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re inventare la famiglia, Sintesi del corso di Pedagogia

riassunto completo libro reinventare la famiglia diviso per capitoli e paragrafi

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 21/03/2020

fratur
fratur 🇮🇹

4.3

(110)

47 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica re inventare la famiglia e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! RE-INTENTARE LA FAMIGLIA Il libro si basa si una forma di “ermeneutica pratica”, un pensiero operativo che nasce dall’azione e ritorna all’azione costruendo il senso, la teoria, a partire dall’apparente caoticità dell’esperienza. Il senso non è insito nell’azione, né nell’esperienza in sé, ma nasce da un percorso dialogico, basato sulla riflessività e sullo scontro di cornici. Su ogni famiglia che incontriamo possono essere raccontate tante storie, che ci servono per scoprire la via delle trasformazioni possibili. La famiglia, come soluzione specifica al bisogno umano di cura, protezione, educazione, ha preso forme diverse accomunate solo dalla loro organizzazione auto-mito-poietica. Nessuno può re-inventare la famiglia a tavolino. Re- inventare vuol dire, dunque, re-inventarci come osservatori delle famiglie, rivedere le prospettive e le prospettive che mettiamo in campo, spostando il focus dalla disciplina al sistema per quello che è, o meglio per come si presenta e come funziona.. La nostra prospettiva è sistemica, non è però da confondere con l’idea di sistema famigliare così scontato ai giorni nostri e divenuto quasi banale. La sistemica obbliga a un altro modo di guardare, di sentire, di concepire le relazioni. Un modo di com-porsi nella relazione con le famiglie, che richiede di essere praticato, diventando uno stile di pensiero se non uno stile di vita. Noi tutti abbiamo esperienza di ciò che significa famiglia, la famiglia è già stata inventata. Ma chi è impegnato sul fronte dell’inventare la famiglia non sa mai come la sta inventando. Siamo immersi in questa continua invenzione, ma non ne siamo consapevoli. Il compito dell’educazione e della formazione è, quindi, quello di costruire riflessività e consapevolezza rispetto ai modi i cui la famiglia, “quella famiglia”, è stata inventata e re- inventata continuamente, non si può pensare di entrare in un contesto e modificarlo completamente. Il professionista dell’educazione è dunque portatore di uno sguardo, ha un’idea di famiglia, ma non ne è consapevole fino a quando non si confronta/scontra con altri e con altre idee. Se il professionista entra nel sistema famigliare armato delle sue idee e dei suoi pregiudizi, poco propenso a modificarli, il sistema di relazioni (la famiglia) non sarà desideroso di muoversi verso la direzione stabilita dal professionista. Non è questione di resistenza, ma di fedeltà a se stesso. Ogni famiglia tende ad essere profondamente coerente con se stessa, magari diventando incoerente con le aspettative della società più ampia oppure con i desideri o i bisogni di uno dei suoi membri. Smontare i pregiudizi e le invenzioni è il primo passo per re- inventare la famiglia. Il secondo passo consiste nell’acquisire competenze e capacità di riconoscere quello che c’è: cultura famigliare, strategie per affrontare le crisi, copioni dei ruoli ..tutto quello che non si vede al primo sguardo. Il terzo passo sarà inventare nuovi pensieri, nuove visioni e nuove possibilità. PRIMA PARTE: lo sguardo dipende dall’azione La percezione non avviene senza movimento. Noi disegniamo il mondo estraendo da esso le distinzioni che cerchiamo, grazie a un apparato percettivo organizzato in un certo modo. Lo stesso schema, azione-percezione, funziona con i processi cognitivi superiori. Lo sguardo dipende dall’azione: se i processi di percezione e di conoscenza dipendono da quello che noi facciamo nel mondo, cioè dalle azioni specifiche che noi esercitiamo sugli oggetti, non sarà la definizione di questi oggetti a farceli conoscere. Il nome non è inerente a una cosa ma appartiene alla società, a una famiglia a una biografia. Ogni definizione che arriveremo a dare sarà legata a delle azioni che noi stessi avremo compiuto oppure ereditate da altri. La definizione di famiglia che io posso dare dice molto più di me che del sistema che sto descrivendo. Lavorare con la famiglia richiede una consapevolezza epistemologica, cioè un atteggiamento interrogante nei confronti dei nostri presupposti. Il modello a cui ci siamo ispirati, quello sistemico, mette l’idea di comunicazione al centro di tutti i processi umani: tutto è messaggio. La metafora dello sguardo è parziale: nella conoscenza della famiglia tutti i sensi sono coinvolti. 1. Farsi l’orecchio: le invisibili partiture della famiglia I teorici dei sistemi hanno concepito la comunicazione umana come un insieme organico di livelli complessi, contesti multipli e circuiti riflessivi. Comunicare è partecipare a un’interazione complessa. Viene usata la metafora musicale per introdurre il concetto di sistema: siamo così abituati a pensarci come solisti, come unica nota, che per incontrare le famiglie dobbiamo abituare l’orecchio, addestrarlo alla ricerca ecologica delle connessioni e delle armonie che caratterizzano ogni sistema familiare. Il sistema indica un aggregato di parti interagenti, ciascuna delle quali può esistere in sé ma è interdipendente dalle altre e dal tutto secondo determinate leggi e regole. La teoria dei sistemi considera gli esseri viventi come sistemi aperti che non possono essere visti come un insieme di parti analizzabili separatamente ma come un complesso di elementi in relazione tra loro. Ciò che interessa sono le relazioni e il contesto in cui tali relazioni avvengono, piuttosto che gli elementi in sé. L’apertura al flusso delle cose garantisce lo scambio di energia, informazioni, materia, quindi il sistema può cambiare ed evolversi verso forme più complesse, ma continua a mantenere comunque la sua identità in quanto è chiuso a livello organizzativo. - Totalità: il sistema è indivisibile, se una parte cambia o si danneggia, tutte le parti sono coinvolte. - Retroazione e circolarità: si ha retroazione (o feedback) quando B, C, o D tornano su A generando circolarità . - Omeostasi: lo stato stazionario di un sistema, che mantiene dei parametri entro dei limiti di variabilità predeterminati. - Equifinalità: nei sistemi chiusi le condizioni iniziali determinano l’equilibrio, in quelli aperti, l’equilibrio è dato dall’equifinalità, cioè dal fatto che il loro funzionamento è legato al processo . L’approccio sistemico si fonda su una ecologia delle idee e quindi sulla curiosità per tutto quello che non appare immediatamente valido o scontato. Si adotta una postura di curiosità, aprendo lo sguardo sulla famiglia per cercare di afferrare le verità che si nascondono dentro le storie. Un racconto infatti è espressione di un sistema complesso di idee e immagini che trascende l’individuo. La visione di sé che ciascuno ha è la storia appresa dalle conversazioni in famiglia, a scuola, in questo paese e non un altro. Ogni storia è una composizione a più mani. La mia famiglia è una rock band “Farsi l’orecchio” per l’educatore sicuramente significa imparare tecniche di osservazione e comunicazione, concetti e teorie, ma soprattutto significa assumere una postura, cioè apprendere a interfacciarsi con le situazioni nelle quali si trova immerso come se fosse lui stesso uno strumento. La metafora con la quale possiamo spiegare la famiglia è quella di una band. La metafora ci consente di comprendere e vivere qualcosa di nuovo o di complesso nei termini di qualcosa che ci è più familiare. L’uso delle metafore non è comunque privo di rischi: se la nascita di una nuova metafora (metafora viva) ha inizialmente la funzione di orientare lo sviluppo di un campo di studio o di un pensiero in nuove direzioni, in seguito l’immagine si fissa, diventa una teoria e risulta tanto convincente da apparire vera. Il processo generativo muore e assistiamo alla trasformazione della metafora in un luogo comune, qualcosa di già sentito, diventando un clichè. Bisogna quindi saper andare oltre la metafora, non solo diventando consapevoli di quelle che ci guidano, ma moltiplicando le immagini che usiamo, cercandone di nuove. C’è una connessione tra il modo in cui la famiglia è composta (le sue relazioni) e ciò che crea: paradigmi, modelli educativi, storie, benessere o malessere. Per comprendere una specifica famiglia è necessaria ascoltarla attentamente, provare a suonarci insieme. Una caratteristica delle famiglie è la consuetudine, la ripetitività e la ridondanza dei modelli di comunicazione. Ognuno prova a dare il suo contributo che, unito alla voce degli altri, darà vita al sound unico e specifico di quella famiglia. Gli strumenti sono specifici e diversi, ma non è la loro somma a dare il tutto, ma è il modo peculiare in cui si amalgamano e armonizzano. Un educatore che inizia a suonare con una famiglia, può essere fuori tempo, se se ne accorge può provare comunque a suonare e cercare soluzioni creative. Questo avviene quando i musicisti sono preparati, flessibili e motivati. Ma se non se ne accorge avrà luogo una cacofonia familiare, cioè il proliferare di azioni scomposte e scoordinate tra i membri del sistema e tra gli operatori, che spesso provoca una escalation schismogenetica di conflittualità e problematicità. Imparare a lavorare in modo sistemico significa, prima di tutto, imparare ad “apprendere i contesti” cioè mettersi in interazione e relazione con i sistemi comunicativi, usando la comunicazione stessa come veicolo. Dal punto di vista sistemico, l’educatore non è un direttore d’orchestra, né un manager, né un ascoltatore della famiglia anche se occasionalmente si trova a gestire questi copioni (= la cui definizione all’interno dell’ambito familiare trova le sue radici nella riflessione di Byng-Hall che chiama script familiare le aspettative condivise all’interno della famiglia su come i ruoli debbano essere rispettati all’interno di contesti diversi. Al contrario del copione teatrale, questo, all’interno del contesto familiare, prescrive l’azione dei componenti in determinate situazioni del passato, presente o futuro in base a un sistema di rappresentazioni condivise ; indica cosa fare in determinati momenti, ma non sempre dice chi reciterà le parti, anche se a volte il copione finisce per creare dei personaggi veri e propri sia perché gli attori si attribuiscono quel personaggio o perché gli viene attribuito da altri. Il copione è una forma di conoscenza schematica. Rituali e riti appartengono alla più ampia categoria dei copioni, in quanto costituiscono rappresentazioni condivise delle azioni e interazioni strutturanti l’identità e l’appartenenza dei membri della famiglia in particolari occasioni). La famiglia è un’opera collettiva, incompiuta e sempre in costruzione. 2. Formare lo sguardo attraverso le pratiche Di quale famiglia parliamo? Le forma familiari sono sempre più variegate: coppie senza figli, famiglie mono-genitoriali, le coppie non coniugate, le unioni omossessuali… vi è poi la questione cruciale della cosiddetta “naturalità” della famiglia centrata sull’unione tra uno e donna. In crisi non è dunque la famiglia in sé, ma la sua visione monolitica. Bisogna cercare di imparare a raccogliere una storia di relazioni familiari, così che questa, una volta narrata, modificherà la percezione dei fatti per aiutare a capirne la complessità, prevede una postura educativa che si calibra in itinere. Le storie non fanno altro che connettere le vicende, rendendo esplicita una dimensione interattiva naturalmente sistemica. Una storia, però, non vale l’altra: il modo in cui è raccontata provoca conseguenze concrete. Moltiplicare e comporre gli sguardi Il fatto che non possiamo non provenire da una famiglia e che, quindi, siamo portatori di una naturale sapienza, costituisce il principale ostacolo con cui fare i conti per realizzare un apprendimento trasformativo. I pregiudizi più comuni riflettono una concezione familistica che assume toni polarizzati. I legami familiare appaiono di volta in volta salvifici-generatori di malessere, assolutamente positivi- congelati in un’aura mitica e irreale. Per chi si prende cura delle famiglie, non è sbagliato avere dei pregiudizi, quanto pretendere di non averne, cercare di reprimerli o di ignorarli . Bisogna invece cercare di riconoscerli e discuterne, anche con gli utenti, chiedersi in che modo le azioni dell’operatore sono il frutto dei suoi pregiudizi. Partire dalle pratiche Partire dalle pratiche è una cornice per l’azione che invita a fare attenzione al contesto, alla peculiarità di ogni singola situazione e ai presupposti di ogni impresa formativa. La vita costituisce la principale materia da cui imparare. I passaggi cruciali di questa didattica sono: • Domandare per accogliere e ricercare: l’arte di porre domande aiuta a problematizzare sollevando questioni su temi che appaiono scontati. Porre domande apre possibilità a ricercare insieme risposte soddisfacenti, invita alla molteplicità delle versioni, valorizza le differenze, suscita curiosità. Una buona domanda è quella che rende visibili i presupposti, li ridiscute e solleva questioni su aspetti assodati, problematizzandoli. È un’esperienza generativa: le domande sono potenti strumenti per indagare, descrivere e raccontare la realtà. Significarla e trasformala attraverso il linguaggio. Le domande possono far nascere storie, innescare cambiamenti, oppure chiudere le possibilità e le conversazioni confermando storia già scritte. Perseguire l’ottica sistemica nella formulazione delle domande significa imparare l’arte della ristrutturazione e della connotazione positiva: da una parte per non chiudere troppo lo sguardo dentro interpretazioni pregiudiziali, dall’altra per evitare la retorica della generalizzazione e del moralismo, che condanna e colpevolizza a priori le famiglie. Ciò che fa la differenza sono i modi in cui noi poniamo la domanda, gli aspetti prossemici, non verbali e preverbali. Le domande che appaiono più generative sono quelle che: esplorano presupposti, evidenziano intenzioni complesse, focalizzano particolari culture domestiche. Sono domande che personalizzano, contestualizzano, invitano alla narrazione e al ricordo dettagliando e circoscrivendo. Domande che spostano lo sguardo. La ristrutturazione è un classico intervento della terapia familiare. Quando si produce squilibrio o disagio in un sistema comunicativo, il problema si dissolve nel momento in cui le persone si accordano per cambiare le loro cornici. La ristrutturazione è l’adozione di un nuovo punto di vista, un cambiamento di cornice. Occorre tenere conto dei diversi punti di vista, delle premesse linguistiche e culturali per uscirne ma senza sfidarle. La connotazione positiva consiste invece in una meta-comunicazione che conferma e giustifica tutti i comportamenti dei membri della famiglia rispetto al problema portato. • Sperimentare concetti (le teorie vanno rispettate non riverite): connettere, mettere in comunicazione, collegare sono azioni estetiche che esprimono la necessità di comporre in un universo ordinato e di senso le informazioni che noi acquisiamo. La ricerca si scontra con il paradosso di dover operare delle distinzioni per poi unirle. Nell’acquisire il linguaggio prendiamo l’abitudine di far coincidere le parole con la realtà che descrivono. Dando nomi alle cose sottraiamo al tempo, alla relazione, al movimento, ciò che perennemente cambia. Aprire le parole per liberarle verso nuove sonorità e costellazioni di significati consente di formulare nuove storie. • Pensare ad alta voce: il lavoro educativo non si effettua in solitudine, ma in gruppi di lavoro costruiti attorno a un progetto. Alla complessità del lavoro educativo con la famiglia in quanto sistema deve corrispondere una complessità di idee e progettualità. Pensare insieme è faticoso, ma costituisce per gli educatori un’insostituibile opportunità di ambientamento alla complessità di cui si occuperanno. L’attenzione e la cura che i membri di un’organizzazione investono nei propri rapporti interni corrisponde alla qualità dei servizi erogati. Allenarsi a pensare insieme significa incontrare oltre il proprio, il pensiero dell’altro. Pensare ad alta voce significa accorgersi del proprio pensiero. Si favorisce la scoperta di se stessi, dei propri pregiudizi e stereotipi. La proposta è quella di condividere in gruppo quanto prodotto individualmente, per aprirsi allo stupore dell’alterità collettiva come patrimonio cui attingere. • Trasformare l’esperienza in sapere: la riflessione è il processo in cui si valutano criticamente il contenuto, il processo o le premesse dei nostri sforzi finalizzati a interpretare un’esperienza e darle significato. L’attenzione sistemica è piuttosto orientata alle pratiche che l’osservatore ha per attribuire significato all’esperienza tramite il linguaggio, costruendo mappe composte da premesse, culture, valori. È grazie a queste che arriviamo a definire e classificare. L’esperienza biografica dovrebbe potersi trasformare in sapere comunicabile e riconoscibile. Vedere ogni famiglia come portatrice di risorse non significa condividerne ingenuamente ogni scelta, ma adottare un pregiudizio di fiducia nelle possibilità generative. Un risvolto di questa pratica è la possibilità di guardare con occhi diversi la propria famiglia. 3. Alla ricerca delle tracce. I sensi della genitorialità tra frammenti autobiografici e teorie evolutive Tracce: un impegno di ricerca La memoria autobiografica, cioè il recupero più o meno improvviso di ricordi, il riemergere ad un livello consapevole di frammenti di storia vissuta contribuiscono a far comprendere e comprender- ci, non necessariamente ed esclusivamente nella dimensione cognitiva. Nella memoria autobiografica ci sono le testimonianze visibili e palpabili di ciò che abbiamo raccolto e conservato. La spinta al cambiamento e alla ricerca avviene tutte le volte che non troviamo “una spiegazione soddisfacente dal punto di vista cognitivo, morale, estetico e pratico. È lì che costruiamo le teorie. Ogni teoria è un frammento di qualche autobiografia. Ciascuna teoria è tale solo se ha senso per me, se ha una collocazione nella mia storia, un legame con le mie azioni. La famiglia non costruisce teorie nel vuoto, ma sempre collegate al sistema dei saperi accreditati. Se vogliamo individuare tracce di famiglia il primo movimento risiede nel volgere uno sguardo, curioso e non interpretativo, alle teorie così come i singoli le costruiscono, alle relazioni tra saperi familiari e saperi accreditati. Uno dei peggiori mali del nostro tempo è la banalità, per questo è bene imparare a riconoscere l’originalità e la complessità delle relazioni elaborate dalla famiglia. Siamo quotidianamente chiamati a rielaborare i nostri saperi, a connetterli e coordinarli, utilizzando strategie volte alla ricerca di una presa di posizione che meglio permetta di controllare i mutamenti in atto che stanno coinvolgendo i sistemi in cui siamo coinvolti. Ogni membro della famiglia costruisce teorie locali. Qui c’è odore di famiglia Se il primo passo del cercatore di tracce è verso il riconoscimento della teoria, in quanto teoria locale, il movimento immediatamente successivo va verso l’esplorazione dei nessi che intercorrono tra il sapere e l’esperienza, tra il pensiero e l’azione nelle relazioni educative in e con la famiglia. La cultura occidentale si basa su dualismi. Una visione radicata è quella che oppone la teoria e la pratica, il pensiero e l’azione, la mente e il corpo, dove solo al primo polo del binomio è attribuito un valore di presunta scientificità e la pratica diventa mera applicazione della teoria, e il corpo un semplice contenitore della mente. L’approccio autobiografico può fornirci tracce quando restiamo nell’intrinseca complessità delle storie. I frammenti autobiografici ci parlano di percezioni, di emozioni, di sensi e sensazioni, di gesti, corpo, mente e pensieri. Ecce homo: pater et mater La genitorialità è prettamente umana, è strettamente intrecciata con la nostra umanità. La genitorialità è universale, è un tratto specie-specifico dell’uomo, al pari del pensiero simbolico e del linguaggio verbale. Quando pensiamo alla genitorialità ci viene in mente l’immagine di un uomo e una donna adulti con due bambini. È quando vogliamo cercare di spiegare la genitorialità che ci rendiamo conto della molteplicità che questo concetto implica. Riconosciuta l’universalità della genitorialità, le sue tracce vanno ricercate nel tempo. Storicizzare e contestualizzare: operazioni cruciali L’antropologia ha molto da insegnare agli educatori che lavorano nella famiglia. La genitorialità è bio-culturale: ha le sue radici nella natura, nasce dal fatto biologico della riproduzione, ma si sviluppa nella dimensione culturale e sociale. La nostra condizione di essere umani è una condizione plurale e in tutto il pianeta ci sono una pluralità di regole sociali, espressioni simboliche e rituali che riguardano il rapporto di filiazione, di coppia e il fare famiglia. Per riconoscere le tracce di famiglia è necessario restare in una complessità e interconnessioni di piani che ci porta ad accogliere la dimensione locale nell’universale. Abbiamo bisogno di non perdere di vista l’insieme di circostante ambientali, simboliche e relazionali all’interno delle quali la traccia è nata e si è sviluppata. Uno sguardo storico e contestuale può fornirci tracce che raccontano altre storie. Il genitore, la famiglia che oggi ho davanti è anche l’esito, provvisorio e in divenire, di un modo di intendere la genitorialità costruito in un processo storico e in uno specifico contesto di cui sono parte sia la famiglia sia l’educatore-cercatore di tracce. Nel processo di re-inventare la famiglia, storicizzare e contestualizzare diventano due operazioni cruciali quando permettono di moltiplicare gli sguardi. Il contesto non è dato a priori, non è un contenitore nel quale avvengono eventi; si sviluppa insieme al testo, al discorso, alla comunicazione tra persone. Oltre l’istantanea fotografia L’occhio dell’educatore è sempre mediato dalle proprie teorie, pregiudizi, storie familiari; è sempre situato in un orizzonte culturale, in un momento storico e in un contesto sociale; è sempre costruito nel linguaggio e nella comunità dell’osservatore. Questa famiglia è adeguata e quella è inadeguata. L’uso del verbo essere restituisce un solo fotogramma della famiglia, estraendolo dallo sfondo in cui è nato e si è sviluppato; l’uso del tempo presente non riesce a restituire il legame con il passato e i progetti futuri, costringendo quella famiglia dentro un eterno presente. Per riconoscere le tracce della famiglia non è sufficiente una macchina fotografica, ma è necessario affinare tutti i nostri sensi, gusto compreso. Artisti, ingegneri e bricoleur Una volta individuate le tracce abbiamo due possibilità: vestire i panni dell’ingegnere, e iniziare a misurare e quantificare; oppure vestire l’abito dell’artista, e dipingere, cantare e danzare. Arte e mestiere: quanto la prima richiama creatività, quanto il secondo ci porta alla razionalità. Il figlio ne sarà il prodotto o l’opera. L’adesione a una dei due modelli pone comunque un problema: il primo premia l’asimmetria relazionale e la dipendenza; nel secondo è la responsabilità personale che viene meno. Entrambi i modelli pongono la genitorialità al di fuori della relazione, del contesto, della storia e delle storie. Ritengo possa esserci una terza via: un modello ecologico-evolutivo: in cui si opera per interdipendenza tra universale e locale, per cooperazione e conflittualità, muovendosi verso una descrizione doppia o verso la costruzione di mondi possibili. Un processo evolutivo provvisorio e parziale, fatto di sovrapposizioni culturali che ho chiamato bricolage evolutivo. Il bricoleur usa arte e mestiere, coordinando quotidianamente l’improvvisazione creativa con la progettazione del futuro, attingendo sia alla capacità riflessiva e teorica, sia alla necessità di fare e agire. Il genitore sarà chiamato a risolvere questioni nuove ogni giorno, a misurarsi con la non linearità, il cambiamento repentino, la stasi. È la capacità di misurarsi con l’imprevisto il suo banco di prova, pertando la dimensione della flessibilità diventa una grande risorsa. 4. Interazioni: osservare la famiglia in azione L’interazione umana non si ferma a livello puramente verbale, anzi grandissima parte della comunicazione ha luogo attraverso segnali, mimiche, gesticolazioni, posture e altre più esclusive modalità di comportamento. L’osservazione è uno strumento selettivo che si differenzia dal semplice guardare o vedere in quanto lo sguardo dell’osservatore è intenzionalmente guidato dalle premesse, pregiudizi e ipotesi che sono la guida nell’ottenere informazioni desiderate. Non si può osservare tutto. L’osservazione è sempre e comunque un processo di selezione e di scelta metodologica intenzionale, soggettiva e coordinata con una comunità di osservatori. L’oggetto osservato non può essere considerato indipendente da chi osserva, perché l’atto di osservare modifica o altera in modo incontrollabile il comportamento dell’osservato. Per questo è necessario essere consapevoli dei propri pregiudizi e della propria idea di famiglia. Come mi vedi? di azione. La capacità di auto-osservazione apre alla possibilità di mettersi in relazione: modificare la postura significa invitare l’altro a farlo. Sentire e/è osservare Osservare è la stessa cosa che sentire, ma con sentire la questione è più complessa. Posso sentire con le orecchie e con il corpo e anche in questo caso ci vuole addestramento. Un operatore del sociale dovrebbe essere in grado di declinare tutti i canali percettivi. Grazie all’addestramento sull’osservazione è possibile riconoscere le modalità con cui entriamo in relazione, adattandosi al canale percettivo dell’altro per poter accedere al suo mondo e sostenerne le trasformazioni. 6. Posizionamenti estetici e ricerca della bellezza Il riconoscimento reciproco, la possibilità di essere visti e “ben raccontati” dai propri familiari è un bisogno che in qualche modo e con regole semantiche specifiche di ogni microcultura familiare accompagna la vita di ciascuno. Lavorare con le famiglie allora significa portare l’attenzione sugli aspetti di narrazioni e sul tipo di storie che reciprocamente i vari membri si raccontano per definire se stessi e gli altri. Spostare l’attenzione dalle dinamiche interattive a quelle narrative significa prima di tutto accettare che l’idea che le storie e narrazioni rappresentano uno strumento di (auto)formazione e (auto)coscienza molto potente. Significa riconoscere nelle storie il potere di creare connessioni e strutture, organizzando l’esperienza umana secondo un inizio, un proseguimento e una fine. Le narrazioni si costituiscono come una forma particolare di conoscenza che agisce sulla formazione dell’identità personale e che usiamo per dare forma e significato, vincoli e possibilità alla nostro fluida esistenza. Sono i racconti generati nelle e dalle pratiche comunicative a definire le appartenenze, i significati, i confini del sistema familiare, l’identità di ciascuno e l’identità della famiglia. Storie saturate da una prospettiva unica Il rischio educativo che si profila è che la famiglia venga rappresentata attraverso narrazioni fisse, dove ogni apprendimento sembra da escludersi. “la mia famiglia è così, la tengo così punto e basta”. Si potrebbe anche dire che le storie narrate, così irrigidite e automatiche rischiano di non onorare più la complessità delle relazioni e dei soggetti che vi partecipano, rischiano di diventare storia a cui non ci si pensa più, facendo così venir meno un aspetto fondamentale della cura del sé. Un’azione di cura della vita e della mente è “il raccontare ciò che accade” la costruzione del proprio spazio simbolico richiede che la mente si impegni a narrare sempre di nuovo ciò che avviene e ciò che le accade di pensare. C’è un nesso profondo tra pensiero riflessivo e narrazione, cura delle relazioni e cura di sé. Una delle funzioni della memoria familiare è la riflessione formativa: la riflessività diventa autoformazione quando interrompe la riproduzione automatica del passato, genera distanza dalle storie tramandate e innesca cambiamenti. Nelle storie fisse, statiche, il problema diventa la lente attraverso cui interpretare e leggere ogni esperienza: tutto è ricondotto agli aspetti negativi della famiglia e dei suoi componenti. un sistema può essere definito patologico quando ha perso la capacità di ricevere informazioni e dunque di generare differenza. Si parla di “storie bloccate”, che escludono qualsiasi significato espresso da quello raccontato. Quando un bambino impara a raccontare una storia coerente con quello che ha fatto impara a pensarsi. Infatti contemporaneamente alla storia costruisce gli schemi, delle strutture nelle quali la inserisce. Il suo racconto di sé non potrà prescindere dalla qualità delle storie che avrà imparato a raccontare. Cosa e come racconta l’educatore? Cosa e come guarda? È bene interrogarsi sullo stile narrativo e sulla semantica che gli operatori usano per raccontare e descrivere la famiglia per due ragioni: la prima per il benessere degli operatori stessi. Anche gli educatori, come le famiglie, chiedono aiuto ad altri (supervisione) quando le proprie storie, e quindi le proprie idee, non appaiono generative di qualcosa di utile, non aprono possibilità. Quando gli operatori sono intrappolati da interpretazioni e orientamenti chiusi alla negoziazione, in genere espressi in termini impersonali avvertono sempre una notevole fatica. La seconda ragione riguarda il livello interattivo tra la famiglia e gli operatori. La questione non è solo capire come la famiglia si racconta, ma chiedersi come gli operatori interagiscano con i suoi componenti, come li vedono, che cosa vedono e che cosa cercano. In breve, come contribuiscono con la loro presenza e le loro azioni comunicative alla co-costruzione di certe narrazioni e non altre. Dalla patologia alla speranza Nel lavoro di cura possiamo individuare due grandi orientamenti: quello patogenico e quello salutogenico. La prima stabilisce una relazione causa-effetto tra fattore scatenante ed effetti provocati, tra agente patogeno e sintomo. L’aspetto centrale è posto sulle debolezze. L’orientamento alla salutogenesi, invece, senza negare i problemi, pone i propri fondamenti sui punti di forza e sulle risorse di famiglie e persone come base su cui costruire la propria normalità, collocare anche i processi di risoluzione e/o ripresa a seguito dell’identificazione di una condizione sfavorevole. L’orientamento alla cura che propongo è fortemente orientato verso la salutogenesi. La cura educativa orientata alla ricerca della bellezza Il lavoro di cura educativa consiste nell’introdurre variazioni, proporre sguardi differenti da quelli che i protagonisti posseggono già nei confronti delle proprie relazioni familiari e quindi di se stessi e delle propria storia, lavorando nella condizioni che esistono sempre tracce di bellezza e che queste possono essere viste dagli stessi componenti della famiglia. Si devono riconoscere queste tracce, accoglierle, valorizzarle e farle risplendere. Un posizionamento estetico nel lavoro di cura Non si tratta solo di recuperare la normalità del soggetto o della famiglia; non si tratta solo di cercare leggerezza e apertura ad altre prospettive. La proposta è più specifica e attiva: si tratta di andare insieme a cercare, con uno sguardo curioso ed esplorativo, tracce di competenza e abilità, ma soprattutto di poesia e la bellezza, di immaginazione e desiderio, per rintracciare e vivificare la narrazione familiare e trasformarla in un romanzo. Assumere un posizionamento estetico significa guardare e ascoltare con curiosità l’altro, raccontarsi e rivelarsi per apprezzare insieme la sapienza delle storie e trovare così nuove prospettive con cui ripercorrere l’esperienza e la relazione. Un posizionamento estetico è come un pensiero che riunisce mente e corpo. Cornici e mondi possibili Ogni essere umano è immerso in cornici, cioè sistemi di premesse implicite, schemi abituali di interpretazione del mondo dentro cui si sviluppa il punto di vista delle cose. Per vedere il proprio punto di vista è necessario cambiarlo, uscire dalla cornice di lettura abituale. Il pensiero sistemico ci ha insegnato a rispettare la complessità e dunque a ragionare in termini di pluri-universo, di una molteplicità di mondi culturali. Le parole non bastano Le parole però hanno dei limiti, per questo nel lavoro educativo bisogna cercare di utilizzare linguaggi e grammatiche capaci di dar voce ad aspetti della vita umana che non sono totalmente verbalizzabili: il racconto, la metafora, la poesia, il disegno, il suono, per cercare di riunificare la mente e il corpo. La proposta è quella di utilizzare il lavoro con le immagini e l’immaginazione come uno dei modi possibili per suscitare la ricerca della bellezza, per aver cura dell’altro e per attivar cura tra le relazioni. Ma non sono né il disegno né l’immaginazione di per sé a generare trasformazione, se non inseriti dentro un contesto di cura relazionale attento e vigoroso. 7. Tra micro e macrostoria: lo sguardo biografico per comprendere la vita famigliare L’approccio biografico e autobiografico, specialmente se plurigenerazionale, è la via per comprendere l’unicità della cultura di ogni famiglia; allo stesso tempo ci permette di vedere le connessioni tra singolo sistema familiare e il contesto più ampio. Le narrazioni famigliari ci aiutano a comprendere come cambia la vita quotidiana e come cambiano le relazioni, non solo per fattori interni a quella famiglia, ma per l’influenza delle determinanti sociali, delle appartenenze di classe, territoriali e di genere. Costruzioni biografiche Per comprendere l’impatto della dimensione biografica sulla vita famigliare ci è necessaria l’immaginazione auto/biografica, cioè la capacità di comporre sguardi multipli, andando oltre le nostre cornici disciplinari e professionali. Attraverso le storie emergono i paradigmi familiari, cioè il complesso di presupposti, immagini reali e ideali, rappresentazioni e concetti che costruiscono un modello cognitivo, emotivo, valoriale ed etico con cui la famiglia sceglie di dare forma alle sue azioni. Il paradigma familiare è una variabile sistemica in quanto esprime caratteristiche che appartengono alla famiglia nel suo insieme. Per dare significato alla vita familiare abbiamo bisogno di costruire ricordi condivisi. Le storie che raccogliamo ci aiutano a capire e ricordare che lo scenario cambia continuamente e le soluzioni creative che ogni famiglia mette in atto, a ogni nuova generazione, sono una combinazione di adattamenti e exattamenti che permette di stare al passo con i tempi pur mantenendo un’identità, una coerenza. È solo attraverso le storie che possiamo comprendere il significato di un divorzio, una maternità assistita, la scelta omogenitoriale. Mettere l’accento sulla cultura significa affrontare il tema dell’educazione come processo che avviene continuamente nella famiglia, per lo più inconsapevolmente attraverso l’immersione quotidiana nei modelli comunicativi, negli stili di vita, nella materialità dei rituali, dei gesti e dei discorsi. Disordine e incertezza: quale idea di apprendimento per la famiglia? L’educazione può fare la differenza, rispetto all’impatto automatico e omologante di certi fattori. La biograficità è l’esito di un percorso auto-educativo del soggetto che si osserva, si racconta, si riflette, prende le distanze e sceglie il proprio cammino. Oggi siamo continuamenti circondati di informazioni e di possibilità di apprendere, ma tutto questo non sembra rendere le famiglie di oggi più funzionali o più felici di quelle dei nostri nonni. L’educazione non può permettersi oggi di ridurre la complessità delle storie a uno o pochi fattori presi separatamente, né di connotare il disordine e l’incertezza come solamente negativi: la complessità è una caratteristica costitutiva del vivere che può esser riconosciuta grazie alla composizione degli sguardi multipli. L’invenzione del privato La caratteristica della cultura familiare contemporanea è la vita privata, un’invenzione recente fatta di rituali domestici, compiti ripetuti, spazi connotati. Doppi legami istituzionali il presupposto di molti discorsi è che la madre abbia un enorme potere nel determinare il destino del suo bambino, di conseguenza non è assurdo che si senta parlare di ansai, vulnerabilità, dipendenza dal parere altrui. Le famiglie più vulnerabili, povere, appartenenti a minoranze hanno più probabilità di diventare clienti dei servizi. In quanto educatori dovremmo insistere di più su apprendimento ed evoluzioni come chiavi per comprendere le famiglie e le opportunità di intervento. Quando gli operatori non riescono a gestire i loro pregiudizi, finiscono per imporre un livello di vita che a loro appare come il più sano, generalmente il modello dominante, che è quello più lontano dal celebrare l’unità familiare. Come si impara in famiglia? In famiglia si impara vivendo, il copione non è fisso, cambia continuamente. La famiglia educa per definizione, proprio perché è un sistema di ridondanze, di relazioni circolari e di comportamenti interdipendenti. è caratterizzata sia dalla permanenza sia dal cambiamento. I processi narrativi sono educativi, ma non intenzionali. Verso la biograficità Far parte di una famiglia significa sviluppare in sistema coordinato di storie e dunque condividere una buona parte della stessa epistemologia, dello stesso paradigma. La vita di una famiglia non si può capire dalla sommatoria delle storie dei suoi membri presi separatamente, ma dobbiamo capire come le storie si interconnettono e come sono collettivamente generate e trasformate. Come educatori abbiamo il dovere di creare contesti relazionali nei quali sia possibile narrare storie più ricche; se siamo consapevoli che noi con le nostre domande e i nostri feedback esercitiamo vincoli su quello che può o non può essere raccontato e come la nostra attenzione per gli atti comunicativi a cui partecipiamo diventa più acuta. L’approccio sistemico cerca di generare versioni diverse della stessa storia, differenze che fanno la differenza moltiplicando sguardi e linguaggi. La pedagogia della famiglia può così celebrare la complessità e la dinamicità invece di ridurre la vita famigliare a una sola versione. Tra il micro e il macro, la famiglia Nelle storie di vita l’individuo è tutto intero così come la famiglia. Se manteniamo lo sguardo attento e aperto a cosa accade, se riconosciamo nella complessità della storia la co-esistenza di più livelli e irriducibili di comunicazione e di Interrogarsi sul mandato e disporsi ad interpretarlo e ridefinirlo rende l’operatore protagonista del proprio lavoro. Non è necessario subire passivamente il mandato. Porre domande sul proprio mandato è un dono che l’educatore fa al proprio servizio, perché lo aiuta a definire meglio finalità e obiettivi chiedendosi se sono coerenti con le aspettative della famiglia. Non dare per scontato il mandato, sospendere l’azione quando non si è convinti, chiedere incontri per concordare le finalità, avviare conversazioni riflessive, sono competenze che danno autorevolezza al lavoro dell’educatore. Solo l’educatore che personalizza il proprio intervento, che si mette in gioco, analizzando le proprie posture e pregiudizi, disposto ad imparare e trasformarsi nel lavoro di cura, risulterà credibile nel momento in cui prova a ridefinire il proprio mandato. In alcuni servizi però la rigidità del mandato è tale che questo tipo di operatore non riesce ad adattarvisi. La convocazione di tutto il sistema Nell’approccio sistemico è l’invito a tutta la famiglia a presentarsi al servizio. Un messaggio potentissimo che scatena ipotesi, aspettative, rifiuti, trasformazioni. I significati della convocazione familiare sono aperti: ognuno porta il suo e nell’interazione si prova a costruire una nuova storia condivisa; il messaggio esplicito è “c’è qualcosa che non va”. La convocazione contiene in sé i presupposti dello stigma, c’è da aspettarsi che molte famiglie siano a priori divise in vittime e persecutori, persone da proteggere, soggetti di cui prendersi cura o da istituire. Un altro aspetto della convocazione riguarda i confini: attraverso la convocazione si definisce chi fa parte di quel sistema familiare, chi sono i soggetti coinvolti. Convocare significa mettere insieme tutte le voci prendendosi cura di tutto il sistema generando nuove sonorità. A volte per riuscirci si inizia dal singolo, ma l’operatore sistemico tiene conto anche del contesto. Costruzione del setting È utile istituire un setting policentrico e flessibile. La flessibilità non significa confusione, caos, relativismo metodologico. I contesti per diventare matrici di significato hanno bisogno di marche ben definite: messaggi verbali e non verbali che indicano “che cosa ci facciamo qui”. Costruire un setting operativo, far capire che in quel luogo ci si prende cura dei legami, far sentire alle persone che ci si può fidare, sono messaggi difficile da far capire. Alcuni educatori pensano che basta esplicitare questi messaggi; altri che scambiano la costruzione del setting per la sua dimensione pratica: procedure, spazi e tempi d’intervento, compiti e mansioni. Alcune regole del setting sono stabilite prima dell’intervento però c’è sempre la possibilità di riflettere, verificare la funzionalità, le scelte operative e ridefinirle insieme agli utenti. L’operatore all’interno di questo spazio, propone azioni specifiche non quotidiane per la famiglia: conversazioni, giochi, uscite, disegni, scritture di un diario. Pensare al setting e prendersene cura vuol dire chiedersi continuamente, riflessivamente, quali messaggi si vogliono dare e ricevere, nell’intento di sostenere e accompagnare le trasformazioni delle relazioni familiari, prendersi cura dei legami, di instillare senso di competenza, speranza e bellezza nelle situazioni problematiche. Il processo: contratto, intervento, valutazione, chiusura La prima operazione da fare è mettere in discussione l’ordine logico del titolo. Il contratto si fa all’inizio. Nel contratto sono definiti gli obiettivi, ma l’intervento educativo non può solo avere gli esiti attesi, il bricolage evolutivo proprio dei sistemi viventi, farà scoprire in itinere altri aspetti, non conoscibili all’inizio. L’intervento ha una durata, è bene definire i tempi di inizio e chiusura, anche per dare un chiaro segnale che la vita della famiglia va oltre il tempo dell’intervento. L’approccio sistemico è tendenzialmente breve, mira alla perturbazione non alla presa in carico. Attribuisce al sistema una capacità di autocura che va rivitalizzata. Inoltre, i criteri di valutazione dovrebbero essere fissati insieme alla famiglie, tenendo conto dei bisogni, dei desideri e dei punti di vista di ogni membro. Questo consente di avviare proficue conversazioni sul futuro. Il processo così viene ad essere costantemente monitorato attraverso strumenti di (auto)osservazione gestiti dalla famiglia insieme agli operatori. Molte volte i contratti non lasciano margini di negoziazione, ma ciò invece potrebbe generare trasformazioni. La circolarità tradotta in comunicazione Il concreto del lavoro educativo avviene in un flusso comunicativo incessante al quale le persone partecipano. Non si esce mai dal significato, dal linguaggio. L’operatore sistemico partecipa alla comunicazione in modo attivo, tiene conto del processo comunicativo in atto e prova a perturbarlo alla ricerca di nuove possibilità. Usa se stesso come messaggio, usa la sua posizione per introdurre differenze che diventano informazioni. È responsivo, cioè adotta una postura di grande attenzione per i feedback, quelli da dare e quelli da ricevere. L’equipe sistemica, adottando la postura dell’ipotizzazione, riconosce il valore parziale e temporaneo delle proprie idee sulla famiglia, che saranno coltivate e arricchite continuamente, per garantire una visione circolare e utile al cambiamento. Quando un’equipe diventa una mente sistemica riesce a sintonizzarsi sulla complessità della famiglia, a rispecchiarne la circolarità. Nel lavoro con le famiglie spesso le azioni agite diventano la base per introdurre un nuovo modo anche di parlare. Compito dell’educatore è allestire un contesto operativo come nuova matrice di significati, uno sfondo nel quale la circolarità delle comunicazioni sia presente e possa trasformarsi. Ipotizzazione, circolarità e neutralità sono le linee guida che portano da una concezione della conversazione come raccolta di informazioni sulla famiglia all’idea, più sistemica, di una conversazione a più voci nella quale si generano informazioni attraverso il gioco delle differenze. Le domande vengono poste per ri-orientare la famiglia verso nuove direzioni. Un articolo descrive l’ipotizzazione come la capacità dell’equipe di formulare un’ipotesi sistemica fondata sulle informazioni in suo possesso, e funzionale a garantire l’attività dei conduttori nel ricostruire i giochi relazionali della famiglia. Strettamente collegata all’ipotizzazione, è la circolarità, cioè una conduzione basata sulle retroazioni della famiglia, sollecitate da domande che venivano poste in termini di rapporti, cioè differenze e mutamenti, la neutralità invece consiste nel riconoscere, da parte dei terapeuti, che le soluzioni adottate dalla famiglia erano sensate e allo stesso tempo creavano un contesto che offriva alternative possibili senza imporle. Quali movimenti per stare tutti un po’ meglio? Emergono quattro dimensioni della cura, fortemente intrecciate: la fedeltà del soggetto a se stesso, la cura dei legami, la cura del noi, l’apertura al sistema più ampio, sociale e naturale. Il primo punto riguarda il singolo: dire sì a ciò che ci fa star bene e no a quello che ci fa star male. l’integrità del bambino può essere rispettata fin dai primi giorni di vita se c’è comprensione delle sue competenze e della sua capacità di dire di no. Se l’adulto comprende l’importanza della fedeltà a se stesso. Il secondo livello riguarda il prendersi cura dei legami che significa puntare lo sguardo su qualcosa che c’è già ma è stata forse trascurata, dimenticata o negata. Significa ricreare le condizioni materiali e psicologiche affinchè i “pezzi” della famiglia possono avere un incontro reale. Ricomporre i legami messi a rischio o interrotti dalle transizioni della vita significa recuperare la capacità simbolica. Anche la cura del noi trae vantaggio dalla composizione che tiene insieme il piano reale con quello simbolico. Il senso del noi fa stare tutti un po’ meglio. Coltivare insieme i due livelli significa trovare soluzioni creative a vecchi dualismi: indipendenza/dipendenza, individualità/appartenenza, differenziazione/unità familiare. Per quando riguarda il rapporto tra famiglia e mondo più ampio abbiamo visto che una delle caratteristiche delle famiglie che incontriamo è l’isolamento sociale, derivato dallo stigma sociale. Cura è costruire proposte educative che creino occasioni naturali di partecipazione, non perché qualcuno ha deciso che è bene partecipare o perché ci si debba adeguare, ma perché il desiderio dell’altro, la voglia di esserci, di confrontarsi nascono quando c’è il contesto giusto. 2. Prevedere l’imprevisto nella tutela dei minori Con tutela dei minori generalmente si definiscono quelle funzioni pubbliche e quei servizi che hanno il compito di affiancare i bambini e i ragazzi in favore dei quali è chiesto un controllo. Questo controllo può divenire penalizzante dei diritti di qualcuno della famiglia, pertanto è richiesto che le decisioni in proposito siano assunte da un’autorità giudiziaria. Ci troviamo in contesti dove è necessario conoscere, decidere ed agire assicurandosi di aver visto e previsto giusto. Intervenire in questo modo richiede oggettività: da un lato è necessario per l’operatore non dimenticare i propri riferimenti epistemologici, dall’altro è necessario garantire che decisioni così difficili non scaturiscano banalmente da opinioni. Previsto/imprevisto Possiamo comprendere la categoria dell’imprevisto solo in relazione a quanto si era previsto. Quella di prevedere gli esiti delle storie è anche una richiesta insita in quel tipo di servizi perché p sulla base di tali previsioni che si costruiscono le decisioni del tribunale e i progetti di sostegno e controllo. Non ci è possibile avere a che fare con un imprevisto senza che gli attribuiamo un valore positivo o negativo, ci viene naturale interrogarci sull’esito. Dare senso all’imprevisto per noi umani è vitale, ed essendo occidentali, il principale riferimento che adottiamo per dare senso all’imprevisto è quello di metterlo in relazione ai risultati, al finale. Cerchiamo quindi un lieto fine. Il lieto fine Anche nei racconti e nelle favole che ascoltavamo da bambini ritroviamo il lieto fine: “e vissero felici e contenti”. In questo lieto fine spesso ritroviamo una coppia che si unisce o dei bambini che tornano a casa: è proprio l’immagine di una famiglia. E questo lieto fine ideale segna gli operatori a stretto contatto con quelle famiglie in cui gli adulti non sembrano in grado di proteggere e promuovere i più piccoli, o addirittura li mettono in pericolo. L’orizzonte finale dell’intervento educativo diventa, allora, una contrapposizione di idee: vivere/morire, insieme/separazione, felicità/sofferenza. Da una parte crediamo che l’insieme possa essere sacrificato e che il bambino starà meglio in comunità dall’altro crediamo che l’insieme deve essere salvaguardato. Dal finale al percorrere Come se fossimo in una favola, ci proponiamo di essere noi quelli che potranno rivoluzionare la storia per arrivare al lieto fine. Rischiando però di agire come se ci trovassimo di fronte ad una macchina dove tutto è progettato prima e le relazioni tra i componenti sono prevedibili, misurabili, riparabili. Dimenticando così la profonda differenza tra sistemi complicati, che sono costruiti da essere umani e possono essere ricostruiti in dettaglio nei loro componenti, nelle relazioni intere e possono essere determinati dall’esterno. E sistemi complessi che invece si programmano da sé, hanno un loro autonomo punto di vista sul mondo, e proprio per questo non sono mai conoscibili o controllabili dall’esterno. Il lavoro educativo che si compie nell’ambito della tutela dei minori non può rinunciare alla dimensione relazionale che è essenziale. Il paradosso dell’istituzionalizzazione nei servizi de-istituzionalizzati L’imprevisto investe anche il funzionamento dei servizi e lo stile dei nostri interventi. Vivere in comunità non è come vivere in un istituto, ma non è nemmeno privo del tutto di elementi istituzionali. Infatti si tratta di servizi organizzati ad hoc, dove si arriva spesso per obbligo e dove occorre comunque organizzare un setting che fornisca quella contestualizzazione necessaria a promuovere una trasformazione. Gli interventi per ogni famiglia possono essere pensati non sulla base della riduzione del rischio, ma sul riconoscere la fase che quella famiglia sta attraversando in quel momento, sapendo che ci possono sempre essere delle evoluzioni. Porre in atto e mantenere riflessioni su tutto il processo e non negare i paradossi e le contraddizioni che esso genera è l’unica via per non deviare nell’istituzionalizzazione dei servizi de-istituzionalizzati. Questa riflessione può essere sollecitata da tre interrogativi: 1. Genitori liberi o coatti? I servizi di tutela sono generalmente caratterizzati da un significato coattivo: la presenza del tribunale che obbliga. I genitori alla ricerca di spazi di libertà, pur tra gli obblighi spesso lo fanno contrapponendosi ai servizi o nascondendosi. Quando riusciamo ad individuare insieme a loro spazi leciti e condivisi di libertà, allora possono fare passi avanti del tutto inaspettati. Si tratta, dunque, per molti genitori, di autorizzarsi alla libertà, pur nei contesti limitati. Una legge, delle regola pur essendo molto rigorose acquisiscono un senso molto diverso a seconda di come vengono poste. Un regolamento può rappresentare un insieme di regole fisse, imposte, alle quali l’ospite deve aderire oppure può essere un patto, sottoscritto da tutti con la libertà che a ciascuno è possibile e che può variare nel tempo. 2. Intervenire subito o dare tempo? Gli educatori si trovano spesso davanti a questa domanda, con il rischio che dando tempo dopo sia troppo tardi. Per me è sempre stato utile porre in relazione la quantità del tempo con la qualità di ciò che avviene in quel tempo, soprattutto nelle relazioni. 3. Categorie di utenza o storie singole da ascoltare? La conoscenza umana non può fare a meno della categorizzazione. Nonostante questo in ambito educativo è rischioso pensare esclusivamente in termini di categorie. L’esigenza istituzionalizzante di predeterminare le letture sui fatti oggettivi difficilmente ha un significato liberatorio e trasformativo. Assume molto più spesso un valore costrittivo. Il cantastorie fuori campo Anche nelle situazioni estreme la comprensione e la scelta dell’intervento devono venire da un racconto da fare insieme tra genitori e famiglie. raccontabile da parte del genitore in carcere e della famiglia fuori dal carcere. Un compito difficile perché ogni famiglia ha le sue strategie, il suo percorso possibile per far fronte all’esperienza della detenzione di un congiunto. Il silenzio e le bugie vincolano, rendono impossibile crescere liberi: quando non si dice ad un bambino dov’è il genitore o per quanto tempo starà via, si lascia il bambino in un universo immaginario che è molto più terrorizzante della realtà. Soprattutto nel caso di adolescenti, i figli devono conoscere la verità per poter effettuare delle scelte e pensare di progettare un futuro diverso per sé. Questa possibilità di scelta è possibile solo se avviene un processo di separazione psicologica, che consente l’individuazione e la capacità di intraprendere nuovi legami affettivi, pur mantenendo quelli originari. Se la separazione fisica avviene in modo brusco, improvviso, senza preparare il bambino con esperienze che avviano il processo simbolico, in assenza di relazioni affettive sufficientemente rassicuranti, è difficile per il bambino ancorare la propria posizione all’interno del nucleo familiare. L’interruzione del legame crea così un disorientamento angoscioso, sentimenti di abbandono e rifiuto. Ma è sempre rischioso generalizzare sull’impatto della separazione: ogni caso va valutato singolarmente. Quando i bisogni fondamentali del bambino sono frustrati e viene impedito di esprimere ciò che prova, il genitore può trasformarsi in un persecutore da distruggere o evitare. Il bambino che incontriamo è spesso arrabbiato, ma fatica ad esprimere questo sentimento; il suo disagio può essere profondo, ma i familiari, impegnati ad affrontare il proprio non ne comprendono la portata. Prendersi cura del legame genitoriale: il processo d’intervento Separarsi dai figli significa sparire non solo dal rapporto quotidiano, ma dalla rete sociale di riferimento: la scuola, i servizi sociali, i soggetti coinvolti nella storia familiare. I costumi sociali ritengono i carcerati cattivi genitori, ma noi salvo casi di reati che lo giudichino in quanto genitore, dobbiamo ritenerlo sufficientemente buono. Il processo di intervento: è la realizzazione di un percorso strategico di informazione, formazione, sensibilizzazione; è un intervento di prevenzione sociale, che coinvolge la rete interna al carcere e quella esterna del territorio. Da realizzare in un contesto di cura dove il minore, ove possibile, rimanga all’interno del contesto familiare. Si attuano interventi che realizzano azioni trasversali che coinvolgono la famiglia, il minore, il territorio, la persona detenuta, i servizi. Spazio giallo: l’accoglienza del bambino e della famiglia in carcere Lo spazio giallo è innanzitutto in luogo: uno spazio fisico creato appositamente per l’accoglienza dei bambini che si preparano al colloquio. Uno spazio integrato e socioeducativo, di gioco e di relazione, per uscire dall’anonimato del carcere. Le relazioni vengono incentivate, favorendo l’interazione tra età e culture diverse, prestando ascolto ai contenuti emotivi espressi durante il gioco strutturato e non. È uno spazio utile per avviare il processo d’intervento, quindi l’attenzione è sia sul minore sia sull’adulto. È, dunque, uno spazio intermedio che connette l’interno e l’esterno, una terra di mezzo tra istituzione totale e realtà. In questo luogo i bambini si sento protetti, sono liberi di parlare, danno voce e forma alle loro emozioni, e per questo lo spazio giallo è una risorsa per la famiglia. In questo spazio si viene a conoscenza delle diverse modalità attraverso cui le famiglie affrontano l’esperienza detentiva. L’accompagnamento del genitore detenuto: gruppi di parola e punti d’ascolto I gruppi di parola sono incontri collettivi di discussione e confronto. I temi principali sono: i bisogni dei figli, la sofferenza, l’interculturalità. Il gruppo di parola permette lo scambio di informazioni e il confronto, il racconto autobiografico che è anche il racconto sociale e comunitario. I punti d’ascolto: individuano un tempo e uno spazio per il colloquio con il genitore. Prevedono la reciprocità. Si parte dalla storia del soggetto per ricavarne i bisogni. In entrambi i casi ci si prende cura delle storie familiari. 5. Posizionarsi nel conflitto: l’educatore a Spazio Neutro Dal conflitto, che nasce da due punti di vista che non riescono a trovare una forma di convivenza, possono nascere delle conseguenze positive, ma la maggior parte delle volte è visto come un nemico da combattere, che porta sofferenza e violenze. Nella maggior parte delle famiglie il conflitto è affrontato normalmente come un fatto della vita. Spazio neutro Lo Spazio Neutro è nato per sostenere e favorire il mantenimento della relazione tra bambino e genitore o adulto di riferimento per lui significativo, in quelle vicende familiare in cui questo bisogno non è rispettato, a causa di conflitti familiari o situazioni di malattia o disagio. Le famiglie che giungono a questo tipo di servizio sono inviate dal Tribunale in modo coatto, attraverso provvedimenti nei quali l’autorità giudiziaria intende sostenere e/o controllare la relazione tra adulto e bambino in un luogo protetto. Il bambino è il punto di partenza per gli operatori, il fulcro da cui iniziare a punteggiare descrizioni, storie, la trama stessa dell’intervento. Molte famiglie sono inviate perché stanno vivendo una separazione “altamente conflittuale”, nella quale si chiede ai bambini di schierarsi o coinvolti nelle dinamiche tra genitori. Al servizio dello Spazio Neutro è richiesto di costruire con la famiglia un progetto che renda possibile il mantenimento del diritto di vista e relazione con il bambino. L’obiettivo di lungo termine è quello di lavorare affinchè questi possa mantenere i contatti con entrambe i genitori in un clima che non sia pregiudizievole per la sua crescita. Lo Spazio Neutro deve rendere conto, attraverso relazioni scritte, al tribunale che ha emesso il decreto. La sfida è quella di riuscire a passare da un intervento di mera garanzia della relazione, alla possibilità di innescare processi di apprendimento a partire dalla crisi che ha portato all’ingresso nel servizio. Il percorso a Spazio Neutro prevede diversi tipo di intervento: • Colloqui individuali con i genitori • Colloqui con i minori • Incontri protetti L’esperienza del conflitto: eventi ed emozioni Spesso a Spazio Neutro si incontrano storie già scritte, con un copione rigido, ripetutamente proposte a interlocutori che hanno un mandato educativo e di conseguenza fissate nei loro significati. Il bisogno di convincere l’interlocutore è talmente in primo piano che taglia spazio ad altre sfere e irrigidisce i punti di vista: tutto viene riletto in termini “ho ragione io e le cose sono accadute per colpa di un altro”. La rappresentazione estetica: dare forma al conflitto Ricercare una rappresentazione estetica, sensibile e immaginativa del conflitto significa sia proporre concretamente alle persone con cui lavoro la ricerca di una rappresentazione alternativa del problema, si ascoltare le metafore, le immagini che emergono spontaneamente nei loro racconti. Cambiare il linguaggio è un’operazione che in sé mira a cambiare la rappresentazione dei “fatti”. La comprensione intelligente: verso una teoria del confronto Le punteggiature delle narrazioni, i modi in cui i racconti sono riportati, le rappresentazioni estetiche sono elementi diversi ed eterogeni che si aprono nel corso delle conversazioni. Da tutti questi elementi costruiamo una teoria locale della situazione, ognuno dalla propria prospettiva. Il conflitto è uno di quei concetti astratti che si vivono e si strutturano attraverso metafore. La metafora che ci porta il bambino sembra essere il “caos” nella sua vita, dove riportare ordine attraverso la giusta ri-collocazione dei ruoli. La madre, solitamente, porta il conflitto come un ostacolo enorme, insormontabile; mentre il padre marca il passaggio da un prima in cui poteva vedere il figlio, all’oggi dove invece non può farlo. L’azione deliberata Per favorire il cambiamento dobbiamo creare un contesto e mettere in campo azioni che producono nuove possibilità di “vedere”. Si propone la pratica dell’altravisione come possibilità di mettere le persone in nuove posizioni rispetto a sé, alla propria storia ed emozioni, alle proprie relazioni. Il mio scopo non è cambiare la persona o il suo comportamento, ma costruire insieme la possibilità di assumere una nuova prospettiva. L’altravisione è un cambiamento di cornice nel comune modo di intendere la supervisione. Essa permette di introdurre diversi punti di vista che arricchiscono il gruppo e favoriscono il processo di sviluppo di creatività, senza pretendere di dare risposte, valutazioni o suggerimenti su come il professionista dovrebbe lavorare. Generare differenze a partire da ciò che si vive, si prova e si pensa è un primo passo verso un autentico apprendimento. Attraversare il conflitto in modo generativo L’ampliamento dello sguardo mi ha permesso di vedere il carattere sistemico del conflitto: nella famiglia nucleare, rispetto alle famiglie allargate, tra operatori e famiglia, tra i diversi piani della realtà d’intervento. Ma non basta allargare lo sguardo. Occorre anche posizionarsi continuamente rispetto a ciò che si vede: posizionarsi significa entrare in contatto con premesse diverse (le mie, quelle del servizio, del tribunale, della famiglia), sentire lo scontro e utilizzarlo come occasione di (auto)consapevolezza. 6. Costruire consapevolezza nella relazione con le famiglie Lavoro con gli adolescenti? C’è una cosa che il più delle volte rimane celata, inaspettata, non esplicitata: i ragazzi adolescenti hanno delle famiglie. Questa consapevolezza trasforma in modi inediti il lavoro dell’educatore. L’educatore entra sempre in interazione con i sistemi, anche se non ne è consapevole. Infatti, l’educatore entra a far parte di un sistema di cui tenta di conoscere la complessità e all’interno del quale propone azioni rivolte a qualche forma di cambiamento. Per diventare consapevoli della propria maniera di conoscere questi sistemi, ogni educatore deve fare affidamento sulle proprie molteplici esperienze e cioè sulla sua “auto-consapevolezza”, quella forma di attenzione non reattiva e non critica verso i propri stati interiori, che permette di conoscere sia il nostro stato d’animo che il pensiero su di esso. Crescere con le famiglie Sono stati intervistati 6 educatori di un centro diurno per adolescenti, usando la metodologia dell’intervista narrativa. Il primo approccio alla famiglia da parte degli operatori ricalca quello della “famiglia assente”: la famiglia non è in alcun modo considerata nella cornice di riferimento con cui si guarda al minore. Da notare che per qualsiasi servizio ai minori la capacità di includere la famiglia originaria nel percorso educativo rappresenta un nodo cruciale. Subito dopo il modello della famiglia assente viene quello della diffidenza verso una famiglia vista come distante o potenzialmente problematica. Ci sono casi in cui la famiglia viene etichettata definitivamente come “sbagliata”: carente, deviante, se non patologica. Le cornici di senso di genitori ed educatori a volte non coincidono. Due interpretazioni diverse spesso portano a un conflitto. Una reazione tipica dell’operatore è la sensazione che la famiglia ostacoli il lavoro del servizio. A volte l’educatore è deluso perché scorge nella domanda della famiglia un mancato apprezzamento per il lavoro svolto. Potremmo dire che il genitore contiene il passato del ragazzo, mentre gli educatori puntano al futuro. Due dimensioni di vita che devono integrarsi in uno sguardo comune, condiviso. I conflitti sembrano inevitabili, ma possono diventare tappe di un percorso compiuto assieme alle famiglie, fatto di alti e bassi, durante il quale avviene la scoperta dell’altro e dei propri limiti. Nell’interazione educativa accade di fare troppo o troppo poco. L’atto educativo è frutto di un posizionamento, che è fisico, ma soprattutto mentale, fatto di emozioni e pensieri. Trovare la giusta posizione, anche attraverso percorsi di riflessione in equipe, permette di orientare la naturale propensione all’altro, entro un percorso studiato e condiviso, all’interno del quale è possibile ristabilire i giusti confini rispetto alle richieste della famiglia. Quasi tutti gli educatori riconoscono di aver avuto un pregiudizio molto forte nel primo approccio con le famiglie. Agli occhi degli educatori la famiglia diventa il luogo dove “si rovina il lavoro del servizio”. Questa rappresentazione pone, ovviamente, grandi limiti alla capacità d’azione degli educatori. In questo caso è fondamentale il lavoro di gruppo e il confronto, perché senza lo sguardo dell’altro, è difficile riconoscere i propri pregiudizi o schemi mentali. In alcuni casi il pregiudizio di scioglie con la costruzione del rapporto con la famiglia e la scoperta del desiderio dei genitori di migliorare per i figli. La risposta alla delusione è la speranza, la capacità di rinnovare la propria fiducia nella possibilità di miglioramento delle persone. L’atto educativo consiste nell’offrire ai ragazzi e alle famiglie un punto di vista diverso, che colloca i conflitti in una cornice di senso più ampia, all’interno di una vicenda personale e relazionale di crescita. Nella mente dell’educatore L’automatismo della risposta pone grosse domande di senso nell’agire dell’educatore. Rende necessario un costante lavoro di auto-addestramento che sveli queste risposte automatiche e introduca una pausa tra stimolo e risposta, normalità tra le esperienze e i modi di fare famiglia che venivano mostrati e raccontati. In generale, osserviamo la tendenza a identificare ciò che accomuna, a cercare conferme anche nelle conduttrici di tali somiglianze. Le famiglie faticano invece ad accettare le differenze come elementi di ricchezza con cui confrontarsi. Con il tempo le diffidenze lasciano spazio ad un crescente senso di familiarità e condivisione: ognuno trova il suo modo per esprimersi e sviluppa un maggior senso di fiducia verso il gruppo come luogo sicuro e protetto dove poter consegnare piccole o grandi parti di sé e della propria famiglia. A partire da questi primi passi insieme, i componenti del gruppo hanno cominciato a esprimere l’esigenza di una continuità: le assenze o i ritardi venivano fatti notare alle conduttrici. Il sentimento diffuso di timore dell’abbandono ha reso molto delicato il trattamento delle assenze, dei ritardi o delle violazioni al setting. - Seconda fase: ampliare lo sguardo Una volta costituito il gruppo abbiamo cercato di portare lo sguardo fuori di esso. Ad ogni famiglia è stato chiesto di raccontare la propria storia, in modo tale da aprire nuove possibilità di pensiero attorno alle connessioni intergenitoriali dei comportamenti e deli stili genitoriali. Nonostante le fatiche e le resistenze, ci sembra preziosa l’opportunità per i genitori di raccontarsi ai figli. - Terza fase: verso la conclusione Per preparare la conclusione del laboratorio e lo scioglimento del gruppo, abbiamo condotto gli ultimi incontri con l’intento di indirizzare lo sguardo dei partecipanti un po’ più all’esterno. La proposta era quella di provare a riconoscere come e in che senso la comunità può rappresentare un supporto per la propria famiglia. Valutazione delle esperienze Quali indicatori per fare il bilancio di questa esperienza? • Le presenze e le assenze • Il livello di partecipazione Tracce sedimentate Gli operatori hanno intravisto la possibilità di costruire contesti nei quali non si porge solo la funzione di aiuto e sostegno, spesso unita al controllo, ma dove le famiglie possono esprimere le loro competenze, guardare, vedere, nominare il proprio modo di fare famiglia senza che questo sia sottoposto a giudizio. Per le famiglie, invece, il laboratorio si configura come un luogo non terapeutico, ma un luogo che si avvicina molto alla normalità, sollecita la capacità dei singoli di stare in un contesto sociale con piacere, permette di fare un’esperienza in larga parte positiva accanto ai propri familiari, mette in luce le competenze e i ruoli di ciascuno. Per il futuro Il lavoro con le famiglie presenta un grosso ostacolo: l’idea di buona famiglia o di buon genitore, che crea genitori disorientati, che si chiedono se stanno sbagliando e cosa devono fare. Bisogna sfatare queste rappresentazioni: la capacità di essere un adulto di riferimento per i più piccoli sta nella capacità di sbagliare e poi provare a raddrizzare il tiro. Lavorare con le famiglie significa trovare modalità e strumenti innovativi perché possano trovare luoghi pubblici di parola, cioè luoghi condivisi, attraversati da legami vitali uscendo così dalla privatizzazione del compito educativo, la solitudine e le distorsioni relazionali, amplificate all’eco delle mura domestiche. 9. Interrogare le rappresentazioni reciproche, tra ricerca e formazione Una cornica per la ricerca La prima domanda da porci quando si intraprende un viaggio di ricerca è: con quale res stai entrando in ricerca? Se la relazione operatori-famiglie è un costrutto sul quale interrogarsi, lo è anche il dispositivo educativo, inteso come la struttura dentro cui si giocano tutte le relazioni. L’intento è quello di osservare una relazione in corso, pensandola come una danza dinamica tra educatori e famiglie, una danza che non può essere fermata o fotografata senza perdere la bellezza dei gesti e dei movimenti di cui è costituita. Ogni persona vive dentro un tempo e un luogo, cioè inserita in una storia individuale, familiare, sociale, che si trasforma costantemente. Che ricercatore/educatore sei? È in ricerca chi si abbandona alla scoperta. La domanda è una condizione necessaria dell’essere in ricerca, ma non basta a fare di noi dei ricercatori. Laura Formenti distingue tra “sguardo ingenuo” e “sguardo scientifico”: il primo ideologicamente centrato, carico di pregiudizi vissuti come verità; il secondo attento a sé e agli altri, continuamente disposto a interrogarsi sui propri pregiudizi. Non è solo la domanda a fare differenza, ma anche come la si pone e a chi. Potremmo dire che il ricercatore è colui che si prende cura del proprio punto di vista, non lo trascura, se ne interroga. Stessa cosa fa con il punto di vista altrui. Un educatore è un ricercatore quando si rende conto di essere implicato in prima persona nella relazione educativa in corso e, per tale ragione, è attento a mantenere viva nella quotidianità la curiosità dell’esploratore. Essere curiosi vuol dire non dare nulla per scontato. La curiosità apre le porte a nuove visioni di ciò che ci sembrava ovvio, a volte apre le porte alla bellezza, quando permette di guardare quello che c’è e non quello che manca. Ciò implica responsabilità. Essere un ricercatore che si occupa di storie, in particolare di narrazioni della famiglia, vuol dire essere consapevoli che le storia producono effetti. Responsabilità etiche Il ricercatore di trova ad affrontare diverse responsabilità etiche. Prima di tutto quella di prendersi cura delle storie che gli vengono affidate, leggerle da una postura di neutralità e attenta ai posizionamenti. La seconda responsabilità etica riguarda la trasparenza, che chiama in causa la visibilità del patto tra ricercatore e soggetti. Negoziare il senso ed essere espliciti e chiari sui diritti e doveri non esaurisce l’interrogarsi lungo il cammino. La trasparenza non è un dato di fatto, ma un’azione che stimola la riflessività, uno spazio prossimale di apertura alla comprensione dei fenomeni. Mappe e teorie Gli esploratori usano mappe, per un ricercatore/educatore la mappa è la teoria da cui muove per guardare il mondo. Le teorie di riferimento non sono solo i costrutti teorici enunciati dai manuali, ma sono anche le teorie incarnate nell’esperienza di ognuno. Ognuno di noi si è costruito una teoria della famiglia, alla quale bisogna aggiungere tutto il bagaglio di informazioni raccolte lungo il corso della vita. Nessuno è privo di bussola all’inizio del viaggio, la difficoltà sta nell’essere consapevoli di quale sia la propria bussola poiché la mappa cambia e si trasforma in base alle esperienze e alle immagini che scegliamo di portare con noi. Esistono mappe molteplici dello stesso territorio, esistono molti mondi possibili di descrizione. I viaggi non sono unidirezionali: il ricercatore osserva, ma è anche osservato. Ma non è l’unico ad assumere un duplice ruolo implicativo, i partecipanti alla ricerca fanno altrettanto: producono idee, immagini su di sé e sull’altro e modelli interpretativi. Ricercare sulle o con le famiglie? Se i ricercatori e partecipanti sono doppiamente implicati e mossi da domande, le domande che si pongono però sono differenti, così come il loro posizionamento nel processo di ricerca: non ricoprono lo stesso ruolo, né hanno gli stessi diritti e doveri. Allestire il contesto è determinante nella costruzione di una ricerca, che può prendere la forma di una ricerca sulle famiglie oppure con le famiglie. La prima è un’indagine nella quale le famiglie divengono oggetto di studio e fonti di dati; una ricerca che può assumere forme predatorie in quanto i partecipanti vengono considerati come depositari di informazioni. Nella ricerca con le famiglie queste sono parte attiva nella costruzione del processo, invitate a formulare domande , proporre piste d’indagine o segnalare ai ricercatori nuovi nuclei tematici a loro invisibili.
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