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Re-inventare la famiglia, Sintesi del corso di Pedagogia dell'infanzia e pratiche narrative

riassunto del libro "re-inventare la famiglia" di Laura Formenti

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 10/12/2019

Violettabella22
Violettabella22 🇮🇹

4.6

(10)

6 documenti

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Scarica Re-inventare la famiglia e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia dell'infanzia e pratiche narrative solo su Docsity! RE-INVENTARE LA FAMIGLIA Laura Formenti INTRODUZIONE: Re-inventare vuole dire re-inventarsi come osservatori delle famiglie, rivedere le prospettive e le pratiche che mettiamo in campo: spostare il focus dal sapere accademico o professionale, al sistema per quello che è, per come si presenta e come funziona. La prospettiva usata è sistemica. La sistemica non richiede una semplice adesione a dei concetti, ma obbliga a un altro modo di guardare e concepire le relazioni  un modo di com-porsi nella relazione con le famiglie che richiede di essere praticato, diventando uno stile di pensiero. Come si può insegnare uno stile di vita attraverso un libro? Non si può! L’esperienza però ci ha mostrato che un lettore attivo, così come uno studente attivo, può imparare partendo dalla propria esperienza: tutti abbiamo esperienze di famiglia. Ma per comprendere la famiglia bisogna mettersi nella prospettiva della ricerca, del non sapere  una ricerca che mira non alla scoperta, ma all’invenzione o alla creazione, perché assumiamo una prospettiva secondo la quale il mondo non si dà come oggettivo, ma come il prodotto delle nostre pratiche. Il professionista dell’educazione è dunque portatore di uno sguardo, ha un’idea di famiglia ma non ne è consapevole fino a quando non si confronta con altri. il libro vuole offrire l’occasione per riflettere su questo e chiedersi: qual è la mia idea di famiglia? Come sono arrivata ad avere questa visione? Se il professionista entra in situazione armato dei suoi pregiudizi, delle sue convinzioni, cercherà in buona fede di portare cambiamenti, ma incontrerà prima o poi qualche difficoltà (le resistenze): un sistema di relazioni che non appare desideroso di cambiare nella direzione che noi vorremmo prendesse  più che di resistenza si tratta di coerenza: lealtà a sé stesso. Ogni famiglia tende ad essere coerente con sé stessa, magari diventando più incoerente con le aspettative della società. Non si tratta allora di cambiare le famiglie in direzioni già stabilite, ma l’obiettivo è comprendere che cosa può fare stare tutti un po' meglio o essere tutti un po' più felici. Passi per poter re-inventare la famiglia: 1. Smontare i pregiudizi e le invenzioni. 2. Acquisire competenze e capacità di riconoscere quello che c’è: la cultura famigliare, le sue strategie per far fronte alle crisi, i copioni di ciascuno dei membri, e anche quello che è nascosto e non si vede a un primo sguardo. 3. Inventare nuovi pensieri, nuove visioni e nuove possibilità. PARTE PRIMA La definizione che ognuno di noi arriva a dare di famiglia, dice molto su ciascuno di noi e sulla cultura di ognuno. Lavorare con la famiglia richiede quindi una consapevolezza epistemologica, cioè un atteggiamento interrogante nei confronti dei nostri presupposti. Scegliamo un punto di vista, un paradigma, delle premesse generali. CAPITOLO 1: Lo sguardo dipende dall’azione Viene proposta la metafora musicale per introdurre il concetto di sistema. Siamo abituati a considerare gli individui sempre e solo come solisti, a prestare attenzione alla singola nota isolata dal suo contesto. Bisogna invece allenare l’orecchio (come tutti gli altri sensi) alla ricerca dell’ecologia, delle connessioni e delle armonie che caratterizzano ogni sistema famigliare. Sistema: dal greco syn (con, insieme) e stena (stare, collocare) = aggregato di parti interagenti, ciascuna delle quali può esistere in sé, ma è interdipendente dalle altre. Proprietà dei sistemi:  Totalità: il tutto è diverso dalla somma delle parti. Un sistema è un tutto inscindibile: se una parte cambia o viene danneggiata, tutte le parti e tutti il sistema sono coinvolti.  Retroazione e circolarità: il modo in cui sono unite le parti di un sistema nega il modello del determinismo lineare, che prevede una catena di eventi dove a causa b, b causa c, c causa d e così via (modello causa-effetto). Si ha una retroazione quando b, c o d tornano su a, generando una circolarità.  Omeostasi: stato stazionario di un sistema.  Equifinalità: nei sistemi aperti l’equilibrio è dato dal principio di equifinalità, e cioè dal fatto che il loro funzionamento è legato al processo. Questo significa che due sistemi partiti da condizioni iniziali diverse possono raggiungere lo stesso risultato finale. Così come la formazione di una band è coerente con il tipo di musica che vuole creare, analogamente c’è una connessione tra il modo in cui una famiglia è composta (le sue strutture e le sue relazioni) e quello che crea: miti, modelli educativi, storie, benessere o malessere. Per comprendere una specifica famiglia sarà necessario ascoltarla attentamente, farsi l’orecchio, provare a suonarci insieme. Ognuno cerca di trovare la sua voce, ma l’insieme avrà un sound inconfondibile: “il senso del noi”. Gli strumenti hanno partiture diverse, timbri unici. Ma non è la loro somma che dà il tutto: è il modo peculiare in cui si amalgamano e armonizzano. Chi è/cosa fa un educatore quando inizia a suonare in una famiglia, che magari non lo ha voluto?  Se si accorge di essere fuori accordo, fuori tono o fuori tempo, può provare a cercare soluzioni creative. Se però il nostro aspirante musicista non si accorge di essere fuori, perché il suo orecchio è addestrato a isolare i suoni e non a cogliere le relazioni, forse tenterà comunque di duettare con un unico strumento escludendo gli altri.  L’educatore non pretende di nascondere/cancellare i propri pregiudizi, ma li riconosce.  L’educatore deve aprire possibilità affinchè tutti stiano un po' meglio.  Deve riconoscere ciò che si mostra, nella complessità delle relazioni famigliari, per rendere possibili piccole e grandi trasformazioni  farsi l’orecchio sulla famiglia per inserirsi con la propria musica e trovare nuovi modi di suonare. Come si impara il “senso del noi”? Ogni famiglia si presenta come unità, come una totalità di relazioni portatrice di un’identità, una cultura, una sua logica. Il senso del noi appare più complesso della somma di tante prese di posizioni individuali. Inoltre sembra andare al di là di ciò che è conscio ed esprimibile a parole. Per comprendere il senso del noi bisogna allora tornare a osservare con occhi curiosi che cosa accade in quella famiglia, e in particolare quale rapporto sussiste tra la famiglia praticata e la famiglia rappresentata. Ciò richiede uno sforzo, un addestramento dello sguardo che va oltre le parole e oltre l’atteggiamento quotidiano. Il senso del noi si nutre di momenti dove tutti stanno bene, e cioè partecipano al gioco, rispettando i turni, sono emotivamente sintonizzati, ma anche quando le danze non sono così felici, un senso del noi appare. Determinante però sarà il ruolo del linguaggio e la punteggiatura che noi daremo nel comunicare e meta- comunicare sulla famiglia, nel dare senso al nostro stare insieme, ogni volta che rispondiamo alla domanda “Chi siamo noi?”. Se vogliamo comprendere il senso del noi, il primo quesito da sciogliere è: chi è l’osservatore di questa famiglia e quale idea di famiglia ha? Inoltre l’osservatore non deve esprimere giudizi, deve descrivere azioni concrete (verbali e non), deve mettere a fuoco tutte le persone coinvolte nell’interazione. L’obiettivo primario dell’osservazione non è l’oggettività, ma la rappresentazione estetica, cioè il mettere in parole (possiamo avvalerci anche di altri linguaggi) quello che si presenta ai sensi. Il senso del noi, dell’essere una famiglia, nasce dalla con-posizione, dalla danza interattiva e non dai singoli comportamenti. Ognuno dei componenti della famiglia si muove e si trasforma in relazione agli altri. Non c’è apprendimento che non coinvolga tutto il sistema. Se osserviamo abbastanza a lungo e con attenzione, siamo in grado di rilevare ripetizioni e ridondanze: sono queste che suscitano la sensazione di essere in presenza di un tutto, di un organismo sovra individuale  c’è un con-porsi degli individui in una danza interattiva. Qualsiasi cosa io faccia, o creda di fare con mio figlio, il senso comunicativo del mio gesto verrà costruito dalla sua reazione, poi da quella di suo padre e sua sorella, dalle mie successive repliche, e così via, senza fine. È nella continua interazione che si sviluppa il senso. La con-posizione, l’interdipendenza, creano vincoli: se uno dei danzatori si sposta o cambia il suo ritmo, anche gli altri dovranno farlo. Anche stare fermi, stare in silenzio, uscire dal campo, sono modi per influenzare il sistema. Non è possibile sottrarsi, una volta che si è nel noi  questa lettura sposta l’attenzione dal livello dell’individuo alle relazioni. La famiglia è ridondanza, copioni, memoria incarnata. Ridondanza = processi di codificazione, organizzati secondo regole, vincoli e modelli ripetuti. La ridondanza a un primo livello permette a chi riceve il messaggio di comprenderlo anche quando dovesse perdersi qualche elemento. Il secondo livello della ridondanza consente a un membro della famiglia, che percepisce solo certe parti di sequenza, di risalire alle parti che non ha potuto direttamente percepire. Il terzo livello infine permette di mettere insieme i fenomeni e i messaggi. 3. Oppure potremmo calarci nei panni del bricoleur: usa arte e mestiere, coordinando quotidianamente la dimensione dell’improvvisazione creativa con la progettazione, attingendo sia alla capacità riflessiva, sia alla necessità di fare e agire. Il processo genitoriale infatti è complesso: non segue un programma predeterminato basato su strumenti o tecniche ingegneristiche  è un bricolage, una rapsodia fatta di ridondanza, flessibilità e creatività. Il bricolage diventa qui un’esperienza che mette in movimento, in relazione, collega l’oggi con una prospettiva futura, il presente il passato, segnando il passaggio dal separare al connettere. Stiamo parlando di genitori che sanno essere artisti e ingegneri insieme e rimodulano continuamente il progetto iniziale attraverso la capacità di:  Muoversi nella contingenza.  Accogliere l’imprevisto.  Usare con creatività e flessibilità ciò di cui dispone.  Riconoscere la ricchezza di materiali e tecniche diverse. Il genitore sarà chiamato a risolvere questioni nuove ogni giorno, a misurarsi con la non linearità, il cambiamento repentino, le stasi  è la capacità di misurarsi con l’imprevisto il suo banco di prova, pertanto la dimensione della flessibilità diventa una grande risorsa. CAPITOLO 4: Interazioni: osservare la famiglia in azione L’osservazione è un procedimento selettivo che si differenzia dal semplice guardare o vedere, per il fatto che lo sguardo dell’osservatore è intenzionalmente guidato da premesse, pregiudizi e ipotesi che sono una guida nell’ottenere le informazioni desiderate, e da un metodo che consente di farlo nel nodo più accurato ed efficace possibile. Non si può osservare tutto: l’osservazione è sempre e comunque un processo di selezione, non è possibile osservare in modo totale e oggettivo. Inoltre l’esperienza pregressa di chi osserva, i suoi pregiudizi e preconcetti inevitabilmente vengono messi in scena, con il rischio di filtrare talmente tanto i dati da non riuscire a cogliere aspetti che potrebbero modificare le sue ipotesi di partenza. Essere consapevoli dei propri pregiudizi e della propria idea di famiglia, interrogarli e metterli in campo in maniera esplicita, può essere una strategia per perturbare ulteriormente un sistema e cercare di introdurre delle novità, dei nuovi posizionamenti. Pratica di osservazione usata da Mara Pirotta nel suo lavoro di consulenza con le famiglie: è una pratica che ruota attorno a una sorta di auto-osservazione, la quale può portare ad altre visioni e altre narrazioni nell’intento di fare sì che ognuno, osservando sé stesso e i suoi pattern relazionali, riesca a riconoscersi e a stare un po' meglio. In altre parole, nel lavoro di consulenza con i genitori, Mara Pirotta cerca di offrire, alle famiglie che chiedono il suo aiuto, la possibilità di osservarsi, mettersi in gioco, cambiare posizione e punto di vista, per arrivare a riconoscersi nei pregi e nei difetti, nei vincoli e nelle possibilità, per potere diventare consapevoli di sé stessi e della propria modalità di entrare in relazione con gli altri. Ha pensato che si poteva proporre un uso trasformativo e riflessivo della videocamera: il video è in grado di mettere a fuoco le pratiche di cura quotidiana, generalmente svolte in totale autonomia e solitudine, non viste né riconosciute come tali. Avere la possibilità di fermarsi a riflettere sul modo in cui fanno le cose, non limitarsi quindi ad agire la cura, ma riuscire a vederla e a pensarla, può essere considerato come un primo passo per consolidare, esplicitandola, la propria idea di genitorialità e di competenza: prendersi del tempo e legittimarsi a fermarsi e soffermarsi ad osservare e ascoltare, sono atti di cura di sé e dell’altro importantissimi e imprescindibili. L’obiettivo principale di questa proposta di consulenza è dare visibilità alle strategie e risorse che vengono messe in campo, per poi utilizzare le immagini come base per una riflessione in merito agli effetti delle azioni di cura e ai feedback in circolo tra i diversi partner relazionali. Se esiste un dubbio o un giudizio negativo su di sé, è da quello che si parte, perché è da lì che nasce la domanda di consulenza  questo invita il genitore in un circuito riflessivo armonico: da un lato lo sostiene nella sua idea che qualcosa non funziona come dovrebbe; dall’altro dà il messaggio che il genitore è competente nell’esprimere quell’idea (e dunque nella cura della relazione con il figlio). La metodologia da cui parte tale proposta è il Lausanne Triadic Play (LTP) che, partendo dall’osservazione del triangolo primario in azione, impegnato in un compito strutturato, permette di operare un’analisi delle interazioni tra i componenti della famiglia. Pur ispirandosi a tale metodologia, il setting scelto per le osservazioni non è una situazione sperimentale strutturata, ma la casa, quindi un ambiente naturale dove è possibile osservare quelle attività di routine che appaiono, nei racconti dei genitori, le più cariche di ansie e di timori. Per rendere più accurata l’osservazione e permettere anche ai genitori di osservarsi in azione viene usata la videocamera, che offre l’opportunità di fissare le immagini e le interazioni in movimento permettendo di guardarle in più momenti e di giocarci attraverso distorsioni, com-posizioni, tagli, bricolage. Nel concreto Mara Pirotta ha scelto, per ogni famiglia, di riprendere un’intera giornata in maniera continuativa, per poi scegliere insieme al genitore/ai genitori i momenti su cui concentrarsi nell’osservazione congiunta. Il passaggio successivo alla ripresa delle immagini è quello di ritrovarsi insieme a osservarle. Ai genitori viene chiesto di scegliere, selezionandoli e spiegandoli, gli scambi interattivi che sentono di avere vissuto con maggiore difficoltà e fatica: si porta l’attenzione sui momenti in cui ci si riconosce poco competenti nell’essere genitori, e inadeguati. In questa fase il compito di Mara Pirotta è quello di affiancare i genitori aiutandoli soprattutto da un punto di vista tecnico: taglio delle scene e composizione. Ne approfitta però per introdurre domande aperte, circolari e riflessive che possono mettere in luce l’idea di genitorialità che loro stanno esprimendo. Li invita ad allargare lo sguardo: dal vissuto e agito personale ai feedback degli altri. Non solo, dunque, “lì mi sono sentita così” ma “che cosa mi stava dicendo in quel momento il mio bambino?”. È un processo che stimola i genitori a creare connessioni, delineando così i contorni di altre figure e altre storie possibili, oltre quella sentita come propria  processo di co-costruzione che genera, attraverso il confronto reciproco, nuove possibilità di vedere strategie percorribili. Attraverso il processo di visione, selezione, aglio e montaggio delle scene i genitori hanno la possibilità di soffermarsi e prendersi cura di sé e della propria storia. Il rivedersi per più volte permette di decentrarsi e di attribuire nuove punteggiature  punteggiatura = azione di un soggetto che impone un ordine in un mondo altrimenti casuale, imprevedibile e caotico; la punteggiatura organizza la sequenza e stabilisce un ordine. Lo stesso evento assume quindi significati completamente opposti: dal momento che ognuno presume che esista una sola realtà e una sola visione corretta di essa (la propria) l’altro viene considerato folle, cattivo o stupido. Si può affermare quindi che la natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze interattive tra i comunicanti. “Come ti vedi osservandoti ora?”: dare una risposta a questa domanda non più basandosi su come ci si è sentiti in quel momento, ma vedendosi da fuori, crea delle differenze e degli spiazzamenti. L’effetto composizionale offre la possibilità di nominare le emozioni e di creare uno spazio di riflessione e confronto tra il proprio vissuto (riflessione in azione) e ciò che si può osservare da fuori (riflessione sull’azione). Il genitore diventa maggiormente consapevole degli effetti che le sue proposte di relazione e azione di cura hanno sugli altri membri del sistema. La consapevolezza dello stile educativo (come faccio?) e delle sue precomprensioni (perché faccio così?) crea i presupposti per modulare l’azione di cura, variarla. La tappa successiva di questo lavoro consiste nell’utilizzare le immagini scelte dai genitori e comporle allo scopo di creare punteggiature differenti, altre storie possibili, basate non più sull’incapacità o incompetenza, ma sule risorse e sulle strategie messe in campo. La nuova storia può essere considerata un superamento della visione lineare centrata sulle difficoltà nel fare quotidiano, in quanto i genitori sono chiamati a riosservare la propria storia come dall’esterno, sperimentando una possibilità di nuovi riconoscimenti e nuove consapevolezze. Il nuovo video può essere utilizzato sia per evidenziare dettagli che a una prima osservazione erano sfuggiti sia per portare alla luce le ridondanze nei pattern relazionali che si ripresentano in situazioni e momenti diversi. Il compito di Mara Pirotta in questa fase è riprendere le immagini scelte dai genitori e utilizzarle per scrivere una storia dai colori e dalle tinte appena diverse  una storia che i genitori possano vivere come bella, se la riconoscono come propria. Questa esperienza permette di creare nuove fotografie del proprio essere genitori e figli. Con una forse maggiore consapevolezza del fatto che la propria storia, il proprio punto di vista non è l’unico, ma uno dei tanti possibili. CAPITOLO 5: L’ABC dell’osservazione Questo capitolo mette a fuoco una pratica osservativa che utilizza il mezzo audiovisivo come strumento di lettura delle interazioni umane. Le storie raccontate attraverso le immagini permettono di soffermarci su alcune sequenze, rivederle e studiarle  obiettivo: imparare a osservare, fermandosi su quelle interazioni che, a una prima visione, risultano difficili da leggere e rifarlo tutte le volte che serve per addestrare e affinare le proprie capacità percettive. Cosa osservare? La comunicazione è il fondamento delle relazioni umane: essa diventa l’oggetto osservativo nei suoi vari livelli, nei diversi stili, nelle svariate modalità. Il fine ultimo è affinare lo strumento, in modo che l’operatore possa migliorare il suo modo di comunicare ed entrare in interazione con le persone di cui si occupa. Cosa osservare: i processi interattivi nei quali la comunicazione si sviluppa, usando il modello e i principi della Programmazione Neurolinguistica (PNL)  programmazione: in quanto è possibile scoprire i programmi comunicativi che usiamo; neuro: in quanto l’esperienza è filtrata ed elaborata dal sistema nervoso attraverso i sensi; linguistica: poiché le rappresentazioni, frutto dei processi neurologici, sono fornite di significato attraverso il linguaggio. La realtà è diversa dalla rappresentazione: rispettare il pensiero altrui, cercare di avvicinarsi alla mappa dell’altro, invece di imporre la propria  ascoltare, poi domandare e poi rispondere, ma creando sintonia e osservando il comportamento dell’altro. Dentro ogni azione, infatti, c’è informazione. Il film si presta a essere uno strumento privilegiato per l’addestramento all’osservazione, in quanto:  Racconta una o più storie in maniera efficace e in un tempo definito.  Permette di esaminare la sequenza a più livelli: dal punto di vista del regista, dei vari personaggi (anche secondari).  Consente ogni volta che serve di rivedere le sequenze e ne permette lo studio. Il film può essere visto da vari punti di vista e a più livelli di analisi. La scelta dei film da proiettare dipende dall’obiettivo. Ci sono due criteri generali: 1. Il primo basato sul contenuto (trama, temi trattati). 2. Il secondo legato a situazioni comunicative specifiche presenti nel film, che mostrano in modi efficaci come si costruiscono e si trasformano le relazioni umane. Il film è usato come strumento di formazione, come occasione di apprendimento e dunque di riflessività, perciò è utile non rimanere legati solo alla storia che racconta il regista. Al contrario si devono individuare delle sequenze, studiarne il processo, analizzare le azioni e retroazioni dei singoli personaggi. Oppure viene proposta una sequenza uguale per tutti: tutti vedono le stesse azioni, ma ognuno le racconterà e commenterà in modo diverso  è particolarmente efficace togliere l’audio: l’immagine è evocativa, provoca molte possibili letture dal punto di vista personale. Il processo osservativo può essere mirato a livelli diversi: 1. Primo livello: fare emergere i pregiudizi  il film in questo senso è efficace perché la sequenza che le persone osservano è uguale per tutti, l’audio è tolto per tutti, e ciascuno proietta un po' di sé in quello che vede. Il confronto tra le diverse versioni e le diverse punteggiature rende palesi i pregiudizi. Fare emergere i pregiudizi è importante: se sono consapevole di come la penso, dei miei processi attribuzionali, posso più facilmente riconoscere quando attribuisco all’altro qualcosa che invece viene da me. 2. Secondo livello: ricostruire i processi interattivi e comunicativi tra i personaggi  l’80% delle comunicazioni non è verbale; quando mettiamo tanta attenzione al contenuto verbale, la nostra comprensione di quello che sta succedendo si riduce tantissimo. Tolto l’audio, si può approfondire lo studio della postura, dei gesti, dei modi di porsi, del modo di incontrare l’altro, la danza delle interazioni… 3. Terzo livello: affinare le tecniche di comunicazione  per lavorare su questo obiettivo si può usare la Programmazione Neurolinguistica che pone l’accento sulle capacità creative e organizzatrici della nostra mente inconscia e offre strumenti di lettura del non verbale. La visione del film è un modo per chiedere agli studenti di mettersi in gioco: la formazione universitaria offre molta teoria, che è utilissima perché è un punto di riferimento per la costruzione di una seria professionalità, ma sarebbe utile che fosse sempre accompagnata da micro-sperimentazioni, per permettere a ognuno di imparare e affinare abilità e competenze  il film diventa uno strumento di addestramento dello sguardo: può essere considerato come l’ABC per la costruzione del processo osservativo, soprattutto del non verbale, all’interno di un processo relazionale interattivo. CAPITOLO 6: Posizionamenti estetici e ricerca della bellezza Lavorare con le famiglie significa portare l‘attenzione sugli aspetti di narrazione e sul tipo di storie che reciprocamente i vari membri della famiglia si raccontano per definire sé stessi e gli altri: come si raccontano? Quale semantica utilizzano? Queste storie sono vive e dinamiche o sono bloccate? Cercano prevalentemente il valore o il disvalore? E ancora: io, come operatore, come mi racconto questa famiglia? E soprattutto mi chiedo: tutte queste storie generano bellezza? Sono i racconti generati nelle e dalle pratiche comunicative a definire le appartenenze. I significati, i confini del sistema famigliare, l’identità di ciascuno, l’identità della famiglia. Le storie insomma hanno effetti pragmatici, molto concreti, sulla nostra vita, quindi sul nostro stare bene o male, sulla nostra possibilità di cercare la felicità, il benessere, la salute, piuttosto che la sofferenza.  Cercando di superare alcuni palesi ingiustizie. Ad esempio, è noto che le famiglie non sono tutte sottoposte allo stesso modo alle pressioni del controllo sociale: l’intrusione è tanto più violenta quanto più la famiglia è lontana dalle attese e inconsapevole delle aspettative sociali che ha infranto.  Insistendo maggiormente sull’apprendimento e sull’evoluzione come chiavi per comprendere le famiglie, il loro funzionamento e le possibilità di intervento.  Preparando gli educatori a gestire e conoscere i propri pregiudizi, di cui spesso sono inconsapevoli. Fare parte di una famiglia significa sviluppare un sistema coordinato di storie e dunque condividere una buona parte della stessa epistemologia, dello stesso paradigma. Le storie che si raccontano nella famiglia possono essere considerate co-costruzioni collettive. La vita di una famiglia non si può capire dalla sommatoria delle storie dei suoi membri presi separatamente: dobbiamo capire come le storie si interconnettono e come sono collettivamente generate e trasformate. L’approccio sistemico cerca di generare versioni diversi della stessa storia, differenze che fanno una differenza moltiplicando sguardi e linguaggi. La pedagogia della famiglia può così celebrare la complessità e la dinamicità invece di ridurre la vita famigliare a una sola versione  in questo senso la proposta narrativa può creare le premesse per una cura delle relazioni famigliari, quando dà voce alle prospettive di tutti, piccoli e grandi, interni ed esterni al sistema. Il contesto auto/biografico costruisce lo spazio transizionale dove le relazioni sono sufficientemente sicure non solo per raccontarsi, ma per aprirsi a nuovi apprendimenti. Diversamente dai gruppi di auto-mutuo-aiuto, il focus è spostato sull’immaginazione auto/biografica, più poetica che prosaica, più centrata sul sogno del futuro che sulla soluzione dei problemi. Quindi nell’approccio sistemico la biograficità non è solo una manifestazione della soggettività, ma è sempre inter-soggettiva. Il salto, l’apprendimento di secondo livello, avviene quando si modificano le relazioni, cioè quando la storia raccontata dà un potere d’azione sul contesto di vita. In questo capitolo abbiamo esplorato e biografie famigliari a livello macro e micro:  Sul piano sociale le storie illuminano le trasformazioni dei sistemi organizzativi, istituzionali ecc in continuo movimento.  A livello micro le storie raccontano trasformazioni che avvengono nello sviluppo di un sapere biografico significativo. Tuttavia sarebbe utile soffermarsi maggiormente sul livello intermedio, cioè quello delle trasformazioni nelle relazioni concrete  livello meso: né micro, né macro. La vita famigliare, infatti, ha luogo in questo livello, che è connesso sia al macro (che definisce vincoli e possibilità) che al micro (ogni componente della famiglia nella sua unicità porta un’informazione con cui fare i conti). Costruiamo la nostra identità attraverso storie co-costruite e trasformate nelle relazioni con gli altri significati, cioè nel meso-livello. Doppio legame  1952 Bateson. Condizioni di verifica: 1. Occorrono due o più persone: una è indicata come vittima. 2. Esperienza ripetuta : sequenze comunicative ripetute. 3. Ingiunzione primaria negativa (non fare così o ti punirò). 4. Ingiunzione secondaria in conflitto con la prima . La confusione tra i due livelli genera un paradosso. Esempio “non considerarmi un castigatore”. 5. Ingiunzione terziaria negativa che impedisce alla vittima di lasciare il campo. PARTE SECONDA CAPITOLO 1: Movimenti: il lavoro educativo con la famiglia Circuiti riflessivi:  Bizzarri  creano disagio e confusione, e possono sfociare nella psicopatologia.  Armonici  modelli comunicativi che non generano disagio. Bateson distingueva in ogni messaggio due livelli di significato, organizzati reciprocamente: il livello di contenuto e quello di relazione. La confusione tra i due livelli si verifica quando non è chiaro quale dei due sia da intendere come superiore in termini gerarchici. Esempio: una madre dice al figlio “Ti voglio bene” (livello di contenuto) usando però un tono freddo e distaccato (livello di relazione): il bambino non sa quale messaggio si trovi a livello superiore, non sa a cosa dare retta. Per distinguere i circuiti armonici da quelli bizzarri vengono introdotti i concetti di:  Transitività  due livelli di significato sociale hanno una relazione transitiva quando ciascuno può diventare il contesto dell’altro senza che si modifichi il significato di nessuno dei due.  Intransitività  quando non è possibile che ciascuno dei due diventi il contesto dell’altro senza che questo cambi il significato. Nel lavoro educativo con la famiglia fondamentale è conoscere il contesto. C’è una rete di relazioni significative intorno a ogni famiglia: esse sono necessarie alla sopravvivenza. Avere in mente una chiara mappa di queste relazioni è il primo passo dell’analisi del contesto. Quando parliamo di contesto nel lavoro con la famiglia, intendiamo tante cose diverse:  C’è un contesto sociale, o meglio una rete di relazioni significative, fluida. Un aspetto specifico del contesto sociale è il contesto istituzionale = luogo concreto dentro il quale avviene l’intervento educativo: un’organizzazione di pratiche e di significati che propone cornici politiche e semantiche che definiscono cosa può e non può accadere.  C’è il contesto qui-e-ora, della relazione specifica con questa famiglia  l’inizio della relazione presenta molte insidie: pregiudizi non verificati, mancanza di comunicazione tra operatori che incontrano la famiglia in luoghi diversi, scarsa propensione alla costruzione condivisa di un progetto portano a cattive pratiche. Sono cattive perché non sono utili, perché avulse dalla logica della trasformazione. Per cominciare a leggere il lavoro educativo in chiave sistemica e positiva possiamo farci guidare da alcuni classici concetti che definiscono gli ingredienti base di ogni intervento: 1. Domanda: è una co-costruzione, in continua ridefinizione. Stiamo parlando di domande che non contengono già in sé la risposta, ma di domande che ci invitano al viaggio. 2. Invio: chi è l’inviante della famiglia? Chi ritiene che questo intervento è da fare? 3. Mandato: che cosa si chiede all’educatore che lavora con la famiglia? Interrogarsi sul mandato rende l’operatore protagonista del proprio lavoro: porre domande sul mandato è un dono che l’educatore fa al servizio, ai suoi mandanti e agli altri professionisti coinvolti, perché li aiuta a definire meglio finalità e obiettivi. 4. Convocazione di tutto il sistema: nell’approccio sistemico la convocazione è l’invito a tutta la famiglia a presentarsi al servizio. Un messaggio potentissimo, che scatena reazioni diverse: è come dire “qui c’entrate tutti”. Non si tratta di risolvere il problema di uno ma di mettersi in gioco insieme. Un’altra questione è quella dei confini: convocare significa definire chi fa parte di quella famiglia. Per moltissime famiglie questa definizione chiederebbe di coinvolgere vicini di casa, insegnanti, negozianti del quartiere… 5. Costruzione del setting: è utile istituire un setting policentrico e flessibile. I contesti, per diventare matrici di significati. Pensare il setting, organizzarlo, prendersene cura nei minimi dettagli significa chiedersi continuamente, riflessivamente, quali messaggi si vogliono dare e ricevere. 6. Processo: contratto, intervento, valutazione, chiusura: bisogna mettere in discussione la successione lineare delle operazioni di contratto, intervento, valutazione, chiusura.  Contratto  sono definiti obiettivi, anche se l’intervento non può avere esiti attesi.  Intervento  ha una durata: è bene definire inizio e chiusura, anche per dare il segnale che la vita della famiglia va oltre il tempo dell’intervento. L’approccio sistemico è breve: mira alla perturbazione, non alla presa in carico.  Valutazione  una domanda da porre precocemente è: in base a quali criteri valuteremo gli esiti dell’intervento?  ci dice a che cosa diamo valore.  Chiusura. Il concreto del lavoro educativo avviene in un flusso comunicativo incessante al quale le persone partecipano. Parole, silenzi, gesti, interazioni, presenze, assenze… tutto, nel sistema famigliare e nel sistema famiglia-servizi, ha valore di messaggio. L’operatore sistemico partecipa alla comunicazione in modo attivo, tiene conto del processo comunicativo in atto e prova a perturbarlo alla ricerca di nuove possibilità. Usa sé stesso come messaggio, usa la propria posizione nel sistema per introdurre differenze che diventino informazioni  per provocare apprendimenti. È responsivo, cioè adotta una postura di grande attenzione per i feed-back, quelli da dare e quelli da ricevere. Ci sono tre direttive per la conduzione della seduta: 1. Ipotizzazione: capacità dell’equipe di formulare un’ipotesi sistemica fondata sulle informazioni in suo possesso, e funzionale a garantire l’attività dei conduttori nel ricostruire i giochi relazionali della famiglia. In quanto spiegazione provvisoria, l’ipotesi non è né vera né falsa, solo più o meno utile  idea che c’è sempre un’altra idea: non c’è mai un’idea finale e vera. 2. Circolarità: conduzione basata sulle retroazioni della famiglia, sollecitate da domande che venivano poste in termini di rapporti, cioè di differenze e mutamenti. 3. Neutralità: concentrandosi sulle differenze e sui giochi, l’equipe neutralizza ogni tentativo di coalizione, seduzione o relazione privilegiata, poiché è interessata a provocare retroazioni e ad accogliere informazioni e non a pronunciare giudizi moralistici di qualsiasi tipo. L’equipe sistemica, adottando la postura dell’ipotizzazione, riconosce il valore parziale e temporaneo delle proprie idee sulla famiglia, che saranno coltivate e arricchite continuamente, per garantire una visione circolare e utile al cambiamento. L’ipotesi sistemica è il prodotto di una conversazione generativa nella quale gli operatori appaiono inizialmente lineari e genuini, e solo discutendo riescono a prendere le distanze dei propri pregiudizi, grazie all’ascolto reciproco. L’incontro con le altre prospettive e la discussione aperta disciplinano lo sguardo. La linea guida della neutralità è una qualità emergente delle azioni dell’equipe: il lavoro dell’equipe è una condizione per potere lavorare in modo sistemico, per cogliere e onorare la complessa circolarità delle relazioni famigliari. Compito dell’educatore è allestire un contesto operativo come una nuova matrice di significati, uno sfondo nel quale la circolarità delle comunicazioni sia presente e possa trasformarsi. Potrà usare, occasionalmente, le domande circolari o quelle ipotetiche, ma non è l’unico modo né forse il principale. Può proporre un gioco, può usare i linguaggi estetici, può limitarsi a creare spazi inediti: spazi di attesa, di ascolto, di sospensione, di riflessione…e chiedere alle persone come li vogliono usare. Inoltre fondamentale è la creatività, o meglio l’immaginazione. Giocare ruoli diversi, copioni diversi, immaginare altrimenti, sognare la famiglia, sognare il futuro, sono azioni cruciali per la trasformazione educativa. Quale teoria ci serve per inquadrare il lavoro educativo con la famiglia? La premessa qui è che ogni azione educativa con le famiglie sia comprensibile se vediamo i singoli, le famiglie e i servizi come sistemi dinamici interconnessi e in continua trasformazione  c’è un movimento di base: l’azione educativa è uno tra i tanti movimenti che intervengono nella danza dei movimenti famigliari più o meno armonici. Tuttavia spesso si parla di situazioni statiche, ferme, ripetitive. Ma tutte queste situazioni sono in gran movimento: è necessario un gran movimento per mantenere un sistema vivente apparentemente fermo. Altre volte si parla di situazioni peggiorative, ma la freccia del tempo va solo in avanti e, inoltre, quello che chiamiamo “peggioramento” è un messaggio potente nella relazione, può assumere significati diversi. Possiamo individuare 4 movimenti di cura: 1. Fedeltà a sé stessi: dir sì a ciò che ci rende felici, e no a quello che ci rende infelici. L’uomo fin da neonato sa che cosa gli serve, che cosa lo mette a disagio, che cosa si aspetta da chi si prende cura di lui: dà chiari segnali quando il suo bisogno non viene rispettato. 2. Cura dei legami: prendersi cura di tutti i legami che connotano la famiglia, significa puntare lo sguardo su qualcosa che già c’è, ma è stata forse trascurata, dimenticata, negata. Significa fare incontrare i pezzi della famiglia che sono separati, in modo da ricomporre il senso delle interconnessioni  ricomposizione come cura. 3. Cura del noi: trae vantaggio dalla composizione. Il senso del noi fa stare tutti un po' meglio, a patto che non richieda un’infedeltà a sé stessi. 4. Apertura al sistema più ampio  riguarda il rapporto tra la famiglia e il mondo più ampio. Cura è costruire proposte educative che creino occasioni naturali di partecipazione. Un altro aspetto della cura a tal proposito riguarda la nostra dipendenza dal clima, dalle risorse naturali, dal cibo. CAPITOLO 2: Prevedere l’imprevisto nella tutela dei minori Con tutela dei minori si definiscono quelle funzioni pubbliche e quei servizi che hanno il compito di affiancare le bambine, i bambini, le ragazze e i ragazzi in favore dei quali è richiesto che le decisioni in proposito siano assunte da un’autorità giudiziaria. Intervenire in una famiglia controllando, limitando, separando non solo non può essere lasciato all’improvvisazione, ma richiede, secondo le aspirazioni del diritto, addirittura oggettività  non esiste esperienza oggettiva, la cosa si fa molto complessa. Come anche negli altri contesti, anche in quello della tutela dei minori, gli operatori devono confrontarsi con l’imprevisto. Possiamo comprendere la categoria di imprevisto solo ponendola in relazione con quanto si era previsto: gli episodi imprevisti del lavoro educativo devono venire posti al centro della riflessione pedagogica, perché possano are luce sull’ordinario e sul senso che noi gli attribuiamo. Essi costituiscono una differenza, cioè un’informazione che può essere percepita e che rappresenta un elemento fondamentale del processo di conoscenza. Non è possibile avere a che fare con un imprevisto senza attribuirgli un significato valoriale: positivo o negativo  il principale riferimento che adottiamo per dare senso all’imprevisto è quello di metterlo in relazione ai risultati, al finale. Cerchiamo, cioè, il lieto fine. La pedagogia auspicabile, nel lavoro educativo, è una pedagogia della famiglia capace di tenere sempre presenti e valorizzare le risorse dei membri di quella famiglia, la loro storia e le loro evoluzioni. È proprio nella storia di quella famiglia, le modalità con cui i membri del sistema la raccontano e si raccontano, la base da cui partire per co-costruire nuove storie e nuove narrazioni. Una famiglia che si sente conosciuta e riconosciuta nelle sue peculiarità e capacità diventa un insieme di persone che si sentono legittimate a chiedere aiuto nel momento di bisogno, senza per questo sentirsi giudicate negativamente. CAPITOLO 4: Comporre i legami messi alla prova dal carcere L’arresto del genitore è un momento che spezza i rapporti e mette in pericolo i legami  questa istituzione sembrerebbe non consentire alcuna ricomposizione. Eppure è proprio il luogo dove questo intervento è vitale e necessario: lo è per i figli, che devono poter mantenere i contatti con il genitore, comprendere ciò che è accaduto, ritrovare i punti cardinali per orientarsi e fare le proprie scelte quando sarà il momento; lo è per il genitore che resta a casa a occuparsi della famiglia rimasta orfana, spesso senza l’unico sostegno anche economico che permetta la sopravvivenza della famiglia; lo è per la comunità sociale che ha tutto l’interesse a salvaguardare una parte vitale e strutturale sei suoi stessi legami. È fondamentale quindi riconnettere i legami interrotti. Bambinisenzasbarre è un’impresa sociale che oggi impegna psicologi, analisti filosofi, pedagogisti, arte-terapeuti, tirocinanti e volontari. È una pratica sostenuta da una posizione dove la composizione assume il valore di prevenzione sociale e protezione dei diritti dell’infanzia, tra questi il mantenimento dei legami con i genitori. I bambini che entrano in carcere ogni anno per incontrare un genitore detenuto sono circa 100.000 in Italia e un milione in Europa. Solitamente il colloquio dura un’ora e mezza e può ripetersi 6/8 volte al mese. Il colloquio è un momento prezioso e cruciale per la cura del legame. L’Area Pedagogica degli istituti di pena ha tra i propri obiettivi la promozione della responsabilità genitoriale, perché può aiutare a trovare una motivazione al cambiamento. L’intervento di Bambinisenzasbarre punta la sua attenzione sul bambino, seguendo l’ipotesi che la sanzione penale, interrompendo i rapporti affettivi, intervenga come un fatto traumatico nella sua vita. I figli, attori invisibili che subiscono scelte e regole dettate dagli adulti, diventano l’anello debole di una catena di eventi che li priva della risorsa affettiva più importante. Sappiamo quanto sia cruciale e influente la relazione con i genitori in tutti i passaggi di sviluppo, sul piano affettivo, cognitivo e morale. Il mantenimento della relazione durante il periodo di carcerazione è riconosciuto come diritto del bambino al legame fondamentale per crescere e come diritto-dovere del genitore ad assumersi la responsabilità e continuità del suo ruolo. La tutela della relazione consente alla persona detenuta di recuperare un’identità genitoriale persa o a rischio, che cerchiamo di rendere visibile e valorizzare. Ciò significa innanzitutto riconoscere il bisogno profondo di continuità del legame affettivo per tutte le persone coinvolte. Bambinisenzasbarre è un percorso di accompagnamento e di sostegno psicopedagogico alla coppia genitore-figlio, in cui si privilegia il diritto del figlio al mantenimento della relazione e si favorisce il suo inserimento nel tessuto sociale, mettendo a fuoco per ogni bambino il quadro complesso della sua realtà psicologica, scolastica, famigliare. Nei confronti del genitore, parallelamente, si realizza un lavoro che gli consenta di riconnettersi con la rete di relazioni da cui è separato a causa della detenzione e con una rete di rapporti istituzionali che coinvolge i servizi interni al carcere, i servizi sociali territoriali, il Tribunale per i minorenni, i servizi di sussidiarietà del privato sociale. Una rete che si allarga alla famiglia affidataria, nei casi in cui è presente, o alla comunità che ospita i figli, alla scuola, all’ospedale e alle relazioni amicali e prossimali. Il primo passo è quello di dire ai bambini la verità sui loro genitori con parole a loro accessibili: i bambini sono in grado di comprendere cos’è la legge. Proprio la loro vita è costellata da ciò che è permesso e da ciò che è tabù. Così sono anche in grado di comprendere che anche gli adulti hanno delle leggi da rispettare, e che quando non lo fanno vengono punti. Bisogna poi dire loro che la prigione pone limiti alla libertà di movimento di una persona, ma non all’affetto, all’amore. La chiave di tutta la questione è la consapevolezza dei bambini che i loro genitori continuano ad amare  il silenzio e le bugie vincolano, rendono impossibile crescere liberi. Quando non si dice al bambino dov’è il genitore, per quanto tempo starà via, per quale motivo, si lasci a il bambino in un universo immaginario più terrorizzante della verità. Questi bambini sono spesso arrabbiati, ma faticano ad esprimere questo sentimento; il loro disagio può essere profondo, ma i famigliari, impegnati ad affrontare il proprio, non ne comprendono la portata. Aiutare a comprendere il comportamento apparentemente incoerente dei figli rappresenta spesso l’intervento primario per salvaguardare la relazione nella coppia genitore-figlio, ma coinvolge necessariamente tutto il nucleo famigliare. Una convinzione comune ritiene che una persona in carcere non sia in grado di essere un buon genitore, tuttavia, salvo casi di reati che lo giudicano proprio in quanto genitore, deve essere considerata come un genitore sufficientemente buono che ha però bisogno di essere aiutato a ritrovare la legittimazione del proprio ruolo. Scegliere di relazionarsi alla persona e non al detenuto rende possibile lo scambio relazionale in un clima di rispetto reciproco. Il genitore è considerato capace di assumere delle responsabilità, qualcuno che ha il desiderio, ma anche il diritto-dovere, di salvaguardare il proprio ruolo e mantenere una relazione significativa con i figli. Spazio Giallo = spazio creato appositamente per l’accoglienza dei bambini che si preparano al colloquio. L’attività è documentata attraverso un diario che riporta osservazioni sui bambini e sugli adulti, attività svolte, valutazioni e interventi di aggiustamento. Spazio Giallo è dunque uno spazio intermedio, che connette l’interno con l’esterno. Obiettivi dello Spazio Giallo: 1. Accoglienza de bambini e degli accompagnatori a Spazio Giallo  camera di decantazione delle emozioni prima e dopo il colloquio con il genitore detenuto. 2. Intercettazione delle situazioni sommerse e presa in carico dell’intero nucleo famigliare. 3. Accompagnamento dei figli al colloquio. 4. Gruppi di parola all’interno del carcere: laboratori sulla maternità/paternità per la rielaborazione di temi e problemi comuni rispetto al proprio ruolo. 5. Punti di ascolto: colloqui individuali di sostegno al genitore. 6. Attivazione della rete interna all’istituzione: al centro, l’interesse del bambino come soggetto che l’istituzione carceraria deve essere in grado di accogliere adeguatamente. 7. Interventi di sensibilizzazione degli agenti di polizia penitenziaria. 8. Attivazione dei rapporti con la rete esterna al carcere. 9. Azioni di sensibilizzazione e informazione rivolte alla società civile, per modificare lo sguardo sul genitore detenuto. 10. Attività di ricerca a livello nazionale e europeo. I gruppi di parola e i punti di ascolto hanno l’obiettivo di innescare tutti i meccanismi di aiuto disponibili, nella prospettiva di una ricomposizione dei legami affettivi e sociali.  Gruppi di parola: incontri collettivi di discussione e confronto. I temi che occupano queste riunioni sono principalmente l’esplorazione dei bisogni dei figli: come comprenderli, come leggere certi comportamenti, come comunicare con loro, come utilizzare il tempo dei colloqui e quello epistolare. Poi il tema della sofferenza: dei figli e la propria.  Punti di ascolto: “Punti”, in quanto individuano un tempo e uno spazio per il colloquio individuale con il genitore. “D’ascolto” perché questa è la modalità con cui si svolgono. CAPITOLO 5: Posizionarsi nel conflitto: l’educatore a Spazio Neutro La parola conflitto rimanda immediatamente all’idea di opposizione di due (o più) punti di vista che non riescono a trovare una forma di convivenza, di complementarietà e si scontrano in modo simmetrico. Dal conflitto possono emergere conseguenze positive oppure negative (sofferenza, violenze). Spazio Neutro è nato per sostenere e favorire il mantenimento della relazione tra il bambino e il genitore o adulto di riferimento per lui significativo, in quelle vicende famigliari in cui questo bisogno non è rispettato, a causa di conflitti intrafamigliari o situazioni di malattia e disagio. Tutto ciò perché molti Stati recepiscono nel proprio sistema giuridico la Dichiarazione dei diritti dell’infanzia: “Gli stati devono rispettare il diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi di mantenere relazioni personali e contatti diretti in modo regolare con entrambi i genitori, salvo quando ciò sia contrario all’interesse superiore del fanciullo”. Le famiglie che giungono al servizio sono inviate dal Tribunale per i Minorenni o dal Tribunale Ordinario in modo coatto attraverso provvedimenti (decreti) nei quali l’autorità giudiziaria intende sostenere e/o controllare la relazione tra adulto e bambino in un luogo protetto. Al servizio Spazio Neutro è richiesto di costruire con la famiglia un progetto che renda possibile il mantenimento del diritto di visita e di relazione del bambino. L’obiettivo di lungo termine è quello di lavorare affinché questi possa mantenere i contatti con entrambi i genitori in un clima che non sia pregiudizievole per la sua crescita. L’equipe del servizio può essere costituita da professionisti di stessa formazione o provenienti da differenti aree della relazione d’aiuto. Rispetto all’incarico ricevuto, Spazio Neutro, deve rendere conto attraverso relazioni scritte al Tribunale che ha emesso il decreto. Il percorso a Spazio Neutro prevede diversi tipi di interventi:  Colloqui individuali con i genitori.  Colloqui con i minori.  Incontri “protetti” tra il bambino e il genitore escluso perché ritenuto potenzialmente pericoloso. Ricercare una rappresentazione estetica del conflitto significa sia proporre concretamente alle persone con cui lavoriamo la ricerca di una rappresentazione alternativa del problema (ad esempio attraverso il disegno), sia ascoltare le metafore, le immagini che emergono spontaneamente nei loro racconti  cambiare linguaggio è un’operazione che in sé mira a cambiare la rappresentazione dei fatti. La situazione conflittuale spesso ha come sintomo le storie che vengono raccontate dai protagonisti: molto spesso sono storie saturate da attribuzione di colpe  spiazzare la conversazione attraverso l’utilizzo di linguaggi estetici e richieste a tema può mettere l’altro nella condizione di diventare osservatore della propria storia assumendo una posizione differente rispetto a quella strenuamente ripetuta. Ad esempio, chiedere in un primo colloquio di disegnare il problema e la sua soluzione può portare differenze nella storia preconfezionata. Per favorire il cambiamento dobbiamo creare un contesto e mettere in campo azioni che producono nuove possibilità di vedere: la pratica dell’altravisione è la possibilità di mettere le persone in nuove posizioni rispetto a sé, alla propria storia ed emozioni, alle proprie relazioni. Fondamentale è poi allargare il contesto: si può ad esempio chiedere il genogramma famigliare = forma di rappresentazione dell’albero genealogico che registra informazioni sui membri di una famiglia e sulle loro relazioni nel corso di tre generazioni. Il genogramma mette in evidenza graficamente le informazioni della famiglia, in modo da offrire una rapida visione d’insieme de complessi pattern famigliari. oppure si può proporre di disegnare i blasoni famigliari = rappresentazioni grafico-simboliche dei valori di una famiglia. CAPITOLO 6: Costruire consapevolezza nella relazione con le famiglie Il centro diurno “Vivi ciò che sei” della cooperativa “L’Albero della Vita” accoglie dal 2001 ragazzi e ragazze tra gli 11 e i 17 anni provenienti da famiglie delle zone 6 e 7 di Milano. Il centro accoglie utenti solo dietro invio dei servizi sociali, alcuni con decreto del tribunale per i minorenni. L’intervento con le famiglie rappresenta una parte particolarmente importante nel lavoro educativo del centro: non è possibile, infatti, superare una situazione di disagio senza lavorare a livello sistemico. Sono stati intervistati 6 educatori che hanno fatto parte dell’equipe del Centro, questo ha consentito di mettere in evidenza alcuni aspetti importanti nel lavoro con le famiglie: 1. Interagiamo con sistemi: il primo approccio alla famiglia da parte degli operatori ricalca il modello della famiglia assente: la famiglia non è presa in considerazione. Subito dopo questo modello viene quello della diffidenza verso una famiglia vista come potenzialmente problematica. Ci sono situazioni poi in cui la famiglia è etichettata come sbagliata. 2. Fare silenzio: spesso genitori e educatori hanno punti di vista diversi rispetto al percorso del ragazzo: il genitore è ancorato al passato, mentre gli educatori puntano al futuro. I conflitti sembrano inevitabili ma possono portare alla scoperta dell’altro. Ciò avviene grazie ad un ascolto reciproco profondo. 3. Trovare la posizione, né troppo né troppo poco: nell’interazione educativa accade di fare troppo o troppo poco. Trovare la giusta posizione è allora fondamentale. 4. Famiglie disfunzionali: quasi tutti gli educatori riconoscono di avere avuto un pregiudizio molto forte nel primo approccio con le famiglie: senza lo sguardo dell’altro e senza il confronto delle idee è molto difficile riconoscere e superare i nostri pregiudizi. 5. I confini della famiglia: entrare nei rapporti famiglia è vissuto spesso con timore: oltre all’idea di varcare uno spazio privato, gli educatori esprimono il timore di entrare in contatto con un mondo i cui confini non sono chiari né delineati. 6. Le proprie relazioni famigliari: il contatto con le famiglie sollecita il ricordo o la riflessione sulle proprie esperienze famigliari.
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