dire che il genitore contiene il passato del ragazzo, mentre gli educatori puntano al futuro. Due dimensioni di vita che devono integrarsi in uno sguardo comune, condiviso, che considera le radici del minore e la bellezza dell’albero che può diventare. I conflitti sono inevitabili, ma possono diventare tappe di un percorso compiuto insieme alle famiglie, durante il quale avviene la scoperta dell’altro e dei propri limiti. Trovare la posizione, né troppo né troppo poco Nel prossimo racconto, un educatore ricorda l’incontro con una madre scappata da un campo Rom e i suoi 5 figli. La signora, descritta come una chioccia, è diffidente verso gli operatori. Nell’interazione educativa accade di fare troppo o troppo poco. L’atto educativo è frutto d un posizionamento, che è fisico, ma soprattutto mentale, fatto di emozioni e pensieri. Trovare la giusta posizione è una ricerca che permette di orientare la naturale propensione all’altro entro un percorso studiato e condiviso, all’interno del quale è possibile ristabilire i giusti confini rispetto alle richieste della famiglia. Famiglie disfunzionali Quasi tutti gli educatori riconoscono di aver avuto un pregiudizio nel primo approccio con le famiglie. La famiglia può essere dipinta come il nucleo di negatività da cui è necessario allontanare il minore. Agli occhi dell’educatore, la famiglia diventa il luogo dove si rovina il lavoro fatto al Centro. Ma questa rappresentazione della famiglia pone grandi limiti alla capacità d’azione degli operatori. In questo passaggio è cruciale il lavoro di gruppo con i colleghi nella riunione d’equipe e nella supervisione. Senza lo sguardo dell’altro, il suo rispecchiamento, senza il confronto di idee, è difficile riconoscere i propri pregiudizi e schematismi mentali. I confini della famiglia I racconti degli educatori sono pieni di confini, violati, guadagnati, sanciti o difesi: i confini spazio – temporali del servizio, i confini del proprio coinvolgimento personale, i confini delle persone che s’incontrano. La famiglia nel nostro modello culturale è uno spazio privato, chiuso anche fisicamente dalle mura della casa, dove avvengono i rapporti intimi, personali. Oltretutto le mura di casa sono quelle entro le quali gestire i problemi. Entrare nelle case, entrare nei rapporti familiari per svolgere interventi di mediazione è vissuto con timore: si varca uno spazio privato e si entra in contatto con un mondo i cui confini non sono chiari, perché molti aspetti della famiglia non sono visibili. Le proprie relazioni familiari Il contatto con le famiglie sollecita il ricordo o la riflessione sulle proprie esperienze personali. Questo contatto immaginario tra mondi familiari può dare origine a percorsi autoeducativi in due direzione: l’esperienze positiva di comunicazione con le famiglie del Centro porta nuovo valore e spessore alle proprie relazioni familiari; il contatto con situazioni di conflitto riporta alla memoria i conflitti della propria storia familiare. L’atto educativo consiste nell’offrire ai ragazzi e alle famiglie un punto di vista diverso, che colloca i conflitti in un orizzonte più ampio, all’interno di una vicenda personale e relazionale di crescita. In questo modo entra in gioco anche l’idea, da parte dell’educatore, di educarsi per educare oppure educare per educarsi. Differenze d’età Nel nostro usuale percorso formativo viene rinforzata l’idea che l’educatore sia più grande dell’educando. Che cosa accade quando queste premessa implicita viene messa in discussione? L’imbarazzo è superato pensando l’intervento in una prospettiva più ampia. L’asimmetria nella relazione è fondata in primo luogo su una visione più ampia: l’educatore vede il punto di partenza e un possibile punto d’arrivo. È la completezza di questa visione che definisce educativo l’intervento. Una visione che determina un passaggio mentale nell’educatore: è costretto a spostarsi dall’imbarazzo a una posizione nuova, che metta a fuoco meglio il suo ruolo e le sue possibilità d’azione. L’altro aspetto di asimmetria è dato dalla capacità dell’educatore, che la famiglia non ha e che viene condivisa nel processo di mediazione. Nella mente dell’educatore Il percorso di consapevolezza che abbiamo descritto si avvale degli strumenti della PTM. Definiamo ora alcune pratiche di cura della relazione, e quindi di sé, che possono essere riassunto in “ Educarsi per educare”. Le risposte automatiche L’uomo è un essere abitudinario e le abitudini sfuggono alla sua consapevolezza. Si può fare riferimento ai riflessi condizionati di Pavlov: risposte automatiche agli stimoli esterni. Egli ipotizzò che il comportamento degli essere umani si basasse su una serie infinita e complessa di riflessi condizionati. Se l’educatore, quindi, reagisce in maniera automatica a una serie di stimoli, come può l’interazione educativa avere un carattere intenzionale? L’automatismo della risposte pone grosse domande di senso dell’agire dell’educatore; in particolare rende necessario un lavoro di auto – addestramento che sveli queste risposte automatiche e introduca una pausa – una comprensione – tra lo stimolo e la risposta, creando uno spazio nel quale sia possibile ampliare le proprie possibilità di scelta, e offrire dunque una risposta diversa. Comprendere lo stimolo fa riferimento alla capacità di riflettere sull’intervento educativo, trovando cornici più ampie che permettano un’interazione più orientata. Indica uno stato psico – fisico – emotivo che l’educatore può ricercare nel vivo dell’interazione educativa, una condizione di attenzione all’altro e a sé che permetta di riconoscere l’insorgere di una risposta automatica e scegliere se utilizzarla o meno. È uno stato da ricercare e allenare. L’interprete Gazzaniga scoprì che la parte sinistra del cervello fornisce costantemente spiegazioni plausibili, ma spesso inventate, a quanto viene elaborato dall’emisfero destro, che non ha la capacità di pensare o comunicare. Gazzaniga ha dato il nome di interprete a questo meccanismo, che è in grado di influenzare anche la memoria. L’interprete stabilisce un percorso narrativo delle nostre azioni, emozioni, sogni e pensieri. È il collante che unifica la nostra storia e crea la nostra percezione di essere un agente razionale completo. Costruisce spiegazioni anche sulle interazioni educative, sulle motivazioni degli eventi e dei processi comunicativi, sulle cause dei comportamenti. Nella pratica educativa tutto ciò comporta la necessità di sviluppare e allenare un’attenzione vigile per il modo in cui ci raccontiamo gli eventi, per i presupposti delle inferenze logiche nostre e altrui, promuovendo un’attitudine di sospensione del giudizio e di esplorazione dei significati che ognuno di noi dà alle situazioni. Una pratica di consapevolezza nella relazione L’accoglienza è costruzione di un luogo ospitale, uso di parole non neutre né formali, capaci di veicolare le emozioni, i timori, le speranze e di generare dialogo. L’accogliere come primo momento di cura significa riconoscere che ogni famiglia è diversa, ha qualcosa di unico. Accogliere significa chiedersi chi è l’altro, esserne incuriositi, farsi stupire, saper cogliere la bellezza e la peculiarità di ogni storia familiare. L’importanza del contratto Il contratto permette di co – creare un significato condiviso su ciò che si fa insieme. Non ci sono più soggetti esperti che danno le risposte e clienti portatori solo di un bisogno. L’intervento parte da aspettative e richieste ogni volta differenti. Laura Formenti colloca gli interventi di facilitazione, di sostegno, di mediazione, di controllo e tutela in un continuum a sostegno di una logica educativa, di apprendimento, di crescita, di apertura a nuove possibilità. Oltre a poter esser collocate in questo continuum, alcune famiglie lo attraversano. Àcon alcune famiglie proponiamo di allargare gli incontri a tutti i componenti nella convinzione che ognuno di loro debba avere l’opportunità di raccontare il proprio punto di vista e che abbia le risorse necessarie per farlo. Nel primo colloquio di conoscenza reciproca si valutano insieme i tempi e i contenuti degli incontri. Durante il percorso valutiamo insieme ai familiari l’opportunità di allargare l’invito anche al figlio. Le storie I familiari si presentano nella maggior parte attraverso una ripetizione lamentosa, sempre uguale, sempre la stessa, di un copione offre il vantaggio di ricondurre la loro tragica esperienza entro una dimensione di canonico e ordinario, di comprensibile e accettabile. Un copione già usato, costruito negli anni per sopravvivere. Non è indagando le criticità di una convivenza, ma proponendo un nuovo modo di parlare e di pensare alla situazione che si può aprire una possibilità diversa di stare con il proprio familiare. Facilitare l’espressione libera e autentica delle risonanze di tutti permette di condividere, pensare e dare un nome alla propria esperienza, o semplicemente di raccontare i desideri inconfessabili. La narrazione biografica può diventare una via per rimettere in moto queste storie, ricominciare a condividere con gli altri i propri significati emotivi e cognitivi, oltre che conoscere altri punti di vista. Diventa una pratica di pensabilità, confronto e riflessione in cui ci si interroga sulle scelte e sulle posizioni prese. Nella narrazione, i soggetti compiono un atto di visibilità rispetto a se stessi, di riconoscimento, di identificazione della propria posizione rispetto agli altri membri della famiglia. Ognuno sceglie quale storia raccontare: non per spiegare, ma per comprendere il proprio modo di vedere le cose. È una rivisitazione della propria storia, una versione che esprime un punto di vista legato a un contesto. Un accompagnamento irriverente Chi narra ci diventa meno estraneo perché ci ha trasmesso una parte di sé. Questa familiarità ci permette di adottare come stile cognitivo una curiosità irriverente che ci consente di rendere elastico e flessibile il nostro modo di comunicare. Ridescriviamo l’esperienza che ci viene raccontata esplicitando i dubbi o chiedendo di fare esempi. Facciamo avanzare l’idea che ci possa essere qualcosa d’altro. La curiosità ci aiuta a cercare descrizioni e spiegazioni diverse. Questo atteggiamento esplorativo, paziente, flessibile ci ha spinto a caratterizzare il nostro intervento come intervento educativo, che nasce dalla logica bisogno – risposta proponendo una pratica riflessiva, di auto – formazione, di apprendimento. L’intervento con i familiari si caratterizzata come un accompagnamento al becoming parent, concentrato sull’unicità della storia di ognuno e sulle risorse, sugli apprendimenti e sulle relazioni che hanno dato vita a quella storia. Il fine di questo progetto non è l’adattamento, ma la mobilitazione delle risorse per dare forma a mondi possibili. Si offre la possibilità alle famiglie di passare da passive a co – risolutrici. Un bilancio provvisorio Ci interroghiamo sul senso di questo progetto, sulla coerenza dei nostri interventi, sulla capacità e possibilità di ridefinirli in maniera coerente alla nostra mappa di riferimento, a partire dalla relazione con la famiglia intesa come interlocutore attivo e competente. Molti sono i familiari che hanno lasciato, perché interessati a soluzioni immediate. Il lavoro con le famiglie si è dimostrato un’impresa ad alto rischio, complessa e delicata. Le storie che i familiari raccontano parlano di relazioni, di identità, d ricordi che ci dicono chi sono stati, chi sono e chi potrebbero essere. In queste famiglie l’aspetto fondamentale è la perdita di controllo sulla propria storia. La dimensione narrativa ha permesso ad alcuni familiare di rivedere i propri modelli relazionali e trovare nuovi adattamenti funzionali non alla malattia, ma a piccole o grandi trasformazioni delle storie individuali e familiari. CAPITOLO 8 – Apparecchiare contesti di apprendimento per promuovere competenze Durante il primo incontro avvengono le presentazioni; presentarsi come educatrici può essere un punto di forza. Durante il primo incontro gli obiettivi e le ragioni del laboratorio vengono esplicitati e condivisi: • Educare è difficile, essere genitore e figli oggi è più complesso • Il gruppo di famiglie, genitori e figli insieme, è pensato come aiuto reciproco, incontro e confronto di idee, riflessioni, modi di stare insieme • Proporremo attività da fare insieme, mirate a ragionare sui temi educativi e sulle richieste reciproche tra genitori e figli • Siamo tre operatrici perché qualche volta faremo tre gruppi, composti separatamente da adulti, bambini e adolescenti Chiediamo alle famigli di presentarsi e dire cosa li ha convinti a partecipare. Perché un laboratorio Volevamo un luogo dove sperimentare, provare ad agire in diretta, attraverso delle attività formative, le relazioni educative e il confronto tra genitori e figli. Un posto vivo e vivace dove gli adulti e i ragazzi, ognuno nel proprio ruolo, provano ad osservarsi e parlarsi dei loro modi di stare insieme. L’idea di famiglia a cui sono rivolti, è quella di una famiglia malata, disfunzionale e con manifeste inadeguatezze rispetto alla cura e all’educazione dei figli. Vi è, inoltre, un altro modo di guardare e intervenire, un modo che presuppone processi di inclusione del disagio nella normalità, partendo dalle risorse delle famiglie e non dalle loro difficoltà. Abbiamo pensato laboratori dove produrre esperienze in cui i partecipanti si sentano attivi, coinvolti, competenti. Si parte dall’intuizione che ai nuclei familiari in difficoltà servano luoghi di incontro dove il fare e l’essere famiglia sia sperimentato direttamente e condiviso con altri. Il laboratorio si propone come uno spazio pubblico dove poter esibire gli stili educativi e sperimentare i ruoli familiari senza ripetere necessariamente gli stessi copioni che caratterizzano il privato di ogni famiglia. L’esperienza offre, quindi, la possibilità a ogni nucleo familiare di vedersi. Vorremmo che i sentimenti associati a questa esperienza fossero di piacere e benessere, una chiave per far percepire con maggiore consapevolezza le difficoltà, ma anche la fiducia nelle capacità di attivare risorse, di affrontare cose difficili, in qualche modo di potercela fare. Ù Nel vivo dei laboratori I due gruppi erano composti in modo diverso. Il primo comprendeva famiglie alle quali in passato erano stati allontanati i figli. I membri di questo gruppo hanno mostrato una diversa capacità di razionalizzare, discutere, comprendere gli stati emotivi e dar loro significato. Al secondo gruppo partecipavano famiglie in grave difficoltà. Essi hanno mostrato difficoltà nel significare l’esperienza e scarsa capacità di astrarre e simbolizzare. Ogni gruppo era formato da 6 famiglie, tutte diverse tra loro. La varietà di questi vissuti mostra la fatica e la resistenza del gruppo ad aprirsi allo sconosciuto, ma ciò ha permesso di rivolgere lo sguardo indietro al percorso, ha reso queste persone consapevoli e orgogliose del lavoro svolto, col risultato che ciascuno ha valorizzato l’esperienza del laboratorio e di riflesso il proprio contributo alla scrittura di una storia condivisa. I laboratori erano strutturati così: • Apertura della serata • La memoria degli incontri Se nei primi incontri il momento della memoria era breve, successivamente ha occupato sempre più tempo, divenendo una vera e propria attività che vedeva molto attivo a protagonista il gruppo nel tentativo di costruire una storia condivisa e nel voler mettere a servizio degli altri i propri vissuti. Rievocare l’incontro precedente permette di condividere ciò che ciascuno a trattenuto, crea appartenenza e continuità, costruisce significati collettivi. • La presentazione dell’attività • Lo svolgimento dell’attività • La cena È un momento conviviale rilevante del fare e sentirsi gruppo. • La conclusione dell’attività ei saluti Un esempio di attività: “Il principino che distruggeva i castelli” A metà laboratorio, una delle adolescenti sollecita i genitori a raccontare le loro storie di vita. Nasce una breve discussione sull’opportunità di farlo o meno, quando è necessario e quando no. Si decide di utilizzare una favola per introdurre il tema della trans – generazionalità degli stili educativi. “Il principino che distruggeva i castelli” è una storia sugli adulti che si sostituiscono ai bambini e non li spingono all’autonomia. Il nostro intento è di produrre una riflessione su come i genitori imparano schemi e modelli e come questi sono trasmessi attraverso le azioni. Per gli adulti l’obiettivo è riflettere sull’esperienza di essere stati figli. Gli adolescenti avranno, invece, un compito cognitivo: dovranno scrivere su un foglio i passaggi del racconto che ritengono importanti. Ai bambini è chiesto di esprimere le emozioni e le idee suscitate dal testo in forma di disegno libero. CAPITOLO 9 – Interrogare le rappresentazioni reciproche, tra la ricerca e la rappresentazione Dati, grafici, numeri e laboratorio sono le immagini di ricerca evocate dagli studenti. Questo però è solo uno degli sguardi possibili sulla ricerca. Esistono infatti molti mondi possibili, ognuno legato a un viaggio. È il viaggio che compie il ricercatore a fare la differenza sul racconto del luogo ignoto che ha incontrato. La ricerca si presenta differente in base a chi e come la guarda. Cos’è la ricerca per un educatore? Ricerca e lavoro educativo sono mondi separati o dimensioni intrecciate? Come si coniugano nel quotidiano? È un lavoro di ricerca sulla o con la famiglia? Una cornice per la ricerca Con quale res stai entrando in ricerca? La res una narrazione, una direzione di senso. La res fa la differenza. In questo senso sono molto importanti le rappresentazioni reciproche di operatori e famiglie. Se la relazioni operatori – famiglie è un costrutto sul quale interrogarsi, lo è anche il dispositivo educativo, inteso come la struttura dentro cui si giocano tutte le relazioni. L’intento è, quindi, quello di osservare una relazione in corso, pensandola come una danza dinamica tra educatori e famiglie, una danza che non può essere fermata senza perdere la bellezza dei gesti e dei movimenti di cui è costituita. Guardare al processo educativo in quest’ottica significa pensare a ciò che si osserva come una relazione in continua trasformazione. In un’ottica processuale e dinamica nessuno “è” in un dato modo in termini assoluti di tempo e di contesto. Ogni persona vive dentro un tempo e un luogo, cioè è inserita in una storia individuale. Che ricercatore / educatore sei? In ricerca è chi si abbandona alla scoperta. Si è in ricerca di fronte al nuovo, ma anche tutte le volte che ci si interroga sul quotidiano. Laura Formenti distingue tra sguardo ingenuo e sguardo scientifico dell’educatore: il primo ideologicamente centrato, carico di pregiudizi vissuti come verità; il secondo attento a sé e agli altri, continuamente disposto a interrogarsi sui propri pregiudizi. Potremmo dire che il ricercatore è qualcuno che si prende cura del proprio punto di vista, non lo trascura, se ne interroga. Stesa cosa fa con quello altrui. Un buon educatore è dunque anche un ricercatore: si mette in ricerca nell’interrogarsi con consapevolezza e riflessività. Un educatore è ricercatore quando mantiene viva la curiosità dell’esploratore. Essere curiosi significa mettersi in viaggio senza dar nulla per scontato, ponendosi domande. Curiosi del quotidiano e non solo dell’insolito. La curiosità apre le porte a nuove visioni di ciò che ci sembrava ovvio; apre alla bellezza, quando permette al ricercatore di guardare a quello che c’è e non a quello che manca e ri – anima situazioni relazionali stagnanti. Ciò implica una responsabilità: ognuno di noi incide sui contesti nei quali agisce. Essere un ricercatore che si occupa di storie, di narrazioni di famiglia, significa essere consapevoli che le storie producono effetti. Narrare di sé, ascoltare con attenzione e curiosità, porre domande generative significa costruire un dispositivo di ricerca che ha potenzialità formative. Per compiere ricerche con uno sguardo scientifico in educazione bisogna essere consapevoli della co – implicazione di tutti i soggetti e del viaggio che stanno compiendo. Ancora una volta è la res, a direzione di senso condivisa, a fare la differenza. Responsabilità etiche Il ricercatore si trova ad affrontare diverse responsabilità etiche. Prima di tutto la responsabilità di prendersi cura delle storie che gli sono affidate, leggerle da una postura di neutralità e attenta ai posizionamenti. Prendersi cura delle storie implica un’attenzione anche ai contesti istituzionali in cui avviene la ricerca, al ruolo e alla posizione del ricercatore. La seconda responsabilità etica riguarda la trasparenza. Il principio etico della trasparenza chiama in causa la visibilità del patto tra ricercatore e soggetti. Processi educativi e di ricerca sono similmente forgiati sulla negoziazione di diritti e doveri. La trasparenza non è un dato di fatto, ma un’azione che stimola la riflessività, uno spazio prossimale di apertura alla comprensione dei fenomeni. Mappe e teorie Gli esploratori usano mappe. Per un ricercatore / educatore la mappa è la teoria da cui muove per guardare il mondo. Teorie di riferimento sono anche teorie incarnate nell’esperienza che ognuno di noi elabora. L’esperienza quotidiana costruisce induttivamente idee e teorie locali attraverso cui leggiamo il mondo. Esistono molteplici mappe. Ogni lente, ogni teoria ci regala informazioni utili. Il ricercatore è un soggetto che apprende e un attore nel contesto. È un esploratore implicato nella ricerca. Non è però l’unico ad assumere un duplice ruolo implicativo, di ricercatore e di partecipante. Infatti, mentre è impegnato a esplorare, a raccoglierne storie e a pori domane, i partecipanti alla ricerca fanno altrettanto: producono idee, immagini, pensieri su di sé e sull’altro e modelli interpretativi. Ricercatori e partecipanti sono entrambi soggetti in ricerca mossi da domande: è questo il pattern che li connette. Ricercare sulle famiglie o con le famiglie? Se ricercatori e partecipanti sono doppiamente implicati e mossi da domande, le domande sono però differenti, così come il loro posizionamento nel processo di ricerca. La ricerca sulla famiglia è un’indagine nella quale le famiglie divengono oggetto di studio e fonti di dati; il ricercatore detiene il potere di fare domande, lasciando poco spazio di movimento alle forme opinioni e alle idee dei partecipanti. Nella ricerca con le famiglie, invece, queste sono parte attiva nella costruzione del processo, invitate a formulare domande, a proporre piste d’indagine. Trasformazioni sensibili: una ricerca – formazione con le famiglie È stata condotta una ricerca di dottorato “Trasformazioni sensibili”, che si proponeva di gettar luce sul reciproco posizionamento degli operatori e delle famiglie dentro due servizi educativi. È stato scelto un dispositivo di ricerca – formazione, cioè un modello di lavoro che coniuga la dimensione della ricerca con quella della formazione. I due punti principali di questa ricerca sono: • La costruzione del ruolo attivo dei familiare nel dare senso alla ricerca • Alcune rappresentazioni del servizio e degli operatori da loro offerte Un buon inizio: lavorare insieme sul senso È importante un codice etico sottoscritto da tutti i partecipanti. Una sorta di carta dei diritti e dei doveri, a cu doversi attenere e allo stesso tempo potersi appellare (la partecipazione al progetto è volontaria, ognuno ha il diritto di rifiutarsi di rispondere a domande, l’obiettivo è quello di comprendere il punto di vista degli operatori e delle famiglie). Questo dava il via a una contrattazione trasparente del processo di ricerca. Navigare nelle immagini: le famiglie raccontano il servizio (citazioni) Prima metafora: viaggio nel servizio Sono storie che raccontano cambiamenti di direzione, la necessaria concentrazione sul percorso, i sogni e i cammini ardui. Per la prima volta le famiglie hanno un tempo e un luogo per fermarsi e riflettere sul servizio educativo di cui usufruiscono e sul loro posizionamento come utenti. Seconda metafora: il servizio come territorio Il dono della reciprocità Vi è l’impressione che famiglie e operatori non abbiano soltanto prodotto idee e immagini sul servizio, ma le abbiano messe in circolo, rese disponibili, fruibili. Si sono donati parole e immagini reciprocamente: ogni idea si moltiplicava, arricchiva, trasformava passando dall’uno all’altro. Se ricerca e formazione sono interconnesse, il loro nesso è individuabile nel passaggio di mano, nella trasformazione: la relazione tra soggetti comunicanti, la loro capacità di trasformare saperi e di arricchirli ha prodotto formazione e auto – formazione. Si tratta di un processo che ha preso forma nella relazione tra pari, persone che stanno compiendo un analogo viaggio.
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