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re - inventare la famiglia, Sintesi del corso di Pedagogia

riassunto del libro re - inventare la famiglia scritto da Laura Formenti

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 15/12/2019

__Erica
__Erica 🇮🇹

4.3

(17)

3 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica re - inventare la famiglia e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! RE-INVENTARE LA FAMIGLIA Prima Parte CAPITOLO 1 (Laura Formenti) Tutte le azioni che noi compiamo sono i modi che il nostro corpo ha per attivare una percezione che non avviene senza movimento. Nella visione siamo convinti di guardare, da fermi, un mondo stabile ma in realtà la vista non ha nulla di fisso: il mondo che guardiamo è in movimento. Lo sguardo dipende dall’azione: se i processi di percezione e di conoscenza dipendono da quello che noi facciamo nel mondo, cioè dalle azioni specifiche che esercitiamo sugli oggetti che incontriamo, non sarà la definizione di questi oggetti a farceli conoscere. La descrizione della famiglia è qualcosa di molto complesso, in quanto non è un oggetto immobile ma un soggetto che è in continuo cambiamento. Lavorare con la famiglia richiede una consapevolezza epistemologica, cioè un atteggiamento interrogante nei confronti dei presupposti. La metafora dello sguardo è parziale quando si parla di famiglia poiché nella conoscenza della famiglia tutti i sensi sono coinvolti. Il gioco del “se fosse” aiuta le famiglie a entrare nel mondo delle relazioni. La metafora più utilizzata è quella della rock band: è molto interessante perché ci permette di capire che all’interno di ogni sistema familiare, ogni membro cerca di trovare la sua voce, ma l’insieme avrà comunque un sound inconfondibile, chiamato “senso del Noi”. Ogni familiare ha un timbro unico, personale, e il modo peculiare in cui si amalgamano e armonizzano i vari timbri ci dà il Noi. Albert Scheflen fu il primo dei ricercatori a paragonare la comunicazione a una composizione musicale, in quanto entrambe realizzano delle strutture, con uno stile e delle specificità proprie, ma anche una configurazione complessiva ben precisa. Facendo sempre riferimento alla metafora musicale non è possibile vedere gli individui come isolati ma è necessario analizzare la famiglia nella sua totalità. La famiglia è un sistema. È un aggregato di parti interagenti, ciascuna delle quali può esistere in sé ma è interdipendente dalle altre e dal tutto secondo determinate leggi e regole. Un sistema è caratterizzato da totalità: è un tutto inscindibile, e questo vuol dire che se una parte cambia o viene danneggiata, tutte le parti sono coinvolte. Ogni sistema è omeostatico: ha un equilibrio che non è fisso, ma è metastabile (si mantiene attraverso un continuo processo di retroazione negativa). Ogni sistema è caratterizzato poi da retroazione e circolarità e da equi finalità (due sistemi partiti da condizioni iniziali diverse possono raggiungere lo stesso risultato finale, e condizioni iniziali uguali possono produrre risultati diversi). Queste sono tutte caratteristiche che ritroviamo nel sistema-famiglia. Le storie che compongono le varie famiglie sono storie scritte a più mani e non individuali. Quindi un educatore, per comprendere una specifica famiglia, non potrà limitarsi a capire e studiare le intenzioni, le azioni e i valori dei singoli membri, ma dovrà cercare di farsi orecchio sulla musica suonata da tutta la famiglia, dovrà ascoltare attentamente e concentrarsi sulle relazioni familiari. È riduttivo spiegare i comportamenti umani attraverso i vissuti individuali, bisogna guardare quello che accade tra le persone. Proprio per questo, per un educatore sistemico è efficace la metafora della band per riuscire a spiegare le relazioni tra le diverse persone interne alla famiglia. La metafora è una figura retorica che permette di esprimere una cosa diversa da quella nominata, trasferendo il concetto al di fuori del suo significato reale. 1 I linguisti Lakoff e Johnson considerano la metafora una dimensione cognitiva che sta alla base del linguaggio quotidiano e coinvolge non solo le parole, ma anche il pensiero e l’azione. Il corso è i sensi ci offrono metafore per comprendere il mondo. La metafora è stato un oggetto di analisi di Bateson secondo cui comprende tutti i processi di conoscenza e di comunicazioni che dipendono dall’omologia, dall’empatica etc. L’approccio sistemico nasce grazie a Bateson che teorizza l’idea che la personalità dell’uomo è l’esito di processi interattivi e la soggettività viene costruita nell’interazione con l’ambiente e altri individui. Un ruolo molto importante è giocato dalla comunicazione e dal linguaggio riassumibile nell’assioma individuato dalla scuola di Palo Alto “è impossibile non comunicare”. Una caratteristica delle famiglie è la consuetudine, la ripetitività e la ridondanza dei modelli di comunicazione. Provare e riprovare porta la famiglia a creare un proprio ritmo e un proprio sound che la diversifica da tutte le altre. Il ruolo dell’educatore è di fondamentale importanza in quanto deve prendersi cura dell’insieme altrimenti si arriva a una escalation schismogenetica di conflittualità e di problematicità. Bisogna capire poi che la famiglia è un’opera collettiva, incompiuta e sempre in costruzione, in cui tutti danno un contributo attivo. I ruoli possono cambiare ed esistono dei copioni familiari in ogni famiglia (un copione è un insieme di aspettative condivise dalla famiglia di come i ruoli debbano essere rispettati all’interno di contesti differenti). A volte i copioni finiscono per creare veri e propri personaggi su cui i membri familiari si sintonizzano (il pigro, il genio, la pecora nera ecc). Sono importanti anche i rituali familiari, che realizzano apprendimenti espliciti e impliciti e implicano una serie di messaggi su chi è quella famiglia e su chi sono i suoi membri (per es. cucinare tutti insieme). I rituali hanno la caratteristica della ripetitività e della ciclicità, sono codificati e standardizzati secondo schemi precisi e piuttosto rigidi, ma possiedono anche una natura creativa ed espressiva. L’educatore per farsi orecchio sul sistema familiare deve partire da ciò che per prima cosa lo qualifica, cioè la convivenza. La casa è un simbolo molto forte del Noi e anche del sé, è il luogo dove possiamo essere noi stessi, dove sono scanditi i tempi e i ritmi condivisi della famiglia, è uno spazio di interazione che l’educatore deve imparare a osservare con curiosità e con rispetto, senza giudicarla o analizzarla. Ogni famiglia ha il suo stile di convivenza, il proprio modello. Questo però non vuol dire che l’educatore debba adottare una posizione di relativismo culturale: lo sguardo sistemico va oltre il relativismo, per adottare una postura relazionale e costruttiva, sempre attenta alle possibilità di evoluzione della famiglia in questione (quindi se in una famiglia i figli vengono picchiati perché fa parte della cultura familiare, l’educatore sistemico non può accettarlo sulla base del relativismo, perché non sono rispettate le possibilità evolutive della famiglia.) la prospettiva storica, evolutiva e genealogica è cruciale per comprendere il sistema familiare nella sua complessità; conoscere l’evoluzione della vita quotidiana nelle diverse epoche storiche ci aiuta ad assumere una posizione più curiosa. Ogni famiglia si presenta come una cultura specifica, con il suo linguaggio, le sue storie e i miti fondativi, gli oggetti e artefatti che crea, la routine e le credenze che condivide. Il lavoro educativo con le famiglie è aprire possibilità perché tutti stiano un po' meglio. La linea politica è sancita dai genitori: la direzione da prendere, le misure da adottare, sono compito degli adulti. Ogni esito educativo, compreso il senso di libertà dei figli, è il prodotto complesso di una 2 tratta. Questo evita per es che un familiare si senta giudicato o “sbagliato” per aver tentato di combattere il problema dell’altro familiare. Sono molto importanti anche il modo in cui porgiamo la domanda, gli aspetti prossemici, verbali e paraverbali. È sbagliato domandare a una famiglia “qual è il problema”. Le domande che appaiono più generative sono quelle che: - Esplorano presupposti (riesci a considerare la famiglia come un sistema?); - evidenziano interazioni complesse (cosa è accaduto nella coppia genitoriale dopo la nascita del figlio disabile?); focalizzano particolari culture domestiche (in che modo sono ripartiti i compiti?). 2. Sperimentare concetti L’esperienza va connessa, le informazioni che acquisiamo vanno collegate, ed è solo grazie al pensiero che costruiamo l’azione. Questo ci permette di formulare una definizione di famiglia, anche se solo provvisoria perché cambia in continuazione. Esistono tantissimi termini per definire la famiglia sia positivi che negativi a seconda della propria esperienza e della nostra idea rispetto a essa. 3. Pensare ad alta voce Un educatore deve abituarsi a pensare ad alta voce, cioè riflettere e interrogarsi lavorando con gli altri, in gruppo. Tra le pratiche per pensare ad alta voce ritroviamo: ideare metafore sulla famiglia, realizzare mappe tematiche per formalizzare un’esperienza, raccogliere e trascrivere interviste narrative, esplorare la memoria familiare chiedendo ai parenti di fare un ritratto (a parole) di noi da piccoli. 4. Trasformare l’esperienza in sapere Mezirow afferma che “la riflessione è il processo in cui si valutano criticamente il contento, il processo o le premesse dei nostri sforzi finalizzati a interpretare un’esperienza e a darle significato. L’educatore deve apprendere criticamente dall’esperienza, deve attribuirle significato”. Per fare questo può essere utile tenere un diario degli apprendimenti, per poter riorganizzare e strutturare in modo personale e organico gli esiti di un’esercitazione o di una conversazione. In questo modo l’esperienza biografica dovrebbe potersi trasformare in sapere comunicabile. Una pratica molto utile per conoscere meglio l’influenza educativa che un nostro familiare ha avuto su di noi è la eterografia, cioè una scrittura dove ci immedesimiamo in un nostro familiare e ci descriviamo come se fosse lui a parlare. Questo esercizio può anche aiutare a capire perché noi abbiamo deciso di fare gli educatori e che tipo di educatori siamo\saremo (il nostro stile educativo). Educatori si diviene anche grazie alle importanti e indelebili eredità familiari che hanno segnato la vita che ci permettono di capire che educatori siamo e che ricaduta hanno sul nostro modo attuale di prenderci cura degli altri. CAPITOLO 3 (Maria Gaudio) Nella memoria autobiografica, secondo Bruner, ci sono le testimonianze visibili e palpabili di ciò che abbiamo raccolto e conservato, segni iscritti nel nostro corpo, nella pelle e nei sensi. Le teorie le costruiamo a partire da una spinta al cambiamento e alla ricerca che avviene tutte le volte che non troviamo una spiegazione soddisfacente dal punto di vista cognitivo, morale, estetico e pratico. 5 L’ approccio autobiografico ci permette di capire il ruolo della storia di vita nella costruzione del sapere, nei processi di apprendimento, nelle posture che assumiamo, nelle relazioni che instauriamo e nelle motivazioni che ci portano alle scelte di vita e professionali. Ogni famiglia costruisce le proprie teorie locali, originali e complesse, interconnesse alle teorie generali. Se si vogliono individuare tracce di famiglia, ciò che bisogna fare è volgere uno sguardo curioso e non interpretativo. Le parole ci attraversano, suscitano in noi empatia o allontanamento, condivisione o spiazzamento, ma possiamo andare oltre e scorgere altre tipologie di tracce: nella rappresentazione estetica ci sono tracce di famiglia. Si è soliti considerare il linguaggio come denotativo, univoco ed inequivocabile. Foerster parla di linguaggio connotativo, un linguaggio che parla di noi più che del mondo; il linguaggio poetico parla anche di come noi intendiamo il mondo. Per poter incontrare davvero una famiglia abbiamo bisogno di una buona teoria e di una buona pratica, interconnesse. È proprio sulle interconnessioni che si focalizza la visione ecologica che bisognerebbe adottare nell’incontro con le famiglie. La genitorialità è un’avventura squisitamente umana, appartiene all’individuo e alla specie. Essa, con il tempo, ha perso il carattere di universalità che l’ha contraddistinta per lungo tempo per assumere sempre più un carattere di individualità e di unicità. Quando pensiamo alla genitorialità, l’immagine più diffusa è quella di un uomo e una donna adulti con due bambini. Ma per noi, che vogliamo riconoscere altre tipologie di tracce, questa visione non può bastare. Non esiste società che non abbia elaborato teorie, pratiche relative ai rapporti tra genitori e figli. La genitorialità è bio-culturale; ha le sue radici nella natura, ma si sviluppa nella dimensione culturale e sociale. Per riconoscere le tracce di famiglia è necessario prestare attenzione al particolare, a vedere il dettaglio senza perdere di vista il contesto. Contesto: Rimanda a ciò che accompagna, circonda e incornicia. È una cornice del percorso, evolve e sono i soggetti con le loro azioni che lo definiscono e lo vivono in un modo o nell’altro. Ci sono tre prospettive:  La prima prospettiva, fattuale e oggettivista, considera il contesto come luogo reale, fisico e sociale.  La seconda prospettiva è quella costruttivista e simbolica, ed è il contesto così come la famiglia se lo rappresenta.  La terza prospettiva, riflessiva e ricorsiva, sono le aspettative della famiglia e degli operatori educativi connesse fra loro. Parlare di genitorialità come arte o come mestiere comporta impliciti riferimenti a due prospettive: modello istintivo e modello istruttivo. Arte o mestiere: quanto la prima richiama la creatività, il secondo ci porta alla razionalità. L’adesione a uno dei due modelli (istruttivo o istintivo) pone dei problemi: il primo premia l’asimmetria relazione e la dipendenza; nel secondo è la responsabilità personale che viene meno. Ma entrambi i modelli pongono la genitorialità al di fuori della relazione, del contesto e della storia. 6 Nel nostro ricercare tracce di famiglia, si individua un terzo modello, modello evolutivo-ecologico, che può rendere conto di un processo relazionale e in continuo divenire, come è quello genitoriale. Con questo modello ci si muove verso una descrizione doppia, verso la co-costruzione di mondi possibili. Descrizione doppia: è uno strumento epistemologico che dà la capacità di originare e discernere modelli di ordine diverso. Es. consideriamo l’interazione tra una coppia. Lei dice “lui brontola, quindi io mi chiudo in me stessa”; lui sostiene “lei si chiude in sé stessa, dunque io brontolo”. Sono due punteggiature diverse dello stesso flusso di interazione. Ciò che bisogna fare è cercare di vederle insieme, per cogliere a un livello più elevato la struttura che connette. Il processo genitoriale è complesso: non si basa su un programma predeterminato che utilizza strumenti e materie prime o tecniche ingegneristiche ma è un bricolage. Il bricolage collega l’oggi con una prospettiva futura, il presente con la storia vissuta. CAPITOLO 4 (Mara Pirotta) L’osservazione è un procedimento selettivo che si differenzia dal semplice guardare, per il fatto che lo sguardo dell’osservatore è intenzionalmente guidato da premesse, pregiudizi e ipotesi che sono una guida nell’ottenere le informazioni desiderate. Non si può osservare tutto: l’osservazione è sempre un processo di selezione e di scelta metodologica intenzionale; non è possibile quindi osservare in modo totale né oggettivo poiché l’osservatore è sempre inserito nel processo di osservazione, lo caratterizza e ne è a sua volta influenzato. Quando l’oggetto di osservazione è la famiglia, la pratica osservativa sembra assumere una complessità ancora maggiore. L’esperienza di chi osserva, i suoi pregiudizi e preconcetti inevitabilmente vengono messi in scena, con il rischio di filtrare talmente tanto i dati da non riuscire a cogliere aspetti che potrebbero modificare le sue ipotesi di partenza. L’osservazione è una vera e propria pratica che richiede cura, attenzione e responsabilità: se guardo in un certo modo, so che riuscirò a vedere delle cose e non altre. Ognuno di noi ha una propria e personale esperienza di famiglia; questa esperienza viene inevitabilmente evocata quando nel lavoro educativo o di consulenza si è chiamati a interagire con un genitore che chiede aiuto a vari livelli. “Come mi vedi?” questo è l’interrogativo con cui molti genitori si rivolgono a un professionista della relazione pedagogica poiché vogliono essere valutati come genitori. Quello che sembra essere un bisogno di valutazione è in primo luogo un bisogno di riconoscimento: il desiderio di essere visti e riconosciuti nel ruolo di genitore. Di fronte al bisogno di essere visti e riconosciuti si può proporre un uso trasformativo e riflessivo della videocamera come strumento che crea uno sguardo possibile. La richiesta avanzata dai genitori è di tipo valutativo (“ditemi che sono un bravo genitore”) ma la risposta, o meglio il percorso che viene proposto, è osservativo-riflessivo. Se esiste un dubbio o un giudizio negativo su di sé, è meglio partire da quello perché è proprio dal dubbio che nasce la domanda di consulenza. Questo primo passo porta il genitore in un circuito riflessivo armonico: da un lato lo sostiene nell’idea che qualcosa non funziona; dall’altro dà il messaggio che il genitore è competente nell’esprimere quell’idea. La metodologia proposta prevede l’osservazione delle interazioni tra i componenti della famiglia; il setting scelto è la casa, quindi un ambiente naturale dove è possibile osservare quelle attività di routine che appaiono, nei racconti dei genitori, le più cariche di ansia e timori. 7 dalle pratiche comunicative che definiscono le appartenenze, i significati, l’identità di ciascuno, l’identità di famiglia. Pensare e ripensare alla propria storia, narrarla riflessivamente e creativamente è una pratica utile per mantenere vivo il senso di ciò che avviene. Un rischio educativo però è che la famiglia sia narrata e si narri in modo fisso e uguale rischiando di non dare la giusta attenzione. È importante la riflessività, riflettere su ciò che accade nella quotidianità, in quanto il processo di autoformazione prende avvio proprio quando ci si distacca dalla solita riproduzione automatica della famiglia fissa. C’è un profondo nesso tra pensiero riflessivo e narrazione, cura delle relazioni e cura di sé. La riflessività formativa diventa autoformazione quando interrompe la riproduzione automatica del passato, genera distanza dalle storie tramandato e innesca cambiamenti. È opportuno interrogarsi sullo stile narrativo e sulla semantica che gli operatori usano per descrivere la famiglia per due ragioni: - la prima riguarda il benessere degli operatori: come non esistono famiglie felici di raccontarsi e descriversi in modi rigidi e giudicanti non ci sono neanche educatori “felici” di descrivere le famiglie e il proprio lavoro con storie prive di speranza e possibilità. - La seconda riguarda il livello interattivo tra la famiglia e gli operatori: ci si interroga su come i fattori e contesti esterni alla famiglia influiscano nella co-costruzione di narrazioni e rappresentazioni. Un educatore che lavoro con la famiglia ha un ruolo significativo nella costruzione di “storie” in quanto riveste un ruolo educativo e di cura. La famiglia è intesa come snodo attivo che interagisce creativamente dento e con un’ampia costellazione di soggetti educanti che sono chiamati ad avere maggior consapevolezza del proprio lavoro di cura dentro quella storia e con quel sistema. Nel lavoro di cura, si possono individuare due teorie:  patogenico: attenzione sulla malattia e ciò che l’ha scatenata (causa-effetto);  salutogenico: attenzione su ciò che c’è, sulla salute. Nella salutogenesi in cui l’educatore, senza negare i problemi, si concentra sui punti di forza, sulle risorse della famiglia e sulle persone che la compongono per raggiungere la normalità; questa prospettiva privilegia la ricerca degli aspetti e dei temi funzionali, sani, riconducibili alle potenzialità e alle risorse. L’idea di cura educativa orientata alla ricerca della bellezza presente nella famiglia, è proprio nata grazie al lavoro con delle famiglie “multiproblematiche” all’interno di contesti di cura come i servizi sociali e i servizi per il diritto di visita che davanti a numerosi problemi, si è posta l’attenzione a valorizzare ciò che c’era piuttosto che le problematiche esistenti. È importante quindi iniziare l’intervento educativo dalla ricerca di momenti positivi, dalle emozioni e dagli elementi di funzionamento e di salute, in quanto ciò aumenta in una prospettiva dinamica la possibilità di cambiamento, facendo sempre attenzione però a non ricadere in un atteggiamento positivistico. La cornice è qualcosa che inquadra, separa il contenuto dallo sfondo, gli dà senso e lo valorizza. Sul piano cognitivo, struttura e definisce; sul piano simbolico, contiene e crea attenzione. L’essere umano è immerso in cornici senza saperlo, ovvero in sistemi di premesse implicite, schemi abituali di interpretazione del mondo, dentro cui sviluppa il proprio punto di vista sulle cose. 10 Non si tratta solo di recuperare la normalità del soggetto o della famiglia ma di andare insieme a cercare, con uno sguardo curioso ed esplorativo, tracce di competenza e abilità per rintracciare e vivificare la narrazione familiare, trasformandola in un romanzo. Il posizionamento estetico permette di riunificare mente e corpo, con i sensi, con le percezioni, riconciliare la ragione con la passione e proporre un soggetto cosciente che non teme le proprie emozioni, che è in grado da queste di trarre apprendimento e conoscenza. È l’atto del riconoscimento che definisce la bellezza, in quanto si tratta di pensarla come accadimento auto- riflessivo, che è in relazione e parla con noi. Nel lavoro di cura si scopre molto presto che la parola e il pensiero strutturato hanno dei limiti, in quanto presentano una forma fin troppa definita e convenzionata. Il racconto, la metafora, la poesia consentono di dar voce ad aspetti della vita umana che non sono totalmente verbalizzabili. Fare ricorso all’immaginazione significa utilizzare i linguaggi simbolici per creare nessi impensati, per riuscire a far convivere e comporre elementi apparentemente estranei, per riunificare la mente e il corpo. L’immaginazione e la funzione simbolizzante possono aiutare a riconoscere la complessità e la bellezza di cui ogni storia è portatrice, per onorarla e per celebrarla ancor prima di volerla cambiare. La logica fantastica, che consente di moltiplicare all’infinito gli elementi narrativi di una storia, insieme alla simbolizzazione accompagna continuamente la nostra vita, specialmente nelle relazioni intime come quella amorosa. CAPITOLO 7 (Laura Formenti) L’approccio biografico e autobiografico, è una via per comprendere l’unicità della cultura di ogni famiglia, e allo stesso tempo, ci permette di vedere le connessioni tra il singolo sistema familiare e il contesto più ampio. Un tipo di lavoro educativo è appunto quello della narrazione familiare in cui ogni componente narra e si narra; la narrazione ci aiuta a comprendere come cambia la vita quotidiana all’interno della famiglia stessa e come cambiano le relazioni, non solo per fattori interni ma anche per influenza di determinanti sociali, (appartenenze di classe/territoriali e di genere). La narrazione familiare è un insieme ampio e articolato di processi, di creazioni di storie che vengono condivise, modificate, arricchite, ri-significate a ogni passaggio e consegnate agli interlocutori interni e esterni alla famiglia. Quello che resta sono i loro presupposti impliciti: insegnamenti generalizzati, ormai slegati dagli eventi originali. Alcuni esempi: - i miti racchiudono tre significati:  narrazione favolosa delle gesta di dei o eroi relativa alle origini del mondo, del genere umano, di un popolo;  per estensione, fatto o personaggio storico divenuto leggendario;  ogni convinzione non razionale che esprima in qualche modo le aspirazioni di una collettività che è di stimolo all’azione. Il processo di mitizzazione favorisce la creazione e il rinforzo del senso di identità della famiglia, soprattutto nei momenti di transizione. I miti possono essere individuali o coniugali, familiari. - Le leggende ovvero racconti di avvenimenti, fatti generalmente a carattere religioso, cavalleresco, o eroico, ricco di particolari favolosi e fantastici; sono anche eventi realmente accaduti che la fantasia popolare ha arricchito di elementi fantastici. Le leggende familiari sono l’insieme dei racconti di eventi e situazioni specifiche che, mescolando realtà e fantasia, vengono tramandati di generazione in generazione attraverso la parola. 11 Le storie possono offrire sia un modo di leggere le trasformazioni della vita familiare sia un metodo di intervento educativo. La “costruzione biografica” racconta la vita vissuta in presa diretta e per poterle dare un senso dobbiamo guardarla retrospettivamente. Per comprendere appieno la complessità, è necessario però l’Immaginazione autobiografica cioè la capacità di comporre sguardi multipli andando oltre le nostre cornici disciplinari e professionali. Il paradigma familiare è il complesso di presupposti, di immagini reali e ideali, di rappresentazioni e concetti che costruiscono un modello cognitivo, emotivo e valoriale ed etico con cui la famiglia sceglie di dare forma alle sue azioni. È un variabile sistema in quanto esprime il modo in cui un gruppo familiare concepisce sé stesso. Reiss individua tre parametri entro cui è possibile collocare ogni famiglia: 1. CONFIGURAZIONE  competenze di controllo e gestione degli eventi; 2. COORDINAZIONE  altamente coesa e si aspetta di essere tratta come un gruppo; 3. INFORMAZIONE  la famiglia si riconosce aperta se accoglie i messaggi, le differenze, le novità modificandosi di conseguenza. Dalla combinazione di questi tre parametri si compongono i diversi paradigmi familiari: - Famiglie orientate al consenso: 1. Bassa, 2. Alta, chiusura all’informazione; - Famiglie orientate alla distanza: 1. Bassa, 2. Bassa, apertura o chiusura all’informazione (manca patrimonio condiviso) - Famiglie orientate all’ambiente: 1. Alta, 2. Alta, apertura all’informazione (scambio interno – esterno) - Famiglie orientate al risultato: 1. Alta, 2. Bassa, apertura all’informazione. Nel ciclo di vita di una famiglia, accanto ai momenti di relativa stabilità in cui il paradigma rimane stabile si presentano momenti di crisi che possono mettere in discussione il modello di interazione e comportare una revisione del paradigma familiare. La cultura familiare è il sistema complesso di saperi, ideologie, valori, leggi e norme, rituali quotidiani. Mettere l’accento sulla cultura significa affrontare il tema dell’educazione come processo che avviene continuamente nella famiglia, per lo più inconsapevolmente attraverso l’immersione quotidiana nei modelli comunicativi, negli stili di vita, nella materialità dei rituali, dei gesti e dei discorsi. La biograficità è l’esito di un percorso auto-educativo del soggetto che si osserva, si racconta, riflette, prende le distanze e sceglie il proprio cammino. In assenza del modello unico, su cui indirizzare qualsiasi azione educativa, si richiedono nuovi apprendimenti, nuovi processi di comunicazione e di negoziazione. Il disordine e l’incertezza sono oggi sinonimo di famiglia poiché la regolarità e la sequenzialità, caratteristiche di un tempo, non esistono più. Il disordine testimonia quanto sia alto il desiderio di famiglia e la storia ci dice quante aspettative siano investite in quest’idea e quali apprendimenti vengono realizzati. L’apprendimento è un fenomeno creaturale, connesso al vivere. Esistono vari livelli e ognuno può cambiare e generale un livello successivo: - APPRENDIMENTO ZERO  corrisponde alla risposta specifica che segue uno stimolo sensoriale. Il cambiamento è minimo e l’individuo riceve l’informazione e risponde con quella reazione che si ripete sempre uguale a sé stessa quando lo stimolo viene riproposto. Questo apprendimento è tipico dei dispositivi meccanici: le reazioni di una macchina sono sempre uguali e prevedibili; 12 Ogni educatore lavora quindi su situazioni che sono “naturali” fino a quando non interviene un ostacolo: è nel momento della crisi che si rende necessario l’apprendimento, il cambiamento e in questi casi, un intervento esterno utile. Molti educatori che lavorano a stretto contatto con la famiglia sono catturati dal linguaggio delle emozioni e sottovalutano gli aspetti cognitivi, i vari livelli di apprendimento coinvolti nel processo. Lo scaffolding è un processo relazionale reciproco: non si tratta solo di “offrire sostegno”, c’è un processo comunicativo fatto di azioni e reazioni circolari, continuamente adattato alle successive prese di posizione e risposte dei singoli. L’educatrice offre una struttura che non sorregge le persone, ma le azioni. Nulla avrebbe senso se fuori contesto, c’è una rete di relazioni significative intorno a ogni famiglia; sono necessari alla sua sopravvivenza, a volte appaiono molto vaste e intricate, altre volte (apparentemente) più semplici, impoverite dall’isolamento sociale e da vicende precedenti. Quando parliamo di contesto nel lavoro con la famiglia intendiamo tante cose diverse. Una rete di relazioni significative, fluida e ridefinita ma anche silenti, prossimali e istituzionali, distali e occasionali. I soggetti sono parte attiva di queste relazioni, offrono e ricevono sguardi che costruiscono la loro identità, il loro benessere e malessere. Un educatore è qualcuno che sa come muoversi tra queste relazioni, come valorizzarle per sfruttarne le potenzialità, come prendersi cura dei legami riconoscendoli e rendendoli visibili. Per riuscirci deve fare quella che i sistemici chiamano analisi del contesto, cioè una riflessione che risponde alla domanda “dove siamo?”. Un aspetto più specifico del contesto sociale è il contesto istituzionale, cioè il luogo concreto dentro il quale avviene l’intervento educativo: un’organizzazione di pratiche e di significati che propone cornici politiche e semantiche le quali definiscono cosa può e non può accadere in determinate circostante. Non si può lavorare fuori contesto: la caratteristica di base della comunicazione umana è la ripetitività, che rende prevedibile ciò che accadrà in un certo scambio. La tendenza umana a fondare contesti nasce dal bisogno di prevedere cosa farà l’altro. L’analisi del contesto serve per realizzare una composizione delle cornici, per creare comunicazioni favorevoli alla trasformazione. L’analisi del contesto dunque significa comprendere come il servizio evolve e si trasforma. C’è poi il contesto qui e ora, della relazione specifica “con questa famiglia”, interrogarsi è importante, l’educatore che non si interroga rischia di non essere utile alla trasformazione. Gli ingredienti base dell’intervento educativo:  La domanda: il bisogno e la domanda sono da costruire, da interpretare. Più che un punto di partenza, la domanda rappresenta un esito da differenziare. Esiste un modo per aiutare senza far sentire l’altro incompetente: sostituire al bisogno il desiderio, all’aiuto la cura. Le domande legittime di Heinz von Foerster sono quelle che non contengono già in sé una risposta, ma ci invitano al viaggio.  L’invio: L’inviante è colui che ritiene che in una determinata famiglia c’è bisogno di un intervento educativo, ma uno dei problemi più frequenti riguarda lo scontro di premesse tra chi pensa l’intervento soprattutto in termini di controllo sociale e chi ha in mente scopi educativi.  Il mandato: Interrogarsi sul mandato e disporsi a interpretarlo e ridefinirlo rende l’operatore protagonista del proprio lavoro. Non è necessario subire passivamente un mandato. 15  La convocazione di tutto il sistema: Nell’approccio sistemico la convocazione è l’invito a tutta la famiglia a presentarsi al servizio. Un’altra questione è quella dei confini, convocare significa definire chi fa parte di quella famiglia; in un’ottica sistemica, è “famiglia” l’insieme delle persone coinvolte nella cura, “nel problema”, quelle che vedono questo bambino, quelle che chiedono aiuto, quelle che danno un contribuito nel cercare soluzioni (quindi anche insegnanti, vicini di casa ecc.).  La costruzione del setting: Definire un setting come educativo, far capire che “qui ci si prende cura dei legami”, far sentire alle persone che ci si può fidare, sono messaggi difficili da costruire. È su il come che si deve puntare l’attenzione. È molto potente la ritualizzazione, che connota il tempo dell’intervento come uno spazio “speciale”, dedicato alla cura di sé e degli altri. L’operatore, all’interno di questo spazio propone azioni specifiche, diverse dal solito e ciò non vuole finalizzare il cambiamento ma un’offerta di esperienze potenzialmente trasformative.  Il processo: contratto, intervento, valutazione chiusura: Nel contratto educativo sono definiti gli obiettivi, ma l’intervento educativo non può solo avere esiti attesi ed è per questo che bisognerà scriverlo alla fine. L’intervento ha una durata: è bene definire in modo esplicito inizio e chiusura, anche per dare un chiaro segnale che la vita della famiglia va oltre il tempo dell’intervento. L’approccio sistemico è tendenzialmente breve, mira alla perturbazione, non alla presa in carico, attribuisce al sistema una capacità di autocura che va rivitalizzata. La circolarità tradotta in comunicazione L’operatore sistemico partecipa alla comunicazione in modo attivo, tiene conto del processo comunicativo in atto e prova a perturbarlo alla ricerca di nuove possibilità. Usa sé stesso come messaggio, usa la propria posizione nel sistema per introdurre differenze che diventino informazioni. È responsivo, cioè adotta una postura di grande attenzione per i feed-back, quelli da dare e quelli da ricevere. Il suo modo di comunicare non è centrato sull’intenzionalità del messaggio ma sugli effetti pragmatici. Queste posture epistemologica, molto lontana dal pensiero comune, è evidente nelle procedure inventate dai terapeuti della famiglia per condurre colloqui familiari congiunti. Domande che mettono in luce le relazioni, rendendole visibili e dunque trasformabili:  L’ipotizzazione consisteva nella capacità dell’équipe di formulare un’ipotesi sistemica fondata sulle informazioni in suo possesso, e funzionale a garantire l’attività dei conduttori nel ricostruire i giochi relazioni della famiglia. Fin dalla prima seduta, serve a iniziare e organizzare il processo di indagine, come una struttura che connette tutti i comportamenti dei diversi componenti del sistema dato che l’ipotesi non è vera né falsa ma solo più o meno utile.  La circolarità, era una conduzione basata sulle retroazioni della famiglia, sollecitate da domande che venivano poste in termine di rapporti, cioè di differenze e mutamenti. Le domande circolari vengono poste a tutti i membri della famiglia, perché quello che interessa sono le differenze.  La neutralità si concentrava sulle differenze e sui giochi, l’équipe neutralizzava ogni tentativo di coalizione, seduzione o relazione privilegiata, poiché era interessata a provocare retroazioni o ad accogliere informazioni e non a pronunciare giudizi moralisti di qualsiasi tipo. La linea guida della neutralità costituiva un doppio vincolo terapeutico: i 16 terapeuti riconoscevano le soluzioni adottate dalla famiglia come sensate e allo stesso tempo creavamo un contesto che offriva alternative possibili, ma senza imporle. L’équipe sistemica, adottando la postura dell’ipotizzazione, riconosce il valore parziale e temporaneo delle proprie idee sulla famiglia, che saranno coltivate e arricchite continuamente, per garantire una visione circolare e utile al cambiamento. L’ipotesi sistemica è il prodotto di una conversazione generativa nella quale gli operatori appaiono inizialmente lineari e ingenui, e solo discutendo riescono a prendere le distanze dai propri pregiudizi, grazie all’ascolto reciproco. Quando un’équipe diventa una “mente sistemica” riesce a sintonizzarsi sulla complessità della famiglia, a rispecchiarne la circolarità. Il lavoro d’équipe è dunque una condizione per poter lavorare in modo sistemico, per cogliere e onorare la complessa circolarità delle relazioni familiare e immaginare quello che potrebbero diventare. Alle tre linee guida della conduzione sistemica dobbiamo aggiungere la creatività o meglio l’immaginazione. Giocare ruoli diversi, copioni diversi, immaginare e sognare la famiglia sono azioni cruciali per la trasformazione educativa. Le dimensioni di cura sono 4: - Fedeltà del soggetto a sé stesso: definisce la qualità delle relazioni. Imparare la fedeltà a sé stessi, dire di sì a ciò che ci rende felici e no a quello che ci rende infelice, non dovrebbe essere così difficile. L’integrità del bambino può essere rispettata fin dai prima giorni di vita, se c’è comprensione delle sue competenze e delle sue capacità innata di “no”. Se l’adulto comprende l’importanza delle fedeltà a sé stesso. - La cura dei legami: prendersi cura dei legami genitoriali, fraterni, amicali non significa negare i problemi, creare mondi edulcorati dove tutti si vogliono bene, dove bisogna far finta. Cura dei legami significa quindi recuperare la capacità simbolica: il simbolo crea una ricomposizione che è già in sé curativa. - La cura per il noi: il noi è la famiglia come tutto interconnesso, trae vantaggio dalla composizione, che tiene insieme il piano reale con il simbolico. - Il rapporto tra la famiglia e il mondo più ampio: la cura viene utilizzata per costruire proposte educative che creino occasioni naturali di partecipazioni in quanto l’isolamento sociale è una condizione di vita da interrogare, spesso non scelta, frutto di altre condizioni. CAPITOLO 2 (Luca Massari) Con tutela dei minori generalmente si definiscono quelle funzioni pubbliche e quei servizi che hanno il compito di affiancare le bambine, i bambini, le ragazze e i ragazzi in favore dei quali è richiesto un controllo. Questo controllo può divenire penalizzante dei diritti di qualcuno della famiglia, pertanto è richiesto che le decisioni in proposito siano assunte da un’autorità giudiziaria. Intervenire in una famiglia quindi richiede oggettività. Il lavoro educativo che si compie nell’ambito della tutela dei minori non può rinunciare alla dimensione relazionale che è essenziale. Gli episodi imprevisti del lavoro educativo costituiscono una differenza, cioè un’informazione che può essere percepita e che rappresenta l’elemento fondamentale del processo di conoscenza. Bateson definisce la differenza come un’entità astratta, un’idea. Mentre informazione deriva dal verbo latino informare e significa “dare forma alla mente”. 17 Si è osservato con numerose ricerche, che, il recupero della relazione con i figli, porta la persona detenuta a ritrovare una motivazione al cambiamento e a un recupero della responsabilità genitoriale. Il colloquio è un momento prezioso, cruciale per la cura di questo legame e perciò le istituzioni devono fare in modo che avvenga nelle condizioni migliori. Un costume culturale diffuso, ritiene che una persona in carcere non sia in grado di essere un buon padre o una buona madre, il genitore in carcere ha bisogno di essere aiutato a ritrovare il proprio ruolo genitoriale. Il processo di intervento: innanzitutto per iniziare un buon intervento, è fondamentale scegliere di relazionarsi con la persona e non al detenuto in quanto solo in questo modo è possibile lo scambio relazionale in un clima di rispetto reciproco. Dobbiamo considerare la persona-genitore capace di assumersi delle responsabilità anche se detenuta, in quanto esso ha il diritto e il dovere di salvaguardare il proprio ruolo e di mantenere un rapporto significativo con il figlio. Gli interventi principali pensati per i genitori in carcere sono:  Spazio Giallo  Colloqui  Incontri di gruppo con i genitori (gruppi di parola e punti di ascolto) Lo Spazio Giallo, è un luogo, uno spazio fisico creato appositamente per l’accoglienza dei bambini e delle famiglie che si preparano al colloquio. È uno spazio integrato socioeducativo pensato per le esigenze dei bambini. I bambini vivono questo spazio come un luogo in cui si sentono pensati e protetti, possono “dare voce”, parlare e dare forma alle loro emozioni, per le famiglie lo Spazio è una risorsa di conforto, scambio, consulenza e gli operatori vengono a conoscenza di come le famiglie affrontano l’esperienza detentiva. I gruppi di parola sono incontri collettivi di discussione e confronto. I temi che occupano queste riunioni sono principalmente due: 1. l’esplorazione dei bisogni dei figli: come comprenderli, come leggere certi comportamenti, come comunicare con loro, come utilizzare il tempo del colloquio 2. il tema della sofferenza: dei figli e propria, in cui il gruppo aiuta a superare le paure. CAPITOLO 5 (Andrea Galimberti) La parola conflitto richiama l’idea di opposizione di due o più punti di vista che non riescono a trovare una forma di convivenza, di complementarietà. Dall’”urto”, dal conflitto, possono nascere conseguenze positive (il processo di differenziazione dell’altro e di emancipazione prevede sempre momenti conflittuali) e conseguenze/effetti negativi per esempio sofferenze, violenze. Ogni famiglia ha un rapporto diverso con il conflitto, alcune lo vedono come un tabù da evitare, altre lo amano. Un modo utile per far dialogare il conflitto tra i membri della famiglia è lo Spazio Neutro che è nato per sostenere e favorire il mantenimento della relazione tra bambino e genitore adulto significativo, in quelle vicende familiari in cui questo bisogno non è rispettato, a causa dei conflitti intrafamiliari o situazioni di malattia o disagio. Nello spazio neutro è richiesto di costruire con la famiglia un progetto con l’obbiettivo di lavorare insieme affinché il figlio possa mantenere i contatti con entrambi i genitori. Tale progetto è svolto in stretta connessione con gli operatori del servizio “tutela minori” e con il tribunale. 20 Il percorso Spazio Neutro prevede 3 tipi di intervento:  Colloqui individuali con i genitori  Colloqui con i minori  Incontri “protetti” tra bimbo/ genitore con un operatore La situazione conflittuale spesso ha come “sintomo” le storie che vengono raccontate dai protagonisti. In queste situazioni si assiste a racconti saturati di attribuzioni di colpe, riletti completamente attraverso la lente dell’ospitalità. Nelle situazioni complesse, o di stallo in cui gli operatori non si sentono tranquilli, possono richiedere l’aiuto del Supervisore, come possibilità di mettere le persone in nuove posizioni rispetto a sé, alla propria storia ed emozioni e alle proprie relazioni. La supervisione è effettuata prevalentemente da psicologi o psichiatri, anche quanto i supervisionasti sono educatori o infermieri. L’altravisione è una figura pedagogica che sta sullo stesso piano ma che, attraverso uno sguardo esterno, permette di introdurre differenti punti di vista, di offrire nuove storie, nuove punteggiature al fine di mettere in movimento quelle bloccate. L’operatore può utilizzare numerose metodologie e strumenti per fronteggiare tali situazioni:  Il primo è cambiare linguaggio: ovvero cambiare metodo per far spiegare alla famiglia il proprio problema come per esempio usando metafore o disegni;  Il secondo metodo utile per allargare il contesto d’ azione dell’intervento e comprendere maggiormente le problematiche, è ampliare lo sguardo: ampliare lo sguardo verso la famiglia di origine attraverso il “Genogramma familiare”, in questo caso, l’attenzione non è solo posta sugli utenti presi in carico ma anche sulla parentela. CAPITOLO 6 (Flavio Bacci) L'educatore entra sempre in interazione con i sistemi anche se non sempre ne è consapevole. Diventa parte di un sistema in cui cerca di conoscere la complessità e all'interno del quale promuove azioni rivolte a una qualche forma di cambiamento. La metodologia dell'intervista narrativa permette di dare voce all'esperienza degli operatori: sono loro a decidere quali sono i temi e i ricordi pertinenti. Nelle interviste c'è un invito alla riflessività: ogni episodio raccontato viene anche riletto dagli intervistati nelle sue implicazioni di senso. L'educatore è parte di un ampio sistema di relazioni entro il quale interviene e l'intervento da lui condotto può avere effetti che vanno oltre il bambino. Tre approcci che l’operatore ha nei confronti della famiglia:  Famiglia Assente: non è in alcun modo considerata nella cornice di riferimento con cui si guarda il minore.  Famiglia Distante o Potenzialmente Problematica: si guarda la famiglia del minore in modo diffidente.  Famiglia Sbagliata: quando l’educatore etichetta la famiglia come sbagliata. In primo luogo l’educatore ha una visione pregiudiziale ma approfondendo il rapporto il pregiudizio si scioglie e si scopre il desiderio dei genitori di fare il meglio per i propri figli. Il contatto con le famiglie sollecita il ricordo o la riflessione sulle proprie esperienze famigliari. Questo può dare origine a percorsi auto educativi in due direzioni:  nella prima l'esperienza positiva di comunicazione con le famiglie del Centro porta nuovo valore e spessore alle proprie relazioni famigliari; 21  nella seconda il contatto con situazioni di conflitto riporta alla memoria i conflitti della propria storia famigliare. L'atto educativo consiste nell'offrire ai ragazzi e alle famiglie un punto di vista diverso. Quest'atto è anche auto educativo per l'educatrice. Per quanto concerne il lavoro educativo, se l'educatore reagisce in maniera a una serie di stimoli come può l'interazione educativa avere un carattere intenzionale? L’educatore non deve rispondere in modo automatica allo stimolo ma deve ampliare le proprie possibilità di scelta e offrire una risposta di volta in volta specifica. Gli strumenti che ci permettono di fornire una posizione nelle relazioni educative con sé stessi, con gli altri e con la vita sono:  L’osservazione di sè consiste nella ricerca continua di uno stato di attenzione verso sé: consente una nuova conoscenza di sé che permette di decentrarsi nei confronti di noi stessi. La caratteristica fondamentale dell'osservazione è la neutralità, ovvero la distinzione tra dati e informazioni.  La mediazione è l'azione che permette l'incontro dei saperi tra educatore e educando affinché si verifichi un effettivo apprendimento da parte di quest'ultimo. Il processo di mediazione implica una componente emotiva: l'educando è attratto dalla posizione proposta perché l'educatore è un modello con cui c'è un'intesa relazione affettiva. CAPITOLO 7 (Luraschi, Mosconi e Rivetti) Il Progetto famiglie è uno spazio di ascolto in cui l’attenzione non è posta sulla diagnosi e sulla malattia ma sul vissuto che di essa hanno i familiari e sul significato che la famiglia gli attribuisce in modo da rendere l’esistenza della persona malata di nuovo sostenibile. L’intervento è pensato come uno spazio per cercare un nuovo punto di vista che apra orizzonti nuovi in maniera dignitosa, uno spazio dove raccontare la propria storia in un contesto dove è favorita la comunicazione e la sofferenza viene legittimata e riconosciuta. I famigliari delle persone con disagio psichico fanno fatica a staccarsi dal copione costruito negli anni per sopravvivere. Il termine diagnosi indica il processo di identificazione di una malattia in base a sintomi o segni; implica una serie di mosse cognitive: la descrizione dei sintomi finalizzata a dare un nome, quindi la classificazione della malattia secondo schemi di categorizzazione convenzionali. Diventa una descrizione a cui il l’osservatore attribuisce verità ed è considerata scientifica in quanto pretende di essere obiettiva. Raccontare la propria storia ha permesso ad alcuni familiari di rivedere i propri modelli relazionali riuscendo ad adattarsi in maniera nuova non alla malattia ma alle storie individuali e familiari; alcuni familiari hanno usato lo spazio per essere ascoltati, altri per prendere le distanze dal disagio mentale e dallo stigma che lo accompagna riuscendo a uscire da un isolamento sociale nel quale si erano confinati. La caratteristica principale dell’intervento educativo è l’atteggiamento paziente, esplorativo e flessibile con la proposta di un atteggiamento cognitivo verso l’human becoming. L’intervento con i familiari si va sempre più caratterizzando come un accompagnamento al becoming parent concentrato sull’unicità della storia di ognuno e sulle risorse, sugli apprendimenti e sulle relazioni che hanno dato vita a quella storia. CAPITOLO 8 (Bettinaglio, Loverso e Rosti) 22
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