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Re-inventare la famiglia, Sintesi del corso di Pedagogia

Riassunto completo del libro della Formenti

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 31/01/2020

camillaz92
camillaz92 🇮🇹

4.3

(70)

30 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Re-inventare la famiglia e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! PARTE PRIMA: LO SGUARDO DIPENDE DALL’AZIONE Tesi della prima parte: lavorare con la famiglia richiede una consapevolezza epistemologica, cioè un atteggiamento interrogante nei confronti dei nostri presupposti. Una conoscenza del modo di funzionare della mente umana. Come si è formata in me l’idea di famiglia? Come ho imparato la famiglia? E dunque: quali sono i processi formativi più utili per un educatore o un qualsiasi professionista che lavora con la famiglia? Il modello a cui ci siamo ispirati è quello sistemico: un modello che mette l’idea di comunicazione al centro di tutti i processi umani e non. È un modello che celebra la complessità e la moltiplicazione degli sguardi; ma la metafora dello sguardo è parziale, nella conoscenza della famiglia tutti i sensi sono coinvolti. 1. FARSI L’ORECCHIO: LE INVISIBILI PARTITURE DELLA FAMIGLIA (FORMENTI) La metafora musicale è un tra le tante per entrare nel mondo complesso delle relazioni familiari. I teorici dei sistemi hanno concepito la comunicazione umana come un insieme organico di livelli complessi, contesti multipli e circuiti riflessivi. Albert Scheflen fu uno dei primi ricercatori a paragonare la comunicazione a una composizione musicale, in quanto entrambe realizzano delle strutture, con uno stile e delle specificità proprie, ma anche una configurazione complessiva ben precisa. “La differenza tra queste due strutture è che la composizione musicale possiede una partitura esplicita, scritta, appresa e ripetuta consapevolmente. La partitura di una comunicazione non è formulata per iscritto ed è appresa inconsapevolmente, almeno in parte”. Il modello polifonico o orchestrale della comunicazione umana fu proposto da Winkin come alternativa al modello telegrafico. Contrariamente a quello che spesso diciamo, comunicare non è affatto trasmettere informazione da A a B, attraverso qualche canale comunicativo. Comunicare è partecipare a un’interpretazione complessa. Il modello orchestrale torna a vedere nella comunicazione la messa in comune, la partecipazione, la comunione. Propongo la metafora musicale per introdurre il concetto di sistema: indica un aggregato di parti interagenti, ciascuna delle quali può esistere in sé, ma è interdipendente dalle altre e dal tutto secondo determinate leggi e regole. La teoria dei sistemi considera gli esseri viventi come sistemi aperti che non possono essere visti come un insieme di parti analizzabili separatamente, ma come un complesso di elementi in interazione tra loro. Ciò che interessa sono le relazioni e il contesto in cui tali relazioni avvengono. Secondo la teoria dei sistemi l’apertura al flusso delle cose garantisce lo scambio di energia, di informazioni, di materia e quindi il sistema può cambiare ed evolvere verso forme più complesse, ma allo stesso tempo mantiene la propria identità in quanto è chiuso a livello organizzativo. 1 La mia famiglia è una rock band “Farsi l’orecchio” per un educatore significa certo imparare tecniche di osservazione e di conversazione, concetti e teorie, modalità progettuali e di valutazione, ma soprattutto significa assumere una postura, cioè apprendere a interfacciarsi con le situazioni nelle quali si trova immerso come se fosse lui stesso uno strumento. Uno strumento musicale. Gli approcci all’educazione prediligono la metafora, per un educatore sistemico è più interessante la metafora della band. La formazione di una band è coerente con il tipo di musica che vuole creare. Ogni genere musicale ha il proprio organico strumentale: voce, chitarra, basso. Ma la storia della musica è ricca di esempi che contraddicono questa regola. Una formazione inusuale potrebbe suonare pezzi particolarmente originali, ottenendo sonorità inedite. Ci sono gruppi solo vocali, gruppi in cui compaiono strumenti antichi, altri usano piste pre-registrate. Analogamente c’è una connessione tra il modo in cui una famiglia è composta e quello che crea. Per comprendere una specifica famiglia sarà necessario ascoltarla attentamente, farsi l’orecchio sul suo groove, provare a suonarci insieme. Entrare nelle sonorità della famiglia è necessario per l’educatore, così come per capire la musica bisogna ascoltare un gruppo e non limitarsi a leggere la sua biografia o i testi delle canzoni. Una caratteristica delle famiglie è la consuetudine, la ripetitività e la ridondanza dei modelli di comunicazione. Provare e riprovare, sbagliare, trovare insieme le soluzioni che convincono tutti: è così che si arriva a suonare insieme. Ognuno cerca di trovare la sua voce, ma l’insieme avrà un sound inconfondibile. Gli strumenti hanno partiture diverse, timbri unici. Ma non è la loro somma che dà il tutto. È il modo peculiare in cui si amalgamano e armonizzano. I ruoli possono diventare intercambiabili. In un concerto che si rispetti c’è sempre un assolo: un singolo strumento suona la sua parte appoggiandosi sul tappeto sonoro offerto dagli altri, che non smettono mai di suonare, nemmeno nelle pause. Il sistema prossimale di cura è lo sfondo su cui è possibile a ciascuno dei suoi membri fare il suo assolo. Questa metafora ci invita a chiederci chi è e che cosa fa un educatore, quando inizia a suonare in una famiglia-rock band consolidata che magari non lo ha neanche voluto. Imparare a lavorare in modo sistemico significa innanzitutto apprendere i contesti, cioè mettersi in relazione e in interazione con i sistemi comunicativi, usando la comunicazione stessa come veicolo. Dal punto di vista sistemico, l’educatore non è un direttore d’orchestra, né un manager, né un semplice ascoltatore della famiglia, anche se occasionalmente si trova ad agire questi copioni. Visto che non si può non comunicare e che comunicare significa partecipare alla dinamica interattiva del sistema, può capitare che anche l’educatore si trovi, in qualche momento, a dare il la o a tenere il ritmo. Quando si suona insieme è necessario che si faccia un lavoro attivo per tenere il ritmo e 2 rispetto ai figli, sa di contare per loro, prende decisioni, assume responsabilità nei loro confronti, coglie il rischio insito in ogni relazione educativa di dire o fare qualcosa che potrebbe rivelarsi scorretta. Le scelte che facciamo per gli altri sono sempre arbitrarie. Può un genitore sottrarsi a questa arbitrarietà, evitare di scegliere, evitare di determinare la vita del figlio? Può vivere nell’illusione che questo sia possibile. Ogni esito educativo, compreso il senso di libertà dei figli, è il prodotto complesso di una serie di azioni e retroazioni concatenate, non è una realtà statica, ma dinamica. Si produce più nel correggere i tanti errori che si fanno, che non in una libertà a priori, ideologica e data come premessa, cioè come pregiudizio del proprio agire. Ecco quindi che dare il la e tenere il tempo sono prerogative del genitore. L’educatore può accompagnarlo a vedere questa possibilità, può affiancarlo nello scoprire il suo modo unico e creativo di scegliere che genitore vuole essere. Il senso del noi Come si impara il senso del noi? Ogni famiglia si presenta come unità, come una totalità di relazioni portatrice di un’identità, una cultura, una sua logica. Ma possiamo davvero dare questo per scontato, o forse agisce in noi un pregiudizio? Chi decide che una famiglia è un sistema, è un noi? Da queste domande nascono una serie di attenzioni che fanno uscire la famiglia dallo scontato, dall’invisibilità che è dovuta alla sua quotidianità. La famiglia sfugge all’attenzione perché come tutto ciò che ci è familiare in gran parte è percepita come qualcosa di ovvio. La vita quotidiana, in famiglia, è fatta di pratiche, ambienti e relazioni che abitiamo senza pensarci, senza prestare attenzione agli apprendimenti che questo genera, senza chiederci quale forma essi producano. L’apprendere in famiglia è un processo poco conosciuto anche perché poche sono le occasioni di pensiero riflessivo, critico e interrogante. Noi siamo una famiglia. Sì, ma a quali condizioni questa affermazione è accettabile, soprattutto in un’epoca che ha messo in discussione tutti i punti di riferimento precedenti? Il senso della famiglia è fortemente intrecciato, nel suo divenire, al mondo, alla cultura, al territorio nel quale vive. Laddove sembra esserci identità, coerenza, appartenenza, basta poco per rimettere tutto in discussione. Il senso del noi appare più complesso della somma di tante prese di posizione individuali. Non è solo un vissuto. Inoltre, sembra andare al di là di ciò che è conscio ed esprimibile a parole. Per comprendere il senso del noi bisogna allora tornare a osservare con occhi curiosi che cosa accade in questa famiglia, e in particolare quale rapporto sussiste tra la famiglia praticata e la famiglia rappresentata. Ciò richiede uno sforzo, un addestramento dello sguardo che va oltre le parole e oltre l’atteggiamento quotidiano, quella tendenza ad assumere la realtà come problematica che vedo così spesso nei giovani educatori. 5 Dove nasce il senso del noi? La mia proposta è di portare l’attenzione sulla struttura che connette tutti gli attori nel gioco. Il senso del noi si nutre di momenti dove tutti partecipano al gioco, rispettano i turni, sono emotivamente sintonizzati. Ma anche quando le danze non sono così felici, un senso del noi appare. Come osserviamo la famiglia? Se vogliamo comprendere il senso del noi, il primo quesito da scegliere è: chi è l’osservatore di questa famiglia e quale idea di famiglia sostiene il suo sguardo? Parlare di famiglia implica presupposti, valori e ideologie. Il senso del noi dipende dalla nostra posizione nel sistema. Una posizione che non è solo metaforica, ma anche fisica. Il punto di visuale rende più visibili alcuni aspetti di altri. Secondo Bateson, quando osserviamo un sistema siamo inevitabilmente condizionati a percepire solo un piccolo arco della sua complessità interconnessa. Obiettivo primario, quando osserviamo, è la rappresentazione estetica, cioè mettere in parole quello che si presenta ai sensi. Una buona descrizione delle relazioni familiari somiglia molto a un copione teatrale: se siamo in grado, partendo dal testo, di riprodurre la scena osservata vuol dire che è stato colto il senso di quella danza. Quando l’osservatore della famiglia possiede strumenti concettuali e metodologici, grazie ai quali si definisce esperto, tanto più se ha un mandato ben definito nei confronti di queste persone, il processo che viene messo in atto sembra essere più strutturato. Il professionista tende a esprimere valutazioni più esplicite e articolate, veri e propri giudizi derivanti dai saperi posseduti. Il professionista che osserva una famiglia in azione ha uno sguardo per lo più peggiorativo. Accantona il buon senso e il coinvolgimento emotivo propri dello sguardo ingenuo ma anche necessari a una comprensione umana delle relazioni familiari. Sviluppare una molteplicità di sguardi e di strumenti per analizzare e categorizzare le diverse dimensioni della famiglia è importante, fa parte della formazione di un operatore. Però la capacità tecnica dell’osservare non dovrebbe essere contrapposta alla capacità di cogliere e rappresentare il tutto, celebrandone anche la bellezza e la coerenza. C’è dunque una composizione da realizzare tra due sguardi: quello che distingue, analitico, finalizzato, razionale e rigoroso, sguardo tecnico dell’esperto che osserva ed esprime categorizzazioni; e quello che abbraccia e celebra, che riconosce la ricerca di equilibrio e di struttura, sguardo che con-partecipa, risuona, onora la bellezza. Il senso del noi, dell’essere una famiglia, si appoggia su entrambi, ma soprattutto nasce dalla con- posizione, dalla danza interattiva e non dai singoli comportamenti. 6 Il corpo familiare Ognuno dei componenti della famiglia si muove e si trasforma in relazione agli altri. Non c’è apprendimento che non coinvolga tutto il sistema. Se osserviamo con attenzione e abbastanza a lungo, siamo in grado di rilevare ripetizioni e ridondanze, coerenze e interdipendenze: sono queste che suscitano la sensazione di essere in presenza di un tutto, di un organismo sovra-individuale. La metafora del corpo familiare esprime bene l’idea di sistema. È nella continua interazione che si sviluppa il senso. La famiglia non va mai a dormire. La coerenza dell’insieme nasce dalla composizione dinamica dei movimenti e delle posture dei singoli e a sua volta sembra determinare un ventaglio di movimenti e posture possibili. La con- posizione, l’interdipendenza, creano vincoli: se uno dei danzatori si sposta o cambia il suo ritmo, anche gli altri dovranno farlo, per mantenere l’equilibrio o ritrovarlo. Non è possibile sottrarsi una volta che si è nel noi. La famiglia è ridondanza, copioni, memoria incarnata. Quando un gruppo umano interagisce abbastanza a lungo sviluppa strutture al di là dei discorsi, o anche in aperto contrasto con essi. Per vederne la coerenza a volte dobbiamo spegnere l’audio. Siamo così abituati al dominio delle parole e dei contenuti che queste veicolano, da diventare ciechi ai modi straordinari con cui gli individui si con-pongono. La famiglia, più di ogni altro sistema ci con-vivenza, struttura l’esperienza e dunque dà corpo ai suoi membri. Più di ogni altro perché i processi familiari avvengono nella quotidianità e riguardano proprio le sfere più immediate del vivere: il cibo, il riposo, il piacere, il sesso, il movimento. La famiglia educa al di là di qualsiasi finalità cosciente e intento educativo finalizzato. La famiglia reale: una coreografia complessa Il noi nasce dalla famiglia in azione: relazioni reali regole interattive, abitudini e ripetizioni che la vita familiare impone ai corpi, educando a una certa postura, a uno modo di respirare, di camminare, di svegliarsi, di mangiare. Questa è la famiglia praticante, visibile, reale, sensibile. “Le conversazioni, i pranzi in famiglia e i conflitti internazionali sono organizzati secondo le regole di coreografia che regolano i loro temi di interazione. Nella terapia della famiglia le ricerche delle regole e delle danze di famiglia hanno a che fare con quest’ordine di organizzazione”. Per comprendere la coreografia di una famiglia è importante distinguere tra due livelli: la descrizione della nostra esperienza sensoriale e la sua categorizzazione. La natura relazionale della famiglia emerge nei coordinamenti reciproci delle azioni; il senso può essere costruito a posteriori chiedendo alle persone di osservarsi in relazione, di diventare riflessive rispetto al loro modo di danzare. Alcune pratiche di ricerca e di intervento educativo prevedono che membri della famiglia diventino osservatori di se stessi. Il valore di queste pratiche nel generare un senso del noi è incommensurabile. 7 Educarsi a uno sguardo sulla famiglia significa connettere lo sguardo di quel determinato narratore con quello che vede, restituendo alla sua visione un carattere di parziale e momentanea esistenza fatta di cecità e prospettive inedite. Moltiplicare e comporre gli sguardi Importanti e incontrollabili convinzioni costellano le nostre visioni sulla famiglia, spesso apprese nell’arco di una vita, cicatrizzate in seguito a ferite o sconfitte, raramente oggetto di riflessione scientifica o di elaborazione teorica. Apprendimenti vivi e incarnati: da escludere anche il solo pensiero di poterli mutare. I pregiudizi più comuni che rilevo presso gli studenti riflettono una concezione familistica che assume temi polarizzati. I legami familiari appaiono di volta in volta salvifici, generatori di malessere, assolutamente positivi, congelati in un’aura mitica e irreale o appiattiti su una ovvia reciprocità. Come accreditare e riconoscere dunque la sapienza mutuata dalle nostre radici biografiche, contemporaneamente aprendola verso nuove versioni? Solo dopo che si è compiuto il percorso si può stabilire l’itinerario che si è seguito; eppure i nostri pregiudizi su cosa significhi conoscere e imparare tracciano a priori il nostro agire e pensare, tanto più quando sono impliciti e poco accessibili al linguaggio e alla consapevolezza. Ci vincolano in percorsi euristici precostituiti. Per uscirne abbiamo bisogno degli altri. La qualità del tempo che trascorriamo con gli altri ci permette di comprendere il nostro punto di vista. Partire dalle pratiche Partire dalle pratiche per interrogarle e significarle rappresenta per me oggi una cornice d’azione, che invita a fare dell’attenzione al contesto, alla peculiarità di ogni situazione, alla storia di chi apprende, i presupposti di ogni impresa formativa. Colgo in questo imperativo l’invito a rammentare che ogni incontro e relazione, dunque la vita stessa, costituiscono la principale materia da cui imparare. Concepisco i passaggi cruciali della mia didattica in questo ordine: 1. Domandare per accogliere. L’arte di porre buone domande aiuta a problematizzare sollevando questioni su temi che appaiono scontati. Porre domande anziché esordire con affermazioni provoca, apre possibilità al ricercare insieme risposte soddisfacenti, invita alla molteplicità delle versioni, valorizza le differenze, suscita curiosità. Crea una sospensione di quell’attività cognitiva volta a definire, specificare, dettagliare, per orientarci invece verso territori meno noti. È importante formulare domande autentiche, che attendono risposta. I movimenti sono tre, dunque: invitare, abitare, attendere. Azioni chiave per chi si occupa di educazione con la famiglia. Apprendere a formulare buone domande è un esercizio anti-retorico che produce effetti sulla qualità delle relazioni interpersonali: rompe copioni obsoleti, introduce elementi di novità euristica in un 10 rapporto che rischia di essere scontato e prevedibile, promuove l’attenzione per la complessità delle relazioni familiari, dei servizi e di chi vi opera. Una buona domanda è quella che rende visibili i presupposti, li ridiscute e solleva questioni su aspetti assodati, problematizzandoli. Le domande sono potenti mezzi per indagare, descrivere e raccontare la realtà, significarla, trasformarla attraverso il linguaggio. Le domande possono far nascere storie, innescare cambiamenti, predisporre alla ricerca, oppure chiudere le possibilità e le conversazioni, confermando storie già scritte. Perseguire l’ottica sistemica nella formulazione delle domande significa imparare l’arte della ristrutturazione e della connotazione positiva: da una parte per non chiudere troppo lo sguardo dentro interpretazioni pregiudiziali, dall’altra per evitare la retorica della generalizzazione e del moralismo, che condanna e colpevolizza a priori le famiglie. Rivolgere su di sé le domande aiuta a valutarne l’efficacia e la generatività narrativa, riflessiva, le aperture che offrono. Per chi opera quotidianamente con le famiglie, ciò che fa la differenza sono i modi in cui porgiamo una domanda. Formulare una buona domanda non è facile: merita molta cura, tatto e poca compiacenza. Le domande che appaiono più generative sono quelle che: - Esplorano presupposti. Es: riesci a considerare questa famiglia come un sistema? Come vedi il rapporto tra memoria e identità familiare? In quali circostanze la famiglia appare come un intreccio di simboli? Che cosa fai per osservare le relazioni familiari? - Evidenziano interazioni complesse. Es: che cosa è accaduto nella coppia genitoriale, nel rapporto con i noni, nelle relazioni con gli altri figli, quanto è nato il figlio disabile? Che cosa hanno detto e fatto, quali significati attribuiscono, i genitori alla scoperta dell’omosessualità del figlio? Come ne sono venuti a conoscenza? - Focalizzano particolari culture domestiche. Es: in che modo sono ripartiti i compiti quando si pranza? Come ci si organizza per un viaggio? Com’è tramandato questo valore/regola in questa famiglia? Da chi? In quali occasioni? Sono domande che personalizzano, contestualizzano, invitano alla narrazione e al ricordo dettagliando e circoscrivendo. Domande che spostano lo sguardo. Formulare le domande con attenzione significa porre attenzione all’uso delle parole, dare voce e visibilità a tutti, grandi e piccoli, ascoltare le loro risposte e dare loro legittimità, nell’ottica di una comune ricerca. La grammatica con cui è costruita una storia ne è parte integrante, e non è mai un fatto neutrale. Le domande sistemiche creano dunque nuovi sguardi, orientandoli dalla storia unica, centrata sul problema alle storie molteplici, trasformative e rigenerative. 11 2. Sperimentare concetti: le teorie vanno rispettate, non riverite. Connettere, mettere in comunicazione, collegare sono azioni estetiche che esprimono la necessità di comporre in un universo ordinato e di senso le informazioni che acquisiamo. L’effetto che sperimentiamo quando comprendiamo ha a che fare con la cura, la bellezza e il piacere suscitato dal percepirsi costruttori attivi di sapere. Quali parole useremo per definire una famiglia? Possiamo considerarla una rete di relazioni, oppure possiamo definirla culturalmente. Siamo circondati da una pletora di immagini retoriche inneggiano alla famiglia come luogo felice, sicuro riparo, consolazione perenne fonte di benessere. Ammettere che non è sempre così, che si tratta anche di un luogo in cui si soffre, si litiga, si viene violentati, porta ad assumere una posizione più critica e articolata. Aprire le parole per liberarle verso nuove sonorità e costellazioni di significati consente di formulare nuove storie, magari meno consolatorie ma più verosimili. Se dunque non possiamo sottrarci a ritenere valide le descrizioni che generiamo, anche con fatica, impegno e rigore, è però possibile monitorare come lo facciamo, da dove vengono le nostre mappe, come abbiamo imparato a costruirle. Constatando che le teorie non sono lontane da noi, tutt’altro: ce le portiamo appresso. E costruire così una definizione provvisoria compiendo un primo passo per connettere l’esperienza e trasformarla in sapere. 3. Pensare ad alta voce. Il lavoro educativo non si effettua in solitudine, ma in gruppi di lavoro costruiti attorno a un progetto o rodati da importanti storie professionali comuni. L’educatore in quanto intellettuale pratico opera abitualmente in contesti di gruppo. Alla complessità del lavoro educativo con la famiglia in quanto sistema deve corrispondere una complessità di idee e progettualità. Se pensare insieme può essere faticoso e irto di criticità, costituisce per i futuri educatori un’insostituibile opportunità di ambientamento alla complessità di cui si occuperanno. In gruppo ci si scontra e incontra alternativamente con passioni, indolenze, punti di vista, proprio come avviene in una famiglia o in un contesto di lavoro. L’attenzione e la cura che i membri di un’organizzazione investono nei propri rapporti interni corrisponde alla qualità dei servizi erogati. Lavorare bene in gruppo, interrogando, rielaborando, pensando ad alta voce è dunque conveniente. Conduce ad assumere posizioni di ricerca flessibili e problematizzanti, animate da curiosità e creatività piuttosto che dall’esecuzione di protocolli operativi. Allenarsi a pensare insieme significa incontrare oltre il proprio, il pensiero dell’altro. Una transizione essenziale per la crescita intellettiva, sociale, ed emotiva. Pensare ad alta voce ci porta ad accorgerci del nostro pensiero. A vederlo. Proporre una didattica con questo intento, partendo da proposte concrete con stimoli che invitano a esplicitare i presupposti per imparare conversando, 12 assumiamo, nelle relazioni che instauriamo, nelle motivazioni che ci portano alle scelte di vita e professionali. Ciascuno di noi cerca, riflette, connette, agisce per trovare una spiegazione soddisfacente del mondo, costruendosi la propria teoria locale, una personale visione connessa all’esperienza. La famiglia non costruisce teorie nel vuoto, ma sempre collegate al sistema dei saperi accreditati. Se vogliamo individuare tracce di famiglia, il primo movimento risiede nel volgere uno sguardo alle teorie così come i singoli le costruiscono, alle relazioni tra saperi familiari e saperi accreditati, ai nessi tra sistemi di concettualizzazioni e sistemi di valori. Uno dei peggiori mali del nostro tempo p la tendenza alla banalizzazione dell’umano: imparare a riconoscere l’originalità e la complessità delle spiegazioni elaborate dalla famiglia e in famiglia può costruire un antidoto. Spiegazioni non immutabili, né date una volta per tutte: il cambiamento appartiene al mondo vivente. Le conoscenze e i saperi che ci caratterizzano sono costantemente sottoposti a verifica, anch’essi per la casualità di un incontro, la contingenza di un evento o semplicemente un mutamento nell’ambiente di vita. Siamo quotidianamente chiamati a rielaborare i nostri saperi, a connetterli e coordinarli, utilizzando strategie volte alla ricerca di una presa di posizione che meglio permetta di controllare i mutamenti in atto che stanno coinvolgendo simultaneamente i sistemi di concettualizzazioni e i sistemi di valori elaborati in precedenza. La famiglia, o meglio, ogni suo membro, costruisce teorie locali; dai frammenti autobiografici appare quanto esse siano uniche, originali, complesse, interconnesse alle teorie generali, alla storia familiare, a una traiettoria esistenziale che si muove tra passato e futuro. Ma per incontrare la famiglia ci può bastare riconoscere la teoria? Qui c’è odore di famiglia Siamo solito considerare il linguaggio come denotativo, univoco, inequivocabile. Heinz von Foerster parla di linguaggio connotativo, un linguaggio che parla di noi più che del mondo; il linguaggio poetico parla anche di come noi intendiamo il mondo. Abbiamo un linguaggio che ha una doppiezza affascinante, permette cioè di imbrogliare costantemente. Nella sua apparenza si riferisce alle cose, nella sua funzione si riferisce unicamente alla nozione che ciascuno ha delle cose. Teoria e pratica. Se il primo passo del cercatore di tracce è verso il riconoscimento della teoria, in quanto teoria locale, il movimento immediatamente successivo va verso l’esplorazione dei nessi che intercorrono tra il sapere e l’esperienza, tra il pensiero e l’azione, tra l’epistemologia e la metodologia nelle relazioni educative in famiglia e con la famiglia. 15 Nell’incontro con la famiglia, un incontro non ingenuo, no stereotipato e omologante, un incontro autentico, un incontro che curi e diventi auto-cura, è necessario abbracciare una visione ecologica che si focalizzi sui nessi, sulle sfumature, sulla struttura che connette. L’approccio autobiografico può fornirci tracce quando restiamo nell’intrinseca complessità delle storie; quando interroghiamo la parola poetica e al tempo stesso connettiamo il frammento con una storia più ampia; quando ascoltiamo la trama sufficientemente soddisfacente in continua trasformazione, a tratti magari disarmonica e inafferrabile per quella stessa famiglia. I frammenti di autobiografia ci parlano di sensi, di percezioni, di emozioni e sensazioni, a ben guardare ci parlano e di corpo e di mente, e di gesti e di pensieri. Ci parlo e di teorie e di pratiche, interconnesse. Ecce homo: pater et mater Le teorie evolutive di stampo sistemico-costruttivista possono offrirci alcune indicazioni per riconoscere altre tipologie di tracce di famiglia. Quando parliamo di teoria dell’evoluzione bisogna fare i conti con Charles Darwin. L’intuizione di Darwin è ancora oggi rivoluzionaria: nell’evoluzione il motore del cambiamento risiede nella diversità individuale e solo una visione storia e narrativa ci porta a comprendere il mondo vivente nella sua interezza. È in questo pensare evolutivo e biografico, universale e locale, mondo e individuo, che possiamo comprendere altre trame di significati. Come imparare a riconoscere altre tracce? Siamo abituati a guardare alla famiglia in generale e alla genitorialità in particolare con un occhio legato alla storia recente. Si affronta un’idea storica di genitorialità alquanto parziale; procediamo per comparazione tra ieri e oggi, pronti a dichiarare quanto sia difficile il mestiere del genitore nella nostra attualità. La genitorialità ha perso il carattere di universalità che l’ha contraddistinta per lungo tempo per assumere sempre più un carattere di individualità e di unicità. Pur concordando con tale affermazione sul carattere unico e originale dell’interpretazione del ruolo genitoriale, credo che questo non vada a scalfire la dimensione di universalità che contraddistingue l’essere padre e madre. La genitorialità è universale, un tratto specie-specifico del genere homo sapiens. Quando diciamo genitorialità, l’immagine più diffusa che ci viene in mente è quella di un uomo e una donna adulti con due bambini. Per noi, che vogliamo riconoscere altre tipologie di tracce, questa visione non può bastare. Quando riusciamo a individuare tracce di universalità in uno spazio e un tempo profondo, può cambiare la percezione della nostra collocazione nel mondo naturale e culturale di cui siamo parte; non solo la funzione e il ruolo che competono ai padri e alle madri, ma l’identità stessa del diveniente genitore può assumere nuove sfumature. È quando vogliamo spiegare la genitorialità che 16 non riusciamo a rendere conto delle molteplicità dei tempi, ma se diamo voce alle storie ci accorgiamo che il genitore conosce e si riconosce come parte di un tempo che non si misura in generazioni. Per trovare le prime tracce di genitorialità dobbiamo andare indietro, molto indietro, fino al Paleolitico, quando a testimonianza dell’emergenza di capacità cognitive e simboliche di homo sapiens compaiono le prime forme di innovazione tecnologica, di organizzazione sociale, di rituali di sepoltura, di produzioni artistiche. Storicizzare e contestualizzare: operazioni cruciali Anche uno sguardo su scala planetaria può cambiare la nostra collocazione nel mondo, quanto meno spiazzare, decentrare, offrire ampliamenti di prospettiva. Non esiste società che non abbia elaborato teorie, pratiche, rappresentazioni e organizzazioni relative ai rapporti tra genitori e figli. La genitorialità è bio-culturale. Ha le sue radici nella natura, nasce nel fatto biologico della riproduzione, ma si sviluppa nella dimensione culturale e sociale. La nostra condizione di esseri umani è una condizione plurale e in tutto il pianeta ci sono una pluralità e diversità di regole sociali, espressioni simboliche e rituali che riguardano il rapporto di filiazione, di coppia, di affinità, che riguardano il fare famiglia. Per riconoscere le tracce di famiglia è necessario restare in una complessità e interconnessione di piano che ci porta ad accogliere la dimensione locale nell’universale, a utilizzare l’attenzione al particolare, a vedere il dettaglio senza perdere di vista il contesto. Per riconoscere una traccia abbiamo bisogno di non perdere di vista l’insieme di circostanze ambientali, simboliche e relazionali all’interno delle quali è nata e si è sviluppata. Uno sguardo storico e contestuale può fornirci tracce che raccontano altre storie. Le difficoltà genitoriali, familiari, del singolo sono da ricondurre a un malfunzionamento interno? Sono loro che funzionano così male, oppure sono l’espressione di processi storici, sociali, politici, legislativi, che possono generare disagio? Genitorialità, modelli di cura, educazione familiare, processi di crescita, sono una trama inestricabile di biologico, culturale, storico, sociale e individuale e solo restando in tale complessità e intreccio di livelli abbiamo la possibilità di comporre quella singola traccia in quell’unica a particolare storia e quella storia in una storia di genitorialità millenaria e planetaria. Il genitore, la famiglia che oggi ho davanti è anche l’esito, provvisorio e in divenire, di un modo di intendere la genitorialità costruito in un processo storico e in uno specifico contesto di cui sono parte sia la famiglia sia l’educatore-cercatore di tracce. Sentirsi inadeguati, procedere per tentativi ed errori, abbandonare i sentieri delle certezze sono movimenti comuni al genere umano e ancora di più appartengono al mondo del vivente. 17 passaggio dal separare al connettere. Un connettere inteso come essere-fare-divenire nella relazione che è la dimensione costitutiva della genitorialità. Il genitore sarà chiamato a risolvere questioni nuove ogni giorni, a misurarsi con la non linearità, il cambiamento repentino, le stasi. È la capacità di misurarsi con l’imprevisto il suo banco di prova, pertanto la dimensione della flessibilità diventa una grande risorsa. Riconoscere tracce diventa un atto creativo che interconnette elementi. Abbiamo bisogno di una nuova competenza per incontrare la famiglia. Abbiamo bisogno di uscire dal modello che impartisce istruzioni, individua problemi e eroga soluzioni già note, sperimentate e misurate. Allo stesso tempo non possiamo neppure accontentarci di dipingerla, cantarla e danzarla, la famiglia. Abbiamo bisogno di farci l’orecchio, colorare le lenti, toccare con mano, annusare e gustare, per ampliare il nostro orizzonte e immaginare mondi possibili e sostenibili, aumentare le possibilità di scelta della famiglia e nostre, alimentare la curiosità, imparare a cogliere le opportunità dell’imprevisto, apprendere lo stupore davanti alla precarietà, cercare la bellezza nell’imperfezione. 4. INTERAZIONI: OSSERVARE LA FAMIGLIA IN AZIONE (PIROTTA) L’interazione umana non si ferma al livello puramente verbale, anzi grandissima parte della comunicazione ha luogo attraverso segnali, mimiche, gesticolazioni, posture e altre più elusive modalità di comportamento. L’osservazione è un procedimento selettivo che si differenzia dal semplice guardare o vedere, per il fatto che lo sguardo dell’osservatore è intenzionalmente guidato da premesse, pregiudizi e ipotesi che sono una guida nell’ottenere le informazioni desiderate, e da un metodo che consente di farlo nel modo più accurato ed efficace possibile. Non si può osservare tutto: l’osservazione è sempre e comunque un processo di selezione e di scelta metodologica intenzionale, soggettiva e coordinata con una comunità di osservatori. In relazione a cosa si sceglie di osservare e come, oltre che in relazione alle risonanze che questo provoca nell’osservatore, la descrizione di quanto è stato osservato avrà un colore specifico e soggettivo. Non è quindi possibile osservare in modo totale né oggettivo; l’osservatore è sempre inserito nel processo di osservazione, lo caratterizza e ne è a sua volta influenzato. L’assunto dell’obiettività nell’osservazione deve fare i conti con la difficoltà di stabilire confini netti e precisi tra chi osserva e chi è osservato. L’oggetto dell’osservazione, in questo senso, non può essere considerato indipendente da chi lo osserva, perché l’atto di osservare modifica o altera in modo incontrollabile il comportamento dell’osservato. Quando l’oggetto di osservazione è la famiglia, la pratica osservativa sembra assumere una complessità ancora maggiore. L’esperienza pregressa di chi osserva, i suoi pregiudizi e preconcetti inevitabilmente vengono messi in scena, con il rischio di filtrare talmente tanto i dati da no riuscire a cogliere aspetti che potrebbero modificare le sue ipotesi di partenza. Essere consapevoli dei propri 20 pregiudizi e della propria idea di famiglia, interrogarli e metterli in campo in maniera esplicita, può essere una strategia per perturbare ulteriormente un sistema e cercare di introdurre delle novità, dei nuovi posizionamenti, perturbando se stessi nello stesso momento. Nel lavoro pedagogico l’osservazione è una vera e propria pratica che richiede cura, attenzione e responsabilità. Un esercizio di posizionamento Ognuno di noi ha una propria personale esperienza di famiglia, di genitorialità, di cura, dell’essere figli. Questa esperienza viene inevitabilmente evocata quando nel lavoro educativo o di consulenza siamo chiamati a interagire con un genitore che chiede aiuto a vari livelli. Ho imparato che è utile permettere a queste idee di emergere, attraverso una posizione curiosa e interrogante. Nel lavoro di consulenza con i genitori cerco di offrire la possibilità di osservarsi, mettersi in gioco, cambiare posizione e punto di vista, per arrivare a riconoscersi nei pregi e nei difetti, nei vincoli e nelle possibilità, per poter diventare consapevoli di se stessi e della propria modalità di entrare in interazione con gli altri. Come mi vedi? In una situazione di sbandamento il confronto con gli altri, invece di portare aiuto e sostegno, può far perdere di vista quelle che sono le proprie strategie e il proprio personale stile educativo, rendendo ancora più difficile l’ascoltarsi, il vedersi e il diventare consapevoli delle proprie esigenze, bisogni e desideri. Lasciarsi influenzare troppo rapidamente e passivamente dallo sguardo, dalla competenza e dai consigli altrui può voler dire misconoscere gli equilibri e il senso dei pattern relazionali della propria famiglia. Quello che sembra essere un bisogno di valutazione è in primo luogo un bisogno di riconoscimento: il desiderio di essere visti e riconosciuti nel ruolo di genitore, calato però nella concretezza dell’agire quotidiano, delle interazioni che ogni giorno hanno luogo con i figli, nello spazio e nel tempo del con-vivere. Di fronte al bisogno di essere visti e riconosciuti, ho pensato che si poteva proporre un uso trasformativo e riflessivo della videocamera come strumento che crea uno sguardo possibile. Il video è in grado di mettere a fuoco le pratiche di vita quotidiana, generalmente svolte in totale autonomia e solitudine, non viste né riconosciute come tale e proprio per questo caricate molto spesso da un senso di forte emotività e fatica. Avere la possibilità di fermarsi a riflettere sul modo in cui fanno le cose, non limitarsi quindi ad agire la cura, ma riuscire a vederla e pensarla, può essere considerato come un primo passo per consolidare, esplicitandola, la propria idea di genitorialità e di competenza. Riuscire, nei momenti di fatica, incertezza e malessere, a prendersi del tempo, 21 legittimarsi a fermarsi e soffermarsi ad osservare e ascoltare, sono atti di cura di sé e dell’altro importantissimi e imprescindibili. Che cosa vuoi mostrarmi? L’obiettivo principale di questa proposta di consulenza, basata su un metodo di osservazione con caratteristiche peculiari, è dare visibilità alle strategie e risorse che vengono messe in campo nella relazione con il figlio, per poi utilizzare le immagini come base per una riflessione in merito agli effetti delle azioni di cura e ai feedback in circolo tra i diversi partner relazionali. La richiesta avanzata dai genitori è di tipo valutativo “ditemi che sono un bravo genitore”, ma la risposta, o meglio il percorso che viene portato avanti, è osservativo-riflessivo. Se esiste un dubbio o un giudizio negativo di sé, è da quello che parto, perché è da quel dubbio che nasce la domanda di consulenza. E dunque: vediamo che cosa c’è che non funziona. Questo primo passo invita il genitore in un circuito riflessivo armonico: da un lato lo sostiene nella sua idea che qualcosa non funziona come dovrebbe; dall’altro dà il messaggio che il genitore è competente nell’esprimere quell’idea. Porto così l’osservazione sulla danza relazionale tra i membri della famiglia, prestando un’attenzione specifica alle cosiddette coordinazione errate e alle modalità attraverso cui gli errori relazionali vengono riparati dagli attori coinvolti nella danza. L’efficacia delle riparazioni spesso non è riconosciuta dai genitori, in quanto troppo coinvolti nella fatica e nella paura di non aver fatto bene. La metodologia da cui parte la mia proposta è il Lausanne Triadic Play (LTP) che, partendo dall’osservazione del triangolo primario in azione, impegnato in un compito strutturato, permette di operare un’analisi delle interazioni tra i componenti della famiglia. Il setting che ho scelto per le mie osservazioni non è una situazione sperimentale strutturata, ma la casa, quindi un ambiente naturale dove è possibile osservare quelle attività di routine che appaiono, nei racconti dei genitori, le più cariche di ansie e di timori. Un’ulteriore differenza rispetto all’LTP è data dal fatto che non chiedo ai componenti della famiglia di portare avanti un compito strutturato. Per rendere più accurata l’osservazione e permettere ai genitori di osservarsi in azione ho scelto di utilizzare la videocamera, che offre l’opportunità di fissare le immagini e le interazioni in movimento permettendo di guardarle in più momenti e di giocarci attraverso distorsioni, com- posizioni, tagli, bricolage. Nel concreto ho scelto, per ogni famiglia, di riprendere un’intera giornata in maniera continuativa, per poi scegliere insieme al genitore o ai genitori i momenti sui cui concentrarci nell’osservazione congiunta. Uno dei primi dubbi con cui ho dovuto fare i conto riguarda gli effetti inevitabili della mia presenza e della videocamera. Non si può non influenzare! Dopo i primi minuti in cui l’adulto sembra inibito 22 del noi: la costruzione di un’idea comune di cosa sia essere e fare i genitori in questa famiglia, proprio partendo dagli aspetti più pratici e gestionali, ai quali sono intimamente connessi anche quelli più astratti e ideali. Dall’auto-osservazione alla costruzione di altre-storie La post-produzione video consente di montare le immagini andando oltre la successione temporale degli eventi e una concezione lineare di sequenzialità; si arriva a un materiale video che sotto diversi aspetti può essere considerato totalmente nuovo rispetto a quello di partenza. Una delle azioni dimostratesi più funzionali è stato l’intervento sulle sequenze temporali, allungandole o abbreviandole a seconda delle situazioni. Si attua così una sorta di visione dall’alto di se stessi in interazione. È in questo processo di distanziamento e riavvicinamento a sé che viene man mano costruita una nuova micro teoria di sé e della propria famiglia, un’idea non più latente e vissuta come faticosa, ma consapevole, chiara e condivisa. In relazione alle ricerche sulle famiglie, il lavoro post-produzione può essere utile a verificare le modalità e strategie con cui le famiglie affrontano crisi, conflitti o problemi legati alle routine familiari. Queste tecniche sono usate anche per mostrare la competenza delle famiglie nell’adattarsi ai bisogni emergenti dei figli nei periodi di transizione, riuscendo comunque a mantenere i modelli d’interazione e comunicazione caratteristici della famiglia stessa. La tappa successiva di questo lavoro consiste nell’utilizzare le immagini scelte dai genitori e com- porle allo scopo di creare punteggiature differenti, altre storie possibili, basate non più sull’incapacità o incompetenza, ma sulle risorse e sulle strategie messe in campo. Ho scelto di portare avanti quest’ultimo passaggio in autonomia, sulla base delle aperture, delle ri- significazioni e degli spiazzamenti dei genitori di fronte alle immagini che li riguardavano. La nuova storia che propongo può essere considerata un superamento della visione lineare centrata sulle difficoltà nel fare quotidiano, in quanto i genitori sono chiamati a ri-osservare la propria storia come dall’esterno, sperimentando una possibilità di nuovi riconoscimenti e nuove consapevolezze. Il nuovo video può essere utilizzato sia per evidenziare i dettagli che a una prima osservazione erano sfuggiti, sia per portare alla luce le ridondanze nei pattern relazionali che si presentano in situazioni e momenti diversi. Il mio compito, in questa fase, è riprendere le immagini scelte dai genitori e utilizzarle per scrivere una storia dai colori e dalle tinte appena diverse, forse con maggiori sfumature. Una storia che i genitori possano vivere come bella, se la riconoscono come la loro. Questa esperienza, in un certo senso, permette di rimescolare le immagini, i sensi, le punteggiature fino a crearne di nuove, nuove fotografie del proprio essere genitori e figli. con una forse maggiore 25 consapevolezza del fatto che la propria storia, il proprio punto di vista non è l’unico, ma uno dei tanti possibili, e che le strade da percorrere sono tante e ogni volta nuove, anche partendo da una base comune. Cercando di cambiare in qualche modo le lenti attraverso cui si osserva, per passare dal blocco alla riflessività creativa. Una posizione diversa nello stile e nell’idea di famiglia che porta a un linguaggio differente, non più centrato sulla mancanza, ma sulle risorse, sulle strategie creative, sulle possibilità. Una nuova posizione che non è per sempre, ma può venire in ogni momento rimessa in discussione, rielaborata, ri-significata. 5. L’ABC DELL’OSSERVARE (GINI) Questo capitolo mette a fuoco un’azione specifica, quella dell’osservare, e una pratica che utilizza il mezzo audiovisivo come strumento di lettura delle interazioni umane, e dunque anche quelle familiari. Le storie raccontate attraverso le immagini permettono di soffermarci su alcune sequenze, rivederle e per così dire studiarle, operazioni che nella pratica professionale risultano impossibili. L’obiettivo è imparare ad osservare, fermandosi su quelle interazioni che, a una prima visione, risultano difficili da leggere e rifarlo tutte le volte che serve per addestrare e affinare le proprie capacità percettive. Osservare perché, cosa e come? La comunicazione è il fondamento delle relazioni umane: essa diventa l’oggetto osservativo nei vari livelli, nei diversi stili, nelle svariate modalità- il fine ultimo è affinare lo strumento, in modo che l’operatore possa migliorare il suo modo di comunicare ed entrare in interazione con le persone di cui si occupa. Cosa osservare: i processi interattivi nei quali la comunicazione si sviluppa, usando come lente il modello e i principi della Programmazione NeuroLinguistica (PNL), un approccio che nasce dall’esigenza di dare origine a una base teorica appropriata per la descrizione dell’interazione. Il film si presta ad essere uno strumento privilegiato per l’addestramento all’osservazione, in quanto: - Racconta una storia o più storie in maniera efficace e in un tempo definito; - Permette di esaminare uno spaccato di vita a più livelli: dal punto di vista del regista, dei vari personaggi anche secondari, in relazione alle tematiche trattate o ad altri focus. L’esperienza di vedere un film può essere paragonata alla lettura di un romanzo, con la variante del tempo e della fruizione, che durante la proiezione del film è contemporanea per tutti gli spettatori; - Consente, ogni volta che serve, di rivedere le sequenze dove le interazioni sono più complesse o più significative e ne permette lo studio. Nella letteratura sistemica, la famiglia viene definita come gruppo di individui con storia.; per esperienza di vita aggiungerei che è un gruppo di individui con storia che mentre si fa si disfa, per 26 permettere a ciascuno di sviluppare la propria individualità e quindi realizzare la propria vita. Il film mette in scena proprio questi processi costruttivi e formativi. Quando mi occupo di educatori che dovranno lavorare con le famiglie, un obiettivo che tento di raggiungere è quello di far emergere i pregiudizi personali di ciascuno riguardo al sistema familiare che andranno a incontrare, in modo tale da cominciare a prenderne atto e trasformarli, al fine di arrivare all’incontro il più possibile consapevoli di quanto appartiene all’operatore e quanto è specifico di quella famiglia. Attraverso il film c’è la possibilità di condividere un contesto e uno stesso oggetto, che può essere visto con e da vari punti di vista e a più livelli di analisi. Un esercizio che faccio spesso in aula consiste nel mostrare una sequenza senza audio, operazione che elimina il canale percettivo dell’udito ed enfatizza le immagini. L’informazione mancante costringe gli spettatori a completare i dati visivi facendo riferimento alla propria esperienza. In questa operazione di completamento, ognuno pesca nella sua storia passata e svela i propri pregiudizi. Interrompo la proiezione e chiedo agli studenti di raccontare: le narrazioni di ciascuno svelano idee sul tipo di storia che credono di aver visto. Successivamente faccio rivedere le stesse sequenze con l’audio: ciascuno ha già preso nota delle proprie affermazioni e può assumere consapevolezza del proprio processo pregiudiziale relativo alle interazioni proposte. Quali film? La scelta del film o sequenze da proiettare dipende dall’obiettivo. Ci sono due criteri generali: il primo basato sul contenuto (trama, temi trattati…), il secondo legato a situazioni comunicative specifiche, presenti nel film, che mostrano in modi efficaci come si costruiscono e si trasformano le relazioni umane. In questo caso possono essere film che non si occupano dell’argomento famiglia. Il processo osservativo L’uso del mezzo audiovisivo permette quell’utile distanza che serve ad addestrarsi all’osservare. Le sequenze si possono far rivedere più volte, tutte quelle necessarie perché ciascuno possa attrezzarsi e affinare i propri canali percettivi sulle interazioni comunicative. Il film è usato come strumento di formazione, come occasione di apprendimento e dunque di riflessività, perciò è utile attrezzarsi a non rimanere legati solo alla storia che racconta il regista. Il processo osservativo può essere mirato a livelli diversi; che cosa fare concretamente, come usare il film, dipende dagli obiettivi formativi: 1. Far emergere i pregiudizi. Separare ciò che si vede da ciò che si pensa non è facile, ma ci si può addestrare. Il film è efficace: la sequenza è efficace per tutti, quindi ciascuno in qualche modo 27 Partire dalla comanda che storie si raccontano? Nel lavoro con le famiglie significa avviare un percorso aperto di ricerca e di posizionamento mentale in cui l’attenzione dell’operatore non è volta tanto alla comprensione dei giochi relazionali o dell’organizzazione familiare in termini strutturali, quanto a rintracciare le idee, le immagini e l’organizzazione del linguaggio e dei significati di ogni storia raccontata. Spostare l’attenzione dalle dinamiche interattive a quelle narrative significa prima di tutto accettare l’idea che storie e narrazioni rappresentano uno strumento di (auto)formazione e (auto)conoscenza molto potente. Significa riconoscere alle storie il potere di creare connessioni e strutture, organizzando l’esperienza umana secondo un inizio, un proseguimento e una fine. Significa riconoscere e accettare che non sono le cose in sé a farci soffrire o gioire, ma il nostro modo di raccontarle. Significa infine riconoscere che ogni storia (rap)presenta gli attori, i desideri, le colpe, i salvatori, i buoni e i cattivi, le emozioni e le motivazioni di quella famiglia, e lo fa attraverso l’immaginario, svelando la dimensione poetica della nostra appartenenza al sistema familiare. Le narrazioni si costituiscono quindi come una forma particolare di conoscenza che agisce sulla formazione dell’identità personale e che usiamo per dar forma e significato, vincoli e possibilità, alla nostra esistenza. In questo senso le pratiche narrative hanno un effetto concreto sulle nostre vite e sul modo di viverle. È in esse che troviamo la cura. Sono i racconti generati nelle e dalle pratiche comunicative a definire le appartenenze, i significati, i confini del sistema familiare, l’identità di ciascuno, l’identità della famiglia. Le storie insomma hanno effetti pragmatici, molto concreti, sulla nostra vita, quindi sul nostro stare bene o male, sulla nostra possibilità di cercare la felicità, il benessere, la salute, piuttosto che la sofferenza. Storie saturate da una prospettiva unica Un rischio educativo che si profila è che la famiglia venga rappresentata attraverso narrazioni fisse, dove ogni apprendimento sembra da escludersi fino a diventare storie non più ascoltate né ascoltabili, o accettabili, dagli stessi protagonisti e narratori. Pensare e ripensare la propria storia, narrarla riflessivamente e creativamente, è una pratica utile per mantenere vivo il senso di ciò che avviene, è condizione del farsi soggetti, dell’essere visti e ri- conosciuti. Un diventare umano non può essere visto o raccontato una volta per sempre. Le storie narrate, così irrigidite e automatiche, rischiano di non onorare più la complessità delle relazioni e dei soggetti che vi partecipano, rischiano di diventare storie a cui non si pensa più, facendo così venir meno un aspetto fondamentale della cura di sé. Raccontare è rammemorare, ma non per fissare una volta per tutte il ricordo: per far rinascere a vita nuova, e in altro modo, ciò che si è vissuto. 30 C’è un nesso profondo tra pensiero riflessivo e narrazione, cura delle relazioni e cura di sé. Una delle più importanti funzioni della memoria familiare è la riflessione formativa. In una prospettiva che mira a rintracciare l’ecologia delle idee di una famiglia, ossia le credenze, le premesse, i paradigmi familiari, ci accorgiamo che in alcune narrazioni si ribadisce una sorta di ineluttabilità e impossibilità di cambiamento. Le storie dominanti della vita familiare vengono, in questi casi, saturate dal problema, cioè il problema diventa la lente attraverso cui interpretare e leggere ogni esperienza: tutto è ricondotto unicamente agli aspetti negativi della famiglia e dei suoi componenti. Considerando che nel pensiero di Bateson un sistema si può definire patologico quando ha perso la capacità di ricevere informazioni e dunque di generare differenza, in quanto filtra e selezioni solo messaggi coerenti con la propria organizzazione, possiamo comprendere il potenziale di sofferenza psichica e relazionale insito nelle trame narrative rigide e chiuse. Michael White ritiene che i sistemi si possano definire problematici quando le storie che utilizzano non rappresentano a sufficienza l’esperienza quotidiana. La presenza massiccia di narrazioni saturate dal problema rischia di atrofizzare il romanzo familiare e con esso l’identità autentica dei singoli. Potremmo anche parlare di storie bloccate in quanto non permettono l’introduzione di nuove informazioni, escludono qualsiasi significato diverso da quello già espresso e costruito nel racconto. Gli studiosi e clinici in ambito sistemico hanno messo da tempo in evidenza la centralità della narrazione nel funzionamento dei sistemi familiari e nella loro cura. Questo ha portato un’evoluzione dell’approccio sistemico, tradizionalmente basato sulla cura delle dinamiche interattive nella famiglia, verso la cura delle storie raccontate. Cosa e come racconta l’educatore? Cosa e come guarda? Se una famiglia può generare narrazioni rigide e saturate su una logica univoca, per descrivere se stessa e i membri che la compongono, similmente gli operatori che lavorano con le famiglie descrivono certe situazioni sempre allo stesso modo, come se nulla cambiasse o potesse cambiare. Diventa interessante anche in questi casi, interrogarsi sullo stile narrativo e sulla semantica che gli operatori usano per descrivere e raccontare la famiglia, almeno per due ragioni. La prima riguarda il benessere degli operatori. Anche gli operatori, come la famiglie, chiedono aiuto ad altri quando le proprie storie non appaiono generative di qualcosa di utile, quando hanno la sensazione più o meno consapevole di essere bloccati in una certa relazione o progetto. Quando gli operatori sono intrappolati da interpretazioni e orientamenti chiusi alla negoziazione, in genere espressi in termini impersonali (si deve fare così, è così e basta; questa famiglia ha bisogno di questa cosa) avverto sempre una notevole fatica. Interessarmi e incuriosirmi alle loro storie è un modo per prendermi cura di loro. 31 La seconda ragione riguarda il livello interattivo tra la famiglia e gli operatori. In una prospettiva eco sistemica ci si interroga su come i fattori e i contesti esterni alla famiglia influiscano nella co- costruzione di narrazioni e rappresentazioni. La questione non è solo capire come la famiglia si racconta, ma chiedersi come gli operatori interagiscono con i suoi componenti, come li vedono, che cosa vedono, che cosa cercano. Come contribuiscono, con la loro presenza e le loro azioni comunicative, alla co-costruzione di certe narrazioni familiari e non altre. In questo senso un educatore che lavora con una famiglia ha un ruolo significativo nello sviluppo di storie più o meno felici, e ciò soprattutto in quanto riveste un ruolo educativo e di cura. Questo non significa che l’educatore abbia un ruolo centrale per quella famiglia. Nella prospettiva eco sistemica nessun operatore riveste un ruolo determinane, di controllo delle relazioni, ma tutti gli attori in gioco sono ugualmente importanti, in quanto inter-connessi tra loro con la famiglia e tramite la famiglia. Un professionista che lavora con la famiglia è un soggetto educante chiamato ad avere una maggiore consapevolezza del proprio posizionamento, e quindi anche delle proprie rappresentazioni e narrazioni, nello svolgimento del lavoro di cura dentro quella storia e con quel sistema familiare. Dalla patologia alla speranza Nel lavoro di cura possiamo individuare due grandi orientamenti: quello patogenico e quello salutogenico. L’orientamento alla patogenesi esprime la cultura della medicina tradizionale, la quale stabilisce una relazione lineare di causa-effetto tra fattore scatenante ed effetti provocati. L’orientamento alla saluto genesi invece senza negare i problemi, pone i propri fondamenti sui punti di forza, sulle risorse delle famiglia e delle persone come base su cui costruire la propria normalità, collocare anche i processi di risoluzione e/o ripresa a seguito dell’identificazione di una condizione sfavorevole o problematizzante. Il posizionamento di cura che propongo nel lavoro con le famiglie e le loro storie è fortemente orientato alla prospettiva saluto genica. L’intento è generare delle narrazioni che raccontino e descrivano qualcosa di diverso e più sano delle solite critiche o eventuali diagnosi e categorizzazioni. Gli operatori dei servizi alla persona possono allenare la loro capacità di attenzione verso i modi in cui il sistema familiare si racconta ed è raccontato. Possono diventare curiosi per le rappresentazioni che i vari attori danno delle diverse persone, nella consapevolezza dell’influenza reciproca tra tali rappresentazioni. Infine ritengo sia loro compito preciso intervenire in modo da maturare le attribuzione pessimistiche, che spesso chiudono la speranza delle persone in difficoltà. La cura educativa orientata alla ricerca della bellezza 32 com-prensione emotiva non mediata dalla razionalità e categorie immanenti alla mente. Le parole spesso non bastano. Per questo nel mio lavoro educativo e pedagogico utilizzo sempre più spesso linguaggi e grammatiche capaci di dare voce ad aspetti della vita umana che non sono totalmente verbalizzabili: il racconto, la metafora, la poesia, il disegno, il suono della voce. L’idea è quella di ancorare i percorsi di cura al nesso tra immaginazione ed educazione. L’immaginazione e il ricorso al simbolico è una funzione dell’esperienza che lancia dei ponti, raduna elementi separati, collega il cielo e la terra, la materia e lo spirito, la natura e la cultura, il reale e il sogno, l’inconscio e la coscienza. L’immaginazione e la funzione simbolizzante dell’immaginazione nel lavoro con le storie di vita possono aiutare a riconoscere la complessità e la bellezza di cui ogni storia è portatrice, per onorarla e per celebrarla ancor prima di volerla cambiare. Con l’espressione estetica è possibile moltiplicare all’infinito gli elementi narrativi di una storia e ancor più utilmente di una storia bloccata. Proponendo azioni orientate alla logica fantastica e creativa è possibile trafficare tra reale e immaginario per connotarlo nuova-mente e rimodellarlo. Le ipotesi fantastiche sono reti: tu getti la rete e qualcosa prima o poi ci trovi. Il punto importante qui è che il pescatore non è l’operatore, ma lo stesso creatore della storia/ immagine fantastica. Che cosa troverà? Un nesso imprevisto, una nuova storia, un’emozione o sensazione imprevista, un deragliamento. Dentro questa cornice di lavoro l’operatore assiste, aiuta, accompagna la nascita dei simboli e delle connessioni che essi suscitano, nella profonda convinzione che l’altro, la famiglia, ne farà un buon uso, nel senso che ne farà il personale uso possibile. Usare l’immaginazione simbolica permette di accedere in modo leggero e veloce a una dimensione affettiva, emotiva e spirituale verso la quale l’operatore non può che adottare una postura rispettosa. La proposta è quella di pensare il lavoro con le immagini e l’immaginazione come uno dei tanti possibili per suscitare la ricerca della bellezza, per avere cura dell’altro e per attivare cura tra le relazioni. È uno strumento estetico di dialogo che a seconda dell’utilizzo, delle diverse declinazioni possibili e in connessione al contesto nel quale si svolge, può gettare luce tra le persone, tra i familiari, con se stessi, ma anche tra l’operatore e l’idea/ emozione di quella famiglia con cui lavora. Utilizzare il disegno per cercare la bellezza e la magia nelle storie con cui lavoriamo e in cui siamo convocati significa attivare una pratica della cura che compone l’idea di esercizio e di stile di vita, ossia di un agire pensante, di un’epistemologia della cura che attraverso il disegno prende forma e si 35 compone nella pratica di lavoro con le famiglie. Il ricorso al disegno e all’immaginazione è in questo senso un’azione incarnata. Siamo nell’ambito della relazione educativa, che richiede continui posizionamenti attivi, sia mentali che procedurali, e dunque attenzione, cura per il contesto, per le sue ritualità, per le reazioni degli altri. Non sono né il disegno né l’immaginazione di per sé a generare trasformazione, se non inseriti dentro un contesto di cura relazionale attento e rigoroso. Come diceva Rodari “inventare è una storia seria”. 7. TRA MICRO E MACROSTORIA: LO SGUARDO BIOGRAFICO PER COMPRENDERE LA VITA FAMILIARE (FORMENTI) L’approccio biografico e autobiografico, soprattutto quando diventa plurigenerazionale, è una via per comprendere l’unicità della cultura di ogni famiglia; allo stesso tempo ci permette di vedere le connessioni tra il singolo sistema familiare e il contesto più ampio. Le narrazioni familiari ci aiutano a comprendere come cambia la vita quotidiana e come cambiano le relazioni, non solo per fattori interni a quella famiglia, ma per l’influenza delle determinanti sociali, delle appartenenze di classe, territoriali, dei ruoli di genere. Questo capitolo esplora il rapporto tra microstoria e macrostoria, tra lo sguardo educativo e quelli di altre discipline (sociologia, storia, antropologia) che mostrano l’influenza del discorso dominante sulle storie singole, sulle vite concrete delle persone. Per non dimenticare mai che le famiglie con le quali lavoriamo sono inserite in un contesto più ampio. Costruzioni biografiche Le costruzioni biografiche e auto/biografiche possono illuminare il nostro sguardo sulle famiglie e sviluppare una cornice pedagogica come possibile alternativa alla contrapposizione di due sguardi, quello psicologico e quello sociologico, che oggi sembra dominare il lavoro nei servizi e nelle professioni di aiuto. Le storie, nella pedagogia della famiglia, possono offrire sia un modo di leggere le trasformazioni della vita familiare sia un metodo di intervento educativo. La tradizione di ricerca biografica è particolarmente sviluppata nel campo dell’educazione degli adulti; ma diversi suoi concetti tornano utili anche in questa sede. Ad esempio il concetto di costruzione biografica: la vita è vissuta in presa diretta, per poterle dare senso dobbiamo guardarla retrospettivamente; solo le storie che raccontiamo ci aiutano a costruire tale senso. Il sociologo tedesco Peter Altheit identifica la transizione come cifra della vita contemporanea su scala planetaria, che porta con sé la conseguenza dell’apprendimento. Si tratta infatti di imparare come affrontare le transizioni. Da questi concetti deriva la biograficità: significa che noi possiamo riprogettare continuamente, dalle base, i contorni della nostra vita dentro i contesti specifici nei quali la viviamo e che sperimentiamo questi contesti come plasmabili e progettabili. 36 Un altro contributo importante nel campo della ricerca educativa con gli adulti viene da Linden West, il cui approccio auto/biografico è centrato sulla creazione di spazi transizionali e transnazionali, cioè spazi tra le persone, ad esempio in un gruppo informale, in un laboratorio, in un gruppo di gioco. Se la qualità dello spazio transizionale è sufficientemente buona, se sentiamo che il contesto permette di correre rischi, giocare, immaginare, pensare e percepire in modo diverso, se riusciamo grazie a questo a prenderci uno spazio per noi, questo apre possibilità. Negli spazi transazionali le persone iniziano a considerarsi competenti, capaci di apprendere, diventano perfino attive. Per comprendere l’impatto della dimensione biografica sulla vita familiare ci è necessaria la immaginazione auto/biografica, cioè la capacità di comporre sguardi multipli, andando oltre le nostre cornici disciplinari e professionali. Memorie familiari intergenerazionali L’introduzione degli elettrodomestici nella vita di tutti i giorni e di tutte le famiglie è un esempio di come il mondo esterno entra continuamente nel microcosmo familiare. L’impatto della scolarizzazione dei figli è un altro esempio. A ogni nuovo ciclo generazionale, relazionarsi con la scuola è uno dei modi, per la famiglia, di aprire i propri confini, di rimettere in discussione i paradigmi consolidati. Analogo discorso vale per la medicalizzazione e tecnicizzazione delle cure, a partire dal parto. Se la memoria autobiografica è un metodo di auto guarigione e di autoformazione continua, la memoria familiare è la principale risorsa trasformativa e auto curativa per la famiglia. Dove non esistono processi narrativi collettivi né memoria familiare condivisa si segnala una sofferenza legata alla percezione di un vuoto nelle relazioni, di un’assenza di legami e di significati chiari e accessibili. Per dare significato alla vita familiare, per dirci siamo noi, abbiamo bisogno di costruire ricordi condivisi. Le storie che raccogliamo ci aiutano a ricordare che lo scenario cambia continuamente e le soluzioni creative che ogni famiglia mette in atto, a ogni nuova generazione, sono una combinazione di adattamenti e di exattamenti che permette di stare al passo con i tempi pur mantenendo un’identità, una coerenza. La tecnologia è una delle dimensioni dei cambiamenti sociali e culturali in atto. Altri aspetti influenzano l’emergere di famiglie nuove o anche diversamente normali. Molti studiosi si soffermano nelle loro analisi soprattutto sui cambiamenti strutturali del far famiglia. Sembra ovvio soffermarsi sull’aumento delle famiglie monoparentali, delle coppie di fatto, delle separazioni e dei divorzi, delle famiglie omogenitoriali, che portano alla ricostituzione di nuovi legami familiari più 37 L’educazione non può permettersi oggi di ridurre la complessità delle storie a uno o pochi fattori presi separatamente, né di connotare il disordine e l’incertezza come solamente negativi: la complessità è una caratteristica costitutiva del vivere, che può essere riconosciuta e conosciuta grazie alla composizione degli sguardi multipli. L’invenzione del privato La caratteristica più evidente della cultura familiare contemporanea è la vita privata, un’invenzione recente fatta di rituali domestici, compiti ripetuti, spazi connotati, che negli ultimi due secoli ha gradualmente soppiantato le modalità del quotidiano proprie dei tempi antichi, più orientate al sociale ed estroverse. La privatezza della casa, della vita intima, richiede nuovi spazi, organizzati in modi più complessi e raffinati del passato. A questi corrisponde il cambiamento dei reciproci ruoli dei membri della famiglia. Lo spazio domestico evolve con la definizione dei confini tra la sfera pubblica e quella privata. Genera simbolicamente il senso del privato. E che dire degli oggetti? Il televisore nella seconda metà del Novecento diventa una sorta di caminetto virtuale, il focolare attorno al quale radunare tutta la famiglia. Il salotto è l’emblema della famiglia borghese. L’oggetto della condivisione è un prodotto culturale che a sua volta educa ai nuovi valori sociali; allo stesso tempo estrania, cioè ha poco o nulla a che fare con la realtà dei sentimenti e delle relazioni di quel nucleo familiare. Le relazioni private sono così, da un lato, celebrate, dall’altro negate. Un doppio legame generalizzato. Doppi legami istituzionali Nel lavoro educativo è facile rendersi conto dell’esistenza di tendenze molteplici e contraddittorie. Se da un lato siamo testimoni della crescente privatizzazione della vita familiare e valorizzazione delle relazioni interne a scapito di quelle esterne, dall’altro la famiglia non appare affatto libera di definire il proprio spazio d’azione e di vita. Una costante azione di controllo è esercitata da ogni tipo di agenzia, istituzione, servizio e in modo particolare dalle autorità dello Stato. È una prerogativa generalizzata degli Stati democratici esercitare un controllo e un’influenza sulla famiglia, anche attraverso l’apparato delle leggi e delle politiche sociali, che fissano criteri condivisi sui quali viene valutata la sana vita familiare. Il concetto di famiglia sana e ben funzionante era impensabile anche solo cent’anni fa. È bastato un secolo per mettere in discussione il ruoo degli adulti nella famiglia e diffondere la retorica dell’incompetenza genitoriale. Gli scienziati dell’umano hanno assunto il compito sociale di monitorare, osservare, valutare, fissare i criteri di qualità della vita privata, con la conseguenza di minarne alla base proprio la privatezza. 40 Nel frattempo, la psicologia dello sviluppo metteva “his majesty the baby” al centro di tutte le attenzioni. Che tipo di creatura progettiamo, con i nostri stili di vita, con le nostre tecniche di allevamento? Quali premesse stiamo implementando nei corpi dei nostri figli, attraverso le relazioni che proponiamo loro? Solo la conoscenza, e dunque una teoria soddisfacente, porterà a un’azione deliberata. Per quanto riguarda la diade madre-bambino: il presupposto di molti discorsi è che la madre abbia un enorme potere, nel bene e nel male, nel determinare il destino del suo bambino, la sua intelligenza, felicità, successo. Le neomamme sono bombardate di informazioni contraddittorie e fuorvianti, i neopapà sono lasciati nell’ombra e all’oscuro di tutto. Molti racconti intorno all’esperienza del divenire madre o padre presentano come protagonista, come oggetto attivo, un altro: il medico, l’ostetrica, il pediatra, lo psicologo. E naturalmente il bambino: piccolo principe o principessa della casa, dai suoi umori dipende tutto. A due anni monopolizza tutte le conversazioni a tavola, a tra è il padrone del telecomando, a quattro sceglie l’auto di papà. La possibilità che un adulto perda, del tutto o in parte, i propri diritti di genitore, a fronte di una valutazione negativa dei suoi comportamenti, è molto alta alle nostre latitudini. Questo anche grazie alle leggi che hanno messo al centro dell’attenzione i diritti dei bambini. È sicuramente una grande conquista dell’umanità il poter garantire ai più piccoli quei diritti che altrimenti sarebbero facilmente calpestati. Quello che merita una riflessione attenta è l’aumento del controllo sociale sulla famiglia e i rischi che comporta. Il controllo esercitato da pochi è sempre un rischio, se ostacola la possibilità di apprendere, di evolvere, specialmente quando una famiglia viene connotata come fuori norma. Lo stigma sociale insito un uno sguardo valutante e condannante è un problema aperto nel lavoro con le famiglie. C’è modo di distinguere se la disubbidienza di una famiglia è segno di controcultura o di disattenzione e maltrattamento. Ma richiede tempo e attenzione. La legge, questo, non lo dice. È lavorando sulla cultura dei Servizi, sulla cura dei legami e dei contesti, sulla formazione degli operatori che si può sperare di risolvere questo doppio legame istituzionale “sii adulto, autonomo, responsabile, ma come io te lo prescrivo”, a cui il genitore risponde specularmente “aiutami, ma lasciami stare”. Si tratta anche di superare alcune palesi ingiustizie; è noto che le famiglie non sono tutte sottoposte allo stesso modo alle pressioni del controllo sociale: le famiglie più vulnerabili, povere, appartenenti a minoranze, hanno una probabilità molto più elevata di diventare cliente dei Servizi, di vedersi sottratti i figli, di essere stigmatizzate. L’intrusione, in questo casi, è tanto più violenta 41 quanto più la famiglia è lontana dalle attese e inconsapevole delle aspettative sociali che ha infranto. Il fatto che siano mancati degli apprendimenti precedenti non è considerato un’attenuante, qualcosa sui cui lavorare, che dovrebbe richiamare a un maggior impegno e attenzione per gli aspetti prettamente educativi rispetto a quelli di controllo. In quanto educatori, dovremmo insistere di più sull’apprendimento e sull’evoluzione come chiavi per comprendere le famiglie, il loro funzionamento e le possibilità di intervento. La cultura del controllo è profondamente penetrata nel lavoro socio-educativo, quasi una deformazione dello sguardo. Una famiglia socialmente isolata, monoparentale o di immigrati, potrebbe trovarsi in alcuni momenti a chiedere aiuto o ad averne bisogno. Il problema nasce quando il supporto non ha il senso di aiutare a superare la temporanea difficoltà, ma stabilisce un obiettivo di cambiamento. Il sostegno temporaneo diventa presa in carico, occasione per esercitare pressioni verso la normalizzazione della famiglia. Quando gli operatori sono impreparati a gestire i propri pregiudizi, finiscono per imporre un modello di vita che a loro appare come il più sano, in genere il modello socialmente dominante, che è anche quello più lontano dal celebrare l’unicità di quella famiglia. Molti operatori sono inconsapevoli di questi pregiudizi. In assenza di una formazione specifica, la sensibilità al pregiudizio è lasciata alla buona volontà del singolo operatore. La ricerca pedagogica sugli eventi cruciali della vita familiare mostra spesso la presenza di comunicazioni paradossali e doppi legami istituzionali. Però sarebbe sbagliato vedere le famiglie come vittime. Le famiglie non sono passive: si organizzano, danno senso e significato alle situazioni, costruiscono strategie. L’intervento socio-educativo tocca equilibri delicati. Un processo di cura che si occupa del problema in modo troppo lineare può produrre squilibri a lungo termine, che danneggiano le relazioni. C’è bisogno di sviluppare una conoscenza più approfondita e sensibile dei processi di apprendimento, delle loro interconnessioni e complessità, dell’ecologia complessiva dell’apprendere nei sistemi familiari. Come si impara in famiglia? In famiglia si impara vivendo. Tutti imparano costantemente e reciprocamente. Se non altro, perché abbiamo bisogno quasi quotidianamente di verificare che cosa significhi esser parte di quella famiglia, essere una coppia, un padre, una madre, un nonno… per verificarlo è necessario mettere in atto il proprio copione e misurare le reazioni degli altri. Il copione non è fisso: cambia continuamente. Siamo immersi in queste interazioni e conversazioni che ci cambiano la vita, anche quando ce ne accorgiamo. 42 vita familiare può mantenersi ricca e dinamica, il mito dell’identità familiare può essere costantemente sfidato, le transizioni essere affrontate come nuove nascite. PARTE SECONDA: AZIONI CRUCIALI NEI SERVIZI: VERSO UN SAPERE INCARNATO, DINAMICO, RIFLESSIVO I servizi educativi sono spesso presentati con sigle o nomi apparentemente inequivocabili: parole come tutela o assistenza sembrano denotare un modo molto chiaro i valori e le finalità dell’intervento. Altre parole definiscono l’utenza,che è quasi sempre individuale, debole, incompetente, ignorante e per lo più ridotta a una sua caratteristica specifica, quella che giustifica l’intervento. Sarebbe interessante analizzare come le parole veicolano le premesse. La premessa più potente è quella del deficit, i soggetti sottoposti a intervento educativo sono visti in una luce negativa. Parole che non raccontano più una storia, non suscitano curiosità, possono ricominciare a farlo se proviamo a interrogarle e interrogarci sugli effetti che producono; se chiediamo alle persone di definire, o meglio di raccontare, la loro immagine del servizio in cui lavorano o in cui sono seguite. Forse però così facendo, metteremmo l’accento su qualcosa che è importante, ma ancora parziale. Ciò che fa un servizio non è nel suo nome, ma nelle pratiche, nelle azioni e interazioni che vi si svolgono, nei processi che realizza. Diventa indispensabile cambiare epistemologia: passare dall’epistemologia dei nomi e delle definizioni all’epistemologia delle azioni e delle storie: il pensare per storie che ci ha insegnato Bateson. In queste pagine si cercherà di interrogare le premesse che guidano le diverse possibili definizioni dei servizi. Si tenderà a celebrare la complessità dell’intervento educativo e a valorizzare le relazioni. Proveremo a mostrare la molteplicità di situazioni, di relazioni e di condizioni lavorative in cui si muove un educatore professionale quando è sensibile alla famiglia. Ogni tipo di intervento presenta vincoli: strutture fisiche e gerarchiche, norme, regole che ogni servizio segue. Queste specificità rendono possibili alcune azioni, difficili o impossibili altre. Gli operatori, lavorando insieme, sviluppano uno stile di lavoro condiviso, anche se poi ognuno ci mette il suo. Ogni soggetto cerca e mette in atto le possibilità d’azione che gli permettono di sopravvivere in quel contesto e nei suoi vincoli, primo dei quali sono le altre azioni di tutti gli attori coinvolti. Sono queste azioni intrecciate a fare il servizio, attraverso la forma visibile delle loro interazioni. Quello che fa apparire sistemico un certo modo di agire in educazione è la presenza di azioni cruciali che denotano un certo tipo di pensiero. È un pensiero operativo, cioè che si manifesta dentro un’azione, attraverso processi. L’epistemologia operativa ci ha mostrato che ogni pensiero in origine era un’azione. Similmente Varela sosteneva che la conoscenza del mondo è enattiva, ovvero 45 prodotta dalle azioni che compiamo. Abbiamo dunque bisogno di attività epistemiche di secondo livello che ci offrano degli insight meta-cognitivi su ciò che facciamo e ci permettano di riconoscere le teorie implementate nelle nostre azioni, le abitudini mentali, le posture, i pregiudizi incarnati nei nostri interventi, ma soprattutto i passaggi-chiave dal punto di vista cognitivo. Il filo conduttore che ha guidato la scrittura di ogni capitolo è il racconto delle esperienze e/o delle pratiche. C’è una differenza. Il racconto d’esperienza è più centrato sull’autore, come persona che ha vissuto quella determinata situazione: le sue percezioni, emozioni, pensieri, vissuti. Il racconto della pratica mette al centro l’azione agita: che cosa fa o crede di fare l’operatore, come, quali risposte riceve e che uso ne fa, quali ulteriori azioni ciò produce e così via. Entrambi i racconti confluiscono in una riflessività che nasce dall’azione stessa del raccontare: ricostruire gli eventi in modo sincero richiede che si scelga una punteggiatura, quindi un invito a pensare, a dare una direzione, un senso. Similmente, invita chi legge a fare lo stesso. Il racconto è la via più immediata e coerente per accedere ai saperi dell’educatore, costruiti nella relazione con gli utenti, con altri, con il servizio in quanto sistema. Pensare per storie inserisce il tempo nelle nostre vite. Il lavoro educativo è un muoversi per mettere in movimento. Anche il raccontare è un movimento, che genera a certe condizioni un pensiero che muove l’azione. 8. MOVIMENTI: IL LAVORO EDUCATIVO CON LA FAMIGLIA (FORMENTI) (Guardo da pag 209 a 214) Tre persone coinvolte in azioni trasformative. La teoria che sostiene Laura Formenti è che ogni azione è un fatto mentale: convoca forme di pensiero, sia verbale-relazionale che pre-verbale, intuitivo, immaginativo. Noi sappiamo comunicare, sappiamo rispondere ai messaggi a livelli diversi e uscire in modo creativo dai circuiti riflessivi bizzarri. Ogni educatore lavora su situazioni che sono “naturali” fino a quando non interviene un ostacolo: è nel momento del break down, della crisi, dell’errore che si rende possibile e necessario l’apprendimento, il cambiamento e un intervento esterno può essere utile. L’azione di Silvia è categorizzabile come qualcosa che sta a metà tra l’allievo che esegue il compito con l’assistenza dell’esperto e l’allievo che procede autonomamente e l’esperto fornisce solo suggerimenti. Molti educatori che lavorano a stretto contatto con la famiglia sono catturati dal linguaggio delle emozioni e sottovalutano gli aspetti cognitivi, i vari livelli di apprendimento coinvolti nel processo. Attraverso la telefonata e altre esperienze analoghe, Leyla e Jecky acquisiscono specifiche conoscenze e competenze, e così facendo imparano ad apprendere ma soprattutto imparano nuovi contesti relazionali, dove l’autonomia individuale non minaccia la relazione, dove si può affrontare un compito difficile perché l’altro ti è accanto. 46 C’è un processo comunicativo fatto di azioni e relazioni circolari, continuamente adattato alle successive prese di posizione e risposte dei singoli. L’educatrice offre una struttura che però non sorregge le persone, come sembra suggerire il linguaggio di certi servizi, ma le azioni. Il contesto: dove siamo? Cosa siamo facendo? C’è una rete di relazioni significative intorno a ogni famiglia: sono necessarie alla sua sopravvivenza. A volte appaiono molto vaste e intricate, altre volte più semplici, impoverite dall’isolamento sociale e da vicende precedenti. (bisogna avere chiaro in mente la mappa di queste relazioni). Ci sono vari tipi di contesto: sociale o meglio una rete di relazioni significative, fluida e continuamente ridefinita. Ci sono relazioni prossimali e istituzionali, distali e occasionali che acquisiscono un valore trasformativo. Ci sono anche relazioni del passato che continuano ad agire come se fossero presenti. I soggetti sono parte attiva di tutte queste relazioni, offrono e ricevono sguardi che costruiscono la loro identità, il loro benessere e malessere, le loro possibilità/impossibilità evolutive, le loro definizioni di un problema e delle sue possibili soluzioni. La circolarità delle comunicazioni, dei feedback, delle ridondanze, definisce il contesto come matrice di significati, ovvero dà senso a ciò che accade tra le persone. La rete delle relazioni è la risorsa più importante che ognuno di noi ha per crescere, per costruire una propria idea di sé e del mondo per modificarla. Un aspetto più specifico del contesto sociale è quello istituzionale: il luogo concreto dentro il quale avviene l’intervento educativo: un’organizzazione di pratiche e di significati che propone cornici politiche e semantiche che definiscono cosa può e non può accadere in determinate circostanze. Quindi, ogni servizio ha la sua epistemologia e una sua ermeneutica pratica: ciò che si fa in quel contesto ha senso in riferimento alle sue cornici). Non si può lavorare fuori contesto: la tendenza umana a fondare contesti nasce dal bisogno di prevedere cosa farà l’altro. L’educatore che incontra la famiglia deve poter essere “inquadrato” dentro un sistema di attese, da parte dell’assistente sociale, dei suoi colleghi, delle diverse persone che coinvolgono la famiglia oltre alle proprie. Un educatore è colui che sa come muoversi tra queste relazioni, come valorizzarle per sfruttarne le potenzialità, come prendersi cura dei legami riconoscendoli e rendendoli visibili. Deve fare un’analisi del contesto: cioè una riflessione che risponde alla domanda “dove siamo?”. L’analisi del contesto non ha lo scopo di bloccare il movimento o abbattere le differenze di prospettiva, ma serve anzi per realizzare una com-posizione delle cornici, per creare comunicazioni propizie alla trasformazione. È evidente che la conoscenza delle regole, dei vincoli del macrosistema può aiutare l’educatore nel leggere i contesti. la logica della com- posizione ci viene in aiuto: l’obiettivo che “tutti stiano un po’ meglio” si traduce in un lavoro creativo tra operatori diversi per formazione, mandato istituzionale e sensibilità (comporre sguardi diversi). 47 Ad esempio: nell’educativa domiciliare si entra in una casa che è già un luogo connotato, dove quotidianamente avviene la vita della famiglia e si giocano le interazioni. Che cosa marca questo ingresso come “intervento professionale”? Alcuni indizi: orari definiti, azioni deliberate, finalizzate, delimitate da regole, meta-comunicazione. È molto potente la ritualizzazione, che connota il tempo dell’intervento come uno spazio “speciale”, dedicato alla cura di sé e degli altri. L’operatore all’interno di questo spazio, propone azioni specifiche, che non sono quotidiane per la famiglia: una conversazione, un gioco, un’uscita, un disegno, la scrittura del diario. Offre dunque esperienze potenzialmente trasformative. Pensare il setting, organizzarlo, prendersene cura nei minimi dettagli significa chiedersi continuamente, riflessivamente, quali messaggi si vogliono dare e ricevere, nell’intento di sostenere e accompagnare le trasformazioni delle relazioni familiari, di prendersi cura dei legami, di instillare il senso di competenza, speranza e bellezza nelle situazioni problematiche. Obiettivo: apparecchiare con grande rigore e competenza un setting ben organizzato nel quale i processi comunicativi, i giochi, gli errori, la curiosità reciproca, l’umanità varia delle famiglie e degli operatori possono avere luogo, in modo fluido e flessibile. Il processo: contratto, intervento, valutazione, chiusura. L’intervento ha una durata: è bene definire in modo esplicito inizio e chiusura, anche per dare un chiaro segnale che la vita della famiglia va oltre il tempo dell’intervento. L’idea che l’apprendimento familiare debba essere lungo e cumulativo non regge alla prova dei fatti: una famiglia può trasformarsi molto rapidamente. Una domanda da porre molto precocemente è: in base a quali criteri valuteremo gli esiti dell’intervento? Partire dalla fine, cioè da criteri di valutazione, è utile perché la valutazione ci dice a che cosa diamo valore. I criteri di valutazione dovrebbero essere fissati insieme alle famiglie, tenendo conto dei bisogni, dei desideri e dei punti di vista di ciascuno dei membri; questo consente di avviare proficue conversazioni sul futuro, anche se comporta innegabilmente una fatica, nella revisione delle prassi attualmente dominanti. Il processo è costantemente monitorato attraverso strumenti di (auto)osservazione gestiti dalla famiglia insieme agli operatori. Un contratto è formalmente un documento che sancisce un accordo tra liberi, dove vengono fissati obblighi e diritti reciproci. Dal punto di vista relazionale, un contratto è un “sì” che viene chiesto alla famiglia e ai suoi membri. Viene chiesto di aderire a una proposta e di diventarne parte attiva, assumendo una responsabilità. La circolarità tradotta in comunicazione L’operatore sistemico - partecipa alla comunicazione in modo attivo, tiene conto del processo comunicativo in atto e prova a perturbarlo alla ricerca di nuove possibilità. 50 - Usa se stesso come messaggio, usa la propria posizione nel sistema per introdurre differenze che diventino informazioni. Provoca apprendimenti e deutero apprendimenti. - È responsivo, cioè adotta una postura di grande attenzione per i feedback, quelli da dare e quelli da ricevere. - Il suo modo di comunicare è centrato sugli effetti pragmatici (sarà la risposta che ricevo a dirmi che cosa ho detto, che significato ha la mia azione). Questa postura epistemologica, molto lontana dal pensiero comune, è evidente nelle procedure inventate dai terapeuti della famiglia per condurre colloqui familiari congiunti: ipnotizzazione, circolarità e neutralità sono le linee guida che portano a una raccolta di informazioni sulla famiglia molto più sistemica. Le domande non vengono più poste con l’idea di informare gli operatori sulla situazione familiare, ma sono formulate in modo tale da introdurre differenze che sono spiazzanti per la famiglia e ne ri-orientano il movimento in direzioni impreviste. Domande legittime che mettono in luce le relazioni, rendendole visibili e dunque trasformabili. L’equipe sistemica, adottando la postura dell’ipotizzazione, riconosce il valore parziale e temporaneo delle proprie idee sulla famiglia, che saranno coltivate e arricchite continuamente, per garantire una visione circolare e utile al cambiamento. L’incontro con le altre prospettive, la loro legittimazione, la discussione aperta, disciplina lo sguardo: mettere insieme diverse letture lineari, superare il pregiudizio, formulare un’ipotesi più complessa che tiene insieme le diverse visioni. Quando una èquipe diventa una “mente sistemica” riesce a sintonizzarsi sulla complessità della famiglia, a rispecchiarne la circolarità. La linea guida della neutralità è una qualità emergente dalle azioni dell’ èquipe, che sorge come esito di un’alleanza con la famiglia nel suo insieme, una forma di rispetto per ciò che questa microcultura porta nella relazione. C’è una grande differenza tra: - lavoro terapeutico: i terapeutici incontrano la famiglia (raramente convocano altri soggetti esterni a essa), tra le mura di una stanza una volta al mese (i tempi possono variare), usano prevalentemente il linguaggio verbale per esprimere domande, riletture e prescrizioni, ma viene osservata in seduta anche la comunicazione non verbale. - lavoro educativo: l’educatore lavora a stretto contatto con la famiglia in situazioni di vita quotidiana, si coordina con altri professionisti. Coinvolge persone esterne alla famiglia e può avvalersi di modi non verbali per comunicare. Usare le parole per definire relazioni, emozioni, i problemi è delicato: si rischia di etichettare, si possono generare paradossi e doppi legami, mistificazione (quando la parola nega l’espesrienza dell’altro) e fraintendimenti. Dunque, recuperare la parola autentica, riappropriarsi di una possibilità di conversare in modi non distruttivi, oppure imparare a meta comunicare non sono punti di partenza nel lavoro educativo con la famiglia, ma obiettivi su cui lavorare. E spesso le azioni agite 51 diventano la base per introdurre un nuovo modo anche di parlare. Per accompagnare le trasformazioni della e nella famiglia e quindi celebrare il movimento e la differenza l’educatore può utilizzare: domande circolari o ipotetiche; il gioco o linguaggi estetici; la creatività e l’immaginazione: giocare ruoli diversi, copioni diversi, sognare la famiglia e il futuro. La famiglia non va mai a dormire Ogni azione educativa con la famiglia è comprensibile se vediamo i singoli, le famiglie e i servizi come sistemi dinamici interconnessi e in continua trasformazione. L’azione educativa basata sull’idea di perturbazione ha qualche chance di essere ecologica se sviluppa una grande sensibilità verso il contesto e verso i processi comunicativi che lo costruiscono e commentano continuamente. La metafora del movimento permette di riconoscere delle forme e quindi non sposa l’idea del caos o del caso, ma di un tutto organizzato. È raro vedere operatori che dedicano tempo ed energia a comprendere come si sta muovendo la famiglia nel suo insieme, in relazione ai vari contesti e sui diversi piani della sua esistenza. Rarissimo incontrare operatori che hanno una mappa della rete di relazioni prossimali dei loro utenti e delle loro aperture potenziali. A volte viene detto che molte situazioni sono statiche, ferme e ripetitive quindi non si muovono. Ma quanto movimento è necessario per mantenere un sistema vivente apparentemente fermo? Equilibrista sul filo: per mantenere l’equilibrio deve aggiustare continuamente ogni parte del corpo. I processi vitali non sono mai fermi: metafora della notte o del bosco in inverno. È una situazione statica? Sotto la neve, il seme si prepara a spuntare. Oltre l’orizzonte, il sole sta per nascere e non si è mai fermato. Solo che noi, da dove siamo, non lo possiamo vedere. A volte viene detto che molti dei movimenti con cui abbiamo a che fare sono peggiorativi, sono movimenti all’indietro, involuzioni. Ma la freccia del tempo va solo avanti. Quello che chiamiamo “peggioramento” è un messaggio potente nella relazione, può assumere significati diversi. Basti pensare al disabile che “dimentica” le autonomie apprese per paura di perdere l’educatore a cui si è affezionato o di disturbare il copione di cura della mamma. Oppure un bambino che fa il piccolino quando arriva un fratellino in casa. È scorretto etichettare questi movimenti come involutivi, sono a tutti gli effetti degli apprendimenti, incorporano strategie, veicolano messaggi. Non si può non apprendere. Quali movimenti per stare tutti un po’ meglio? Emergono quattro dimensioni della cura fortemente intrecciate: 1. La fedeltà del soggetto a se stesso (come sistema individuale). Questo punto sembra che riguardi il singolo, in realtà definisce la qualità delle relazioni. Imparare la fedeltà a se stessi, dire sì a quello che ci rende felici e no a quello che ci rende infelici, non dovrebbe essere così difficile. In fondo nasciamo attrezzati, ma l’aspettativa biologica, iscritta nel corpo, si incontra con il dato culturale 52 Dal finale al percorrere Come se fosse una favola, ci proponiamo di essere noi quelli che potranno rivoluzionare la storia per arrivare al lieto fine. Il rischio è quello di operare come se ci trovassimo di fronte a una macchina dove tutto è progettato prima e le relazioni tra i vari componenti sono prevedibili, misurabili, sostituibili, riparabili. Dimenticando la profonda differenza tra: - Sistemi complicati: costruiti da esseri umani che possono essere ricostruiti in dettaglio nei loro componenti e nelle relazioni interne e possono essere determinati dall’esterno. - Sistemi complessi: si programmano da sé, hanno un loro autonomo punto di vista sul mondo e un loro modo specifico di accoppiamento con l’ambiente e che proprio per questo non sono mai conoscibili e controllabili dall’esterno. Mentre nel campo medico l’anestesista ha la necessità di anestetizzare per creare rapporti in cui vigano le leggi dei rapporti causa/effetto, il lavoro educato che si compie nell’ambito della tutela dei minori non può rinunciare alla dimensione relazionale che è essenziale. Non vige la legge di causa/effetto propria del rapporto tra oggetti. La separazione tra esseri umani non ha mai un significato anestetico, al contrario apre nuove emozioni, nel bene come nel male. E di quel sistema complesso noi ne siamo parte e non ci è dato porci all’esterno. Quando quella storia familiare diventa, giorno per giorno, questa nostra storia, è opportuno che non ce ne impossessiamo tanto da espropriarla dalle mani di quella famiglia. Il paradosso dell’istituzionalizzazione nei servizi de-istituzionalizzati L’imprevisto investe anche il funzionamento dei servizi e lo stile dei nostri interventi. Legge n.149 del 28 marzo 2001, sancendo il diritto del minore ad una famiglia, ha disposto la chiusura degli istituti per i minori = processo di deistituzionalizzazione e decentramento dei servizi. Già dagli anni 70 si avviò un processo per superare le istituzioni totali e vi erano critiche sugli effetti che esse producevo sulle persone. In Italia: tale processo che investì tutti i servizi sociali e sanitari ebbe avvio in campo psichiatrico sotto la guida di Franco Basaglia che fece abolire i manicomi. Il processo di deistituzionalizzazione portò anche alla chiusura degli istituti minorili. Nascita delle comunità per bambini e di quelle per mamme e bambini: realtà più piccole, meno rigide, più aperte alle trasformazioni, almeno nelle intenzioni del legislatore. Vivere in comunità non è come vivere in istituto ma nemmeno è privo del tutto di elementi istituzionali. Alcuni elementi tipici delle istituzioni totali si trovano anche nelle comunità: gestire il potere, regolare la vita dei singoli e dei gruppi, assicurare equità di trattamento, mantenere distacco tra le vite dei professionisti e quelle degli ospiti, segnare la differenza tra il dentro e il fuori, tra il prima e il dopo servizio, presenza dell’autorità giudiziaria che fissa le premesse e le conseguenze di quella permanenza. 55 Il processo di de-istituzionalizzazione non si può considerare concluso con la chiusura dell’ultimo istituto, perché nell’intervento di tutela minori, è sempre presente il rischio di porsi in un’ottica istituzionalizzante. Gli operatori devono essere in grado di riconoscerla e fare in modo ad esempio di accogliere il limite non solo come negativo ma come occasione di apprendimento e vedere tutti gli strumenti con significati diversi da quelli istituzionali. Partiamo dal termine tutela: esso non aiuta, può indurre a interventi limitanti e preservativi, chiusi. Invece gli interventi per ogni famiglia possono essere pensati non sulla base della “riduzione del rischio”, ma sul riconoscere la fase che quella famiglia sta attraversando in quel momento, sapendo che sempre possono, in ogni direzione esserci evoluzioni. Rimanere sempre in attesa di possibili sorprese, promuovendo contesti disponibili a fare posto a spiegazioni innovative dell’ordinario che capita. Tre interrogativi: • Genitori liberi o coatti? I servizi di tutela sono solitamente caratterizzati da un significato coattivo: la presenza del tribunale che obbliga non può essere considerata secondaria. Ma la dimensione coattiva non aiuta la famiglia a fare un salto evolutivo; si rischia al contrario di contrapporre due fronti immutabili. Dall’altra parte, sottovalutare che ci si trovi in contesti di obbligo sarebbe una mistificazione. Nelle situazioni obbligate si possono comunque individuare e promuovere spazi di libertà. Esempio: di solito il giudice prescrive il collocamento in comunità del figlio insieme alla madre e, qualora questa non aderisca, solo del figlio: questo significa che ogni donna in comunità, pur in una situazione apparentemente obbligata, ha scelto di starci. I genitori alla ricerca di spazi di libertà, pur tra gli obblighi, spesso lo fanno contrapponendosi ai servizi o nascondendosi. Obiettivo: riuscire ad individuare insieme ai genitori spazi leciti e condivisi di libertà. Si tratta quindi per molti genitori di autorizzarsi alla libertà, pur nei contesti limitati. Immaginare comunità dove le mamme possano pensarsi e vivere la loro genitorialità anche all’esterno, in un quotidiano più libero. La gestione delle regole, all’interno della comunità, pur dovendo essere rigorosa, acquisisce un senso molto diverso a seconda di come viene imposta. • Intervenire subito o dare tempo? Posizioni contrapposte: “Bisogna fare presto” VS “Diamo tempo”. È utile porre in relazione la quantità del tempo con la qualità di ciò che avviene in quel tempo, soprattutto nelle relazioni. La cronicizzazione non è data solo dal tempo, ma anche dal fatto che in quel tempo non si è riusciti a trasformare le relazioni. Ma, intervenire subito non significa necessariamente sottrarre tempo e porsi in attesa non significa sospendere l’intervento. La cronicizzazione può essere provocata proprio da questo modo di vedere le cose. Il contenimento della spesa nella pubblica amministrazione pervade i servizi: ci si trova esposti al rischio di limitare l’intervento, oltre che nella potenzialità creativa, anche nella sua quantità. 56 • Categorie di utenza o storie singole da ascoltare? La consuetudine di predisporre modalità di comprensione o d’azione a partire da categorie di utenza non è una strada utile. Liberarsi dall’idea di spiegare i problemi e pensare interventi sulla base di categorie di utenza, sebbene questa strada sia spesso suggerita da esigenze economiche e/o di rigore = una strada che considera già scritte le storie ancora da vivere. L’obiettivo non è arrivare alla giusta categorizzazione, per poter arrivare alla giusta spiegazione e il giusto percorso. Al contrario, è d’aiuto confrontarsi e chiedere aiuto a chi sta riflettendo con me (collega o utente) di comprendere come la storia che si sta vivendo venga letta proprio a partire da quelle e non da altre possibili categorie. L’esigenza istituzionalizzante di predeterminare le letture su fattori oggettivi difficilmente ha un significato liberatorio e trasformativo. Assume molto più spesso un valore costrittivo. Il cantastorie fuori campo Vivere insieme felici e contenti per tutta la vita è indiscutibilmente una gran bella storia, ma è una storia che spesso contraddice la nostra percezione. Il cantastorie l’ha vista così e noi bambini ci siamo accontentati, ma tutti i personaggi potrebbero raccontarla così? Le sorellastre di Cenerentola condividono il finale? Non lo sappiamo e non è la loro condizione a dircelo: sono solo loro a potercelo dire e noi a scoprirlo. Anche nelle situazioni estreme, come nelle famiglie in cui i più grandi sono pericolosi per i più piccoli, la comprensione e la scelta di intervento non possono che venire attraverso un racconto da fare insieme, tra gli operatori e le famiglie. Dei possibili finali anche lieti, occorrerà cominciare a costruire premesse e de-costruire illusioni. E magari saranno anche quelli che nella storia hanno il ruolo di cattivi ad essere d’aiuto. Prevedere l’equilibrio negli instabili equilibri Ci si trova in bilico. Essere in bilico è una condizione che può dirci molto sullo stato precario delle famiglie, ma anche su noi che lavoriamo con le famiglie. Il bilico è la posizione provvisoria di un corpo che si trova in equilibrio instabile. È la condizione umana che ci pone in bilico. Stando in bilico si rischia naturalmente di cadere. Sottovalutare gli effetti della caduta potrebbe diventare mortale nella tutela dei minori e delle loro famiglie. Non sappiamo a priori quale sarà l’equilibrio migliore. Certamente, dovremo farci carico di attenuare gli effetti del passaggio tra un equilibrio e l’altro. Possiamo fare in modo di aprire spazi di cura delle relazioni, capaci di sollecitare, promuovere, osservare l’imprevisto. Quando capita che qualcuno scivoli, sia chi cade sia chi trattiene dal cadere riscoprono imprevisto il senso di quel legame. Non solo si attribuisce nuovo senso a quei legami, ma addirittura se ne (ri)scopre l’esistenza, si riconosce che la relazione viene prima. Da operatori possiamo prevedere 57 prendere quello che ci serve, lasciare qualcosa prima di ritornare a casa, forse arricchiti, sicuramente diversi. Domicilio come vincolo: quasi una gabbia per chi, nella famiglia, si sentiva in un certo qual modo obbligato a restare in casa, invece di avere la possibilità di mostrare le sue tante “case”, le appartenenze altre. Per questo motivo, mantenendo comunque sempre il domicilio come punto base e di appoggio, è apparso funzionale e interessante chiedere ai bambini e agli adolescenti con cui l’educatrice entrava in relazione di mostrare i “loro luoghi” e a volte anche sperimentarne di nuovi in cui portare delle parti di sé differenti, contesti in cui fare esperienze nuove da riportare poi in casa e condividere con i genitori, alla ricerca di un equilibrio tra un buon livello di autonomia, la dipendenza dai genitori e l’appartenenza alla propria famiglia. Dalla casa quindi si può uscire per andare verso luoghi altri, che si trasformano in luoghi educativi proprio per il loro essere altri, ma connessi con la casa e con la famiglia. L’intervento educativo non può essere unicamente con il minore perché in casa ci sono altri attori. La sistemica invita a concentrarsi sull’intero sistema di cure e di interazioni in cui è inserito quotidianamente il bambino. La stessa visione sistemica della famiglia ci porta a ritenere che qualsiasi intervento educativo o visione dell’educazione come pratica che si rivolge ai singoli investa necessariamente i loro sistemi di riferimento, primi tra tutti il sistema di convivenza e di cura. La famiglia e l’educatore: dal sostituire al valorizzare le relazioni Per la famiglia l’educatore è un estraneo che arriva, in fondo pensando di dire ai genitori che cosa dovrebbero fare di diverso con i loro figli, dove sbagliano. Con la sua presenza l’educatore modifica gli equilibri che la famiglia si è creata. Non stupisce quindi che la famiglia, o più spesso un suo portavoce, opponga resistenze all’ingresso dell’operatore. Molti interventi domiciliari si trasformano in una sorta di sostituzione del genitore da parte dell’educatore nella funzione di sostegno e supporto ai figli. Questo modo di intendere l’intervento realizza una “colonizzazione educativa” che porta dentro la vita familiare nuovi modelli e nuovi discorsi senza tener conto di diversi importanti fattori e senza interrogarsi sugli effetti a lungo termine di questa imposizione. Questa concezione dell’intervento educativo concentrandosi unicamente sul figlio porta sullo sfondo le figure genitoriali, svalorizzandole ulteriormente. Si perde l’occasione di sfruttare appieno un intervento che dovrebbe invece partire proprio dalla storia della famiglia, dalle risorse effettive o potenziali dei genitori, dallo stile e dai modelli educativi e culturali che questi possono riconoscere e/o sviluppare come propri. Il rischio di sostituirsi ai genitori può portare a una sorta di deresponsabilizzazione progressiva degli stessi rispetto al loro ruolo educativo, ed alimentare la convinzione da un lato che i genitori siano incapaci di badare al figlio e dall’altro che proprio il bambino sia il problema, confermandone la posizione di “capro espiatorio” all’interno del sistema 60 familiare. L’epistemologia del “sostituire” isola di fatto i figli dal resto del sistema, come avviene nella costruzione del “paziente designato” (persona portatrice di un sintomo o comportamento deviante, sulla quale viene a cadere l’attenzione di tutti). Se si tiene presente il sistema familiare nella sua complessità, l’intervento educativo può proporsi come maggiormente “ecologico” e caratterizzarsi come lavoro con e non su la famiglia. Il rischio più frequente degli interventi centrati sui piccoli è quello di rendere la famiglia invisibile, di non considerarla e non considerare il fatto che perché un bambino o un adolescente stia meglio è necessario che tutta la famiglia stia meglio, che riesca ad essere un luogo di cura in cui è possibile stare bene e crescere per tutti, anche e soprattutto per gli adulti. Spesso la famiglia viene tralasciata proprio perché considerata inadeguata e priva di risorse, incapace di tutelare il benessere psico- fisico del bambino. E così viene confermata l’idea che quei genitori, quei nonni, quei parenti non sono in grado di pensare al benessere del bambino. Dobbiamo essere consapevoli di quanta responsabilità abbiano gli operatori e i servizi. Proposta del lavoro con le famiglie: valorizzare ed espandere le connessioni tra tutti questi attori, osservando le loro danze relazionali per poi riflettere insieme a loro sulla danza stessa, sui loro posizionamenti, sulle fatiche, i progetti, i desideri e sulle strategie avvertite come maggiormente funzionali per ottenerli. Fare in modo che tutti i membri della famiglia si sentano attori coinvolti nel processo di definizione delle proprie difficoltà e nella ricerca delle strategie più idonee per superarle. Chiamare in causa tutti i componenti della famiglia in questo lavoro significa dare voce a tutti, riconoscere la parte attiva di ciascuno nel gioco in atto. Il sistema famiglia è quindi al centro dell’intervento domiciliare, come rete di relazioni essenziali nella vita di un bambino o adolescente, un nucleo affettivo da cui è impossibile prescindere se l’obiettivo principale dell’intervento vuole essere il benessere del minore e di tutti coloro con cui si relaziona e che si prendono cura di lui, cioè se l’obiettivo principale dell’intervento è che “tutti stiano un po’ meglio. Ciò significa anche smettere di considerare il nucleo familiare unicamente come fruitore e destinatario del servizio; al contrario, la famiglia diventa protagonista attiva di un processo di evoluzione e cambiamento che l’intervento educativo cerca di facilitare e sostenere, ma non può in alcun modo determinare. Ogni individuo è in sé un sistema complesso di parti interagenti e interconnesse, da riconoscere e celebrare nella sua integrità. Ma allo stesso tempo nessun individuo può intendersi come isolato perché è inserito in una rete di connessioni con altri individui e sistemi di vario tipo che determinano quel che è. Ogni famiglia ha la sua storia caratterizzata da evoluzioni, crisi, riprese, crescite, apprendimenti. Ogni famiglia vive di momenti di maggiore o minore equilibrio e può trovare risorse e strategie per far fronte alla crescita. Ogni 61 famiglia ha la sua bellezza. Lavorare non sulle mancanze ma sulle risorse. Il processo di co- costruzione del senso dell’intervento necessita di chiarezza e trasparenza. Diventare consapevoli dei propri pregiudizi e delle proprie premesse, accettare e diventare consapevoli del proprio stato emotivo e dei propri valori sono azioni autoriflessive necessarie, che per un educatore dovrebbero costituire il punto di partenza e di arrivo di ogni sua azione. La riflessività permette di generare e riconoscere le proprie cornici di riferimento, la propria epistemologia dell’educazione, per poi metterle in connessione con le cornici dell’altro, in questo caso della famiglia con cui si è chiamati ad interagire. Verso la trasformazione Il contatto tra le famiglie e i servizi non si dimostra educativo, ma antiecologico e dis-educativo, quando la famiglia viene svalutata, inascoltata, etichettata. Credo che il mio lavoro pedagogico sia stato e continui ad essere un lavoro “con” la famiglia, e non “su” o “per” la famiglia. È maggiormente funzionale allenarsi a diventare un buon osservatore e un facilitatore nel processo di scoperta e riconoscimento delle risorse. Il compito è sostenere l’autonomia nel trovare di volta in volta, nei momenti di crisi, le strategie più funzionali al superamento della crisi stessa e alla ricerca di un nuovo equilibrio che permetta a tutti di stare bene, ma non credo che questo sia possibile senza il contributo e la partecipazione attiva della famiglia con cui ci si relaziona, è la via perché un intervento educativo domiciliare riesca e diventi uno strumento di facilitazione verso la trasformazione. Adottare una pedagogia della famiglia capace di tenere sempre presenti e valorizzare le risorse dei membri di quella famiglia, la loro storia e le loro evoluzioni. È proprio la storia di quella famiglia, le modalità con cui i membri del sistema la raccontano e si raccontano, la base da cui partire per co-costruire nuove storie e nuove narrazioni. Interagire con una famiglia partendo dalle sue risorse e capacità può apparire a un educatore più faticoso, perché implica che l’educatore e la famiglia siano in relazione e cerchino di generare un’alleanza, non facile da sostenere e portare avanti. In gioco non c’è solo l’aspetto professionale ma anche quello personale: anche l’educatore è chiamato a interrogare se stesso, a mettersi in discussione, a modificarsi e questo può generare fatica, sofferenza. È dall’impegno al reciproco riconoscimento e alla reciproca valorizzazione che dovrebbe prendere avvio un intervento educativo come quello domiciliare e non solo. Nell’ecologia dei sistemi, lavorare con la famiglia vuol dire sperimentare percorsi, strategie, posizionamenti che permettano a tutti gli attori coinvolti di stare bene e di concorrere alla co- costruzione di storie nuove e condivise seguendo il principio “Agisci in modo da aumentare il numero delle possibilità”. 62 consente di affrontare le specificità della comunicazione che si attiva in questo contesto, una comunicazione dove ci si sente tutti più scoperti. L’esperienza del carcere è l’esperienza della separazione, che tocca il corpo e la mente, e forse separa ulteriormente moltiplicando le separazioni possibili. Il carcere è il racconto della separazione: quella dai figli è forse la più dolorosa. L’attenzione mostrata nel capitolo va innanzitutto al bambino, seguendo l’ipotesi che la sanzione penale, interrompendo i rapporti affettivi, intervenga come un fatto traumatico nella sua vita. I figli, attori “invisibili” che subiscono scelte e regole dettate dagli adulti, diventano l’anello debole di una catena di eventi che li priva della risorsa più importante (sappiamo quanto sia cruciale e influente la relazione con i genitori in tutti i passaggi di sviluppo, sul piano affettivo, cognitivo e morale). Nel prendersi cura delle relazioni familiari si mette al centro il benessere del figlio, sapendo che questo non è raggiungibile indipendentemente dal benessere del genitore e di tutta la rete degli altri adulti. Bisogna agire a più livelli: attività di carattere psico-pedagogico in carcere e le azioni di rete a livello locale, nazionale e internazionale. Il mantenimento della relazione durante il periodo di carcerazione è riconosciuto come diritto del bambino al legame fondamentale per crescere e come diritto/dovere del genitore ad assumersi la responsabilità e continuità del suo ruolo. La tutela della relazione consente alla persona detenuta di recuperare un’identità genitoriale persa o a rischio, che si cerca di rendere visibile e valorizzare. Ciò significa riconoscere il bisogno profondo di continuità del legame affettivo per tutte le persone coinvolte. Il sostegno e l’accompagnamento della relazione genitoriale durante la detenzione si configura anche come intervento di prevenzione sociale; è un dato consolidato da diverse ricerche che il figlio di un genitore detenuto ha maggiori probabilità di trovarsi in conflitto con la legge e di ripetere l’esperienza detentiva del genitore. Queste attività si consolidano in una pratica che individua un percorso di accompagnamento e di sostegno psicopedagogico alla coppia genitore-figlio nel suo sistema di relazioni. Nei confronti del genitore, parallelamente, viene realizzato un lavoro di mediazione che gli consenta di riconnettersi con la rete di relazioni da cui è separato a causa della detenzione e con una rete di rapporti istituzionali che coinvolge i servizi interni al carcere, i servizi sociali territoriali, il tribunale per i minorenni, i servizi di sussidiarietà del privato sociale coinvolti nella fase del rilascio. Prendersi cura di questa rete di relazioni complesse, significa costruire una rete nelle reti dedicata al mantenimento del legame genitore-figlio. 65 La cura dei legami in carcere: temi emergenti La questione femminile: è uno dei primi temi a emergere sin dalla fine degli anni 90, a San Vittore, dove le donne detenute furono impegnate in un lavoro di sensibilizzazione istituzionale. Anche per merito di queste lotte sono state approvate leggi penitenziarie in tema di figli ma che non hanno risolto il problema della separazione forzata e traumatica della prima fase dopo l’arresto, la più delicata. Colpevoli e innocenti: la persona non è il reato; una distinzione che diventa linea-guida prioritaria di qualsiasi intervento educativo in carcere. La resistenza più evidente è lo squilibrio relazionale che divide colpevoli e innocenti: “Chi sta dentro è colpevole, chi sta fuori è innocente”: questo automatismo investe in modo paradossale soprattutto gli operatori, che vivono quotidianamente dentro il carcere. (Bisogna permettere di raggiungere un certo grado di libertà o almeno di uso creativo dei vincoli del carcere per arrivare ad una consapevolezza). La verità raccontabile: il figlio della persona detenuta (soggetto assente) diviene il destinatario dell’intervento. È un bambino che di solito non conosce la verità sulle condizioni del genitore ma questa può essere appresa solo all’interno dei canali familiari. Il compito è sostenere il processo di consapevolezza della verità raccontabile, da parte dei genitori in carcere e della famiglia fuori del carcere. Un compito difficile perché ogni famiglia ha le sue strategie, il suo percorso possibile per far fronte all’esperienza della detenzione di un congiunto. Marie France Blanco, fondatrice della rete di associazioni che si prende cura della relazione genitori-figli in carcere sostiene che il primo passo è quello di dire ai bambini la verità sui loro genitori con parole a loro accessibili. I bambini sono pienamente in grado di capire cos’è legge. Così sono in grado di capire perfettamente che anche gli adulti hanno delle leggi da rispettare, e che quando non lo fanno vengono puniti, proprio come viene fatto coi bambini. Bisogna poi dir loro che la prigione pone dei limiti alla libertà di movimento di una persona, ma non all’affetto, all’amore. La chiave di tutta la questione è la consapevolezza dei bambini che i loro genitori li continuano ad amare. Il silenzio e le bugie vincolano, rendono impossibile crescere liberi. Quando non si dice al bambino dov’è il genitore, per quanto tempo sarà via, per quale motivo, si lascia il bambino in un universo immaginario che è molto più terrorizzante della realtà. Gli effetti della separazione: il tema della separazione è centrale per i figli. Se adolescenti, devono conoscere la verità per poter effettuare delle scelte e pensare di progettare un futuro diverso per sé. Questa libertà di scelta è ipotizzabile solo a condizione che avvenga il processo di separazione psicologica, che consente l’individualizzazione e la capacità di intraprendere nuovi legami affettivi, pur mantenendo quelli originari. Questo processo di crescita può essere ostacolato dalle 66 conseguenze di una separazione fisica che è in realtà una vera e propria sparizione. Il genitore smette improvvisamente di essere un riferimento nella vita del figlio, e così lo incatena in un legame di lealtà che può far diventare tradimenti le sue libere scelte. Separazione psicologica: primo passo per l’individualizzazione di sé e l’autonomia, è possibile quando il bambino ha imparato a simbolizzare la relazione con il genitore, cioè ha sperimentato qualche distacco. L’interruzione del legame crea un disorientamento angoscioso, sentimenti di abbandono o di rifiuto, fantasie nelle quali i genitori vengono idealizzati o demonizzati. Ogni caso va valutato singolarmente in base anche a numerose variabili: età del bambino, lunghezza della pena, le dinamiche familiari, le possibilità del bambino di vivere relazioni sufficientemente buone con altri adulti. Se il bambino non riesce a costruirsi una teoria di ciò che sta accadendo, può essere sopraffatto dalla paura, rabbia, risentimento, fino allo sviluppo di veri e propri sintomi. Quando i bisogni fondamentali del bambino sono frustrati e viene impedito di esprimere ciò che prova, il genitore può trasformarsi in un persecutore da distruggere o evitare. Il bambino che si sente abbandonato percepisce se stesso come un bambino non meritevole d’amore e cattivo. Emozioni contrastanti: il bambino che incontriamo è spesso arrabbiato, ma fatica ad esprimere questo sentimento; il suo disagio può essere profondo, ma i familiari, impegnati ad affrontare il proprio, non ne comprendono la portata. Le strategie di dissimulazione e negazione delle emozioni trasformano a volte la naturale sofferenza in disadattamento, in alcuni casi in sintomo. Aiutare a comprendere il comportamento apparentemente incoerente dei figli rappresenta spesso l’intervento primario per salvaguardare la relazione nella coppia genitore-figlio, ma coinvolge necessariamente tutto il nucleo familiare. Prendersi cura del legame genitoriale: il processo di intervento Un costume culturale diffuso ritiene che una persona in carcere non sia in grado di essere un buon padre o una buona madre: gli educatori, salvo in casi di reati che lo giudicano proprio in quanto genitore, lo considerano un genitore “sufficientemente buono” che ha però bisogno di essere aiutato a ritrovare la legittimazione del proprio ruolo. Scegliere di relazionarsi alla persona e non al detenuto rende possibile lo scambio relazionale in un clima di rispetto reciproco. Il genitore è considerato capace di assumere delle responsabilità, qualcuno che ha il desiderio, ma anche il diritto-dovere, di salvaguardare il proprio ruolo e mantenere una relazione significativa con i figli. Il processo di intervento è la realizzazione di: - un percorso strategico di informazione, formazione, sensibilizzazione, - come intervento di prevenzione sociale per i minori e la famiglia, - che coinvolge la rete interna al carcere e quella esterna sul territorio - per una presa in carico (progetto individualizzato di accompagnamento psico-socio-educativo), 67 relazione di cura, anche i genitori e le famiglie. In questi incontri è possibile prendersi cura delle storie familiari, di cui il carcere e i servizi tendono ad amplificare gli aspetti estremi devianti, dissonanti. Lo Spazio Giallo ha permesso uno sbocco sul territorio, rivelando nuove potenzialità nel lavoro di connessione tra dentro e fuori. È fuori dal carcere, infatti, che il genitore deve affrontare la prova di realtà, ritrovare il proprio posto nella famiglia, con i figli, nel lavoro e in una rinnovata responsabilità sociale. questo impatto non è meno difficile di quello imposto dal carcere e richiede che il sostegno ricevuto non si interrompa con l fine della detenzione. 12. POSIZIONARSI NEL CONFLITTO: L’EDUCATORE A SPAZIO NEUTRO (GALIMBERTI) La parola conflitto richiama immediatamente l’idea di opposizione di due o più punti di vista che non riescono a trovare una forma di convivenza, di complementarietà e si scontrano in modo simmetrico. Dal conflitto possono nascere conseguenze: positive o negative (sofferenza, violenza..). E in famiglia? Allo stesso modo, in alcune famiglie il conflitto assume termini e proporzioni da generare sofferenza in uno o più membri, è visto come un tabù da evitare a tutti i costi e proprio questo evitamento può dare origine a problemi, ma nella maggior parte delle famiglie il conflitto è affrontato normalmente come un fatto della vita, anche con humor e creatività, e “usato” per fare passi avanti significativi nelle relazioni e nello sviluppo individuale. Spazio neutro È nato per sostenere e favorire il mantenimento della relazione tra il bambino e il genitore o adulto di riferimento per lui significativo, in quelle vicende famigliari in cui questo bisogno non è rispettato, a causa di conflitti intra-familiari o situazioni di malattia e disagio. I servizi “per il diritto di visita e di relazione” diffusi in molta parte del mondo occidentale, devono larga parte della loro diffusione a un mutamento di sensibilità che riguarda, da una ventina d’anni circa, le relazioni tra genitori e figli e l’idea stessa di infanzia; si tratta di un mutamento che ha permesso l’avvio di un graduale processo che pone al centro dell’intervento pubblico e privato il diritto, riconosciuto al minore, del mantenimento delle relazioni con i propri genitori e con altre persone affettivamente significative. Molti stati recepiscono nel proprio sistema giuridico la dichiarazione dei diritti dell’infanzia (ONU, 1989). Le famiglie che giungono al servizio sono invitate dal Tribunale per i Minorenni o dal Tribunale Ordinario in modo coatto attraverso provvedimenti (decreti) nei quali l’autorità giudiziaria intende sostenere e/o controllare la relazione tra adulto e bambino in un luogo protetto. Nella storia di queste famiglie, dunque, a un certo punto entrano in gioco i servizi: qualcuno valuta che l’equilibrio raggiunto dal sistema famigliare sia disfunzionale a uno sviluppo sano e sereno di uno più dei suoi membri (figlio). Molte famiglie sono inviate perché stanno vivendo una 70 separazione altamente conflittuale. In questi casi, i figli vengono affidati al padre o alla madre e si trovano coinvolti nelle dinamiche tra i genitori, che chiedono loro di schierarsi. È quindi faticoso per loro trovare uno spazio proprio per mantenere un legame e un contatto sereno con entrambe le figure di riferimento. In queste situazioni si pensa che “un luogo neutro, cioè un luogo terzo non appartenente a nessuno dei due contendenti, può facilitare i genitori nel riconoscere il bisogno/diritto del bambino a veder rispettati i suoi affetti. Al servizio spazio neutro è richiesto di costruire con la famiglia un progetto che renda possibile il mantenimento del diritto di visita e di relazione del bambino. L’obiettivo di lungo termine è quello di lavorare affinché questi possa mantenere i contatti con entrambi i genitori in un clima che non sia pregiudizievole per la sua crescita. L’équipe del servizio può essere costituita da professionisti di stessa formazione o provenienti da aree differenti della relazione d’aiuto. Il lavoro è svolto in stretta connessione con i colleghi della Tutela Minori che in genere riceve dal tribunale la titolarità della presa in carico della famiglia segnalata e con altri professionisti coinvolti dal decreto (es: terapeuti). Rispetto all’incarico ricevuto, Spazio Neutro deve rendere contro, attraverso relazioni scritte, al Tribunale che ha emesso il decreto. Alla famiglia dunque viene prescritto di collaborare con Spazio Neutro e con i vari professionisti della rete che si viene a costituire. Questo rappresenta una possibile difficoltà: coloro che sono stati invitati, possono incontrare difficoltà nell’accettare l’imposizione e possono, rifiutarsi di vivere la relazione in uno spazio semi pubblico, sottoposto a osservazione e valutazione. Seguendo l’epistemologia sistemica è più probabile che il cambiamento avvenga quando si contribuisce ad aumentare il numero delle possibilità tra le quali può scegliere il sistema. La sfida è quella di riuscire a innescare processi di apprendimento a partire dalla crisi che ha portato all’ingresso nel servizio. Il percorso a Spazio Neutro prevede diversi tipi di interventi: - Colloqui individuali con i genitori, - Colloqui con i minori, - Incontri protetti (effettuati alla presenza di un operatore) tra il bambino e il genitore escluso per effetto del conflitto o ritenuto potenzialmente dannoso. La rappresentazione estetica: dare forma al conflitto Ricercare una rappresentazione estetica, sensibile e immaginativa del conflitto significa sia proporre concretamente alle persone con cui lavoro la ricerca di una rappresentazione alternativa del problema (ad esempio attraverso il disegno), sia ascoltare le metafore, le immagini che emergono spontaneamente nei loro racconti, come parole chiave che rintraccio nel testo che l’altro mi porta. Cambiare il linguaggio è un’operazione che in sé mira a cambiare la rappresentazione dei fatti. 71 Spesso si assiste a racconti saturati di attribuzioni di colpe: idee perfette ridotte a una definizione minimale assoluta e senza tempo che perdono la qualità di storie cioè di trame che connettono aspetti diversi e complessi di una dimensione temporale. Spiazzare la conversazione attraverso l’utilizzo di linguaggi estetici e richieste “a tema” può mettere l’altro nella condizione di diventare osservatore della propria storia assumendo una posizione differente rispetto a quella strenuamente ripetuta. Ad esempio: ad un primo colloquio disegnare il problema e la sua soluzione. La comprensione intelligente: verso una teoria del conflitto Le punteggiature delle narrazioni, i modi in cui i racconti sono riportati, le rappresentazioni estetiche sono elementi diversi ed eterogenei che si aprono nel corso delle conversazioni. Da tutti questi elementi costruiamo una teoria locale della situazione, ognuno dalla propria prospettiva. La disposizione alla pensosità è la condizione necessaria affinché l’esperienza si trasformi in competenza. Il conflitto è uno di quei concetti astratti che si vivono e si strutturano attraverso metafore: - Metafora del bambino: caos nella sua vita (fiume inquinato), dove riportare ordine attraverso la giusta ri-collocazione dei ruoli (pattumiere differenziate). - Madre: porta il conflitto come un ostacolo enorme e apparentemente insuperabile, che però potrebbe essere ridimensionato a un puntino. È possibile farlo cambiando prospettiva? La signora risponde di sì ma non sa come. - Il padre: descrive il conflitto marcando il passaggio da un prima in cui poteva stare col figlio all’oggi, dove invece non può più vederlo. Nel suo disegno la soluzione immaginata sembra un “ritorno a prima”, quando poteva essere padre: oggi infatti si disegna come figlio ritornato dalla propria madre. Quale idea del conflitto stanno costruendo gli operatori che seguono la famiglia? La mappa del conflitto offerta dalla Tutela Minori è una diagnosi di “Sindrome di alienazione genitoriale” (PAS): è un disturbo che insorge nel bambino, essenzialmente nel contesto di controversie per l’affidamento dei figli. La sua principale manifestazione è la campagna di denigrazione da parte del bambino nei confronti di un genitore, una campagna che non ha giustificazione. Essa è il risultato della combinazione di una programmazione (lavaggio del cervello) effettuata dal genitore indottrinante e del contributo dato dal bambino in proprio, alla denigrazione del genitore bersaglio. Questa mappa presenta anche i suoi limiti in quanto categorizza la situazione famigliare offrendo una “codifica” che per gli operatori appare chiara, ma fa perdere di vista l’originalità e la peculiarità della situazione che sta vivendo questa famiglia. Porta a trascurare le attribuzioni di significato, le storie che i protagonisti delle vicende incarnano, porta a chiudere la curiosità, l’immaginazione, la 72 - Diffidenza verso una famiglia vista come distante o potenzialmente problematica. Situazioni in cui la famiglia è etichettata definitivamente come “sbagliata”: carente, deviante, francamente patologica (Ad esempio nel lavoro di comunità, dove i genitori sono abusanti e i trascuranti e vedono i minori solo all’interno di visite protette. Qui è difficile andare oltre la stigmatizzazione). Fare silenzio Il racconto di Teresa mostra uno scontro tra opposte visioni: - la mamma vede nella situazione una minaccia per il suo bambino - L’educatrice vede i progressi che lui sta facendo. Le cornici di senso dei genitori ed educatori a volte non coincidono: due interpretazioni diverse spesso conducono a un conflitto. Una reazione tipica dell’operatore è la sensazione che la famiglia ostacoli il lavoro del Centro. A volte l’educatore è deluso perché scorge nella domanda della famiglia un mancato apprezzamento per il lavoro svolto. La mamma e l’educatore rappresentano due dimensioni di vita che devono integrarsi in uno sguardo comune, condiviso, che considera le radici del minore (passato) e, contemporaneamente, la bellezza dell’albero che può diventare (futuro). I conflitti sembrano inevitabili, ma possono diventare tappe di un percorso compiuto assieme alle famiglie, fatto di alti e bassi, durante il quale avviene la scoperta dell’altro e dei propri limiti. “Voglio veramente prendere distanza, fare silenzio e ascoltare questa donna” . Trovare la posizione, né troppo né troppo poco Nell’interazione educativa accade di fare troppo o troppo poco. L’atto educativo è frutto di un posizionamento, che è fisico, ma soprattutto mentale, fatto di emozioni e pensieri. Gli educatori testimoniano di essersi accorti in diverse occasioni di “fare troppo” con le famiglie, ovvero di non avere avuto una corretta posizione. In questo caso il troppo consiste in una serie di azioni: aggiustare la lavatrice, fare la spesa…che sono risposte automatiche al senso di bisogno e necessità che questa famiglia gli evocava. È solo attraverso la riflessione in équipe che Silvio prende consapevolezza del suo automatismo e riesce a introdurre tra lo stimolo “famiglia” e la risposta automatica quella comprensione che gli permetterà un’azione intenzionale. Trovare la giusta posizione è una ricerca che permette di orientare la naturale propensione all’aktro entro un percorso studiato e condiviso, all’interno del quale è possibile ristabilire i giusti confini rispetto alle richieste della famiglia. “Con il tempo l’approccio è diventato più ponderato”. Famiglie disfunzionali Quasi tutti gli educatori riconoscono di aver avuto un pregiudizio molto forte nel primo approccio con le famiglie. La famiglia può essere dipinta come il nucleo di negatività da cui è necessario allontanare il minore. Agli occhi degli educatori, la famiglia può diventare il luogo dove si rovina il lavoro fatto al Centro: in questo passaggio è cruciale il lavoro di gruppo con i colleghi nella 75 riunione d’équipe e nella supervisione. Senza lo sguardo dell’altro, il suo rispecchiamento, senza il confronto delle idee, è molto difficile riconoscere i propri pregiudizi e schematismi mentali. Alcuni raccontano che il pregiudizio si è sciolto naturalmente nel momento in cui il rapporto con la famiglia si è approfondito e hanno potuto scoprire il grande desiderio dei genitori di fare il meglio per i loro figli. La risposta alle delusioni è la speranza, la capacità di rinnovare la propria fiducia nelle possibilità di miglioramento delle persone. Questa però necessita di un passaggio nella maniera di rappresentarsi la famiglia. “All’inizio questa famiglia, veniva percepita come uno scoglio, c’era quasi il rifiuto a dover collaborare, mentre con il tempo c’è stato l’accettarla per quello che era e trarre ciò che poteva essere utile ad Alessandra”. “Ad un certo punto mi sono resa conto che vedere questa famiglia come qualcosa di cui volersi liberare, (….), non era utile, perché questa famiglia c’era, e quindi andava accolta e gestita” (Anna). Un’altra educatrice scoprì di avere uno sguardo troppo ingenuo sulle dinamiche familiari: questo non le aveva permesso di rendersi conto della situazione di violenza che stava avvenendo in casa. Anche questo sguardo è frutto di un pregiudizio, forse derivante dall’idealizzare a priori la famiglia come “porto sicuro”. I confini della famiglia Il tema dei confini del sistema familiare ritorna diverse volte: la famiglia nel nostro modello culturale è uno spazio privato, chiuso anche fisicamente dalle mura di casa, dove avvengono i rapporti intimi, personali, connotati dalla dimensione affettiva e perciò forse meno manifestabili. Oltretutto le mura di casa sono quelle entro le quali gestire i problemi. Entrare nelle case, nei rapporti familiari per svolgere interventi di mediazione è vissuto spesso con timore: oltre all’idea di varcare uno spazio privato, gli educatori esprimono il timore di entrare in contatto con un mondo in cui i confini non sono chiari né delineati, perché molti aspetti del sistema familiare non sono visibili. Attraverso l’affermazione “Ci siamo presi la responsabilità” Lucia testimonia un passaggio interessante: è come se questo tipo di intervento esuli dal mandato degli educatori, sia quello istituzionale sia quello che essi stessi si sono dati. Gli educatori riconoscono di essere parte di un sistema complesso di relazioni, che inevitabilmente influenzeranno. Quindi possono provare ad influenzarlo deliberatamente.“Fortunatamente lo spiraglio si è trasformato in un’apertura e abbiamo combinato un appuntamento. Ci siamo trovati quindi a mediare tra due posizioni che inizialmente si riaffermavano nel loro reciproco silenzio: gradualmente, con piccole mediazioni una parte e dall’altra, si è ricostruito un ponte che poi ha portato a uno scioglimento vero e proprio, ovvero a lacrime e un abbraccio profondo, forte, prolungato tra i due che da allora hanno ricominciato a parlarsi e a rifrequentarsi”. 76 Le emozioni provate durante le varie fasi dell’intervento: all’inizio: timore/paura = utilizzato per l’obiettivo educativo: quindi non è qualche cosa che blocca o fa scappare ma qualcosa che rende prudenti e delicati. La comprensione interviene nell’automatismo dell’emozione e genera una risposta nuova. L’emozione è per prima cosa riconosciuta (consapevolezza di sé), poi utilizzata, cioè messa a disposizione della propria intenzionalità educativa che fornisce la direzione dell’intervento. Le proprie relazioni familiari Il contatto con le famiglie sollecita il ricordo o la riflessione sulle proprie esperienze familiari. Questo contatto immaginario tra mondi familiari può dare origine a percorsi (auto)educativi in due direzioni: - l’esperienza positiva di comunicazione con le famiglie del Centro porta nuovo valore e spessore alle proprie relazioni familiari - Il contatto con situazioni di conflitto riporta alla memoria i conflitti della propria storia familiare. La sua esperienza personale le permette innanzitutto di connettersi empaticamente con le dinamiche che osserva nelle famiglie del Centro. L’atto educativo consiste nell’offrire ai ragazzi e alle famiglie un punto di vista diverso, che colloca i confini in un orizzonte di senso più ampio, all’interno di una vicenda personale e relazionale di crescita. Quest’atto, è anche profondamente auto-educativo per l’educatore. In entrambi i casi vediamo realizzarsi l’idea di “educarsi per educare” o “educare per educarsi”. Differenze di età Nel nostro usale percorso formativo viene rinforzata l’idea che l’educatore sia più “grande” dell’educando. Dal genitore che rilascia la paghetta settimanale, al datore di lavoro che assicura lo stipendio mensile, il controllo della risorsa denaro è una forma di potere attorno alla quale ruotano relazioni educative e non. In questo caso il consueto rapporto tra generazioni è completamente invertito: il “giovane” controlla i soldi del “vecchio” = “Noi non ci fidiamo di te”. All’inizio: imbarazzo Poi: è stato superato pensando l’intervento in una prospettiva più ampia. L’educatore vede il punto di partenza (in questo caso l’utilizzo non funzionale alla crescita dei soldi assegnati dai servizi) e un possibile punto di arrivo (una capacità più autonoma ed equilibrata di gestione delle risorse finanziarie). È solo la completezza di questa visione che definisce educativo l’intervento. Una visione che determina un passaggio mentale nell’educatore: è costretto a spostarsi dall’imbarazzo iniziale a una posizione nuova, che mette a fuoco meglio il suo ruolo e le sue possibilità d’azione. L’altro aspetto di asimmetria è dato dalla capacità dell’educatore (saper gestire le risorse finanziarie), che la famiglia non ha e che viene condivisa nel processo di mediazione. 77 La mediazione La mediazione è “l’azione che permette l’incontro dei saperi tra educatore e educando affinché si verifichi un effettivo apprendimento da parte di quest’ultimo” (Paoletti, 2008, p.97). Il processo di mediazione nella PTM viene riassunto nella cosiddetta “legge dei 100 passi”: - detta 100 la distanza iniziale tra educatore ed educando: il primo compie anche 99 dei passi, pur di riuscire a trovare il luogo della comunicazione (l’azione-comune). Da quel luogo è in grado di stimolare l’altro a fare dei passi nella sua direzione: anche un solo passo manifesta la sua crescita. L’educatore che compie tutti e 100 i passi, invece, corrisponde al caso di colui che si sostituisce all’altro. Chi non compie alcun passo, o passi non sufficienti all’incontro, esprime una rinuncia al ruolo educativo. Il processo di mediazione implica una componente emotiva: l’educando è attratto dalla posizione proposta perché l’educatore è un modello con cui c’è un’intensa relazione affettiva. L’idea di mediazioni proposta dalla PTM riecheggia il concetto di zona di sviluppo prossimale di Vygotsky che usa per descrivere l’apporto di un adulto nel processo di apprendimento di un bambino: l’area di sviluppo potenziale del bambino è definita dalla differenza tra il livello dei compiti eseguibili autonomamente e quello dei compiti che richiedono un aiuto. In quest’ottica l’educatore deve costantemente interrogarsi sul livello dell’educando, proponendogli stimoli che ritiene siano leggermente superiori alle sue attuali capacità. Migliorarsi per migliorare l’insieme Un doppio sguardo, un’attenzione divisa tra me e l’altro, porta ad essere più pienamente coinvolti e apprezzare l’umanità che si svela in noi stessi e negli altri. Dalle parole di questi educatori, dalle loro esperienze di trasformazione Un doppio sguardo, un’attenzione divisa tra me e l’altro, porta ad essere più pienamente coinvolti e apprezzare l’umanità che si svela in noi stessi e negli altri. Dalle parole di questi educatori, dalle loro esperienze di trasformazione, è possibile rinnovare e rifondare la fiducia nel miglioramento dell’uomo, che passa anche attraverso la creazione di relazioni inclusive come quelle descritte: “Se io comprendo di non essere un’isola, comprendo altresì che la mia vita, interdipendente dall’insieme e non esistente se non grazie a questa interdipendenza, ha uno scopo ultimo: migliorarsi per migliorare l’insieme” (Paoletti, 2007a, p.26). CAPITOLO 14: FARE SPAZIO E DARE VOCE: L’INCONTRO CON I FAMILIARI IN UN SERVIZIO PSICHIATRICO TERRITORIALE Si sono accorte che nei loro servizi manca un luogo dove possa accadere quello che è successo con Emilia (pag 361): dove cioè un familiare possa, pur nel riconoscimento del suo ruolo genitoriale, dare voce alle emozioni, ai desideri, alla propria storia, che non necessariamente coincide con quella del paziente. Hanno deciso quindi di provare a pensare uno spazio fisico, e mentale da 80 dedicare in modo specifico alle famiglie. Uno spazio di ascolto, in cui l’attenzione non sia posta sulla diagnosi, sulla malattia, ma sul vissuto che di esse hanno i familiari, sull’interazione tra malattia e il significato che la famiglia le attribuisce e sulla possibilità di trovare un senso, una prospettiva che possa rendere l’esistenza di nuovo sostenibile. Parte così il Progetto Famiglie: per parlare di famiglia in servizi come quelli psichiatrici, dove essa viene raccontata per lo più attraverso immagini stereotipate e generalizzate, è stato opportuno che loro iniziassero a definire che cosa intendono per famiglia, per poi raccontarsi le immagini che hanno delle famiglie dei pazienti. L’idea di progettare all’interno del servizio, un intervento educativo pedagogico, che offra ai familiari un luogo da co-costruire e in cui trovare le parole per narrare il dolore, parte dal presupposto che la famiglia è il luogo per eccellenza in cui il paziente vive e del quale condivide le dinamiche relazionali. È a partire dalla propria storia familiare che si costruiscono e attribuiscono significati alle cose, agli eventi e alle persone. La famiglia è il palcoscenico dove mettiamo in atto gran parte dell’esistenza. L’inevitabilità di appartenere a un gruppo in cui si nasce e si vive è un aspetto legato all’esistenza umana; tutto ciò che accade in tale gruppo influenza e determina le vicende individuali. Il progetto Si costituisce un gruppo di lavoro composto da tre educatrici e tre infermiere del Centro diurno e Centro Psico Sociale. Il punto di partenza sono le loro storie personali e di formazione, i vari stili di lavoro, i diversi approcci e i molteplici sguardi sulla famiglia. L’intervento è pensato dunque come: - Uno spazio di ascolto in cui sia possibile, in un clima di accoglienza, definire l’attuale situazione familiare, attribuire senso e significato agli eventi e alle relazioni in corso, cercando insieme un nuovo punto di vista che apra a orizzonti nuovi e vivibili in maniera più dignitosa. - Uno spazio dove raccontare la propria storia (Formeni, 2000) unica e legittima, degna di ascolto, quella storia che, una volta narrata, diventa tollerabile anche perché rivelatrice di significati. - Cercare di allestire un contesto nel quale favorire il più possibile la comunicazione come possibilità di elaborare significati, sia sul piano emotivo e cognitivo tra i membri della famiglia. - Uno spazio dove la sofferenza possa essere legittimata e riconosciuta. - Una pratica riflessiva che permetta di problemizzare il cambiamento, riconoscerlo, comprenderlo, favorirlo. Se necessario, provocarlo. L’intento è quello di curare la narrazione e interrogare l’esperienza, per aprire nuove possibilità di comprensione e spostare l’attenzione alla complessità della situazione specifica e alla pluralità dei soggetti coinvolti in essa. - Per alcuni genitori potrebbe essere il luogo dove conoscere il disagio psichico e la realtà che ruota intorno (servizi, risorse) ed essere informati sugli aspetti della cura e dell’intervento. Obiettivo: 81 - Allargare il campo, dal paziente al contesto sociale e relazionale, per poter riconoscere e valorizzare l’ambiente in cui vive come risorsa. - Mettere le famiglie nella condizione di esplorare a fondo il proprio disagio, di riuscire a dare un nome, a riconoscere e condividere la propria esperienza, le proprie emozioni, offrendo loro da una parte un’occasione per comprendere ciò che succede tutti i giorni e dall’altra uno spazio dove trovare legittimazione del proprio ruolo di genitori, prima di pensare a eventuali modi diversi di esserlo. Il tutto a partire dal presupposto che problema e soluzione appartengono a loro. - Un intervento che non intende spiegare, ma svelare quei segnali, tracce, modi, stili, dissonanze esistenti che, portati alla luce, possono aprire a una trasformazione sostenibile, perché fondata sulla comprensione di ciò che le persone già conoscono senza saperlo. L’attenzione è posta sulle competenze relazionali di comunicazione non direttiva, di rispetto verso l’interlocutore, di facilitazione, sostegno e accettazione della comunicazione, di valorizzazione di quanto ci viene narrato, di astensione dalle valutazioni. Regola numero 1: non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Prendersi cura dei legami L’apertura alla famiglia è il pre-testo per osservare e (farsi) raccontare risonanze, percezioni, immagini, costruire una relazione a partire dall’accoglienza come gesto di cura capace di trasformare l’estraneità in familiarità, l’imbarazzo in movimento che avvicina, il sospetto in fiducia. =Non è solo autentico interesse per l’altro, ma costruzione di un luogo ospitale, uso di parole non neutre né formali, capaci di veicolare le emozioni, i timori, le speranze e generare dialogo. = significa riconoscere che ogni famiglia è diversa e ha qualcosa di unico, che sfugge alla categorizzazione e al monitoraggio di un modello medico. = significa chiedersi chi è l’altro, esserne incuriositi, farsi stupire, saper cogliere la bellezza e la peculiarità di ogni storia familiare. Non trascurare il loro punto di vista, anzi interrogarlo. Guardo pag 367 il racconto: “ recuperare uno spazio di bellezza da cui è stato possibile partire per provare a lavorare insieme”. L’importanza del contratto Il contratto permette di co-creare un significato condiviso su ciò che si fa insieme. L’intervento parte da aspettative e richieste ogni volta differenti, e allo stesso modo può evolvere in direzioni impensate. Domande, priorità, obiettivi possono essere ridefiniti nel tempo. Interventi di facilitazione, di sostegno, di mediazione, di controllo e tutela e terapeutici, vengono collocati in un “continuum” a sostegno di una logica prettamente educativa, di apprendimento, di crescita, di apertura a nuove possibilità, che deve caratterizzare il lavoro con la famiglia. Con alcune famiglie proponiamo di allargare gli incontri a tutti i componenti (il paziente ed eventuali figli) nella 82 relazionali per uscire da un isolamento sociale nel quale si erano confinati oppure creano gruppi di auto-mutuo aiuto, associazioni di familiari, invii in terapia familiare). L’obiettivo è quello di predisporre un luogo per prendersi cura delle relazioni ma manca uno spazio fisico ben definito e riconoscibile da tutti come il luogo dedicato all’incontro con le famiglie. Dover ogni volta negoziare uno spazio e contrattare con altri i tempi e i modi di utilizzo non aiuta un lavoro come questo, che già deve confrontarsi con i limiti di ogni intervento pedagogico. CAPITOLO 15: APPARECCHIARE CONTESTI DI APPRENDIMENTO PER PROMUOVERE COMPETENZE (BETTINAGLIO, LO VERSO, ROSTI) Durante il primo incontro avvengono le presentazioni: presentarsi come educatrici può essere un punto di forza (altri operatori sono già conosciuti, per queste famiglie, tutte in carico ai Servizi sociali). Durante il primo incontro gli obiettivi e le ragioni del laboratorio vengono esplicitati e condivisi. Viene chiesto anche alle famiglie di presentarsi e dire che cosi li ha convinti a partecipare. Perché un laboratorio - Un luogo dove sperimentare, provare ad agire in diretta, attraverso delle attività formative, le relazioni educative e il confronto tra genitori e figli: quindi non solo riunioni o discussioni tra adulti ma un posto vivo e vivace dove adulti, bambini o ragazzi, ognuno nel proprio ruolo, provino ad osservarsi e parlarsi dei loro modi di stare insieme. - Un laboratorio rivolto a famiglie già in carico ai servizi sociali del territorio, con genitori già dichiarati in gravi difficoltà rispetto ai compiti educativi e di cura, seguiti dal servizio Tutela Minori. Obiettivo: favorire processi di inclusione del disagio nella normalità, chiamando le famiglie a un lavoro insieme, non a partire dalle loro difficoltà, ma dalle loro risorse, se pur a volte atrofizzate, povere e residuali. Il lavoro di riparazione parte dal rilevare le mancanze, cerca di supplire ai deficit, introduce correttivi, inserisce sostituzioni. Ma i “cattivi genitori” (Cirillo, 2005) non sono tali 24 ore al giorno e quindi si tratta di trovare le parti buone e funzionanti, farle uscire allo scoperto, incoraggiarle, sostenerle e se possibile arricchirle. Un laboratorio dove produrre esperienze in cui i partecipanti si sentano attivi, coinvolti e competenti. Il progetto stato condiviso con la Società dei servizi che gestisce la Tutela minori e in collaborazione con gli assistenti sociali e gli psicologi dei tre punti erogativi disseminati sul territorio. Sono loro infatti a individuare tra le famiglie in carico quelle a cui proporre il laboratorio, sono loro a informare le famiglie e inviarle al primo incontro. Lavorare in tandem con gli operatori della Tutela è necessario, oltre che per costituire i gruppi, anche per monitorare in itinere la risposta delle famiglie. Sembra indispensabile parlare e interrogarsi, tra operatori diversi, sulle famiglie definite a disagio, in difficoltà o multiproblematiche, sul loro modo di “fare famiglia”. 85 - Luoghi di incontro dove il fare e l’essere famiglia sia sperimentato direttamente e condiviso con altri (una delle fatiche che tutti i genitori attraversano è l’isolamento, la privatizzazione del compito educativo e la solitudine che questo comporta. - Il laboratorio si propone come uno spazio pubblico dove poter esibire gli stili educativi e sperimentare i ruoli familiari senza ripetere necessariamente gli stessi copioni che caratterizzino il privato di ogni famiglia e che causano cortocircuiti relazionali; ciò richiede la partecipazione attiva di genitori e figli insieme e, attraverso una conduzione rispettosa, avvia il confronto per gli uni e per gli altri, all’interno della singola famiglia e tra le famiglie. L’esperienza offre, in questo modo, la possibilità a ogni nucleo familiare di “vedersi”; non, però, nello sguardo dell’esperto di turno: è il gruppo che da dignità, dentro le dissimmetrie, alle opinioni dei piccoli come a quelle dei grandi. La finalità è quella di rendere un po’ più dinamica e gradevole un’immagine di famiglia che si ipotizza statica e probabilmente, dato il lungo permanere di questi nuclei dentro il circuito dei servizi sociali, anche esteticamente disarmonica. Non si hanno obiettivi di cambiamento e ne ci si aspetta la risoluzione dei problemi. Ma si vuole offrire a ogni famiglia, attraverso il gruppo, la possibilità di sperimentare forme di comunicazione inedite tra adulti e con i figli e un’esperienza di condivisione (Winnicott, 2005). Favorire sentimenti di piacere e benessere: chiave per far percepire con maggiore consapevolezza le difficoltà, ma anche la fiducia nella capacità di attivare risorse, di affrontare cose difficili, in qualche modo di potercela fare: condizioni per permettere di aprire domande e interrogativi sui ruoli dentro la famiglia e sulla quotidianità e perché dal gruppo ognuno potesse portarsi a casa anche indicazioni, suggerimenti e consigli. (Coinvolgimento attivo dei partecipanti) Sono stati curati tutti i materiali in modo che fossero esteticamente piacevoli, perché si percepisse la cura, il pensiero, il valore del progetto. Sono state curate le asimmetrie e dissimmetrie agendole: dividendo talvolta i genitori dai figli, assegnando compiti diversi secondo l’età, curando la comunicazione perché fosse comprensibile a tutti e concordando i tempi di lavoro perché fossero sostenibili da tutti. La possibilità di lavorare in tre ha permesso di suddividere le attività: conduzione condivisa e anche la progettazione = Famiglia professionale. Nel vivo dei laboratori I due gruppi erano composti in modo diverso: - Il primo: più eterogeneo comprendeva famiglie alle quali in passato erano stati allontanati i figli, famiglie che usufruivano del servizio di educativa domiciliare, altre in carico al Servizio famiglia per momenti critici che stavano attraversando. - Il secondo: partecipavano famiglie in grave difficoltà, molte con i figli inseriti presso il Centro Diurno, conosciute da tempi dai Servizi sociali. Ogni gruppo era formato da sei famiglie, alcune 86 monoparentali con uno più figli. Si era previsto fin dall’inizio la possibilità di inserire nuovi nuclei familiari a percorso avviato nel caso in cui qualcuno abbandonasse il laboratorio, sia per garantire un numero minimo di partecipanti, sia per offrire nuovi stimoli e far sperimentare ai “senior” la capacità di accogliere il nuovo, condividendo la loro storia di gruppo con altri. Le famiglie hanno mostrato fatica e resistenza del gruppo ad aprirsi allo sconosciuto, ma ciò ha permesso di rivolgere lo sguardo indietro al percorso, ha reso queste persone consapevoli e orgogliose del lavoro svolto, col risultato che ciascuno ha valorizzato l’esperienza del laboratorio e di riflesso il proprio contributo alla scrittura di una storia collettiva. Il bisogno di conferire una certa ritualità e familiarità agli incontri ha portato a strutturarli in maniera precisa e costante: - L’apertura della serata - La memoria degli incontri: con il tempo ha occupato sempre più tempo divenendo una vera e propria attività che vedeva molto attivo e protagonista il gruppo nel tentativo di costruire una storia condivisa e nel voler mettere a servizio degli altri i propri vissuti. Rievocare l’incontro precedente con queste modalità permette di condividere quello che ciascuno ha trattenuto, crea appartenenza e continuità, costruisce significati collettivi e inoltre consente di aggiornare gli assenti. - La presentazione dell’attività - Lo svolgimento dell’attività formativa - La cena - La conclusione dell’attività e i saluti. Un esempio di attività: “Il principino che distruggeva i cavalli” A metà laboratorio, una delle adolescenti sollecita i genitori a raccontare le loro storie di vita. Nasce una breve discussione, a fine serata sull’opportunità o meno di farlo, quando è necessario o utile e quando no, perché i figli lo chiedono. Prossimo incontro: usando una favola è stato introdotto il tema della trans-genitorialità degli stili educativi (viene scelto il racconto con l’accortezza di non evocare i problemi specifici delle famiglie, per evitare invasività e sollecitazioni emotive troppo forti). “Il principino che distruggeva i cavalli”: è una storia degli adulti che si sostituiscono ai bambini e non li spingono all’autonomia. L’intento è produrre una riflessione su come i genitori imparano schemi e modelli a loro volta dai loro genitori e come questi sono trasmessi attraverso le azioni. La storia è raccontata per tutti, ma ogni gruppo avrà una consegna diversa. Divisi in tre stanze. Per gli adulti: l’obiettivo è riflettere sull’esperienza di essere stati figli (l’idea è di sollecitare la loro parte bambina, di figli). Adolescenti: scrivere su un foglio i passaggi del racconto che ritengono importanti. Bambini: è chiesto loro di esprimere le emozioni e le idee suscitate dal testo 87 azione, anche di attacco, vi fosse una comunicazione da interpretare. È apparso necessario: perché il gruppo diventi luogo di apprendimento, che sia chiaro da subito istituirlo come gruppo di lavoro. La strategia per affrontare anche i momenti più faticosi è comunque quella di mantenere “la mente capace di commuoversi e farsi sorprendere” (Neri, 1995). Le tracce sedimentate… Negli operatori dei servizi e nel territorio Gli operatori dei servizi hanno intravisto la possibilità di costruire contesti nei quali non si porge solo la funzione di aiuto e sostegno, spesso unita al controllo, ma dove la famiglie possono esprimere le loro competenze, guardare, vedere, nominare il proprio modo di fare famiglia senza che questo sia sottoposto a giudizio. Un modo di avvicinare la genitorialità non a partire da ciò che la caratterizza in senso deficitario, ma per come si esprime. La tracce rimane per il momento ancora esterna al lavoro diretto degli operatori, però è entrata nelle loro rappresentazioni la possibilità di offrire l’esperienza del laboratorio. Se il territorio non ha assunto l’onere economico di dare continuità a queste modalità di lavoro accanto a quelle tradizionali, ha però chiesto al privato sociale di reperire le risorse per poter replicare l’esperienza offrendola a nuovi nuclei familiari. Nelle famiglie Il laboratorio non è un luogo terapeutico, ma si avvicina molto alla normalità, sollecita la capacità dei singoli di stare in un contesto sociale con piacere, permette di fare un’esperienza in larga parte positiva, accanto ai propri familiari, mette in luce le competenze e i ruoli di ciascuno. Per il futuro… Lavorare con le famiglie, e in alcuni tratti dei percorsi per loro, ha significato per gli educatori innanzitutto avere due attenzioni: - quando ci si avvicina, prima di avere degli obiettivi dovremmo avere in mente riconoscimento, rispetto e dignità come presupposti della relazione con l’altro, sui quali si può cominciare a prefigurare il lavoro. - il lavoro con le famiglie presenta un grosso ostacolo: l’idea di buona famiglia o di buon genitore e il mito del cattivo genitore sembra creare sempre più genitori disorientati che si chiedono incessantemente se stiano sbagliando o cosa devono fare: lavorare con le famiglie significa sfatare queste monumentali rappresentazioni, nell’uno e nell’altro senso: la capacità di essere un adulto di riferimento per i piccoli non sta nel fare o dire “la cosa giusta” ma nella capacità di sbagliare e poi provare a raddrizzare il tiro. Aprire domande. Sarà necessario pensare dei pensieri che non siano solo la conferma delle nostre aspettative e riposizionare i sentimenti di delusione, rabbia, impotenza, stanchezza dentro una ricerca di significati possibili. Questo è un movimento bilaterale, da fare insieme operatori e 90 famiglie, quando si troveranno sul terreno scivoloso e scomodo della relazione d’aiuto. Non si ritiene importante che i significati che si attribuiscono alle cose siano particolarmente elaborati, colti, complessi e simbolici. Potranno essere anche pratici, immediati, semplici e perfino poveri. L’importante è che esistano, che siano nominati o rappresentati per diventare quel senso comune che si va costruendo insieme, attorno all’oggetto che ci sta a cuore, cioè la crescita e l’educazione dei bambini. Lavorare con le famiglie significa trovare modalità e strumenti innovativi perché possano trovare luoghi pubblici di parola, cioè luoghi condivisi, attraversati da legami vitali, e così uscire dal problema citato all’inizio, cioè la privatizzazione del compito educativo, la solitudine e le distorsioni relazionali amplificate dall’eco delle mura domestiche. CAPITOLO 16: INTERROGARE LE RAPPRESENTAZIONI RECIPROCHE, TRA RICERCHE E FORMAZIONE (VITALE) Esistono molti mondi possibili, ognuno legato a un viaggio. È un viaggio che compie il ricercatore a fare la differenza sul racconto del luogo ignoto, ricco di meraviglia e spiazzamenti, che ha incontrato. La ricerca si presenta differente in base a chi e come la guarda. Come la città di Zemrude narrata da Calvino: “È l’umore di chi guarda che dà alla città la sua forma”. Una cornice per la ricerca La domanda da porci ogni volta che ci incamminiamo verso il viaggio della ricerca è: con quale RES stai entrando in ricerca? O meglio: qual è la tua domanda? Che cosa ti muove? Che cosa cerchi da questo viaggio? E se la tua ricerca implica partecipanti come stai costruendo con loro il senso dell’indagine stessa? La res è la storia condivisa e provvisoria del perché siamo qui o che cosa stiamo facendo insieme? È una narrazione, una direzione di senso, più che un obiettivo. Essa fa la differenza: potrà mostrare una città in tumulto, una strada calma e solitaria nella quale potersi abbandonare e trovare confronto, o chissà cos’altro. Se la relazione operatori-famiglie è un costrutto sul quale interrogarsi, lo è anche il dispositivo educativo inteso come struttura dentro cui si giocano tutte le relazioni. Pensare a ciò che si osserva (che siano servizi, relazioni o individui) come una relazione in continua trasformazione. In un’ottica processuale e dinamica nessuno “è” in un dato modo in termini assoluti di tempo e di contesto. Ogni persona vive dentro un tempo e un luogo, cioè inserita in una storia individuale, familiare, sociale, socio-assistenziale, e ogni storia si sviluppa in un contesto costantemente in trasformazione, come il ciclo della natura o le stagioni. Potremmo fotografare una pianta in inverno e sostenere di averne una percezione completa? Potremmo. Ci perderemmo però la fioritura di quella pianta in primavera. Allo stesso modo, tornando alla nostra “famiglia non collaborativa”, osservando il suo mondo relazionale e storico in movimento, potremmo scoprire che ha partecipato ad altri progetti con passione, o che in altri tipi di contesti appare attiva e collaborativa. Le Zemrude di Calvino, vista in tal ottica, non è una città fatta di 91 numeri, ma di storie. Di relazioni tra individui dentro tempi e contesti. Relazioni che vengono osservate nel cambiamento. La forma della città è viva, dinamica e costituita da molteplici punti di vista in dialogo. È una città che muta nel tempo e si lascia mutare dall’incontro con l’altro; ha il potere di trasformare il ricercatore stesso che si è avventurato sulle nostre terre. Ma per prima cosa bisogna partire da quali sono gli occhi che la vedono? Che ricercatore / educatore sei? In ricerca è chi si abbandona alla scoperta. Come un viaggiatore. Come mi hanno insegnato gli studenti dice Alessia, si è in ricerca di fronte al nuovo (il pensiero di un autore, la necessità di orientarsi) ma anche tutte le volte che ci interroga sul quotidiano (cosa faccio nella mia vita?). La domanda è una condizione necessaria dell’essere in ricerca, ma non basta a fare di noi dei ricercatori. Laura Formenti distingue tra “sguardo ingenuo” e “sguardo scientifico” dell’educatore: il primo ideologicamente centrato, carico di pregiudizi vissuti come verità. È attento ai contenuti e non alla relazione che il ricercatore instaura con le persone. Il ricercatore/educatore ingenuo si dimentica di avere a che fare con relazioni e tratta le persone come fornitori di dati. Il secondo attento a sé e agli altri, continuamente disposto ad interrogarsi sui propri pregiudizi. Per avere questo sguardo bisogna essere consapevoli della co-implicazione di tutti i soggetti (ricercatori e partecipanti) e del viaggio che stanno compiendo. È la res, la direzione di senso condivisa a fare la differenza. Se si costruisce con cura il senso, la ricerca potrà essere valore di esperienza formativa, di spazio di pensabilità. Cercare di “allestire contesti educativi nella forma di laboratori del pensare”. Non è solo la domanda a fare la differenza ma come la si pone e a chi. Potremmo dire che il ricercatore è: - Qualcuno che si prende cura del proprio punto di vista, non lo trascura, se ne interroga. Stessa cosa fa con il punto di vista altrui. - Un buon educatore è dunque anche un buon ricercatore: si mette in ricerca nell’interrogarsi, non ingenuamente ma con consapevolezza e riflessività. - Un educatore è ricercatore quando si rende conto di essere implicato in prima persona nella relazione educativa in corso e, per tale ragione, è attento a mantenere viva nella quotidianità la curiosità dell’esploratore: essere curiosi vuol dire mettersi in viaggio non dando nulla per scontato, ponendosi domande sugli usi e i costumi delle popolazioni che si incontrano lungo il cammino. Curiosi del quotidiano e non solo dell’insolito. La curiosità apre le porte a nuove visioni di ciò che ci sembrava ovvio; a volte apre la bellezza, quando permette al ricercatore/educatore di guardare a quello che c’è e non a quello che manca; quando fa trovare nuove connessioni di senso e ri-anima situazioni relazionali stagnanti. Ciò implica una responsabilità: ognuno di noi, con la sua presenza curiosa, incide notevolmente sui 92
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