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Re inventare la famiglia, Sintesi del corso di Pedagogia

Vedere la famiglia da diversi punti di vista.

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

Caricato il 15/10/2016

benedetta_pepe1
benedetta_pepe1 🇮🇹

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(3)

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Scarica Re inventare la famiglia e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! RE-INVENTARE LA FAMIGLIA Lo sguardo dipende dall’azione (Laura Formenti) La percezione non avviene se non c’è movimento: perfino il semplice guardare è fatto di tantissimi movimenti di cui non ci rendiamo conto. Nella visione siamo convinti di guardare, da fermi, un mondo stabile ma non è così perché la vista non ha nulla di fisso: il mondo che guardiamo è in movimento e noi stessi ci muoviamo continuamente. Lo sguardo dipende dall’azione: se i processi di percezione e di conoscenza dipendono da quello che noi facciamo nel mondo cioè dalle azioni specifiche che esercitiamo sugli “oggetti” che incontriamo, non sarà la definizione di questi oggetti a farceli conoscere. Ogni definizione che arriveremo a dare sarà legata a delle azioni, che noi stessi avremo compiuto su di essi oppure “ereditate” da altre. L’idea che ci facciamo degli altri e di noi stessi è strettamente legata alle azioni comunicative nei contesti: le nostre, le loro, quelle di tutti i soggetti coinvolti. Tutti contribuiscono a definire il senso di quell’azione, alla percezione di quell’azione, che cambia a ogni passaggio. Ci accorgiamo che è molto difficile, per noi, separare percezione, categorizzazione e giudizio: sono processi che avvengono insieme in automatico per tenerli separati ci vuole un certo sforzo e la pratica dello sguardo diventa una disciplina da esercitare quotidianamente, consapevolmente e riflessivamente. Tesi: LAVORARE CON LA FAMIGLIA RICHIEDE UNA CONSAPEVOLEZZA EPISTEMOLOGICA, CIOE’ UN ATTEGGIAMENTO INTERROGANTE NEI CONFRONTI DEI NOSTRI PRESUPPOSTI. UNA CONOSCENZA DEL MODO DI FUNZIONARE DELLA MENTE UMANA. Il Modello a cui ci si sono ispirati coloro che hanno scritto il libro è quello sistemico, in dialogo con altri di pari importanza. E’ un modello che mette al centro di tutti i processi umani e non: l’idea di “comunicare” (tutto è messaggio). MA scegliere un modello è rischioso: potrebbe voler dire escludere altre prospettive altrettanto interessanti. La metafora dello guardo nella famiglia è parziale : nella conoscenza della famiglia tutti i sensi sono coinvolti. CAPITOLO 1: FARSI L’ORECCHIO (le invisibili partiture della famiglia). Laura Formenti I teorici dei sistemi hanno concepito LA COMUNICAZIONE UMANA come un insieme organico di livelli complessi, contesti multipli e circuiti riflessivi. 1 ALBERT SCHEFLEN fu uno dei primi ricercatori a paragonare la comunicazione a una composizione musicale: in quanto entrambe realizzano delle strutture, con uno stile e delle specificità proprie, ma anche una configurazione complessiva ben precisa. (la differenza è che: la composizione musicale possiede una partitura esplicita, scritta, appresa e ripetuta consapevolmente. La partitura di una comunicazione non è formulata per iscritto ed è appresa inconsapevolmente, almeno in parte. L’immagine della partitura invisibile ricorda l’importanza del comportamento che ciascuno utilizza nei suoi scambi diversi con l’altro). Comunicare non è affatto trasmettere informazione da A a B, attraverso qualche canale comunicativo ma comunicare è partecipare a un’interazione complessa. WINKIN: modello orchestrale della comunicazione umana = questo modello vede nella comunicazione la messa in comune, la partecipazione, la comunione. Concetto di sistema: siamo abituati a considerare gli individui sempre e solo come solisti, a prestare attenzione alla singola persona e non al contesto (lettura soggettivistica degli eventi umani è coerente all’epoca in cui viviamo centrata sul “mito dell’individuo”= una rappresentazione sociale per cui il senso della vita umana sarebbe tutto legato alle capacità del soggetto di esistere, realizzarsi, avere successo..). MA per imparare a incontrare la famiglia nella sua totalità, nella sua logica e complessità siamo costretti ad allenare i nostri sensi alla ricerca dell’ecologia, delle connessioni e delle armonie che caratterizzano ogni sistema familiare. (Il pregiudizio più radicato nei giovani educatori è l’idea che tutti i comportamenti ed eventi si possano e si debbano spiegare ricercandone le cause o le motivazioni a partire dalle intenzioni, dai valori e dalle azioni dei singoli soggetti). Pag 7-8: Sistema Come abbiamo visto c’è un disinteressamento a quello che accade tra le persone eppure si tratta sempre di processi di influenzamento reciproco. L’approccio sistemico si fonda sulla curiosità per tutto quello che non appare immediatamente valido e scontato. La famiglia è una rock band La formazione di una band è coerente con il tipo di musica che vuole creare e analogamente c’è una connessione tra il modo in cui una famiglia è composta, le sue strutture e relazioni, e quello che crea: paradigmi, miti, modelli educativi, storie, benessere o malessere. PER COMPRENDERE UNA SPECIFICA FAMIGLIA SARA’ NECESSARIO ASCOLTARLA ATTENTAMENTE, FARSI L’ORECCHIO SUL RITMO, PROVARE A SUONARCI INSIEME. =Entrare nella sonorità della famiglia è necessario per l’educatore, così come per capire la musica bisogna ascoltare un gruppo e non limitarsi a leggere la sua biografia o i testi delle canzoni (entrare nella viva voce del corpo familiare). 2 genti di origine diverse abitano le nostre città ma perché ogni famiglia si presenta come una cultura essa stessa, con il suo linguaggio, le sue storie e miti fondativi, gli oggetti artefatti che crea, le routine e le credenze condivise. LA PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA: ci aiuta a sviluppare curiosità, riconoscendo che ci sono modi diversi per affrontare situazioni analoghe. ES: il concetto di autonomia e di separatezza dell’individuo dal gruppo non è al centro delle pratiche educative giapponesi, perché l’individuo ideale è sociale, rispettoso della regole, sensibile al gruppo e aderisce a un ethos collettivo molto forte. Il modo di gestire questi aspetti della vita quotidiana è strettamente connesso alle idee di relazione, di educazione, di famiglia, di individuo che una società porta avanti. Per ogni famiglia o società il proprio modello diventa normativo: “è giusto fare così”. Se dico che in una famiglia è legittimo picchiare i figli o impedire alle donne di uscire di casa “perché quella è la loro cultura” sto forse rispettando le tradizioni, le origini di quella famiglia ma non sto rispettando le tradizioni evolutive. Tesi: il lavoro educativo con la famiglia = APRIRE POSSIBILITA’ PERCHE’ TUTTI STIANO UN PO’ MEGLIO. RICONOSCERE Ciò CHE SI MOSTRA, NELLA COMPLESSITA’ DELLE RELAZIONI FAMILIARI, PER RENDERE POSSIBILI PICCOLE E GRANDI TRASFORMAZIONI. La linea politica di una famiglia è sancita dai genitori (almeno finchè i figli non sono adulti). La direzione da prendere, le misure da adottare, sono un compito degli adulti, che rappresentano la parte istituente del sistema familiare. Spesso anche la più statica e tradizionalista. Ecco quindi che “dare il la” e “tenere il tempo” sono prerogative del genitore. L’educatore può accompagnarlo a vedere questa possibilità, può affiancarlo nello scoprire il suo modo unico e creativo di scegliere che genitore vuole essere. Il senso del noi Come si impara il senso del “noi”?Ogni famiglia si presenta come unità, come una totalità di relazioni portatrici di un’identità, una cultura, una sua logica. La famiglia sfugge dall’attenzione perché come tutto ciò che ci è familiare, in gran parte è percepita come qualcosa di ovvio. Il senso della famiglia è fortemente intrecciato, nel suo divenire, al mondo, alla cultura, al territorio nel quale vive. Il senso del noi appare più complesso della somma di tante prese di posizione individuali, non è solo vissuto. Quindi: per comprendere il senso del noi bisogna osservare con occhi curiosi che cosa accade “in quella famiglia” e in particolare quale rapporto sussiste tra la famiglia “praticata” e la famiglia “rappresentata” : le interazioni reali nella famiglia danno 5 corpo al senso del noi, al di là delle intenzioni dei singoli. Tuttavia gli aspetti simbolici e la costruzione dei significati vanno oltre il dato di realtà, e questo risulta molto utile per il lavoro educativo e trasformativo, che deve superare le visioni egemoniche, di tipo strumentale e individualistico, per recuperare il senso del tutto. La casa, dal punto di vista simbolico è il luogo elettivo del noi (esempio pag 25). Tesi: il senso del noi si nutre di momenti come nell’esempio in cui tutto stanno bene e cioè partecipano al gioco, rispettano i turni, sono emotivamente sintonizzati. Ma anche quando le danze non sono così felici, un senso del noi appare. E’ determinante il ruolo del linguaggio e la punteggiatura che noi daremo nel comunicare e meta-comunicare sulla famiglia, nel dare senso al nostro stare insieme, ogni volta che rispondiamo letteralmente o simbolicamente alla domanda: “Chi siamo noi?” Come osserviamo la famiglia? Se vogliamo comprendere il senso del noi, il primo quesito da sciogliere è: Chi è l’osservatore di questa famiglia e quale idea di famiglia sostiene il suo sguardo? Parlare di famiglia implica presupposti, valori e ideologie. IL SENSO DEL NOI DIPENDE DALLA NOSTRA POSIZIONE NEL SISTEMA: posizione non solo metaforica ma fisica (Il punto di visuale rende più visibili alcuni aspetti di altri). Secondo BATESON: quando osserviamo un sistema siamo inevitabilmente condizionati a percepire solo un piccolo arco della sua complessità interconnessa. Il racconto di pag 25: non esprime giudizi, descrive azioni concrete (verbali e non), mette a fuoco tutte le persone coinvolte nell’interazione per cogliere il “noi” questi tre aspetti sono essenziali. L’obiettivo non è l’oggettività perché nessuna osservazione potrà essere priva di soggettività di chi osserva. L’obiettivo primario, quando osserviamo, è la rappresentazione estetica: cioè mettere in parole quello che si presenta ai sensi. Quando l’osservatore di una famiglia è ingenuo cioè sprovvisto di concetti e metodi osservativi, raramente il suo racconto di ciò che ha osservato a queste qualità. E’ più probabile esprima giudizi e categorizzazioni. Lo sguardo ingenuo si basa sulla compassione, sull’empatia e sul buon senso. Su cosa ci basiamo? Il NOI ci appare come un dato percettivo, si vede. Il senso del noi è riferibile a qualcosa che percepiamo con i sensi, con cui risuoniamo emotivamente, cogliendolo in modo sincretico, come una gestalt-un tutto. Per molti operatori, il senso del noi, è poco interessante poiché preferiscono mettere a fuoco oggetti più specifici e chiaramente individuabili: la qualità dell’attaccamento, 6 la capacità di mentalizzare, il tipo di alleanze sono tra gli oggetti più in voga nell’attuale momento storico. Sviluppare una molteplicità di sguardi e di strumenti per analizzare e categorizzare le diverse dimensioni della famiglia è importante, fa parte della formazione di un operatore. DUE SGUARDI: - quello che distingue, analitico, finalizzato, razionale e rigoroso: sguardo tecnico dell’esperto che osserva ed esprime categorizzazioni - quello che abbraccia e celebra, che riconosce la ricerca di equilibrio e di struttura, sguardo che con-partecipa, risuona, onora la bellezza. Il senso del noi, dell’essere una famiglia, si appoggia su entrambi ma soprattutto nasce dalla con-posizione, dalla danza interattiva e non dai singoli comportamenti. Il corpo familiare Ognuno dei comportamenti della famiglia si muove e si trasforma in relazione agli altri. Non c’è apprendimento che non coinvolga tutto il sistema. Se osserviamo con attenzione e abbastanza a lungo, siamo in grado di rilevare ripetizioni e ridondanze, coerenze e interdipendenze: sono queste che suscitano la sensazione di essere in presenza di un tutto, di un organismo sovra individuale. La metafora del CORPO FAMILIARE esprime bene l’idea del sistema: il conporsi degli individui nella danza interattiva non è un accostamento casuale, né la sommatoria di azioni separate. E’ nella continua interazione che si sviluppa il senso. VINCOLI: la conposizione, l’interdipendenza creano vincoli: se uno dei danzatori si sposta o cambia il suo ritmo, anche gli altri dovranno farlo, per mantenere l’equilibrio o ritrovarlo. Anche stare fermi, stare in silenzio, uscire dal campo, sono modi per influenzare il sistema. Non è possibile sottrarsi, una volta che si è nel “noi” questa lettura sposta l’attenzione dal livello dell’individuo, che pure è importante, alle relazioni. La famiglia più di ogni altro sistema di con-vivenza, struttura l’esperienza e dunque dà corpo ai suoi membri. Più di ogni altro perché i processi familiari avvengono nella quotidianità e riguardano proprio le sfere più immediate del vivere: il cibo, il riposo, il piacere, il sesso, il movimento. La famiglia educa al di là di qualsiasi finalità cosciente o intento educativo finalizzato. Ridondanza pag 30. La famiglia reale: una coreografia complessa Il noi, nasce dalla famiglia in azione: relazioni reali, regole interattive, abitudini e 7 familiari. In crisi non è dunque la famiglia in sé ma una sua visione monolitica. Dietro ogni atteggiamento, c’è sempre una storia che attende di essere raccontata. Imparare a raccogliere una storia di relazioni familiari, così che questa, una volta narrata, modificherà la percezione dei fatti per aiutare a capirne la complessità, prevede una postura educativa che si calibra in itinere. Una storia però non vale l’altra: il modo in cui è raccontata provoca conseguenze concrete, in chi parla e in chi ascolta. La complessità non sta nella natura in sé, ma nei codici che utilizziamo per descriverla. Educarsi ad uno sguardo sulla famiglia significa connettere lo sguardo di quel determinato narratore (con la sua cultura, abitudini..) con quello che vede, restituendo alla sua visione un carattere di parziale e momentanea esistenza fatta di cecità e prospettive inedite. Moltiplicare e comporre gli sguardi CIO’ CHE CHIAMIAMO FAMIGLIA NON E’ COSA DATA, CERTA, STATICA, CI SONO MOLTISSIMI MODI PER FARLA E SOPRATTUTTO PER OSSERVERLA E PENSARLA. OGNI SGUARDO SULLA FAMIGLIA HA LA SUA SPECIFICITA’, E’ LEGATO A UNA PROSPETTIVA, A UNA CERTA CULTURA, A UN’ESPERIENZA DI VITA CHE POI SI RIFLETTE SULLA REALTA’. IMPARARE AD AVERE UNO SGUARDO COM-POSIZIONALE CIOE’ COMPORRE LA TEORIA CON LA PRATICA, L’ESPERIENZA CON L’APPRENDIMENTO, LA RIFLESSIONE CON L’AZIONE, LA CURA CON IL CAMBIAMENTO, LE EMOZIONI CON LA MENTE MA ANCHE LE PERSONE. BISOGNA APPRNDERE DALL’ESPERIENZA METTENDOSI IN GIOCO PER POI CERCARE DI ELABORARNE UNA TEORIA. Per lavorare con la famiglia: mantenere mobile il proprio sguardo, per giocare e inventare soluzioni impreviste, per negoziare e comunicare con una molteplicità di soggetti e istituzioni. L’educatore deve imparare a dialogare con se stesso e con le sue pratiche. Così imparare a rendere importante e valorizzare il proprio sguardo è una sorda di addestramento per capire come farlo anche con gli altri. Il pregiudiziopag 44 Obiettivo: ritrovare il valore dell’esperienza, una condizione di stupore, curiosità e autentico interesse per quanto ci accade può diventare il compito di un’intera esistenza. I pregiudizi ci vincolano in percorsi di ricerca precostruiti, per uscire abbiamo bisogno degli altri. La qualità del tempo che trascorriamo con gli altri ci permette di comprendere il nostro punto di vista. E’ quando raccontiamo a qualcuno chi siamo, che lo capiamo. Partire dalle pratiche per interrogarle e significarle rappresenta una cornice per l’azione, che invita a fare 10 dell’attenzione al contesto, alle peculiarità di ogni situazione, alla storia di chi apprende, ai presupposti di ogni impresa formativa. Ogni incontro e relazione, dunque la vita stessa, costituiscono la principale materia da cui imparare. A. DOMANDARE PER ACCOGLIERE E RICERCARE L’arte di porre buone domande aiuta a problematizzare sollevando questioni su temi che appaiono scontati. Mettersi in una postura di ricerca e di accoglienza generativa. Le domande hanno un effetto perturbante. Porre domande apre possibilità al ricercatore insieme a risposta soddisfacenti, invita alla molteplicità delle versioni, valorizza le differenze, suscita curiosità (questo è spiazzante e qualcuno non lo gradisce molto). Porre domande ci permette di orientarci verso territori meno noti, riattribuisce responsabilità al soggetto come ente pensante e fautore di inedite conquiste cognitive. I movimenti sono tre dunque: INVITARE, ABITARE, ATTENDERE (azioni chiave per chi si occupa di educazione con la famiglia). Apprendere e formulare buone domande è un esercizio che produce effetti sulla qualità delle relazioni interpersonali: rompe copioni obsoleti, introduce elementi di novità euristica in un rapporto che rischia di essere scontato e prevedibile, promuove l’attenzione per la complessità delle relazioni familiari, dei servizi e di chi vi opera. Allora una buona domanda è quella che rende visibili i presupposti, li ridiscute e solleva questioni su aspetti assodati, problematizzandoli. E’ una esperienza generativa: le domande sono potenti mezzi per indagare, descrivere, raccontare la realtà, significarla, trasformarla attraverso il linguaggio. Le domande possono far nascere storie, innescare cambiamenti, disporre alla ricerca, oppure chiudere le possibilità e le conversazioni, confermando storie già scritte. Si sente tutta l’influenza del contesto scolastico e formativo, spesso costellato da accademismi, nel quale queste domande vengono formulate. Perseguire l’ottica sistemica nella formulazione delle domande significa imparare l’arte della ristrutturazione e della connotazione positiva: da una parte per non chiudere troppo lo sguardo dentro interpretazioni pregiudiziali, dall’altra per evitare la retorica della generalizzazione e del moralismo, che condanna e colpevolizza a priori le famiglie. Rivolgere su di sé le domande aiuta a valutarne l’efficacia e la generatività 11 narrativa, riflessiva, le aperture che offrono. Guardo ristrutturazione e connotazione positiva pag 49 a 51. Per chi opera quotidianamente con le famiglie, ciò che fa la differenza sono i modi in cui porgiamo una domanda: formulare una buona domanda non è facile, merita molta cura, tatto e poca compiacenza. Le domande che appaiono più generative sono quelle che: • Esplorano presupposti • Evidenziano interazioni complesse • Focalizzano particolari culture domestiche. Sono domande che personalizzano, contestualizzano, invitano alla narrazione e al ricordo dettagliando e circoscrivendo. Domande che spostano lo sguardo. E’ differente chiedere: “qual è il problema? E “Chi vuole iniziare a raccontare le ragioni che vi hanno portato qui?” (una domanda che apre a storie multiple e non necessariamente problematiche) Formulare domande con attenzione significa porre attenzione all’uso delle parole, dare voce e visibilità a tutti, grandi e piccoli, ascoltare le loro risposte e dare loro legittimità, nell’ottica di una comune ricerca. E’ sorprendente il contributo che danno i membri più giovani delle famiglie, riconoscendo loro dignità di opinione e di partecipazione, in un clima di attenzione e cura (in queste occasioni padri e madri scoprono, che i figli hanno opinioni, idee e aspettative su quanto sta succedendo in casa, sul servizio educativo o su nuovi eventi futuri. Propongono osservazioni e soluzioni inattese e creative alle situazioni critiche che tutti quanti vivono. Le domande sistemiche creano dunque nuovi sguardi, orientandoli dalla “storia unica, centrata sul problema” alle “storie molteplici, trasformative e generative”. B. SPERIMENTARE CONCETTI: “LE TEORIE VANNO RISPETTATE, NON RIVERITE” Dando nomi alle cose, sottraiamo al tempo, alla relazione, al movimento ciò che perennemente cambia. Quali parole useremmo per definire una famiglia? Siamo circondati da molte immagini retoriche che celebrano la famiglia come luogo felice, sicuro riparo, consolazione, perenne fonte di benessere. Ammettere che non è sempre così, che si tratta anche di un luogo in cui si soffre, si litiga, si viene maltrattati… 12 presa di distanza: da sé stessi e dall’oggetto di indagine, nel tentativo di mantenere una posizione di curiosità anche verso qualcosa che si presume di conoscere molto bene. Eppure situazioni di questo tipo rappresentano l’occasione per accedere a indizi illuminanti sulla storia della propria famiglia, conoscerne eventi in modo più dettagliato, scoprire nuovi nessi tra passato e presente, vivere situazioni di intimità emotiva con i propri cari, protetti da una cornice di ricerca. Tesi: non possiamo non fare i conti con la cultura familiare di cui siamo portatori e divenire consapevoli di come questa nel tempo ha modellato il nostro sguardo è molto produttivo. Pietre parole: una pratica per rinnovare lo sguardo Educatori si diviene anche grazie alle importanti e indelebili eredità familiari che hanno segnato la vita. Ripercorrerle e interrogarle ci consente di capire che educatori siamo e cosa abbiamo ereditato e quale ricaduta ha sul nostro modo attuale di prenderci cura degli altri CAPITOLO 3: Alla ricerca delle tracce. I sensi della genitorialità tra frammenti autobiografici e teorie evolutiva (Maria Gaudio) Tracce: un impegno di ricerca (Caccia ai pipistrelli) *: la memoria autobiografica, il recupero di ricordi, il riemergere ad un livello consapevole di frammenti di storia vissuta contribuiscono a far comprendere e comprenderci, non necessariamente ed elusivamente nella dimensione cognitiva. Non ricordiamo solo con la mente. Nella memoria autobiografica, nelle storie dice Bruner, ci sono le testimonianze visibili e palbabili di ciò che abbiamo raccolto e conservato, segni iscritti nel corpo, nella pelle, nei sensi, che sembrano dirci che noi e le nostre idee non sgorghiamo mai dal nulla. * Tesi: possiamo affermare che la spinta al cambiamento e alla ricerca avviene tutte le volte che non troviamo una spiegazione soddisfacente dal punto di vista cognitivo, morale, estetico e pratico. E’ li che costruiamo teorie (= cioè le Grandi Teorie, accettate e condivise dalla comunità scientifica e accademica, quelle di cui si legge nei libri). PAUL VALERY: ogni teoria è un frammento di qualche autobiografia. Ciascuna teoria è tale solo se ha senso per me, se ha una collocazione nella mia storia, un legame con le mie azioni, se la ritrovo nei miei gesti, la percepisco con i sensi. 15 Tesi: l’approccio autobiografico ci permette di intuire il ruolo potente e trasversale della storia di vira nella costruzione del sapere, nei processi di apprendimento, nelle posture che assumiamo, nelle relazioni che instauriamo, nelle motivazioni che ci portano alle scelte di vita e professionali. Ciascuno di noi cerca, riflette, connette, agisce per trovare una spiegazione soddisfacente del mondo, costruendosi la propria teoria locale, una personale visione connessa all’esperienza. Se vogliamo individuare tracce di famiglia, il primo movimento risiede nel volgere uno sguardo curioso e non interpretativo alle teorie così come i singoli le costruiscono, alle relazioni tra saperi familiari e saperi accreditati, ai nessi tra sistemi di concettualizzazioni e sistemi di valori. Obiettivo: imparare a riconoscere l’originalità e la complessità delle spiegazioni elaborate dalla famiglia e in famiglia. Non immutabili, né date una volta per tutte: il cambiamento appartiene al mondo del vivente. Le conoscenze e i saperi che ci caratterizzano sono costantemente sottoposti a verifica (siamo quotidianamente chiamati a rielaborare i nostri saperi, a connetterli e coordinarli, utilizzando strategie volte “alla ricerca di una presa di posizione che meglio permetta di controllare i mutamenti in atto che stanno coinvolgendo simultaneamente i sistemi di concettualizzazioni e i sistemi di valori elaborati in precedenza”. La famiglia, o meglio quasi ogni suo membro, costruisce teorie locali e dai frammenti autobiografici, appare quanto esse siano uniche, originali, complesse, interconnesse alle teorie generali, alla storia familiare, a una traiettoria esistenziale che si muove tra passato e futuro. Qui c’è odore di famiglia Le parole ci attraversano, suscitano i noi empatia o allontanamento, condivisione o spiazzamento (filtri creativi). In ogni parola pronunciata risuona, risalta, traspare la nostra soggettiva presenza nel mondo (un linguaggio che parla di noi più che del mondo e di noi come intendiamo il mondo). Il racconto poetico per mette di dare luce alle storie. TEORIA E PRATICA: se il primo passo del cercatore di tracce verso il riconoscimento della teoria, in quanto teoria locale, il movimento immediatamente successivo va verso l’esplorazione dei nessi che intercorrono tra sapere ed esperienza, 16 tra il pensiero e l’azione, tra l’epistemologia e la metodologia nelle relazioni educative in famiglia e con la famiglia. Una visione radicata è quella che oppone la teoria alla pratica, il pensiero all’azione, la mente al corpo, la cognizione alla percezione MA : nell’incontro con famiglia, un incontro non ingenuo, non stereotipato o omologante, un incontro autentico, che curi e diventi auto-cura, è necessario abbracciare una visione ecologica che si focalizzi sui nessi più che sulle separazioni, sulle sfumature più che sulle figure piene, sulla “struttura che connette”. I frammenti di autobiografia ci parlano di sensi, percezioni, emozioni e sensazioni, di corpo e di mente, di gesti e di pensieri. Di teorie e di pratiche interconnesse. Ecce homo: pater et mater Le genitorialitàè un’avventura squisitamente umana, appartiene all’individuo e alla specie. Oggi e come ieri è intrecciata con la nostra umanità o forse sarebbe più corretto parlare della nostra animalità umana. La genitorialità è un universale, un tratto specie-specifico del genere homo sapiens al pari del pensiero simbolico e del linguaggio verbale. Due tracce (un padre che gioca con il figlio: mano più grande e una più piccola raffigurate sulla grotta e una tomba che accoglie la madre con il suo bambino) che ci rivelano quanto nella specie homo la relazione genitoriale sia investita sin dalle origini del carattere simbolico che ancora oggi la determina. Storicizzare e contestualizzare: operazioni cruciali Anche uno sguardo su scala planetaria, rivolto a spazi geografici distanti da noi, altre etnie, altre culture, può cambiare la nostra collocazione nel mondo e offrire ampliamenti di prospettiva (L’antropologia ha molto da insegnare a noi educatori che incontriamo la famiglia: ci ha mostrato culture). Non esiste società che non abbia elaborato teorie, pratiche, rappresentazioni e organizzazioni relative ai rapporti tra genitori e figli. La genitorialità è biculturale: - ha le sue radici nella natura, nasce nel fatto biologico della riproduzione - si sviluppa nella dimensione culturale e sociale. La nostra condizione di esseri umani è una condizione plurale e in tutto il pianeta ci sono una pluralità e diversità di regole sociali, espressioni simboliche e rituali che riguardano il rapporto di filiazione, di coppia, di affinità che riguardano il “fare famiglia”. Quando si parla di universale, si corre il rischio che il termine sia interpretato nella direzione dell’omologazione, del modello unico e generale. Per riconoscere le tracce di famiglia è necessario accogliere la dimensione locale nell’universale, a utilizzare l’attenzione al particolare, a vedere il dettaglio senza 17 • Modello istruttivo: premia l’asimmetria relazionale e la dipendenza Il mestiere ci porta alla razionalità Il mestiere si pratica con sudore e fatica Il mestiere prevede l’osservanza di regole e l’uso di tecniche Il mestiere necessita di addestramento e apprendistato La contrapposizione tra le due visioni costituisce un problema: entrambe convergono in un’idea di genitorialità come esito finale, raggiungimento di uno stato in cui il soggetto adulto può finalmente esercitare la propria funzione oppure interpretare il ruolo. Il figlio ne sarà il prodotto o l’opera. Entrambi i modelli pongono la genitorialità al di fuori della relazione, del contesto, della storia e delle storie (L’essere umano esiste solo in relazione a qualcuno). Nel nostro ricercare tracce di famiglie vi è una terza via: il modello evolutivo- ecologico che fa rendere conto di un processo relazionale e in continuo divenire come è quello genitoriale. In questo modello si opera per interdipendenza tra universale e locale, per cooperazione e conflittualità, per simmetrie relazionali dentro asimmetrie di piani e livelli, muovendosi verso una DESCRIZIONE DOPPIA, o verso la co-struzione di mondi possibili. Questo modello rende bene l’idea delle tante transizioni che genitori e figli attraversano: un processo evolutivo provvisorio o parziale, fatto di sovrapposizioni culturali,ecologiche e biologiche, punteggiato di adattamenti ed episodi di ex-apation, di continuità e brusche discontinuità = Bricolage educativo (per rendere contro della molteplicità/complessità nell’evoluzione). Descrizione doppia pag 92-93 Il bricoleur: usa arte e mestiere, coordinando quotidianamente la dimensione dell’improvvisazione creativa con la progettazione del futuro, attingendo sia alla capacità riflessiva e teorizzante, sia alla necessità di fare e agire “Il processo genitoriale è complesso, non segue un programma predeterminato basato su strumenti e materie prime o tecniche ingegneristiche, è un bricolage, una rapsodia fatta di ridondanze, flessibilità e creatività. Le teorie evolutive pongono anche noi educatori che andiamo alla ricerca di tracce di famiglia di fronte a un salto che ci porta ad assumere una postura ben più complessa e incerta. La nostra storia bio-culturale ci mostra che l’immaginazione, il potersi pensare in divenire, gioca un ruolo generativo. 20 Il bricolage diventa un’esperienza che mette in movimento, in relazione, collega l’oggi con una prospettiva futura, il presente con la storia vissuta, segnando il passaggio dal separare al connettere. Un connettere inteso come essere-fare-divenire nella relazione, che è la dimensione costitutiva della genitorialità. Tesi: stiamo parlando di genitori che sanno essere artisti e ingegneri insieme e rimodulano continuamente il progetto iniziale attraverso la capacità di: • Muoversi nell’eventualità, nel caso • Accogliere l’imprevisto scendendo nei vincoli • Usare con creatività e flessibilità ciò di cui dispone • Inventare nuove funzioni per vecchie strutture (ex-aptation) • Riconoscere la ricchezza di materiali e tecniche diverse (ridondanza) • Ricombinare in base a ciò che c’è a portata di mano (opportunismo) Il genitore sarà chiamato a risolvere questioni nuove ogni giorno, a misurarsi con la non linearità, il cambiamento repentino. E’ la capacità di misurarsi con l’imprevisto. La dimensione della flessibilità diventa una grande risorsa. Riconoscere tracce diventa un atto creativo che interconnette elementi. Abbiamo bisogno di una nuova competenza per incontrare la famiglia, abbiamo bisogno di uscire dal modello che impartisce istruzioni, individua problemi e eroga soluzioni già note, sperimentate e misurate. Allo stesso tempo non possiamo neppure accontentarci di dipingerla, cantarla e danzarla, la famiglia. Abbiamo bisogno di farci l’orecchio, colorare le lenti, toccare con mano, annusare e gustare, ampliare il nostro orizzonte e immaginare mondi possibili e sostenibili, aumentare le possibilità di scelta della famiglia e nostre, alimentare la curiosità, imparare a cogliere le opportunità dell’imprevisto, apprendere lo stupore davanti alla precarietà, cercare la bellezza nell’imperfezione. CAPITOLO 4: Interazioni: osservare la famiglia in azione (Mara Pirotta) L’interazione umana non si ferma al livello puramente verbale, anzi grandissima parte della comunicazione ha luogo attraverso segnali, mimiche, gesticolazioni, posture e altre più esclusive modalità di comportamento. L’osservazione è un procedimento selettivo che si differenzia dal semplice guardare o vedere, per il fatto che lo sguardo dell’osservatore è intenzionalmente guidato da 21 premesse, pregiudizi e ipotesi che sono una guida nell’ottenere le informazioni desiderate, e da un metodo che consente di farlo nel modo più accurato ed efficace possibile. Non si può osservare tutto: l’osservazione è sempre e comunque un processo di selezione e di scelta metodologica intenzionale, soggettiva e coordinata con una comunità di osservatori. In relazione a cosa si sceglie di osservare e come, la descrizione di quanto è stato osservato avrà un colore specifico e soggettivo. Non è quindi possibile osservare in modo totale né oggettivo; L’osservatore è sempre inserito nel processo di osservazione, lo caratterizza e ne è a sua volta influenzato. L’oggetto dell’osservazione, non può essere considerato indipendente da chi lo osserva, perché l’atto di osservare modifica o altera in modo incontrollabile il comportamento dell’osservato. L’esperienza pregressa di chi osserva, i suoi pregiudizi e preconcetti inevitabilmente vengono messi in scena, con il rischio di filtrare talmente tanto i “dati” da non riuscire a cogliere aspetti che potrebbero modificare le sue ipotesi di partenza. Osservare la famiglia pag 101 e 102. Nel lavoro pedagogico l’osservazione è una vera e propria pratica che richiede (e produce) cura, attenzione e responsabilità, se guardo in un certo modo, so che riuscirò a vedere delle cose e non altre. Auto-osservazione : una pratica nella quale l’osservazione diventa in un certo senso la consulenza stessa. Porta ad altre visioni e altre narrazioni nell’intento di far sì che ognuno, osservando se stesso e i suoi pattern relazionali, riesca a riconoscersi e a stare un po’ meglio. Un esercizio di posizionamento Ognuno di noi ha una propria e personale esperienza di famiglia, di genitorialità, di cura, dell’essere figli. Questa esperienza viene inevitabilmente evocata quando nel lavoro educativo o di consulenza siamo chiamati a interagire con un genitore che chiede aiuto a vari livelli. E’ utile permette a queste idee di emergere, attraverso una posizione curiosa e interrogante. Nel lavoro di consulenza con i genitori cerco di offrire loro la possibilità di osservarsi, mettersi in gioco, cambiare posizione e punto di vista, per arrivare a riconoscersi nei pregi e nei difetti, nei vincoli e nelle possibilità, per poter diventare consapevoli di se stessi e della propria modalità di entrare in interazione con gli altri. E’ stato fatto vedere un video prima muto e poi con il suono: sono apparse prospettive e punteggiature diverse. Esempio di una mamma che ha chiesto aiuto per soffermarsi sul suo essere madre. Il 22 MA: non si può non influenzare, inoltre, pregiudizi ed esperienze precedenti provocano nell’osservatore risonanze e atteggiamenti che arrivano poi a interagire con quelli degli altri componenti. Dopo i primi minuti in cui l’adulto sembra inibito dalla presenza del consulente e delle videocamere, sono i bisogni e le richieste del figlio ad avere il sopravvento e riportare il genitore sul compito di cura (con il passare del tempo la presenza dell’osservatore è diventata parte integrante del setting relazionale e allo stesso tempo della danza del sistema famiglia osservato: l’inclusione dell’osservatore nel sistema osservato è inevitabile). Come ti vedi, osservandoti? Il passaggio successivo alla ripresa delle immagini è quello di: ritrovarsi insieme a osservarle. Portiamo l’attenzione sui momenti in cui ci si riconosce poco competenti nell’essere genitori o anche inadeguati. Vengono invitati ad allargare lo sguardo: dal vissuto e agito personale ai feedback degli altri. Non solo, dunque, “Lì mi sono sentita così” ma “che cosa mi stava dicendo in quel momento il mio bambino?”. Soffermarsi a dare nome e riflettere sulle scene selezionate e scelte dai genitori, facendole nel contempo interagire con altre sequenze e figure rimaste sullo sfondo, è un processo che stimola i genitori a creare connessioni, delineando così i contorni di altre figure e altre storie possibili, oltre quella sentita come propria e principale. Tesi: PROCESSO DI CO-COSTRUZIONE CHE GENERA, ATTRAVERSO IL CONFRONTO RECIPROCO, NUOVE POSSIBILITA’ DI VEDERE E STRATEGIE PERCORRIBILI. Attraverso il processo di visione, selezione, taglio e montaggio delle scene ( post- produzione video) i genitori hanno la possibilità di soffermarsi e prendersi cura di sé e della propria storia. Il rivedersi per più volte consecutive in momenti diversi, permette di decentrarsi e attribuire nuove punteggiature possibili alla stessa scena, ri-significarla e ri- connotarla. C’è anche una possibile valenza generativa e trasformativa in questo lavoro, quando fa emergere il novo, le potenzialità e le risorse. LA TECNICA DEL VIDEO-REPLAY PERMETTE UN MAGGIOR COINVOLGIMENTO EMOTIVO DELLA FAMIGLIA STESSA, AIUTANDO A PRENDERE CONSAPEVOLEZZA DEI PROPRI SENTIMENTI E, AUMENTANDO LA CAPACITA’ DI RICONOSCERE UNO SCHEMA DI COMUNICAZIONE RISULTATO UTILE O NON UTILE. Punteggiatura pag 112-113. …PERMETTE AL GENITORE DI SENTIRSI RICONOSCIUTO NEL PROPRIO STARE MALE 25 MA ANCHE DI CERCARE STRADE ALTERNATIVE PER TRASFORMARE LA SITUAZIONE. Inoltre, pone il genitore nella condizione di riuscire a riconoscere e comprendere il proprio stile interattivo e relazionale, rapportandolo con quello degli altri e con i pattern in cui si inserisce. La consapevolezza dello stile educativo (come faccio?) e delle sue pre-comprensioni (perché faccio così?) crea i presupposti per modulare l’azione di cura, variarla e metterla in movimento, passando da una situazione apparente di stasi e immobilità alla possibilità/praticabilità del cambiamento. ARMONIZZAZIONE (BATESON) = una sorta di composizione creativa che attraverso un collegamento estetico (le immagini video) crea prima uno spiazzamento e poi una riconnessione a un livello più alto. Elisa si è osservata e riconosciuta, ma non solo. Ha potuto anche sperimentare come la vede un altro per lei significativo: il marito Fabrizio, che l’ha accompagnata nell’ultima fase del processo di consulenza (guardo pag 115) conversare e riflettere insieme fa sì che il genitore in difficoltà viva meno la solitudine della situazione e riesca a far comprendere meglio all’altro che i suoi vissuti sono associati a qualcosa di reale. Vengono portati in primo piano gli aspetti concreti, educativi e pedagogici, di cura e di relazione. Tesi: IL CONFRONTO DI COPPIA CHE AVVIENE SULLA BASE DI IMMAGINI REALI DI QUANTO ACCADE NELLA ROUTINE QUOTIDIANA PERMETTE UNA RIFLESSIONE SULL’IDEA DI FAMIGLIA CHE OGNUNO HA. NON SOLO TOGLIE IL GENITORE IN DIFFICOLTA’ DALLA POSIZIONE DI SOLITUDINE, OFFRENDOGLI SOSTEGNO E RICONOSCIMENTO, MA ATTIVA IL “SENSO DEL NOI”: LA COSTRUZIONE DI UN’IDEA COMUNE DI COSA SIA ESSERE E FARE I GENITORI IN QUESTA FAMIGLIA, PROPRIO PARTENDO DAGLI ASPETTI PIU’ PRATICI E GESTIONALI, AI QUALI SONO INTIMAMENTE CONNESSI ANCHE QUELLI PIU’ ASTRATTI E IDEALI. Dall’auto-osservazione alla costruzione di altre storie La post-produzione video consente di montare le immagini andando oltre la successione temporale degli eventi e una concezione lineare di sequenzialità; si arriva a un materiale video che sotto diversi aspetti può essere considerato totalmente nuovo rispetto a quello di partenza. In questo caso: rendere più veloci le sequenze e accostarle ha avuto la funzione di far emergere da un lato lo stile educativo di questa madre, dall’altro i feedback dei due figli in relazione alle sue azioni e i feedback della madre alle azioni dei figli. 26 Una sorta di VISIONE DALL’ALTO di se stessi in interazione. Viene costruita una nuova microteoria di sé e della propria famiglia, un’idea non più latente e vissuta come faticosa, ma consapevole, chiara e condivisa. Il lavoro di post-produzione: - può essere utile a identificare le modalità e strategie con cui le famiglie affrontano crisi, conflitti o problemi legati alle routine familiari. Tappa successiva: utilizzare le immagini scelte dai genitori e com-porle allo scopo di creare punteggiature differenti, altre storie possibili, basate non più sull’incapacità o incompetenza, ma sulle risorse e sulle strategie messe in campo il nuovo video può essere utilizzato per: - evidenziare dettagli che a una prima osservazione erano sfuggenti - per portare alla luce le ridondanze nei pattern relazionali che si presentano in situazioni e momenti diversi. Il compito dell’osservatrice è stato: riprendere le immagini scelte dai genitori e utilizzarle per scrivere una storia dai colori e dalle tinte diverse, forse con maggiori sfumature. Una storia che i genitori possano vivere come bella, se la riconoscono come la loro. nuove fotografie del proprio essere genitori e figli. Con una maggiore consapevolezza del fatto che la propria storia, il proprio punto di vista non è l’unico, ma uno dei tanti possibili, e che le strade da percorrere sono tante e ogni volta nuove, anche partendo da una base comune. PASSARE DAL BLOCCO alla RIFLESSIVITA’ CREATIVA. UNA POSIZIONE DIVERSA NELLO STILE E NELL’IDEA DI FAMIGLIA CHE PORTA AD UN LINGUAGGIO DIFFERENTE, NON PIU’ CENTRATO SULLA MANCANZA, MA SULLE RISORSE, SULLE STRATEGIE CREATIVE, SULLE POSSIBILITA’. CAPITOLO 5: L’ABC dell’osservare (Daniela Gini) Osservare attraverso il mezzo audiovisivo (come strumento di lettura delle interazioni umane e dunque quelle familiari). le storie raccontate attraverso le immagini permettono di soffermarci su alcune sequenze, rivederle e per così dire studiarle, operazioni che nella pratica professionale risultano impossibili. L’obiettivo è: imparare a osservare, fermandosi su quelle interazioni che, a una prima visione, risultano difficili da leggere e rifarlo tutte le volte che serve per addestrare e affinare le proprie capacità percettive. 27 desideri… La PNL offre strumenti di lettura del non verbale, operazioni che ognuno di noi fa continuamente, ma inconsapevolmente e dunque senza poter scegliere. La capacità di auto-osservazione apre possibilità diverse nel mettersi in relazione: modificare la postura significa invitare anche l’altro a farlo. Una volta presa consapevolezza della mia persona, posso leggere allo stesso modo ciò che accade nell’altro, sempre in un’ottica circolare, di azione e retro- azione. Promuovere la messa in gioco di sé nella formazione La visione del film è un modo, tra i tanti, per chiedere agli studenti di mettersi in gioco. La teoria costituisce un punto di riferimento per la costruzione di una seria professionalità, ma sarebbe utile che fosse sempre accompagnata da micro- sperimentazioni, per permettere a ognuno di imparare e affinare abilità e competenze. Il film diventa uno strumento di “addestramento dello sguardo”: si può utilizzare il film come ABC per la costruzione del processo osservativo, soprattutto del non verbale, all’interno di un processo relazionale interattivo. Che cosa avete visto, come e dove lo avete visto? Sono i passaggi di un processo logico all’interno del quale ciascuno costruisce (e insieme de-costruisce e ricostruisce) il suo modo di osservare. Ma: ciascuno vede e impara in base a quello che già conosce. GAGNE’ sostiene che si apprende partendo dalle “condizioni interne” (dal modo in cui le nozioni si organizzano” e dalle “variabili esterne” che influenzano l’apprendimento. Facendo crescere la conoscenza, amplificandola e diversificandola è possibile aumentare le possibilità di entrare in rapport e svolgere meglio il lavoro di cura. Il vantaggio del linguaggio narrativo è che ogni singola interazione può essere mostrata o narrata anche nel dettaglio. GRAZIE ALLA VISIONE DEL FILM POSSO AMPLIARE LA MIA VISUALE DI OSSERVAZIONE SUL MONDO, IL MIO REPERTORIO DI AZIONI. PURCHE’ QUESTA VISIONE SIA ATTIVA E RIFLESSIVA. Sentire e/è osservare Osservare è la stessa cosa del sentire. Posso sentire con le orecchie e con il corpo, anche in questo caso ci vuole un addestramento. DEVO ESSERE IN GRADO DI UTILIZZARE IL CANALE PERCETTIVO PRIMARIO DELL’ALTRO, SE VOGLIO RIUSCIRE A COSTRUIRE LA RELAZIONE E LO DEVO FARE 30 NON SOLO ATTRAVERSO IL RICONOSCIMENTO, MA ADEGUANDO IL MIO LINGUAGGIO, LE METAFORE CHE POSSO COSTRUIRE. OSSERVARE UN FILM MI PUO’ RENDERE PIU’ COMPETENTE NEL RICONOSCERE I CANALI PERCETTIVI PRIMARI SIA DELL’ALTRO, SIA MIO. GRAZIE ALL’ADDESTRAMENTO SULL’OSSERVAZIONE E’ POSSIBILE RICONOSCERE LE MODALITA’ CON CUI ENTRIAMO IN RAPPORT, MANTENERLO PER IL PERIODO DELL’INCONTRO, ADATTANDOSI AL CANALE PERCETTIVO DELL’ALTRO PER POTER ACCEDERE AL SUO MONDO E SOSTENERNE LE TRASFORMAZIONI. CAPITOLO 6: posizionamenti estetici e ricerca della bellezza (Andrea Prandin) C’era una volta una famiglia…. guardo pag 143-144-145 L’ipotesi di cura educativa nella conversazione narrata era che queste persone soffrissero nel non riuscire più a dirsi “Mi piaci, ti voglio bene, ti stimo, tu hai valore” e di riflesso. Il riconoscimento reciproco, la possibilità di essere visti e ben raccontati dai propri familiari è un bisogno che in qualche modo e con regole semantiche specifiche di ogni micro-cultura familiare accompagna la vita di ognuno. QUINDI: lavorare con le famiglie significa portare l’attenzione sugli aspetti di NARRAZIONE e sul tipo di STORIE che reciprocamente i vari membri della famiglia si raccontano per definire se stessi e gli altri. IO COME OPERATORE, COME MI RACCONTO QUESTA FAMIGLIA? E SOPRATTUTTO, MI CHIEDO: TUTTE QUESTE STORIE GENERANO BELLEZZA? Guardo pag 146: la bellezza CHE STORIE SI RACCONTANO? Partire da questa domanda con le famiglie significa avviare un percorso aperto di ricerca e di posizionamento mentale in cui l’attenzione dell’operatore non è volta tanto alla comprensione dei giochi relazionali dell’organizzazione familiare in termini strutturali, quanto a rintracciare le idee, le immagini e l’organizzazione del linguaggio e dei significati di ogni storia raccontata. Spostare l’attenzione dalle DINAMICHE INTERATTIVE a quelle NARRATIVE significa prima di tutto accettare l’idea che STORIE E NARRAZIONI rappresentano uno strumento potente di (auto)formazione e (auto)conoscenza. Significa: - riconoscere alle storie il potere di creare connessioni e strutture, organizzando l’esperienza umana secondo un inizio, un proseguimento e una fine. - riconoscere e accettare che non solo le cose in sé (i fatti, gli eventi, le situazioni) a farci soffrire o gioire ma il nostro modo di raccontarle. 31 - riconoscere ogni storia svelando la dimensione poetica della nostra appartenenza al sistema familiare. Tesi: LE NARRAZIONI SI COSTITUISCONO COME UNA FORMA PARTICOLARE DI CONOSCENZA CHE AGISCE SULLA FORMAZIONE DELL’IDENTITA’ PERSONALE E CHE USIAMO PER DARE FORMA E SIGNIFICATO, VINCOLI E POSSIBILITA’, ALLA NOSTRA ESISTENZA. IN QUESTO SENSO LE PRATICHE NARRATIVE HANNO UN EFFETTO CONCRETO SULLE NOSTRE VITE E SUL MODO DI VIVERLE. E’ COMUNQUE IN ESSE CHE TROVIAMO LA CURA. Le storie hanno effetti pragmatici, molto concreti, sulla nostra vita, quindi sul nostro star bene o male, sulla nostra possibilità di cercare la felicità, il benessere, la salute, piuttosto che la sofferenza. Storie saturate da una prospettiva unica Un profilo educativo che si profila è che la famiglia venga rappresentata attraverso narrazioni fisse, dove ogni apprendimento sembra da escludersi (“la mia famiglia è così, le cose stanno così, punto e basta”). Pensare e ripensare la propria storia, narrarla riflessivamente e creativamente, è una pratica utile per mantenere vivo il senso di ciò che avviene, è la condizione del farsi soggetti, dell’essere visti e ri-conosciuti. UN “DIVENIRE UMANO” NON PUO’ ESSERE VISTO O RACCONTATO UNA VOLTA PER SEMPRE. Rischiano di diventare storie a cui non si pensa più, facendo così venir meno un aspetto fondamentale della cura di sé. Come scrive “Luigina Mortari, un’azione di cura della vita della mente è “il raccontare ciò che accade. Non solo ciò che si fa, ma anche ciò che si sente e si pensa.” QUINDI: raccontare è rammemorare, ma non per fissare una volta per tutte il ricordo: per far rinascere a vita nuova, e in altro modo, ciò che si è vissuto. (raccontare per rammemorare rende il presente più ampio, poiché consente alla coscienza di contenere anche ciò che era stato spostato rispetto al campo di visione della consapevolezza) Una delle più importanti funzioni della memoria familiare è la Riflessione formativa: la riflessività diventa autoformazione quando interromper la riproduzione automatica del passato, genera distanza dalle storie tramandate, innesca cambiamenti (formenti). Quando le storie dominanti della vita familiare vengono “saturate dal problema” (= il problema diventa la lente attraverso cui interpretare e leggere ogni esperienza), tutto è ricondotto unicamente agli aspetti negativi della famiglia e dei suoi componenti (sofferenza psichica e relazionale insito nelle trame narrative rigide e chiuse). 32 Obiettivo: perseguire l’apertura a nuove visioni del mondo, a narrative più articolate e pensose, più belle. APERTURA VISIONARIA che darà origine eventualmente a cambiamenti e trasformazioni, a movimenti nuovi e forse più utili (formenti). QUINDI: lavorare alla ricerca della salute, della speranza e della bellezza significa pensare e offrire storie rinunciando alla tentazione di influenzare l’altro in modo istruttivo, verso un cambiamento desiderabile quanto predefinito, perché questo atteggiamento è un “RIDURRE LE POSSIBILITA’” e proprio per questo si rivela inefficace e anti-ecologico. Moltiplicare le storie, invece, implica proporre e occasionare nuove punteggiature e versioni della realtà, che vanno ad arricchire, integrare, rimodellare le versioni iniziali, statiche, inizialmente chiuse su se stesse. Ritornando all’episodio iniziale: un aspetto che ingaggia la famiglia nella relazione di cura è lo stupore dei due ragazzi nel ritrovarsi dentro una conversazione che non tratta primariamente dei problemi. MA: l’agire si basava sull’idea di affrontare sì le loro criticità, ma l’operatore si faceva guidare dalle possibilità, dalle loro tracce di riconoscimento, dal loro valore. Il lavoro di cura educativa, consiste nell’introdurre variazioni, proporre sguardi differenti, che i protagonisti posseggono già, seppur addormentati, nei confronti delle loro relazioni familiari, quindi di se stessi e della loro storia, andando a creare “piccole cose belle”, lavorando nella convinzione che esistono sempre tracce, anche minime di bellezza, e che queste possono essere rese visibili dagli stessi componenti della famiglia. SI TRATTA DI UN POSIZIONAMENTO DI CURA CHE PRIVILEGIA LA RICERCA DI BELLEZZA E RISIEDE NELL’UTILIZZO, DELLA COMUNICAZIONE MA ANCHE DI ALTRE FORME COMUNICATIVE ED ESPRESSIVE PER CO-COSTRUIRE SPAZI DI ESITAZIONE E CURIOSITA’ INTORNO ALLE TIMIDE TRACCE NARRATIVE, IN CUI TUTTI I PARTECIPANTI SONO COINVOLTI RIFLESSIVAMENTE ED ESTETICAMENTE. Bisognerebbe ascoltare il tipo di storia raccontata e poi di andare a cercare/attivare, escludendo interpretazioni e spiegazioni che chiudono ma elementi di narrazione ulteriori, molto concreti, che rimettano in connessione la storia raccontata con le dimensioni della possibilità e della bellezza. Un posizionamento estetico nel lavoro di cura Guardo pag 156. Trattare i problemi, partendo dalla ricerca di momenti, emozioni, elementi e aspetti di salute e funzionamento aumenta il numero delle possibilità, articolando la narrazione in una prospettiva più dinamica, salutare ed educante. Cornici e mondi possibili da pag 157 a 159. 35 La proposta specifica e attiva è: si tratta di andare insieme a cercare, con uno sguardo curioso ed esplorativo, tracce di competenza e abilità, ma soprattutto di poesia e di bellezza, di immaginazione e desiderio, per rintracciare e vivificare la narrazione familiare, trasformandola in romanzo. Una POSTURA MENTALE ESTETICA, ovvero sensibile alla bellezza delle relazioni tra le persone, ma anche tra persone e cose, e case con i loro cari e pure con il loro caos. ASSUMERE UN POSIZIONAMENTO ESTETICO SIGNIFICA GUARDARE E ASCOLTARE CON CURIOSITA’ L’ALTRO; E’ UNA SORTA DI RECIPROCO SPIAZZAMENTO AL SUO RACCONTARSI/RILEVARSI, PER APPREZZARE INSIEME LA SAPIENZA DELLE STORIE E TROVARE COSI’ NUOVE PROSPETTIVE CON CUI RIPERCORRERE L’ESPERIENZA E LE RELAZIONI. Questo modo di posizionarsi nella relazione educativa ricerca il sentire, il sensibile, il vivo e il ri-conoscibile. E’ l’azione di ricerca in sé, lo stato della mente e del corpo, ad essere “estetica” e non l’oggetto a cui si rivolge. Si tratta di pensare la bellezza come un accadimento auto-riflessivo, che è in relazione a noi e ci parla anche di noi. “ “Che cos’è il bello?” è un oggetto che prende forma, è una storia che si trasforma, perché prende luce, diventa visibile, le si dà voce, viene tracciata, disegnata, scritta o cantata e musicata, e comunque viene scelta dal suo autore” (Puviani). Coltivare la dimensione poetica nella quotidianità, nello sviluppo di uno sguardo che fa di tutti gli esseri umani degli artisti e di tutte le storie familiari dei romanzi. Le parole non bastano: alla ricerca di nuove grammatiche Nel lavoro educativo si scopre presto che la parola e il pensiero strutturato hanno dei limiti, in quanto presentano una forma fin troppo definita e convenzionata che non riesce a “intercettare” in modo esaustivo dimensioni come la bellezza, la complessità e l’autenticità che richiamano lo stato di grazia, l’armonia, l’integrazione, la corrispondenza tra mondo interno e mondo esterno. Insomma, le parole spesso non bastano. Servirebbe usare anche nel lavoro educativo, linguaggi e grammatiche capaci di dare voce ad aspetti della vita umana che non sono totalmente verbalizzanti: il racconto, la metafora, la poesia, e prima ancora i segni pre-verbali, il disegno, il suono della voce l’idea è quella di ancorare i percorsi di cura al nesso tra IMMAGINAZIONE ed EDUCAZIONE. Fare ricorso all’immaginazione significa utilizzare i linguaggi simbolici, metaforici e narrativi per creare nessi impensati, per riuscire a far con-vivere e comporre elementi apparentemente estranei, per ri-unificare la mente con il corpo. L’IMMAGINAZIONE E IL RICORSO AL SIMBOLO E’ UNA FUNZIONE DELL’ESPERIENZA CHE “LANCIA DEI PONTI, RADUNA ELEMENTI SEPARATI, COLLEGA IL CIELO E LA 36 TERRA, LA MATERIA E LO SPIRITO, LA NATURA E LA CULTURA, IL REALE E IL SOGNO, L’INCONSCIO E LA COSCIENZA” (Chevalier e Gheerbrant…..). Propendo azioni orientate dalla logica fantastica e creativa è possibile “trafficare” tra reale e immaginario, non per estraniarci dal reale o prenderne le distanze, al contrario, per contattarlo nuova-mente e rimodellarlo. (Un mondo di simboli vive in noi). • Generare altrevisioni e nuovi punti di vista, per dare maggiore libertà al pensiero. • Ogni operatore, scelto il simbolo con cui immaginare, crea un disegno da guardare, con cui conversare, per meravigliarsi, ipotizzare, ma anche vedere e vedersi, fare nuove connessioni e creare aperture. Dentro a questa cornice di lavoro l’operatore assiste, aiuta, accompagna la nascita dei simboli e delle connessioni che essi suscitano, nella profonda convinzione che l’altro, la famiglia, né farà buon uso, il personale uso possibile. Tesi: usare l’immaginazione simbolica permette di accedere in modo leggero e veloce a una dimensione affettiva, emotiva e spirituale verso la quale l’operatore non può che adottare una postura rispettosa. (chiedere di disegnare la propria famiglia attraverso simboli è solo uno degli infiniti modi e possibilità che possiamo scegliere per attivare nella famiglia quello che Umberto Eco ha definito un “andirivieni del significato”, per generare una nuova semantica, aprire possibilità. Immagini e immaginazione per suscitare la ricerca della bellezza, per avere cura dell’altro e per attivare cura tra le relazioni. E’ uno strumento estetico di dialogo che può gettare luce tra le persone, tra i familiari, con se stessi, ma anche tra l’operatore e l’idea/emozione di quella famiglia con cui lavora. USARE L’IMMAGINAZIONE E IL DISEGNO E’ UN MODO E UN PRE-TESTO PER ATTIVARE QUESTA DIMENSIONE DEL SOGNO, DELL’IMPENSATO E PiU’ IN GENERALE DELLA COMPLESSITA’ CHE TIENE INSIEME LE NOSTRE RELAZIONI E QUINDI LA NOSTRA VITA. MA: NON SONO Né IL DISEGNO Né L’IMMAGINAZIONE DI PER SE’ A GENERARE TRASFORMAZIONE, SE NON INSERITI DENTRO UN CONTESTO DI CURA RELAZIONALE ATTENTO E RIGOROSO. Pag 167: Calvino. CAPITOLO 7: tra micro e macrostoria:lo sguardo biografico per comprendere la vita familiare (Laura Formenti).(questo capitolo esplora il rapporto tra microstoria e macrostoria, tra lo sguardo educativo e quelli di altre discipline, che mostrano l’influenza del discorso dominante sulle storie singole, sulle vite concrete delle persone). 37 geografici, educativi.. Questa diversificazione crescente di strutture e stili di vita è una sfida per l’educazione: in assenza del modello unifico, porta in primo piano la necessità di accompagnare a una scelta deliberata. Sono richiesti nuovi apprendimenti, nuovi processi di comunicazione, di negoziazione. Oggi c’è bisogno di “Parlarne”, di conversare per costruire visioni e significati coordinati. Questo richiama ad una necessità di apprendimenti raffinati, che ognuno deve portare a termine nei primi anni della propria formazione come essere umano: abilità nella comunicazione, auto-consapevolezza emotiva e riflessività. COME SI IMPARA OGGI LA FAMIGLIA? Il circo multimediale offre continuamente punteggiature e storie che funzionano come teorie : i new media hanno una possibilità di contaminazione e trasformazione dei punti di vista e influenzano le relazioni familiari: oggi è possibile comunicare a distanza con il marito, con il figlio. Vivere sotto lo stesso tetto, appare meno scontato, forse meno necessario per garantire un senso di unicità e appartenenza. LA SENSAZIONE PREVALENTE RESTA QUELLA DELL’INCERTEZZA, IN TUTTE LE SFERE DELL’ESISTENZA UMANA VISTA PIU COME UNA MINACCIA CHE COME UN’OPPORTUNITA’. OGGI L’INCERTEZZA VIENE COLLEGATA, NELLA RETORICA DOMINANTE, ALLA VULNERABILITA’, ALL’IRROMPERE DI UN SENSO FRAMMENTATO E FRAGILE DELLA VITA QUOTIDIANA. In una società incerta, che cosa è, dove sta, la solidità per una famiglia che sappiamo essere comunque in costante trasformazione? Questa domanda ci riporta al tema dei livelli di apprendimento: oggi non basta più imparare l’inglese (o qualsiasi altra abilità), è necessario prendersi cura del proprio apprendere ad apprendere. E’ la competenza propria dei nostri tempi, che indica non solo la capacità di apprendere per tutta la vita, ma di prendersi cura di sé, degli altri, del proprio apprendere e delle capacità di apprendere dei contesti in cui viviamo. APPRENDERE NON AD “ESSERE”, MA A “DIVENIRE” UMANI, come propone HEINZ VON FOERSTER o GAUDIO quando definisce il “diveniente genitore” (2008a) come qualcuno che impara sempre, da qualsiasi evento, ma specialmente dal figlio, in un processo relazionale i cui risultati non sono determinabili né prevedibili. La complessità è una caratteristica costitutiva del vivere, che può essere riconosciuta e conosciuta grazie alla composizione degli sguardi multipli. L’invenzione del privato La caratteristica più evidente della cultura familiare contemporanea è la “vita privata” (Ariès e Duby, 1988). La privatezza della casa, della vita intima, richiede nuovi spazi, organizzati in modi più complessi e raffinati del passato. A questi corrisponde il cambiamento dei reciproci ruoli dei membri della famiglia (Formenti 2000). 40 Lo spazio domestico evolve con la definizione dei confini tra la sfera pubblica e quella privata (Saraceno 1988). Genera simbolicamente, il senso del privato. L’oggetto della condivisione è un prodotto culturale che a sua volta educa ai nuovi valori sociali, e allo stesso tempo estrania, cioè ha poco o nulla a che fare con la realtà dei sentimenti e delle relazioni di quel nucleo familiare. Le relazioni familiari sono da un lato celebrate, dall’altro negate = UN DOPPIO LEGAME generalizzato. Doppio legame o doppio vincolo pag 187 a 189. Doppi legami istituzionali Nel lavoro educativo è facile rendersi conto dell’esistenza di tendenze molteplici e contraddittorie: - da un lato, siamo testimoni della crescente privatizzazione della vita familiare e valorizzazione delle relazioni interne a scapito di quelle esterne - dall’altro lato la famiglia non appare affatto libera di definire il proprio spazio d’azione e di vita. Una costante azione di controllo è esercitata da ogni tipo di agenzia, istituzione, servizio e in modo particolare dalle autorità dello Stato. Anche attraverso le leggi e politiche sociali che fissano i criteri condivisi sui quali viene valutata la “sana vita familiare”. (si è iniziato a parlare di incompetenza genitoriale con lo sviluppo delle scienze umane). Gli scienziati dell’umano hanno assunto il compito sociale di monitorare, osservare, valutare, fissare i criteri di qualità della vita privata, con la conseguenza di minare alla base proprio la privatezza!! La possibilità che un adulto perda, del tutto o in parte, i propri diritti di genitore, a fronte di una valutazione negativa dei suoi comportamenti, è molto alta. Guardo esempio pag 192: vaccinazione = lo stigma sociale insito in uno sguardo valutante e condannante è un problema aperto nel lavoro con le famiglie. C’è modo di distinguere se la disubbidienza di una famiglia è segno di “controcultura” o disattenzione e maltrattamento ma questo richiede tempo e attenzione. TESI: è lavorando sulla cultura dei servizi, sulla cura dei legami e dei contesti, sulla formazione degli operatori che si può sperare di risolvere, almeno in parte, questo doppio legame istituzionale: “ sii adulto, autonomo e responsabile MA come io te lo prescrivo”, a cui il genitore risponde “aiutami, MA lasciami stare”. La cultura del controllo è penetrata nel lavoro socio-educativo, quasi una deformazione dello sguardo: il problema nasce quando il supporto non ha il senso di aiutare a superare la (temporanea) difficoltà, ma stabilisce un obiettivo di cambiamento. Si tende a normalizzare la famiglia. 41 Come si impara la famiglia? Guardo pag 194. In famiglia si impara vivendo. L’apprendere è al centro della vita familiare: riguarda l’intero, i componenti e le relazioni tra loro. Tutti imparano costantemente e reciprocamente. Gli adulti imparano moltissimo dai bambini, anche quando non glielo riconoscono. Una delle affermazioni più importanti di BATESON: è che si può apprendere da qualsiasi messaggio codificato, indipendentemente da chi è l’emittente. QUINDI: LA FAMIGLIA EDUCA PER DEFINIZIONE, PROPRIO PERCHE’ E’ UN SISTEMA DI RIDONDANZE, DI RELAZIONI CIRCOLARI E DI COMPORTAMENTI INTERDIPENDENTI, CHE DANNO VITA A PROCESSI OMEOSTATICI E MORFOGENETICI, E’ CARATTERIZZATA DUNQUE SIA DALLA PERMANENZA CHE DAL CAMBIAMENTO. Come possiamo rendere visibile, onorare e celebrare la fondamentale capacità della famiglia, cioè quella di trasformarsi continuamente? Solo il “pensare per storie” riesce a restituire questa dinamicità e fluidità. Sembra importante, infatti, che nel rapporto tra le generazioni ci sia un passaggio di conoscenze e di memorie, così come sembra indispensabile una qualche dose di libertà e di creatività rispetto a queste storie, perché le nuove relazioni possano essere generative. Questi processi narrativi sono educativi ma non intenzionali: il modo di apprendere proprio della famiglia è quello dell’educazione informale, indiretta, implicita. SECONDO LA TESI DI BATESON: è probabilmente il carattere inconscio e simbolico delle relazioni a consentire che l’educazione familiare sia “ecologica”, cioè rispettosa della complessità del divenire umano. Quelle occasioni in cui qualcuno intende educare qualcun altro in modo consapevole e finalizzato danno origine facilmente a doppi legami e paradossi. Metafora della famiglia come cultura guardo pag 196 Verso la biograficità: l’esempio della nascita Una famiglia è un insieme di individui, una comunità di osservatori (Maturana 1993) accoppiati strutturalmente grazie al linguaggio che condividono, che è una pratica di con-vivenza e uno strumento di costruzione della realtà. Far parte di una famiglia significa sviluppare un sistema coordinato di storie e dunque condividere una buona parte della “stessa” epistemologia, dello “stesso” paradigma (Reiss, 1981). La vita di una famiglia non si può capire dalla sommatoria delle storie dei suoi membri presi separatamente: dobbiamo capire come le storie si interconnettono e come sono collettivamente generate e trasformate. Quando i contesti e le relazioni si presentano rigidi, vincolanti per i soggetti, le storie si impoveriscono = come educatori abbiamo la responsabilità di creare contesti 42 linguaggio delle emozioni e sottovalutano gli aspetti cognitivi, i vari livelli di apprendimento coinvolti nel processo. Attraverso la telefonata e altre esperienze analoghe, Leyla e Jecky acquisiscono specifiche conoscenze e competenze, e così facendo imparano ad apprendere ma soprattutto imparano nuovi contesti relazionali, dove l’autonomia individuale non minaccia la relazione, dove si può affrontare un compito difficile perché l’altro ti è accanto. C’è un processo comunicativo fatto di azioni e relazioni circolari, continuamente adattato alle successive prese di posizione e risposte dei singoli. L’educatrice offre una struttura che però non sorregge le persone, come sembra suggerire il linguaggio di certi servizi, ma le azioni Il contesto: dove siamo? Cosa stiamo facendo? C’è UNA RETE DI RELAZIONI SIGNIFICATIVE intorno a ogni famiglia: sono necessarie alla sua sopravvivenza. A volte appaiono molto vaste e intricare, altre volte più semplici, impoverite dall’isolamento sociale e da vicende precedenti. (bisogna avere chiaro in mente la mappa di queste relazioni). Ci sono vari tipi di contesto: • Sociale o meglio una rete di relazioni significative, fluida e continuamente ridefinita. Ci sono relazioni prossimali e istituzionali, distali e occasionali che acquisiscono un valore trasformativo. Ci sono anche relazioni del passato che continuano ad agire come se fossero presenti. I soggetti sono parte attiva di tutte queste relazioni, offrono e ricevono sguardi che costruiscono la loro identità, il loro benessere e malessere, le loro possibilità/impossibilità evolutive, le loro definizioni di un problema e delle sue possibili soluzioni. La circolarità delle comunicazioni, dei feedback, delle ridondanze, definisce il contesto come matrice di significati, ovvero dà senso a ciò che accade tra le persone. La rete delle relazioni è la risorsa più importante che ognuno di noi ha per crescere, per costruire una propria idea di sé e del mondo per modificarla. Un aspetto più specifico del contesto sociale è quello ISTITUZIONALE: il luogo concreto dentro il quale avviene l’intervento educativo: un’organizzazione di pratiche e di significati che propone cornici politiche e semantiche che definiscono cosa può e non può accadere in det. circostanze (QUINDI: ogni servizio ha la sua epistemologia 45 e una sua ermeneutica pratica = ciò che si fa in quel contesto ha senso in riferimento alle sue cornici). Non si può lavorare fuori contesto : la tendenza umana a fondare contesti nasce dal bisogno di prevedere cosa farà l’altro. L’educatore che incontra la famiglia deve poter essere “inquadrato” dentro un sistema di attese, da parte dell’assistente sociale, dei suoi colleghi, delle diverse persone che coinvolgono la famiglia oltre alle proprie. Un educatore è colui che sa come muoversi tra queste relazioni, come valorizzarle per sfruttarne le potenzialità, come prendersi cura dei legami riconoscendoli e rendendoli visibili deve fare una ANALISI DEL CONTESTO : cioè una riflessione che risponde alla domanda “dove siamo?”. L’analisi del contesto non ha lo scopo di bloccare il movimento o abbattere le differenze di prospettiva MA serve anzi per realizzare una com-posizione delle cornici, per creare comunicazioni propizie alla trasformazione. E’ evidente che la conoscenza delle regole, dei vincoli del macrosistema può aiutare l’educatore nel leggere i contesti. LA LOGICA DELLA COM-POSIZIONE CI VIENE IN AIUTO: L’OBIETTIVO CHE “TUTTI STIANO UN PO’ MEGLIO” SI TRADUCE IN UN LAVORO CREATIVO TRA OPERATORI DIVERSI PER FORMAZIONE, MANDATO ISTITUZIONALE E SENSIBILITA’. (COMPORRE SGUARDI DIVERSI). Quindi l’analisi del contesto prevede: - prendere atto dell’onigramma, delle mansioni, delle procedure istituite - MA ANCHE: comprendere come il servizio evolve e si trasforma, magari lentamente . Perché un cambiamento a livello istituzionale porta a ridefinire tutti gli interventi in corso. Tutti gli educatori sono chiamati a una maggiore consapevolezza di ciò che accade intorno. IL LAVORO EDUCATIVO SI CONNOTA DUNQUE SEMPRE PIU’ COME LA CAPACITA’ DI LEGGERE E USARE IN MODO CREATIVO LE RISORSE E I VINCOLI PRESENTI, RIDEFINENDO IN TEMPO REALE GLI SCENARI, GLI OBIETTIVI E LE AZIONI CONCRETE. La capacità di riflettere sul proprio posizionamento, sulle proprie azioni in relazione a quella degli altri professionisti, diventa una competenza indispensabile per fare bene e stare bene nel proprio lavoro. Interrogarsi è importante perché è utile alla trasformazione • C’è poi il contesto QUI E ORA con questa famiglia. Come nasce la relazione tra educatore e sistema familiare? L’inizio della relazione presenta molte insidie: pregiudizi non verificati, mancanza di comunicazione tra 46 operatori che incontrano la famiglia in luoghi diversi, scarsa propensione alla costruzione condivisa di un progetto portano a cattive pratiche. Gli ingredienti dell’intervento educativo: 1. LA DOMANDA: “Di chi è questo intervento?A quale bisogno risponde?” Esiste un modo per aiutare, che non si basi sul negativo, sul far sentire l’altro incompetente? Tra le vie suggerite una consiste nel sostituire al bisogno il desiderio, all’aiuto la cura (Formenti, 2009). La domanda sarà una co-costruzione, in continua ridefinizione. La domanda sempre presente, vera, generativa della relazione è: CHI SONO IO PER TE? CHI SEI TU PER ME?. Generare domande multiple, capaci di dare senso alla relazione e alle sue continue trasformazioni. 2. L’INVIO: A volte l’educatore si trova strattonato tra un invitante che gli vhiede di controllare l’operato del genitore e un altro che gli chiede di prendersi cura dell’evoluzione del figlio = due obiettivi contrastanti. Una buona comunicazione tra operatori e con la famiglia non richiede di sacrificare una cornice a vantaggio dell’altra, ma prova a comporle in un progetto sensato. Posizionarsi rispetto all’invio in modo corretto e generativo di possibilità è una competenza importante, soprattutto nelle prime fasi dell’intervento quando i giochi vengono definiti e i contratti stipulati, ma la relazione con l’inviante resta sempre attiva, anche quando non si vede o la si dimentica. 3. IL MANDATO: Interrogarsi sul mandato e disporsi a interpretarlo e ridefinirlo rende l’operatore protagonista del proprio lavoro. Non è necessario subire passivamente un mandato. Porre domande sul proprio mandato è un dono che l’educatore fa al servizio, ai suoi mandati e agli altri professionisti coinvolti, perché li aiuta a definire meglio finalità e obiettivi chiedendosi se sono coerenti con le aspettative della famiglia. Il mandato istituzionale in genere vincola al funzionamento organizzativo così com’è MA se interpretiamo correttamente il ruolo dell’operatore come soggetto dell’istituzione, è solo la sua capacità di trasformare il mandato e farlo proprio che garantisce, nel tempo, l’efficacia dell’azione organizzativa. Non dare per scontato il mandato, sospendere l’azione quando non si è convinti, chiedere incontri per concordare finalità, avviare conversazioni riflessive dentro il proprio luogo di lavoro sono competenze che danno autorevolezza al lavoro dell’educatore. Richiedono anche una buona individuazione: solo l’educatore che personalizza 47 dove vengono fissati obblighi e diritti reciproci. Dal punto di vista relazionale, un contratto è un “sì” che viene chiesto alla famiglia e ai suoi membri. Viene chiesto di aderire a una proposta e di diventarne parte attiva, assumendo una responsabilità. La circolarità tradotta in comunicazione L’operatore sistemico -partecipa alla comunicazione in modo attivo, tiene conto del processo comunicativo in atto e prova a perturbarlo alla ricerca di nuove possibilità. -Usa se stesso come messaggio, usa la propria posizione nel sistema per introdurre differenze che diventino informazioni. Provoca apprendimenti e deutero apprendimenti. -E’ responsivo, cioè adotta una postura di grande attenzione per i feed-back, quelli da dare e quelli da ricevere. - Il suo modo di comunicare è centrato sugli effetti pragmatici (“sarà la risposta che ricevo a dirmi che cosa ho detto, che significato ha la mia azione”). Questa postura epistemologica, molto lontana dal pensiero comune, è evidente nelle procedure inventate dai terapeuti della famiglia per condurre colloqui familiari congiunti: IPOTIZZAZIONE, CIRCOLARITA’ E NEUTRALITA’ sono le linee guida che portano a una raccolta di informazioni sulla famiglia molto più sistemica. Le domande non vengono più poste con l’idea di informare gli operatori sulla situazione familiare, ma sono formulate in modo tale da introdurre differenze che sono spiazzanti per la famiglia e ne ri-orientano il movimento in direzioni impreviste = Domande legittime che mettono in luce le relazioni, rendendole visibili e dunque trasformabili. Ipotizzazione, circolarità, neutralità da pag 232 a 234. L’equipe sistemica, adottando la postura dell’IPOTIZZAZIONE, riconosce il valore parziale e temporaneo delle proprie idee sulla famiglia, che saranno coltivate e arricchite continuamente, per garantire una visione circolare e utile al cambiamento. L’incontro con le altre prospettive, la loro legittimazione, la discussione aperta, disciplina lo sguardo: mettere insieme diverse letture lineari, superare il pregiudizio, formulare un’ipotesi più complessa che tiene insieme le diverse visioni. Quando una èquipe diventa una “mente sistemica” riesce a sintonizzarsi sulla complessità della famiglia, a rispecchiarne la CIRCOLARITA’. La linea guida della NEUTRALITA’ è una qualità emergente dalle azioni dell’ èquipe, che sorge come esito di un’alleanza con la famiglia nel suo insieme, una forma di rispetto per ciò che questa microcultura porta nella relazione. C’è una grande differenza tra: - lavoro terapeutico: i terapeutici incontrano la famiglia (raramente convocano altri 50 soggetti esterni a essa), tra le mura di una stanza una volta al mese (i tempi possono variare), usano prev. il linguaggio verbale per esprimere domande, riletture e prescrizioni, ma viene osservata in seduta anche la comunicazione non verbale. - lavoro educativo: l’educatore lavora a stretto contatto con la famiglia in situazioni di vita quotidiana, si coordina con altri professionisti. Coinvolge persone esterne alla famiglia e può avvalersi di modi non verbali per comunicare. Usare le parole per definire relazioni, emozioni, i problemi è delicato: si rischia di etichettare, si possono generare paradossi e doppi legami, mistificazione (quando la parola nega l’esp. dell’altro) e fraintendimenti. DUNQUE: recuperare la parola autentica, riappropriarsi di una possibilità di conversare in modi non distruttivi, oppure imparare a meta comunicare non sono punti di partenza nel lavoro educativo con la famiglia, ma obiettivi su cui lavorare. E spesso le azioni agite diventano la base per introdurre un nuovo modo anche di parlare. Per accompagnare le trasformazioni della e nella famiglia e quindi celebrare il movimento e la differenza l’educatore può utilizzare: - domande circolari o ipotetiche - il gioco o linguaggi estetici - CREATIVITA’: IMMAGINAZIONE = giocare ruoli diversi, copioni diversi, sognare la famiglia e il futuro.. La famiglia non va mai a dormire Ogni azione educativa con le famiglia è comprensibile se vediamo i singoli, le famiglie e i servizi come sistemi dinamici interconnessi e in continua trasformazione. L’azione educativa basata sull’idea di perturbazione ha qualche chance di essere ecologica se sviluppa una grande sensibilità verso il contesto e verso i processi comunicativi che lo costruiscono e commentano continuamente. LA METAFORA DEL MOVIMENTOpermette di riconoscere delle forme e quindi non sposa l’idea del caos o del caso, ma di un tutto organizzato. E’ raro vedere operatori che dedicano tempo ed energia a comprendere come si sta muovendo la famiglia nel suo insieme, in relazione ai vari contesti e sui diversi piani della sua esistenza. Rarissimo incontrare operatori che hanno una mappa della rete di relazioni prossimali dei loro utenti e delle loro aperture potenziali. • A volte viene detto che molte situazioni sono statiche, ferme e ripetitive quindi non si muovono. MA “quanto movimento è necessario per mantenere un sistema vivente apparentemente fermo? Equilibrista sul filo: per mantenere l’equilibrio deve aggiustare continuamente ogni parte del corpo. I processi vitali non sono mai fermi : METAFORA DELLA NOTTE 51 o IL BOSCO IN INVERNO è una situazione statica? Sotto la neve, il seme si prepara a spuntare. Oltre l’orizzonte, il sole sta per nascere e non si è mai fermato. Solo che noi, da dove siamo, non lo possiamo vedere. • A volte viene detto che molti dei movimenti con cui abbiamo a che fare sono peggiorativi, sono movimenti all’indietro, involuzioni. MA : la freccia del tempo va solo avanti. Quello che chiamiamo “peggioramento” è un messaggio potente nella relazione, può assumere significati diversi. Basti pensare a: il disabile che “dimentica” le autonomie apprese per paura di perdere l’educatore a cui si è affezionato o di disturbare il copione di cura della mamma. Oppure un bambino che fa il piccolino quando arriva un fratellino in casa. E’ scorretto etichettare questi movimenti come involutivi, sono a tutti gli effetti degli apprendimenti, incorporano strategie, veicolano messaggi. Non si può non apprendere. Quali movimenti per stare un po’ meglio? Emergono 4 dimensioni della cura fortemente intrecciate: 1. LA FEDELTA’ DEL SOGGETTO A SE’ STESSO (COME SISTEMA INDIVIDUALE). Questo punto sembra che riguardi il singolo, in realtà definisce la qualità delle relazioni. Imparare la fedeltà a se stessi, dire sì a quello che ci rende felici e no a quello che ci rende infelici, non dovrebbe essere così difficile. In fondo nasciamo attrezzati MA l’aspettativa biologica, iscritta nel corpo, si incontra con il dato culturale che porta una discontinuità. Ogni cultura, ogni famigli ha le sue discontinuità: attraverso le interazioni offre informazioni che aiutano il bambino che cresce a strutturarsi nei modi previsti per diventare un individuo adatto a quel mondo. Ci sono modelli diversi e scelte educative da imparare a riconoscere e rispettare. 2. LA CURA DEI LEGAMI: richiede attenzione per quei fili sottili, che tengono insieme il tessuto delle relazioni familiari, che possono essere ritrovati, riannodati, rinforzati se serve. Cura dei legami significa quindi recuperare la capacità simbolica : il simbolo crea una (ri)composizione che è già in sé curativa. 3. LA CURA PER IL NOI : per la famiglia come tutto interconnesso, trae vantaggio dalla composizione, che tiene insieme il piano reale con il simbolico. 52 Dal finale al percorrere Proprio come avviene nelle fiabe, dove siamo condotti al lieto fine attraverso diverse vicissitudini negative, grazie al venire in scena di un personaggio magico o alla straordinaria genialità di uno dei personaggi. Come se fosse una favola, ci proponiamo di essere noi quelli che potranno rivoluzionare la storia per arrivare al lieto fine. Il rischio è quello di operare come se ci trovassimo di fronte a una macchina (un orologio per esempio) dove tutto è progettato prima e le relazioni tra i vari componenti sono prevedibili, misurabili, sostituibili, riparabili.. Dimenticando la profonda differenza tra: • Sistemi complicati: costruiti da esseri umani che possono essere ricostruiti in dettaglio nei loro componenti e nelle relazioni interne e possono essere determinati dall’esterno. • Sistemi complessi: si programmano da sé, hanno un loro autonomo punto di vista sul mondo e un loro modo specifico di accoppiamento con l’ambiente e che proprio per questo non sono mai conoscibili e controllabili dall’esterno. Mentre nel campo medico: l’anestesista ha la necessità di anestetizzare per creare rapporti in cui vigano le leggi dei rapporti causa/effetto, il lavoro educato che si compie nell’ambito della tutela dei minori non può rinunciare alla dimensione relazionale che è essenziale. Non vige la legge di causa/effetto propria del rapporto tra oggetti. La separazione tra esseri umani non ha mai un significato anestetico, al contrario apre nuove emozioni, nel bene come nel male. E di quel sistema complesso noi ne siamo parte e non ci è dato porci all’esterno. Tesi: nel racconto iniziale, gli operatori credevano ben poco che ci fossero speranze per un finale diverso, che vedesse insieme quella mamma con la sua bambina. Avevano pensato che nessuno ci credesse. Quella mamma invece, ci credeva. Aveva accettato di percorrere una strada difficile come quella comunitaria, eppure ha saputo credere anche a un finale diverso da quel lieto fine con il quale ci volevamo misurare per verificare il successo o il fallimento dell’intervento. Il paradosso dell’istituzionalizzazione nei servizi de-istituzionalizzati L’imprevisto investe anche il funzionamento dei servizi e lo stile dei nostri interventi. Legge n.149 del 28 marzo 2001, sancendo il diritto del minore ad una famiglia, ha disposto la chiusura degli istituti per i minori = processo di de-istituzionalizzazione e decentramento dei servizi. 55 Già dagli anni 70 si avviò un processo per superare le istituzioni totali e vi erano critiche sugli effetti che esse producevo sulle persone. In Italia: tale processo che investì tutti i servizi sociali e sanitari ebbe avvio in campo psichiatrico sotto la guida di Franco Basaglia che fece abolire i manicomi. Il processo di deistituzionalizzazione portò anche alla chiusura degli istituti minorili. Nascita delle comunità per bambini e di quelle per mamme e bambini: realtà più piccole, meno rigide, più aperte alle trasformazione, almeno nelle intenzioni del legislatore. Vivere in comunità non è come vivere in istituto ma nemmeno è privo del tutto di elementi istituzionali. Alcuni elementi tipici delle istituzioni totali si trovano anche nelle comunità: • Gestire il potere • Regolare la vita dei singoli e dei gruppi • Assicurare equità di trattamento • Mantenere distacco tra le vite dei professionisti e quelle degli ospiti • Segnare la differenza tra il dentro e il fuori, tra il prima e il dopo servizio • Presenza dell’autorità giudiziaria che fissa le premesse e le conseguenze di quella permanenza. Il processo di de-istituzionalizzazione non si può considerare concluso con la chiusura dell’ultimo istituto, perché nell’intervento di tutela minori, è sempre presente il rischio di porsi in un’ottica istituzionalizzante. Gli operatori devono essere in grado di riconoscerla e fare in modo ad esempio di accogliere il limite non solo come negativo ma come occasione di apprendimento e vedere tutti gli strumenti con significati diversi da quelli istituzionali. Partiamo dal termine TUTELA: esso non aiuta, può indurre a interventi limitanti e preservativi, chiusi. INVECE: gli interventi per ogni famiglia possono essere pensati non sulla base della “riduzione del rischio”, ma sul riconoscere la fase che quella famiglia sta attraversando in quel momento, sapendo che sempre possono, in ogni direzione esserci evoluzioni (Fruggeri, 1997;Formenti,2000). Rimanere sempre in attesa di possibili sorprese: promuovendo contesti disponibili a fare posto a spiegazioni innovative dell’ordinario che capita. Esempio: mamma che entra in comunità con il suo bambino = da un lato mantiene le autonomie che già aveva raggiunto (lavoro, auto, impegni sociali) 56 quindi vi è la necessità di riconoscere e promuovere le capacità di quella mamma, dall’altro entra in contesto di protezione. = Protezione ed evoluzione. Tre interrogativi: • Genitori liberi o coatti? I servizi di tutela sono solitamente caratterizzati da un significato coattivo: la presenza del tribunale che obbliga non può essere considerata secondaria. MA la dimensione coattivanon aiuta la famiglia a fare un salto evolutivo; si rischia al contrario di contrapporre due fronti immutabili. Dall’altra parte, sottovalutare che ci si trovi in contesti di obbligo sarebbe una mistificazione. Nelle situazioni obbligate si possono comunque individuare e promuovere spazi di libertà: Esempio: di solito il giudice prescrive il collocamento in comunità del figlio insieme alla madre e, qualora questa non aderisca, solo del figlio = questo significa che ogni donna in comunità, pur in una situazione apparentemente obbligata, ha scelto di starci. I genitori alla ricerca di spazi di libertà, pur tra gli obblighi, spesso lo fanno contrapponendosi ai servizi o nascondendosi. OBIETTIVO: riuscire ad individuare insieme ai genitori spazi leciti e condivisi di libertà. Si tratta quindi per molti genitori di autorizzarsi alla libertà, pur nei contesti limitati. Immaginare comunità dove le mamme possano pensarsi e vivere la loro genitorialità anche all’esterno, in un quotidiano più libero. La gestione delle regole, all’interno della comunità, pur dovendo essere rigorosa, acquisisce un senso molto diverso a seconda di come viene imposta. • Intervenire subito o dare tempo? Posizioni contrapposte: “Bisogna fare presto” VS “Diamo tempo”. E’ utile porre in relazione: la quantità del tempo con la qualità di ciò che avviene in quel tempo, soprattutto nelle relazioni. La cronicizzazione non è data solo dal tempo, ma anche dal fatto che in quel tempo non si è riusciti a trasformare le relazioni. Ma: intervenire subito non significa necessariamente sottrarre tempo e porsi in attesa non significa sospendere l’intervento. La cronicizzazione può essere provocata proprio da questo modo di vedere le cose. 57 La casa: punto di partenza, di transito, di arrivo? ADM: indica che il servizio si dovrebbe svolgere a domicilio, nella casa del minore. Questo aspetto distingue in maniera netta l’ADM da altri interventi educativi che si svolgono in setting predisposti ad hoc, strutturati secondo finalità istituzionali. L’entrare nella casa di una famiglia, nel su modo più intimo e personale, è una azione delicata e importante con la quale ogni educatore è chiamato a fare i conti e nei confronti della quale non è possibile non posizionarsi. Sembra quasi scontato che, quando l’educatore suona alla porta, ci sia qualcuno dall’altra parte pronto ad aprire e accogliere. MA: è proprio così, oppure l’invito a entrare in casa è già una tappa, una conquista della relazione educativa tra la famiglia e l’operatore? Nella maggior parte dei casi, l’educativa domiciliare è un intervento forzato cioè decretato dal giudice e non scelto dalla famiglia che chiede aiuto = per questa ragione l’operatore, in quanto visto come parte del servizio sociale, non può essere percepito da subito come una potenziale risorsa dai membri della famiglia. Potrebbe anzi essere un nemico che entra in casa propria. Aprire la porta ad uno sconosciuto potrebbe non significare affatto, dal punto di vista della famiglia, o di qualcuno al suo interno, fare un passo necessario per iniziare un percorso volto a stare tutti un po’ meglio; così come non aprire non è da intendersi necessariamente come una mancanza di collaborazione. Al contrario la diffidenza, la chiusura e persino l’aperta aggressività sono inizialmente interpretabili come un modo legittimo, per quanto spiacevole, di prendersi cura della propria famiglia rispetto a quelli che appaiono come attacchi e tentativi di invasione. Compito dell’educatore è allora quello di guadagnarsi quella fiducia che permetta alla famiglia di aprire non solo la porta della propria abitazione, ma anche della propria storia, per iniziare un percorso di co-costruzione di possibilità nuove, di strategie relazionali volte al raggiungimento di obiettivi funzionali al ben-essere di quelle persone. Quando si apre la porta di casa e si entra chiedendo “permesso”? si apre il contatto con un mondo, con delle storie che traspaiono già più o meno chiaramente da ogni angolo di quella casa. Saper entrare in punta di piedi, con delicatezza, significa anche accostarsi in maniera accogliente all’ascolto di racconti e all’osservazione di dinamiche e interazioni delicate e complesse, che necessitano di cura. La casa parla di: abitudini, vissuti, relazioni. Parla di come è la vita delle persone che vi abitano e che giorno dopo giorno inevitabilmente la caratterizzano, le danno una 60 forma = saper leggere queste forme, osservare gli spazi senza caricarli di giudizi e categorizzazioni, significa imparare tanto sugli e dagli individui che li abitano. E così la casa diventa il setting educativo per eccellenza, un setting privilegiato. Lo stare, il so-stare in una casa, il viverla insieme ai suoi abitanti abituali permette di osservare processi e situazioni ripetitive (habitus) che sarebbero totalmente invisibili e probabilmente trascurati in altri contesti e in interventi educativi. . La casa può essere però anche un PUNRO DI TRANSITO, un luogo dal quale poter partire per andare verso altri luoghi, attraversarli, prendere quello che ci serve, lasciare qualcosa prima di ritornare a casa, forse arricchiti, sicuramente diversi. . Domicilio come vincolo: quasi una gabbia per chi, nella famiglia, si sentiva in un certo qual modo obbligato a restare in casa, invece di avere la possibilità di mostrare le sue tante “case”, le appartenenze altre. Per questo motivo, mantenendo comunque sempre il domicilio come punto base e di appoggio, è apparso funzionale e interessante chiedere ai bambini e agli adolescenti con cui l’educatrice entrava in relazione di mostrare i “loro luoghi” e a volte anche sperimentarne di nuovi in cui portare delle parti di sé differenti = contesti in cui fare esperienza nuove da riportare poi in casa e condividere con i genitori, alla ricerca di un equilibri tra un buon livello di autonomia, la dipendenza dai genitori e l’appartenenza alla propria famiglia. Dalla casa quindi si può uscire per andare verso luoghi altri: la biblioteca, il centro di aggregazione, il centro sportivo, i supermercati, la sala giochi, la natura…che si trasformano in luoghi educativi proprio per il loro essere altri, ma connessi con la casa e con la famiglia. Tesi: come emerge dagli stralci di racconti, l’intervento educativo non può essere unicamente con il minore perché in casa ci sono altri attori. La sistemica: invita a concentrarsi sull’intero sistema di cure e di interazioni in cui è inserito quot.il bambino. Formenti 2000,p.99 : LA STESSA VISIONE SISTEMICA DELLA FAMIGLIA CI PORTA A RITENERE CHE QUALSIASI INTERVENTO EDUCATIVO O VISIONE DELL’EDUCAZIONE COME PRATICA CHE SI RIVOLGE AI SINGOLI INVESTA NECESSARIAMENTE I LORO SISTEMI DI RIFERIMENTO, PRIMI TRA TUTTI IL SISTEMA DI CONVIVENZA E DI CURA. La famiglia e l’educatore: dal sostituire al valorizzare le relazioni Per la famiglia l’educatore è un estraneo che arriva, infondo pensando di dire ai genitori che cosa dovrebbero fare di diverso con i loro figli, dove sbagliano. Con la sua presenza l’educatore modifica gli equilibri che la famiglia si è creata. Non stupisce quindi che la famiglia, o più spesso un suo portavoce, opponga resistenze all’ingresso dell’operatore. 61 Molti interventi domiciliari si trasformano in una sorta di SOSTITUZIONE del genitore da parte dell’educatore nella funzione di sostegno e supporto ai figli = questo modo di intendere l’intervento realizza una “colonizzazione educativa” che porta dentro la vita familiare nuovi modelli e nuovi discorsi senza tener conto di diversi importanti fattori e senza interrogarsi sugli effetti a lungo termine di questa imposizione. Questa concezione dell’intervento educativo concentrandosi unicamente sul figlio porta sullo sfondo le figure genitoriali, svalorizzandole ulteriolmente. Si perde l’occasione di sfruttare appieno un intervento che dovrebbe invece partire proprio dalla storia della famiglia, dalle risorse effettive o potenziali dei genitori, dallo stile e dai modelli educativi e culturali che questi possono riconoscere e/o sviluppare come propri. Il rischio di sostituirsi ai genitori può portare a una sorta di DESPONSABILIZZAZIONE progressiva degli stessi rispetto al loro ruolo educativo, ed alimentare la convinzione da un lato che i genitori siano incapaci di badare al figlio e dall’altro che proprio il bambino sia il problema, confermandone la posizione di “capro espiatorio” all’interno del sistema familiare. L’epistemologia del “sostituire” isola di fatto i figli dal resto del sistema, come avviene nella costruzione del “paziente designato” (persona portatrice di un sintomo o comportamento deviante, sulla quale viene a cadere l’attenzione di tutti) (SelviniPalazzoli, Boscolo, Cecchin e Prata, 1975) Se si tiene presente il sistema familiare nella sua complessità, l’intervento educativo può proporsi come maggiormente “ecologico” e caratterizzarsi come lavoro con e non su la famiglia (Formenti 2000). Il rischio più frequente degli interventi centrati sui piccoli è quello di rendere la famiglia invisibile, di non considerarla e non considerare il fatto che perché un bambino o un adolescente stia meglio è necessario che tutta la famiglia stia meglio, che riesca ad essere un luogo di cura in cui è possibile stare bene e crescere per tutti, anche e soprattutto per gli adulti. Spesso la famiglia viene tralasciata proprio perché considerata inadeguata e priva di risorse, incapace di tutelare il benessere psico-fisico del bambino. E così viene confermata l’idea che quei genitori, quei nonni, quei parenti non sono in grado di pensare al benessere del bambino. Dobbiamo esse consapevoli di quanta responsabilità abbiano gli operatori e i servizi. Proposta del lavoro con le famiglie: valorizzare ed espandere le connessioni tra tutti questi attori, osservando le loro danze relazionali per poi riflettere insieme a loro sulla danza stessa, sui loro posizionamenti, sulle fatiche, i progetti, i desideri e sulle strategie avvertite come maggiormente funzionali per ottenerli = FARE IN MODO 62 vittima sono i figli e il nucleo familiare. Il carcere è il luogo dove può avvenire ed è vitale e necessario un percorso di ricomposizione. Per i figli che devono poter mantenere i contatti con il genitore detenuto, comprendere ciò che è accaduto, ritrovare i punti cardinali per orientarsi e fare le proprie scelte quando sarà il momento. Il progetto di cura che appare più immediatamente possibile e forse necessario è il RICONGIUNGIMENTO: il colloquio e un ritorno a casa dove sia possibile riprendersi la vita (in un secondo momento). “PRATICA COMPOSITIVA”: Compositiva: - per i diversi piani psico-socio-educativi che integra. - nell’obiettivo concreto di ri-connettere i legami interrotti. Fondazione di BAMBINISENZALESBARRE(pag 286): un’impresa sociale che oggi impegna vari specialisti (psicologi, analisti filosofi, pedagogisti, tirocinanti, volontari…) che ha attraversato da testimone attiva questo decennio di trasformazioni, nell’ambiente penitenziario e non solo. = una pratica che guarda la comunità sociale in una prospettiva solidale e inclusiva, dove la composizione assume il valore di prevenzione sociale e protezione dei diritti dell’infanzia, che resta la parte più debole e più a rischio quando l’ambiente sociale non si fa carico dei suoi bisogni fondamentali. - il mantenimento dei legami con i genitori è primario (un diritto sancito dalla Carta internazionale dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza all’art.9). Non sempre rispettato, nei fatti, dal carcere, luogo di contrasti e di conflitti tra valori diversi. Il contesto istituzionale: il carcere e le sue leggi IL COLLOQUIO è un momento prezioso e cruciale per la cura del legame, per questo deve avvenire nelle condizioni migliori. La detenzione ha una ricaduta sociale estesa, coinvolgendo direttamente o meno una parte consistente della società civile e le istituzioni locali per ciò riguarda la politica dei servizi e la tutela dei diritti alla persona. La famiglia rappresenta - un sostegno affettivo importante durante la detenzione - l’ambito in cui la persona detenuta può trascorrere parte della pensa, quando vengono adottate misure alternative al carcere. QUINDI: maggiore attenzione deve destinarsi alla conoscenza, tutela e valorizzazione della rete primaria di relazioni, che per ogni persona detenuta è diversa e peculiare. L’Area Pedagogica degli istituti di pena ha tra i propri obiettivi: - la promozione della responsabilità genitoriale: patto tratta mentale = mirato alla riduzione della recidiva e a migliorare il clima e la sicurezza dentro il carcere. 65 Il recupero della relazione con i figli sembra portare la persona detenuta, a ritrovare una buona motivazione al cambiamento. Misure alternative alla detenzione: LEGGE FINOCCHIARO: - ha introdotto la detenzione domiciliare speciale per le madri (o per i padri in assenza della madre) con figli al di sotto dei 10 anni di età, anche per pene superiori ai 4 anni purchè non sussista la possibilità di commettere ulteriori reati e sia stato scontato un terzo della pena. -Inoltra questa legge ha previsto: l’estensione dell’art 21 dell’ordinamento penitenziario, che permette l’uscita diurna dal carcere con rientro la sera, per recarsi a lavorare, aggiungendo del tempo in più di permanenza all’esterno per accudire i figli minori e la possibilità di usare tale tempo di cura anche in assenza di un lavoro. Questa legge, seppur con difficoltà di attuazione per i particolari requisiti richiesti, rappresenta un evento importante nel quadro complessivo delle riforme dell’ordinamento penitenziario, proprio per l’attenzione specifica che attribuisce al rapporto genitori-figli. Vi è poi stata approvata una legge di modifica nel 2011, andata in vigore nel 2014: nata dall’esigenza di far uscire i bambini dal carcere senza separarli dalle madri. questa modifica consente alle madri con bambini fino a 6 anni di scontare la pena in un luogo diverso, sia esso l’abitazione o una casa di accoglienza. In mancanza di esse, oggi i bambini possono vivere in detenzione con la madre fino ai 3 anni di età; dopo tale data viene imposta la separazione forzata (evento traumatico). Dicembre 2009: circolare dell’Amministrazione penitenziaria rivolta a tutto il personale addetto ai colloqui (nominata “Circolare del sorriso”) perché tra le linee guida che contiene c’è anche l’invito a sorridere, nell’intento di sollecitare un ambiente più adatto alla presenza dei bambini e attento ai loro bisogni, quando si recano in carcere insieme ai familiari per incontrare il genitore. NB: nonostante i grandi sforzi di UMANIZZAZIONE delle relazioni nel carcere e di adeguamento degli ambienti e dei comportamenti, la cultura carceraria, le strutture, le prassi abituali, incidono in modo determinante sulla possibilità di prendersi effettivamente cura dei legami e di rispondere appieno ai bisogni dei bambini e delle famiglie. Un intervento a più livelli LA MEDIAZIONE: è lo strumento chiave da mettere in campo nello scambio relazionale con i genitori detenuti e i loro cari, con il personale penitenziario e con gli altri operatori. Una mediazione che permette a tutti di comunicare: una comunicazione dove ci si sente tutti più scoperti, più parlante. 66 L’esperienza del carcere è l’esperienza della separazione, che tocca il corpo e la mente, e forse separa ulteriormente moltiplicando le separazioni possibili. Il carcere è il racconto della separazione: quella dai figli è forse la più dolorosa. L’attenzione mostrata nel capitolo va innanzitutto al bambino, seguendo l’ipotesi che la sanzione penale, interrompendo i rapporti affettivi, intervenga come un fatto traumatico nella sua vita. I figli, attori “invisibili” che subiscono scelte e regole dettate dagli adulti, diventano l’anello debole di una catena di eventi che li priva della risorsa più importante (sappiamo quanto sia cruciale e influente la relazione con i genitori in tutti i passaggi di sviluppo, sul piano affettivo, cognitivo e morale). • Nel prendersi cura delle relazioni familiari si mette al centro il benessere del figlio, sapendo che questo non è raggiungibile indipendentemente dal benessere del genitore e di tutta la rete degli altri adulti. Bisogna agire a più livelli: - attività di carattere psico-pedagogico in carcere - le azioni di rete a livello locale, nazionale e internazionale. Il mantenimento della relazione durante il periodo di carcere razione è riconosciuto come: - diritto del bambino al legame fondamentale per crescere - diritto/dovere del genitore ad assumersi la responsabilità e continuità del suo ruolo = la tutela della relazione consente alla persona detenuta di recuperare un’identità genitoriale persa o a rischio, che si cerca di rendere visibile e valorizzare. BISOGNO PROFONDO DI CONTINUITA’ DEL LEGAME AFFETTIVO PER TUTTE LE PERSONE COINVOLTE. Il sostegno e l’accompagnamento della relazione genitoriale durante la detenzione si configura anche come intervento di prevenzione sociale (i figli di detenuti avranno maggiore probabilità di trovarsi in conflitto con la legge e ripetere l’esperienza detentiva del genitore). Queste attività si consolidano in una pratica che individua un percorso di accompagnamento e di sostegno psicopedagogico alla coppia genitore-figlio nel suo sistema di relazioni. • Nei confronti del genitore , parallelamente, viene realizzato un lavoro di mediazione che gli consenta di riconnettersi con la rete di relazioni da cui è separato a causa della detenzione e con una rete di rapporti istituzionali che coinvolge i servizi interni al carcere, i servizi sociali territoriali, il tribunale per i minorenni, i servizi di sussidiarietà del privato sociale coinvolti nella fase del 67 • In un’ottica di cura (mantenimento e valorizzazione) dei legami relazionale e affettivi, finalizzati a mantenere, ove possibile, il minore in famiglia Complessità dell’intervento che prevede diverse azioni di cura dei legami, nel tempo e compone obiettivi a livelli diversi, strategici, coordinati e individualizzati. Si attua un vero e proprio percorso di connessioni multiple, dentro e fuori dal carcere, nel quale vengono realizzate azioni trasversali che coinvolgono ora i figli e la famiglia, ora la persona detenuta, ora i servizi. Gli incontri di gruppo con i genitori e i colloqui individuali in carcere sono i motori e i contenitori di questi flussi informativi/formativi interconnessi e comunicanti. Il processo di intervento: azioni di cura dei legami pag 299 e 300. Da 302 a 307 guardo libro: LO SPAZIO GIALLO CAPITOLO 5: Posizionarsi nel conflitto: l’educatore a Spazio Neutro. (Andrea Galimberti) La parola conflitto richiama immediatamente l’idea di opposizione di due o più punti di vista che non riescono a trovare una forma di convivenza, di complementarietà e si scontrano in modo simmetrico. Dal conflitto possono nascere conseguenze: positive o negative (sofferenza, violenza..) E in famiglia? Allo stesso modo, in alcune famiglie il conflitto assume termini e proporzioni da generare sofferenza in uno o più membri, altre è visto come un tabù da evitare a tutti i costi e proprio questo evitamento può dare origine a problemi…ma nella maggior parte delle famiglie il conflitto è affrontato normalmente come un fatto della vita, anche con humor e creatività, e “usato” per fare passi avanti signficativi nelle relazioni e nello sviluppo individuale. Come posizionarsi? SPAZIO NEUTRO E’ nato per sostenere e favorire il mantenimento della relazione tra il bambino e il genitore o adulto di riferimento per lui significativo, in quelle vicende famigliari in cui questo bisogno non è rispettato, a causa di conflitti intrafamiliari o situazioni di malattia e disagio. I servizi “per il diritto di visita e di relazione” diffusi in molta parte del mondo occidentale, devono larga parte della loro diffusione a un mutamento di sensibilità che riguarda, da una ventina d’anni circa, le relazioni tra genitori e figli e l’idea stessa di infanzia; si tratta di un mutamento che ha permesso l’avvio di un graduale processo che pone al centro dell’intervento pubblico e privato il diritto, riconosciuto al minore, del mantenimento delle relazioni con i propri genitori e con altre persone affettivamente significative. Molti stati recepiscono nel proprio sistema giuridico la dichiarazione dei diritti 70 dell’infanzia (ONU, 1989). Le famiglie che giungono al servizio sono invitate dal Tribunale per i Minorenni o dal Tribunale Ordinario in modo coatto attraverso provvedimenti (decreti) nei quali l’autorità giudiziaria intende sostenere e/o controllare la relazione tra adulto e bambino in un luogo protetto. Nella storia di queste famiglie, dunque, a un certo punto entrano in gioco i servizi: qualcuno valuta che l’equilibrio raggiunto dal sistema famigliare sia disfunzionale a uno sviluppo sano e sereno di uno più dei suoi membri (figlio). Molte famiglie sono invitate perché stanno vivendo una separazione altamente conflittuale. In questi casi, i figli vengono affidati al padre o alla madre e si trovano coinvolti nelle dinamiche tra i genitori, che chiedono loro di schierarsi. E’ quindi faticoso per loro trovare uno spazio proprio per mantenere un legame e un contatto sereno con entrambe le figure di riferimento = in queste situazioni si pensa che “un luogo neutro, cioè un luogo terzo non appartenente a nessuno dei due contendenti, può facilitare i genitori nel riconoscere il bisogno/diritto del bambino a veder rispettati i suoi affetti. Al servizio spazio neutro è richiesto di costruire con la famiglia un progetto che renda possibile il mantenimento del diritto di visita e di relazione del bambino. L’obiettivo di lungo termine è quello di lavorare affinchè questi possa mantenere i contatti con entrambi i genitori in un clima che non sia pregiudizievole per la sua crescita. L’équipe del servizio può essere costituita da professionisti di stessa formazione o provenienti da aree differenti della relazione d’aiuto. Il lavoro è svolto in stretta connessione con i colleghi della Tutela Minori che in genere riceve dal tribunale la titolarità della presa in carico della famiglia segnalata e con altri professionisti coinvolti dal decreto (es: terapeuti). Rispetto all’incarico ricevuto, Spazio Neutro deve rendere contro attraverso relazioni scritte al Tribunale che ha emesso il decreto. Alla famiglia dunque viene prescritto di collaborare con Spazio Neutro e con i vari professionisti della rete che si viene a costituire. Questo rappresenta una possibile difficoltà: coloro che sono stati invitati, possono incontrare difficoltà nell’accettare l’imposizione e possono, rifiutarsi di vivere la relazione in uno spazio semi pubblico, sottoposto a osservazione e valutazione. Seguendo l’epistemologia sistemica è più probabile che il cambiamento avvenga quando si contribuisce ad aumentare il numero delle possibilità tra le quali può scegliere il sistema. 71 La sfida è quella di riuscire a innescare processi di apprendimento a partire dalla crisi che ha portato all’ingresso nel servizio. Il percorso a Spazio Neutro prevede diversi tipi di interventi: • Colloqui individuali con i genitori • Colloqui con i minori • Incontri protetti (effettuati alla presenza di un operatore) tra il bambino e il genitore escluso per effetto del conflitto o ritenuto potenzialmente dannoso. L’esperienza del conflitto: eventi ed emozioni da pag 313 a 315 La rappresentazione estetica: dare forma al conflitto Ricercare una rappresentazione estetica, sensibile e immaginativa del conflitto significa sia proporre concretamente alle persone con cui lavoro la ricerca di una rappresentazione alternativa del problema (ad esempio attraverso il disegno), sia ascoltare le metafore, le immagini che emergono spontaneamente nei loro racconti, come parole chiave che rintraccio nel testo che l’altro mi porta. = CAMBIARE IL LINGUAGGIO E’ UN’OPERAZIONE CHE IN SE’ MIRA A CAMBIARE LA RAPPRESENTAZIONE DEI FATTI. Spesso si assiste a racconti saturati di attribuzioni di colpe: idee perfette ridotte a una definizione minimale assoluta e senza tempo che perdono la qualità di storie cioè di trame che connettono aspetti diversi e complessi di una dimensione temporale Spiazzare la conversazione attraverso l’utilizzo di linguaggi estetici e richieste “a tema” può mettere l’altro nella condizione di diventare osservatore della propria storia assumendo una posizione differente rispetto a quella strenuamente ripetuta. Ad esempio: ad un primo colloquio disegnare il problema e la sua soluzione pag 317. La comprensione intelligente: verso una teoria del conflitto Le punteggiature delle narrazioni, i modi in cui i racconti sono riportati, le rappresentazioni estetiche sono elementi diversi ed eterogenei che si aprono nel corso delle conversazioni. Da tutti questi elementi costruiamo una teoria locale della situazione, ognuno dalla propria prospettiva. LA DISPOSIZIONE ALLA PENSOSITA’ è LA CONDIZIONE NECESSARIA AFFINCHE’ L’ESPERIENZA SI TRASFORMI IN COMPETENZA. Il conflitto è uno di quei concetti astratti che si vivono e si strutturano attraverso metafore: • Metafora del bambino: caos nella sua vita (fiume inquinato), dove riportare ordine attraverso la giusta ri-collocazione dei ruoli (pattumiere differenziate). 72 “Imparare a saper stare nell’incertezza, ad accogliere l’inedito e il conflitto che da qui scaturisce non come elemento negativo, ma come l’occasione per una crescita professionale che può provocare trasformazioni positive nell’agire”. CAPITOLO 6: Costruire consapevolezza nella relazione con le famiglie (Flavio Bocci) Lavoro con gli adolescenti? E’ bene ricordarsi che dietro all’adolescente c’è una famiglia. L’educatore entra sempre in interazione con sistemi, anche se non sempre ne è consapevole. Ancor più: l’educatore diventa parte di un sistema in cui tenta di conoscere la complessità e all’interno del quale promuove azioni rivolte a una qualche forma di cambiamento. La conoscenza del mondo, quindi, in particolare di un sistema complesso come quello che si viene a creare tra la famiglia e operatore (e tutti gli altri connessi), non può prescindere dallo studio della mente che conosce e dei suoi condizionamenti. L’etimologia della parola “consapevolezza” composta da: CON e SAPERE, ha la stessa radice SAP di “sapore”: è come se ci dicesse che il sapere da più sapore alla vita e alle nostre relazioni educative. Emozioni da pag 335 a 337. Il centro diurno “Vivi ciò che sei” pag 338-339 Crescere con le famiglie Sono stati intervistati 6 educatori che fanno parte di diverse èquipe del Centro coprendo un periodo di circa sei anni (2002-2008) . La metodologia dell’intervista narrativa permette di dare voce all’esperienza degli operatori: sono loro a decidere quali sono i temi e i ricordi pertinenti. Inoltre nelle interviste c’è un invito alla riflessività (quali sono le implicazioni di senso). • INTERAGIAMO CON I SISTEMI pag 339 Sergio racconta quando ha sentito per la prima volta la presenza della famiglia nella sua interazione con un ragazzo che amava terrorizzare i suoi compagni con azioni di bullismo. Questa situazione mostra chiaramente che l’educatore è parte di un ampio sistema di relazioni entro il quale interviene e l’intervento da lui condotto può avere effetti che vanno oltre il bambino (Fruggeri). - Primo approccio alla famiglia da parte degli operatori: modello della famiglia assente = la famiglia non è in alcun modo considerata cornice di riferimento con cui si guarda al minore (PER QUALSIASI SERVIZIO AI MINORI LA CAPACITA’ DI INCLUDERE LA FAMIGLIA ORIGINARIA NEL PERCORSO EDUCATIVO RAPPRESENTA 75 UN NODO CRUCIALE). - Diffidenza verso una famiglia vista come distante o potenzialmente problematica. Situazioni in cui la famiglia è etichettata definitivamente come “sbagliata”: carente, deviante, francamente patologica (Ad esempio nel lavoro di comunità, dove i genitori sono abusanti e i trascuranti e vedono i minori solo all’interno di visite protette. Qui è difficile andare oltre la stigmatizzazione). • FARE SILENZIO pag 341 Il racconto di Teresa mostra uno scontro tra opposte visioni: - la mamma vede nella situazione una minaccia per il suo bambino - L’educatrice vede i progressi che lui sta facendo. Le cornici di senso dei genitori ed educatori a volte non coincidono: due interpretazioni diverse spesso conducono a un conflitto. Una reazione tipica dell’operatore è la sensazione che la famiglia ostacoli il lavoro del Centro. A volte l’educatore è deluso perché scorge nella domanda della famiglia un mancato apprezzamento per il lavoro svolto. La mamma e l’educatore rappresentano due dimensioni di vita che devono integrarsi in uno sguardo comune, condiviso, che considera le radici del minore (passato) e, contemporaneamente, la bellezza dell’albero che può diventare (futuro). I conflitti sembrano inevitabili, ma possono diventare tappe di un percorso compiuto assieme alle famiglie, fatto di alti e bassi, durante il quale avviene la scoperta dell’altro e dei propri limiti. “Voglio veramente prendere distanza, fare silenzio e ascoltare questa donna” . • TROVARE LA POSIZIONE, NE’ TROPPO NE’ TROPPO POCO pag 342 Nell’interazione educativa accade di fare troppo o troppo poco. L’atto educativo è frutto di un posizionamento, che è fisico, ma soprattutto mentale, fatto di emozioni e pensieri. Gli educatori testimoniano di essersi accorti in diverse occasioni di “fare troppo” con le famiglie, ovvero di non avere avuto una corretta posizione. In questo caso il troppo consiste in una serie di azioni: aggiustare la lavatrice, fare la spesa…che sono risposte automatiche al senso di bisogno e necessità che questa famiglia gli evocava. E’ solo attraverso la RIFLESSIONE in équipe che Silvio prende consapevolezza del suo automatismo e riesce a introdurre tra lo stimolo “famiglia” e la risposta automatica quella COMPRENSIONE che gli permetterà un’azione intenzionale. TROVARE LA GIUSTA POSIZIONE E’ UNA RICERCA CHE PERMETTE DI ORIENTARE LA NATURALE PROPENSIONE ALL’ALTRO ENTRO UN PERCORSO STUDIATO E 76 CONDIVISO, ALL’INTERNO DEL QUALE E’ POSSIBILE RISTABILIREE I GIUSTI CONFINI RISPETTO ALLE RICHIESTE DELLA FAMIGLIA. “Con il tempo l’approccio è diventato più ponderato”. • FAMIGLIE DISFUNZIONALI pag 343 Quasi tutti gli educatori riconoscono di aver avuto un pregiudizio molto forte nel primo approccio con le famiglie. La famiglia può essere dipinta come il nucleo di negatività da cui è necessario allontanare il minore. Agli occhi degli educatori, la famiglia può diventare il luogo dove si rovina il lavoro fatto al Centro: in questo passaggio è cruciale il lavoro di gruppo con i colleghi nella riunione d’équipe e nella supervisione. Senza lo sguardo dell’altro, il suo rispecchiamento, senza il confronto delle idee, è molto difficile riconoscere i propri pregiudizi e schematismi mentali. Alcuni raccontano che il pregiudizio si è sciolto naturalmente nel momento in cui il rapporto con la famiglia si è approfondito e hanno potuto scoprire il grande desiderio dei genitori di fare il meglio per i loro figli. La risposta alle delusioni è la SPERANZA, la capacità di rinnovare la propria fiducia nelle possibilità di miglioramento delle persone. Questa però necessita di un passaggio nella maniera di rappresentarsi la famiglia. “All’inizio questa famiglia, veniva percepita come uno scoglio, c’era quasi il rifiuto a dover collaborare, mentre con il tempo c’è stato l’accettarla per quello che era e trarre ciò che poteva essere utile ad Alessandra”. “Ad un certo punto mi sono resa conto che vedere questa famiglia come qualcosa di cui volersi liberare, (….) , non era utile, perché questa famiglia c’era, e quindi andava accolta e gestita” (Anna). Un’altra educatrice scoprì di avere uno sguardo troppo ingenuo sulle dinamiche familiari: questo non le aveva permesso di rendersi conto della situazione di violenza che stava avvenendo in casa. Anche questo sguardo è frutto di un pregiudizio, forse derivante dall’idealizzare a priori la famiglia come “porto sicuro”. • I CONFINI DELLA FAMIGLIA pag 345 Il tema dei confini del sistema familiare ritorna diverse volte: la famiglia nel nostro modello culturale è uno spazio privato, chiuso anche fisicamente dalle mura di casa, dove avvengono i rapporti intimi, personali, connotati dalla dimensione affettiva e perciò forse meno manifestabili. Oltretutto le mura di casa sono quelle entro le quali gestire i problemi. Entrare nelle case, nei rapporti familiari per svolgere interventi di mediazione è vissuto spesso con timore: oltre all’idea di varcare uno spazio privato, gli educatori esprimono il timore di entrare in contatto con un mondo in cui i confini non sono 77 COMPRENDERE lo stimolo (ovvero “prenderlo con sè”) fa riferimento in parte alla capacitò di riflettere sull’intervento educativo, trovando cornici più ampie che permettano un’interazione più orientata; in parte indica uno stato psico-fisico- emotivo che l’educatore può ricercare nel vivo dell’interazione educative, una condizione di attenzione all’altro e a sé che permetta di riconoscere l’insorgenza di una risposta automatica e scegliere se utilizzarla o meno. E’ uno stato da allenare e ricercare. Tra l’attivazione dell’area celebrale che produce la risposta e la risposta stessa, esiste un intervallo di tempo, che altri neuro scienziati individuano proprio come lo spazio del libero arbitrio: la capacità di scelta degli uomini risiederebbe dunque proprio nella capacità di riconoscere e sospendere le risposte automatiche. L’idea di comprensione è strettamente legata alla capacità di allargare la cornice interpretativa nel “qui e ora “ della relazione educativa, nella dimensione emotiva e corporea dell’incontro con l’altro. • L’INTERPRETE Studiando i casi di pazienti epilettici, GAZZANIGA scoprì che la parte sinistra del cervello fornisce costantemente spiegazioni plausibili, ma spesso inventate, a quanto viene elaborato e agito nell’emisfero destro, che non ha la capacità di pensare o comunicare. Gazzaniga ha dato il nome di “interprete” a questo meccanismo, che è in grado di influenzare anche la memoria. L’interprete: - costruisce spiegazioni anche sulle interazioni educative, sulle motivazioni degli eventi e dei processi comunicativi, sulle cause dei comportamenti ecc.. La consapevolezza di ciò può aiutare a porsi in una maniera critica verso le proprie “facili interpretazioni” e ad allargare la soggettiva rappresentazione della realtà. MORIN (2001) elenca gli errori della conoscenza umana: di percezione, intellettuali. Nella pratica educativa tutto ciò comporta la necessità di sviluppare e allenare un’attenzione vigile per il modo in cui ci raccontiamo gli eventi (comunicazione interna), per i presupposti delle inferenze logiche nostre e altrui, promuovendo un’attitudine di sospensione del giudizio e di esplorazione dei significati che ognuno di noi dà alle situazioni. UN ATTEGGIAMENTO EPISTEMOLOGICO CHE SI FONDA SULLA RICERCA ATTIVA DI QUELLE NARRAZIONI CHE APRONO SPAZI DI COMPRENSIONE E DI AZIONI NELLE RELAZIONI. ANCHE L’INTERPRETE PUO’ ESSERE EDUCATO. Una pratica di consapevolezza nella relazione Proviamo a sviluppare una pratica attraverso due idee-strumenti utilizzati dalla PTM: -OSSERVAZIONE DI SE’ possono essere visti come sestanti, il cui utilizzo è in grado di 80 fornire - LA MEDIAZIONE una posizione, nel grande mare delle relazioni educative con sé stessi, con gli altri e con la vita. 1. L’OSSERVAZIONE DI SE’ L’esercizio dell’auto-osservazione consiste nella ricerca continua di uno stato di attenzione verso sé. L’attenzione è in realtà divisa, perché nella relazione educativa, mentre osservo me stesso, osservo e porto attenzione anche all’altro. L’auto-osservazione “suscita una nuova coscienza di sé che ci permette di decentrarci nei confronti di noi stessi, quindi di riconoscere il nostro egocentrismo e di prendere la misura delle nostre carenze, delle nostre lacune, delle nostre debolezze”(MORIN, 2005, p.84), ma anche delle nostre strategie, capacità e punti di forza. L’esercizio prevede: • Registrazione neutra di quanti più dati possibili su noi stessi (Cosa) • Tentativi di interpretazione dei dati ( Interrogarsi sul Come) per arrivare a una ipotesi verosimile sul Perché. • Incominciare a modificare la risposta psico-emotiva automatica. Caratteristica fondamentale dell’osservare è la NEUTRALITA’ ovvero la distinzione tra: • Dati: elementi di realtà pura che l’educatore seleziona e mette a disposizione dell’educando come elementi neutri, cioè privi di segno e pregiudizio, affinchè egli li interpreti con assoluta libertà associativa e possa, riutilizzarli per infinite interazioni • Informazioni: dati cui l’educatore ha già imposto, in maniera indiretta, una determinata forma in base all’esperienza pregressa avuta realmente o percepita tale. Sono dunque dati caricati di un segno ben preciso, di una connotazione di valore derivata da un pre-giudizio. Il processo di consapevolezza nella direzione del dato, si configura come uno strumento utile per cercare di svelare i filtri che applichiamo per interpretare la realtà. Riuscire ad evidenziare il dato ha un valore generativo di grande forza: permette di utilizzarlo in una infinità di modi diversi. Un corretto processo educativo prevede che l’insegnate mostri all’allievo come utilizzarli in piena libertà. 2. LA MEDIAZIONE 81 La mediazione è “l’azione che permette l’incontro dei saperi tra educatore e educando affinchè si verifichi un effettivo apprendimento da parte di quest’ultimo” (Paoletti, 2008, p.97). Il processo di mediazione nella PTM viene riassunto nella cosiddetta “legge dei 100 passi”: - detta 100 la distanza iniziale tra educatore ed educando: il primo compie anche 99 dei passi, pur di riuscire a trovare il luogo della comunicazione (l’azione-comune). Da quel luogo è in grado di stimolare l’altro a fare dei passi nella sua direzione: anche un solo passo manifesta la sua crescita. L’educatore che compie tutti e 100 i passi, invece, corrisponde al caso di colui che si sostituisce all’altro. Chi non compie alcun passo, o passi non sufficienti all’incontro, esprime una rinuncia al ruolo educativo. Il processo di mediazione implica una componente emotiva: l’educando è attratto dalla posizione proposta perché l’educatore è un modello con cui c’è un’intensa relazione affettiva. L’IDEA DI MEDIAZIONE PROPOSTA DALLA PTM RIECHEGGIA IL CONCETTO DI ZONA DI SVILUPPO PROSSIMALE DI VYGOTSKY CHE USA PER DESCRIVERE L’APPORTO DI UN ADULTO NEL PROCESSO DI APPRENDIMENTO DI UN BAMBINO: l’area di sviluppo potenziale del bambino è definita dalla differenza tra il livello dei compiti eseguibili autonomamente e quello dei compiti che richiedono un aiuto. In quest’ottica l’educatore deve costantemente interrogarsi sul livello dell’educando, proponendogli stimoli che ritiene siano leggermente superiori alle sue attuali capacità. Migliorarsi per migliorare l’insieme UN DOPPIO SGUARDO, UN’ATTENZIONE DIVISA TRA ME E L’ALTRO, PORTA AD ESSERE PIU’ PIENAMENTE COINVOLTI E APPREZZARE L’UMANITA’ CHE SI SVELA IN NOI STESSI E NEGLI ALTRI. DALLE PAROLE DI QUESTI EDUCATORI, DALLE LORO ESPERIENZE DI TRASFORMAZIONE, E’ POSSIBILE RINNOVARE E RIFONDARE LA FIDUCIA NEL MIGLIORAMENTO DELL’UOMO, CHE PASSA ANCHE ATTRAVERSO LA CREAZIONE DI RELAZIONI INCLUSIVE COME QUELLE DESCRITTE: “Se io comprendo di non essere un’isola, comprendo altresì che la mia vita, interdipendente dall’insieme e non esistente se non grazie a questa interdipendenza, ha uno scopo ultimo: migliorarsi per migliorare l’insieme” (Paoletti, 2007a, p.26). CAPITOLO 7: fare spazio e dare voce: l’incontro con i familiari in un Servizio Psichiatrico territoriale (Monica Luraschi, Germana Mosconi, Maria Teresa Rivetti). Si sono accorte che nei loro servizi manca un luogo dove possa accadere quello che è successo con Emilia (pag 361): dove cioè un familiare possa, pur nel riconoscimento del suo ruolo genitoriale, dare voce alle emozioni, ai desideri, alla propria storia, che non necessariamente coincide con quella del paziente. 82 comunicazione, di valorizzazione di quanto ci viene narrato, di astensione dalle valutazioni. Regola numero 1: non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Prendersi cura dei legami L’apertura alla famiglia è il pre-testo per osservare e (farsi) raccontare risonanze, percezioni, immagini, costruire una relazione a partire dall’ACCOGLIENZA come gesto di cura capace di trasformare l’estraneità in familiarità, l’imbarazzo in movimento che avvicina, il sospetto in fiducia. =Non è solo autentico interesse per l’altro, ma costruzione di un luogo ospitale, uso di parole non neutre né formali, capaci di veicolare le emozioni, i timori, le speranze e generare dialogo. = significa riconoscere che ogni famiglia è diversa e ha qualcosa di unico, che sfugge alla categorizzazione e al monitoraggio di un modello medico. = significa chiedersi chi è l’altro, esserne incuriositi, farsi stupire, saper cogliere la bellezza e la peculiarità di ogni storia familiare. Non trascurare il loro punto di vista, anzi interrogarlo. Guardo pag 367 il racconto: “ recuperare uno spazio di bellezza da cui è stato possibile partire per provare a lavorare insieme”. L’importanza del contratto Il contratto permette di co-creare un significato condiviso su ciò che si fa insieme. L’intervento parte da aspettative e richieste ogni volta differenti, e allo stesso modo può evolvere in direzioni impensate. Domande, priorità, obiettivi possono essere ridefiniti nel tempo. Interventi di facilitazione, di sostegno, di mediazione, di controllo e tutela e terapeutici, vengono collocati in un “continuum” a sostegno di una logica prettamente educativa, di apprendimento, di crescita, di apertura a nuove possibilità, che deve caratterizzare il lavoro con la famiglia. Con alcune famiglie proponiamo di allargare gli incontri a tutti i componenti (il paziente ed eventuali figli) nella convinzione che ognuno di loro debba avere l’opportunità di raccontare il proprio punto di vista e che abbia le risorse necessarie per farlo. La singola famiglia viene accolta da un’educatrice e un’infermiera. Nel primo colloquio di conoscenza reciproca si valutano insieme i tempi e i contenuti degli incontri, che si svolgeranno all’interno del Centro Psico Sociale. Durante il percorso vengono valutati insieme ai familiari le opportunità di allargare l’invito anche al figlio. L’intero gruppo di lavoro periodicamente si ritrova per condividere le tematiche, le 85 emozioni, le riflessioni che di volta in volta gli incontri con le famiglie fanno emergere e per decidere e valutare come e in quale direzione proseguire. Le storie da pag 369 I familiari che hanno incontrato in questi anni si presentavano nella maggior parte dei casi attraverso una ripetizione lamentosa, sempre uguale, sempre la stessa, di un copione che, per quanto doloroso potesse essere, offriva il vantaggio di ricondurre la loro tragica esperienza entro una dimensione di “canonico e ordinario” (Bruner, 2003, p.57), di comprensibile e accettabile. E’ faticoso allontanarsi dal copione, è doloroso dare un nome alle cose, alle emozioni. Non è indagando le criticità di una convivenza, ma proponendo un nuovo modo di parlare e di pensare alla situazione che si può aprire una possibilità diversa di stare con il proprio familiare. Facilitare l’espressione libera e autentica delle risonanze di tutti (Rezzara e Cerioli, 2004) permette di condividere, pensare e dare un nome alla propria esperienza, o semplicemente di raccontare i desideri inconfessabili perché poco adeguati al ruolo di genitore. La narrazione biografica (Bruner, 2003) può diventare una via per rimettere in modo queste storie, ricominciare a condividere con gli altri i propri significati emotivi e cognitivi, oltre che conoscere altri significati e altri punti di vista. Diventa una pratica di pensabilità, confronto e riflessione in cui si può cominciare a interrogarsi sulle scelte e sulle posizioni prese. I genitori sono portatori di un punto di vista parziale. Nella narrazione i soggetti compiono un atto di visibilità (Formenti, 2000) rispetto a sé stessi, di riconoscimento, di identificazione della propria posizione rispetto agli altri membri della famiglia. Ognuno sceglie quale storia raccontare non solo per spiegare, ma per comprendere (e far comprendere) il proprio modo di vedere le cose = non è quindi solo una descrizione, è una rivisitazione della propria storia (Formenti, 2000), una versione che esprime un punto di vista legato a un contesto. Proprio per questo può avere infinite interpretazioni e quindi offrire infinite prospettive. La rifocalizzazione, mirata a un’autocomprensione delle proprie scelte, di come è stato gestito il dolore e l’inevitabile cambiamento, apre possibilità di apprendimento, tanto più interessante in quanto effettuato a partire da ciò che meglio si conosce. Un accompagnamento irriverente Chi narra ci diventa meno estraneo perché ci ha trasmesso una parte di sé = questa familiarità permette di adottare come stile cognitivo una curiosità “irriverente” che permette agli operatori di rendere elastico e flessibile il loro modo di comunicare. “LA CURIOSITA’ ci aiuta a continuare a cercare descrizioni e spiegazioni diverse anche quando non siamo in grado di immaginarne altre” (Cecchim in Formenti, 86 Caruso e Gini, 2008, p.138) = un intervento educativo che esce dalla logica bisogno- risposta proponendo una pratica riflessiva, di auto-formazione, di apprendimento, che diventa un atteggiamento cognitivo verso il proprio human becoming. “E’ possibile intendere la genitorialità come processo improntato a un poter-divenire, plurale, creativo, unico, contingente, (…) caratterizzato da processi evolutivi di co- costruzione” (Gaudio). Il fine non è l’adattamento ma la mobilitazione delle risorse per dare forma a mondi possibili. Gli interventi con le famiglie sono stati e continuano a essere diversi, costruiti negli obiettivi e nella modalità con chi ci sta accanto. Chi ha saputo mettersi in gioco ha colto anche il vantaggio di una prospettiva che aiuta a percepire, capire e agire sugli eventi, rinforzando la capacità di lettura di sé e della situazione. Un bilancio provvisorio Molti sono i familiari che hanno lasciato questo progetto/intervento, perché interessati a soluzioni immediate o dopo aver dimostrato, come loro avevano predetto, che non sarebbe cambiato niente. Alcuni abbandoni sono stati determinati dl fatto che questo progetto non ha ancora trovato un suo riconoscimento istituzionale e culturale: nel Servizio Sanitario, l’oggetto da gestire è la malattia e gli interventi considerati necessari sono prevalentemente quelli che potenziano la famiglia come luogo di assistenza, non quelli che coinvolgono le famiglie, rompono il loro isolamento, cambiano la natura del rapporto tra utenti e servizi. In un contesto fortemente dominato dal modello medico è difficile distogliere lo sguardo dal paziente designato. Il lavoro con le famiglie si è rilevato “un’impresa ad alto rischio, complessa e delicata” (Formenti,,2000, p. 144). Le storie che i familiari ci raccontano parlano di relazioni, di identità, di ricordi che ci dicono chi sono stati, chi sono e chi potrebbero essere. In queste famiglie “l’aspetto fondamentale è la perdita del controllo sulla propria storia”. L’effetto della diagnosi è di “creare, congelare, stabilizzare un sistema in una determinata organizzazione, senza tenere conto che essa è solo una delle tante possibili” (Boscolo e Cecchim, 1988, p. 21). La dimensione narrativa ha permesso ad alcuni familiari (quelli con cui siamo riuscite a “co-costruire una direzione di senso” (Formenti, 2000, p. 22) di rivedere i propri modelli relazionali e trovare nuovi adattamenti funzionali non alla malattia, ma a piccole o grandi trasformazioni delle storie individuali e familiari. Il senso che ogni famiglia trova è diverso: c’è chi ha usato questo luogo come 87 Sono stati curati tutti i materiali in modo che fossero esteticamente piacevoli, perché si percepisse la cura, il pensiero, il valore del progetto. Sono state curate le asimmetrie e dissimmetrie agendole: dividendo talvolta i genitori dai figli, assegnando compiti diversi secondo l’età, curando la comunicazione perché fosse comprensibile a tutti e concordando i tempi di lavoro perché fossero sostenibili da tutti. La possibilità di lavorare in tre ha permesso di suddividere le attività: conduzione condivisa e anche la progettazione = Famiglia professionale. Nel vivo dei laboratori I due gruppi erano composti in modo diverso: • Il primo: più eterogeneo comprendeva famiglie alle quali in passato erano stati allontanati i figli, famiglie che usufruivano del servizio di educativa domiciliare, altre in carico al Servizio famiglia per momenti critici che stavano attraversando. • Il secondo: partecipavano famiglie in grave difficoltà, molte con i figli inseriti presso il Centro Diurno, conosciute da tempi dai Servizi sociali. Ogni gruppo era formato da sei famiglie, alcune monoparentali con uno più figli. Si era previsto fin dall’inizio la possibilità di inserire nuovi nuclei familiari a percorso avviato nel caso in cui qualcuno abbandonasse il laboratorio, sia per garantire un numero minimo di partecipanti, sia per offrire nuovi stimoli e far sperimentare ai “senior” la capacità di accogliere il nuovo, condividendo la loro storia di gruppo con altri. Le famiglie hanno mostrato fatica e resistenza del gruppo ad aprirsi allo sconosciuto, ma ciò ha permesso di rivolgere lo sguardo indietro al percorso, ha reso queste persone consapevoli e orgogliose del lavoro svolto, col risultato che ciascuno ha valorizzato l’esperienza del laboratorio e di riflesso il proprio contributo alla scrittura di una storia collettiva. Il bisogno di conferire una certa ritualità e familiarità agli incontri ha portato a strutturarli in maniera precisa e costante: ♦ L’apertura della serata ♦ La memoria degli incontri : con il tempo ha occupato sempre più tempo divenendo una vera e propria attività che vedeva molto attivo e protagonista il gruppo nel tentativo di costruire una storia condivisa e nel voler mettere a servizio degli altri i propri vissuti. Rievocare l’incontro precedente con queste modalità permette di condividere quello che ciascuno ha trattenuto, crea 90 appartenenza e continuità, costruisce significati collettivi e inoltre consente di aggiornare gli assenti. ♦ La presentazione dell’attività ♦ Lo svolgimento dell’attività formativa ♦ La cena ♦ La conclusione dell’attività e i saluti. Un esempio di attività: “Il principino che distruggeva i cavalli” A metà laboratorio, una delle adolescenti sollecita i genitori a raccontare le loro storie di vita. Nasce una breve discussione, a fine serata sull’opportunità o meno di farlo, quando è necessario o utile e quando no, perché i figli lo chiedono.. Prossimo incontro: usando una favola è stato introdotto il tema della transgenitorialità degli stili educativi (viene scelto il racconto con l’accortezza di non evocare i problemi specifici delle famiglie, per evitare invasività e sollecitazioni emotive troppo forti). “Il principino che distruggeva i cavalli”: è una storia degli adulti che si sostituiscono ai bambini e non li spingono all’autonomia. L’intento è: PRODURRE UNA RIFLESSIONE SU COME I GENITORI IMPARANO SCHEMI E MODELLI A LORO VOLTA DAI LORO GENITORI E COME QUESTI SONO TRASMESSI ATTRAVERSO LE AZIONI. La storia è raccontata per tutti, ma ogni gruppo avrà una consegna diversa. Divisi in tre stanze. Per gli adulti: l’obiettivo è riflettere sull’esperienza di essere stati figli (l’idea è di sollecitare la loro parte bambina, di figli). Adolescenti: scrivere su un foglio i passaggi del racconto che ritengono importanti. Bambini: è chiesto loro di esprimere le emozioni e le idee suscitate dal testo in forma di disegno libero. Dopo cena avviene la ricomposizione: gli adulti raccontano la loro discussione, i figli fanno domande quando rintracciano elementi autobiografici, le adolescenti leggono soddisfatte il loro lavoro di analisi, i bambini mostrano i disegni e li spiegano. Gli educatori intervengono per sottolineare alcuni sentimenti e riconoscere i contenuti portati da tutti. Da pag 392 a 395 i laboratori. Il divenire del gruppo - PRIMA FASE: la nascita del gruppo Per partire c’era la necessità di costruire insieme i confini del NOI: il gruppo non esisteva ancora; solo i ruoli di conduttori e utenti erano definiti. Le regole sono state il primo terreno comune: “come vogliamo funzionare?” (semaforo delle regole del 91 gruppo: ha rappresentato il primo oggetto comune che istituiva un’appartenenza). Le prime attività di presentazione hanno favorito la conoscenza reciproca.E’ stato riconosciuto un bisogno urgente di individuare elementi di continuità e normalità tra le esperienze e i modi di fare famiglia che venivano mostrati e raccontati (tendenza a identificare ciò che accomuna). Le famiglie faticano ad accettare le differenze come elementi di ricchezza con cui confrontarsi (es: Michele dopo i primi due incontri contatta la coordinatrice per chiederle preoccupato quanto sia opportuno per la sua bambina di 7 anni rapportarsi con famiglie che stanno affrontando momenti evolutivi diversi e si trovano a discutere problematiche e conflitti legati all’adolescenza dei figli. Con il tempo le diffidenze lasciano spazio a un crescente senso di familiarità e condivisione: ognuno trova un suo modo di esprimersi e sviluppa un maggior senso di fiducia verso il gruppo come luogo sicuro e protetto dove poter consegnare piccole o grandi parti di sé e della propria famiglia. A partire da questi primi passi, i componenti del gruppo hanno cominciato ad esprimere l’esigenza di una continuità. Quando il signor Tiziano e la figlia Jessica ritirano la loro adesione dopo 4 incontri, tutto il gruppo subisce uno scossone. L’arduo compito è diventato quello di aiutarsi insieme a comprendere l’accaduto e spostare l’asse del sentire comune dalla colpa alla responsabilità. Il sentimento diffuso di timore dell’abbandono ha reso molto delicato il trattamento delle assenze, dei ritardi e delle violazioni del setting. - SECONDA FASE: ampliare lo sguardo All’inizio: l’oggetto con cui è stato chiesto alle famiglie di confrontarsi è stata la storia di ciascuno, per come la si voleva raccontare, per i pezzi che si sentiva di poter offrire. L’obiettivo era aprire nuove possibilità di pensiero attorno alle connessioni intergenerazionali dei comportamenti e degli stili genitoriali. In particolare, i genitori sono stati invitati a interrogarsi sull’origine di alcuni loro atteggiamenti e abitudini; mentre i figli hanno ragionato su come alcuni limiti dei genitori si associno all’assenza di alternative e all’imprescindibilità dei loro percorsi di vita. Poi: nonostante le fatiche e le resistenze, è apparsa preziosa l’opportunità per i genitori di raccontarsi ai figli; un momento speciale, che ha generato nel gruppo un clima di grande complicità. Sono circolate nuove immagini e nuove possibilità di interpretazione. I singoli hanno cominciato a tendere lo sguardo oltre, a osservarsi più attentamente, a identificarsi e a cogliere le specificità di ognuno, riconoscendone il valore e la qualità. Nel primo gruppo è stata proposta un’attività in cui ognuno doveva donare all’altro 92 = lavorare con le famiglie significa sfatare queste monumentali rappresentazioni, nell’uno e nell’altro senso : la capacità di essere un adulto di riferimento per i piccoli non sta nel fare o dire “la cosa giusta” ma nella capacità di sbagliare e poi provare a raddrizzare il tiro. Aprire domande. Sarà necessario pensare dei pensieri che non siano solo la conferma delle nostre aspettative e riposizionare i sentimenti di delusione, rabbia, impotenza, stanchezza dentro una ricerca di significati possibili. Questo è un movimento bilaterale, da fare insieme operatori e famiglie, quando si troveranno sul terreno scivoloso e scomodo della relazione d’aiuto. Non si ritiene importante che i significati che si attribuiscono alle cose siano particolarmente elaborati, colti, complessi e simbolici. Potranno essere anche pratici, immediati, semplici e perfino poveri. L’importante è che esistano, che siano nominati o rappresentati per diventare quel senso comune che si va costruendo insieme, attorno all’oggetto che ci sta a cuore, cioè la crescita e l’educazione dei bambini. Lavorare con le famiglie significa trovare modalità e strumenti innovativi perché possano trovare luoghi pubblici di parola, cioè luoghi condivisi, attraversati da legami vitali, e così uscire dal problema citato all’inizio, cioè la privatizzazione del compito educativo, la solitudine e le distorsioni relazionali amplificate dall’eco delle mura domestiche. CAPITOLO 9: Interrogare le rappresentazioni reciproche tra ricerca e formazione (Alessia Vitale) Esistono molti mondi possibili, ognuno legato a un viaggio. E’ un viaggio che compie il ricercatore a fare la differenza sul racconto del luogo ignoto, ricco di meraviglia e spiazzamenti, che ha incontrato. La ricerca si presenta differente in base a chi e come la guarda. Come la città di Zemrude narrata da Calvino : “ E’ l’umore di chi guarda che dà alla città la sua forma” (1993 pag. 66). Una cornice per la ricerca La domanda da porci ogni volta che ci incamminiamo verso il viaggio della ricerca è : con quale RES stai entrando in ricerca? O meglio: qual è la tua domanda? Che cosa ti muove? Che cosa cerchi da questo viaggio? E se la tua ricerca implica partecipanti come stai costruendo con loro il senso dell’indagine stessa? La RES è la storia condivisa e provvisoria del perché siamo qui o che cosa stiamo facendo insieme? E’ una narrazione, una direzione di senso, più che un obiettivo. Essa fa la differenza: potrà mostrare una città in tumulto, una strada calma e solitaria nella quale potersi abbandonare e trovare confronto, o chissà cos’altro. Se la relazione operatori-famiglie è un costrutto sul quale interrogarsi, lo è anche il dispositivo educativo inteso come struttura dentro cui si giocano tutte le relazioni. Pensare a ciò che si osserva (che siano servizi, relazioni o individui) come una 95 relazione in continua trasformazione. In un’ottica processuale e dinamica nessuno “è” in un dato modo in termini assoluti di tempo e di contesto. Ogni persona vive dentro un tempo e un luogo, cioè inserita in una storia individuale, familiare, sociale, socio-assistenziale, e ogni storia si sviluppa in un contesto costantemente in trasformazione, come il ciclo della natura o le stagioni. Potremmo fotografare una pianta in inverno e sostenere di averne una percezione completa? Potremmo. Ci perderemmo però la fioritura di quella pianta in primavera. Allo stesso modo, tornando alla nostra “famiglia non collaborativa”, osservando il suo mondo relazionale e storico in movimento, potremmo scoprire che ha partecipato ad altri progetti con passione, o che in altri tipi di contesti appare attiva e collaborativa. Le Zemrude di Calvino, vista in tal ottica, non è una città fatta di numeri, ma di storie. Di relazioni tra individui dentro tempi e contesti. Relazioni che vengono osservate nel cambiamento. La forma della città è viva, dinamica e costituita da molteplici punti di vista in dialogo. E’ una città che muta nel tempo e si lascia mutare dall’incontro con l’altro; ha il potere di trasformare il ricercatore stesso che si è avventurato sulle nostre terre. MA PER PRIMA COSA BISOGNA PARTIRE DA: QUALI SONO GLI OCCHI CHE LA VEDONO? CHE RICERCATORE/EDUCATORE SEI? In ricerca è chi si abbandona alla scoperta. Come un viaggiatore. Come mi hanno insegnato gli studenti dice Alessia, si è in ricerca di fronte al nuovo (il pensiero di un autore, la necessità di orientarsi) ma anche tutte le volte che ci interroga sul quotidiano (cosa faccio nella mia vita?). LA DOMANDA è una condizione necessaria dell’essere in ricerca, ma non basta a fare di noi dei ricercatori. Laura Formenti distingue tra “sguardo ingenuo” e “sguardo scientifico” dell’educatore: il primo idelogicamente centrato, carico di pregiudizi vissuti come verità. E’attento ai contenuti e non alla relazione che il ricercatore instaura con le persone . Il ricercatore/educatore ingenuo si dimentica di avere a che fare con relazioni e tratta le persone come fornitori di dati. Il secondo attento a sé e agli altri, continuamente disposto ad interrogarsi sui propri pregiudizi. Per avere questo sguardo bisogna essere consapevoli della co- implicazione di tutti i soggetti (ricercatori e partecipanti) e del viaggio che stanno compiendo. E’ la RES, la direzione di senso condivisa a fare la differenza. Se si costruisce con cura il senso, la ricerca potrà essere valore di esperienza formativa, di spazio di pensabilità. Cercare di “allestire contesti educativi nella forma di laboratori del pensare”. Guardo esempio pag 410: sguardo ingenuo e sguardo scientifico. NON E’ SOLO LA DOMANDA A FARE LA DIFFERENZA MA COME LA SI PONE E A CHI. 96 POTREMMO DIRE CHE IL RICERCATORE E’ - QUALCUNO CHE SI PRENDE CURA DEL PROPRIO PUNTO DI VISTA, NON LO TRASCURA, SE NE INTERROGA. STESSA COSA FA CON IL PUNTO DI VISTA ALTRUI. - UN BUON EDUCATORE E’ DUNQUE ANCHE UN BUON RICERCATORE: si mette in ricerca nell’interrogarsi, non ingenuamente ma con consapevolezza e riflessività. - UN EDUCATORE è RICERCATORE QUANDO SI RENDE CONTO DI ESSERE IMPLICATO IN PRIMA PERSONA NELLA RELAZIONE EDUCATIVA IN CORSO E, PER TALE RAGIONE, è ATTENTO A MANTENERE VIVA NELLA QUOTIDIANITA’ LA CURIOSITA’ DELL’ESPLORATORE: essere curiosi vuol dire mettersi in viaggio non dando nulla per scontato, ponendosi domande sugli usi e i costumi delle popolazioni che si incontrano lungo il cammino. Curiosi del quotidiano e non solo dell’insolito. La curiosità apre le porte a nuove visioni di ciò che ci sembrava ovvio; a volte apre la bellezza, quando permette al ricercatore/educatore di guardare a quello che c’è e non a quello che manca; quando fa trovare nuove connessioni di senso e ri-anima situazioni relazionali stagnanti. Ciò implica una RESPONSABILITA’ : ognuno di noi, con la sua presenza curiosa, incide notevolmente sui contesti nei quali agisce. Se un buon educatore è un ricercatore, vale anche l’opposto: chi ricerca è sempre in qualche modo un educatore. Tesi: essere un ricercatore che si occupa di storie, in particolare narrazioni di famiglia, vuol dire essere consapevoli che le storie producono effetti. Quando l’altro (adulto o bambino) ci racconta la sua storia, il racconto stesso ha una fortissima contingenza narrativa. Narrare si sé apre possibilità di ripensare alla propria storia e riguardarla attraverso nuovi punti di vista. Il solo chiedere all’altro di sostare nel narrare esperienze vissute, il porre domande generative di pensiero, l’essere un ascoltatore attento e curioso, vuol dire costruire un dispositivo di ricerca che ha potenzialità formative. Responsabilità etiche il ricercatore si trova ad affrontare diverse responsabilità etiche: • Di prendersi cura delle storie che gli sono affidate, leggerle da una postura di neutralità e attenta ai posizionamenti. Prendersi cura delle storie implica una particolare attenzione anche ai contesti istituzionali in cui avviene la ricerca, al ruolo e alla posizione del ricercatore, alle ricadute della ricerca in termini concreti. • La seconda riguarda la trasparenza.Il principio etico della trasparenza chiama in causa la visibilità del patto tra ricercatore e soggetti. Processi educativi e di ricerca sono similmente forgiati sulla negoziazione di diritti e doveri. Incamminarsi in un viaggio senza conoscere i propri diritti/doveri e quelli degli altri rischia di generare vuoti di senso e cornici di riferimento ambigue. Negoziare il senso ed essere espliciti e chiari su diritti e doveri ovviamente non 97
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