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Re-inventare la famiglia, Sintesi del corso di Pedagogia

Riassunto del testo "Re-inventare la famiglia. Guida teorico-pratica per i professionisti dell'educazione"

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 24/01/2022

SarahJennifer-Cuccorese
SarahJennifer-Cuccorese 🇮🇹

4.3

(10)

7 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Re-inventare la famiglia e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! Re – inventare la famiglia. Consulenza familiare. Re – inventare la famiglia. Parte prima : Lo sguardo dipende dall’azione. Se i processi di percezione e di conoscenza dipendono da quello che facciamo nel mondo, cioè delle azioni specifiche che esercitiamo sugli “oggetti” che incontriamo, non sarà la definizione di questi oggetti a farceli conoscere. Ogni definizione che arriveremo a dare sarà legata a delle azioni, che noi stessi avremo compiuto su di essi oppure ereditate da altri. Lavorare con la famiglia richiede una consapevolezza epistemologica, cioè un atteggiamento interrogante nei confronti dei nostri presupposti. La risposta non sarà né generica, né neutra. Scegliamo un punto di vista. Il modello a cui ci siamo ispirati è quello sistemico, che mette l’idea di “comunicare” al centro di tutti i processi umani e non: tutto è messaggio. Capitolo 1 – Farsi l’orecchio: le invisibili partiture della famiglia. Albert Scheflen fu uno dei primi a paragonare la comunicazione a una composizione musicale, in quanto entrambe realizzano delle strutture, con uno stile e delle specificità proprie, ma anche una configurazione complessiva ben precisa. “La differenza tra queste due strutture è che la composizione musicale possiede una partitura esplicita, scritta, appresa e ripetuta consapevolmente. La ‘partitura’ di una comunicazione non è formulata per iscritto ed è appresa inconsapevolmente, almeno in parte” Comunicare non è affatto trasmettere informazioni da A a B, attraverso qualche canale comunicativo. Comunicare è partecipare a un’interazione complessa. Il pregiudizio più radicato nei giovano educatori è l’idea che tutti i comportamenti ed eventi si possano o si debbano spiegare ricercandone le cause o le motivazioni a partire dalle intenzioni, dalle azioni e dai valori dei singoli soggetti. Ma la famiglia è un sistema: un aggregato di parti interagenti, ciascuna delle quali può esistere a sé, ma è interdipendente dalle altre e dal tutto secondo determinate leggi e regole. Si tratta sempre di processi di influenzamento reciproco: non c’è comunicazione umana che sfugga a questa regola. L’approccio sistemico si fonda su una ecologia delle idee e quindi sulla curiosità per tutto quello che non appare immediatamente valido o scontato. La mia famiglia è una rock band. “ Farsi l’orecchio” per un educatore significa certo imparare tecniche di osservazione e di conversazione, concetti e teorie, modalità progettuali e di valutazione, ma soprattutto significa assumere una postura, cioè apprendere a interfacciarsi con le situazioni nelle quali si trova immerso. C’è una connessione tra il modo in cui una famiglia è composta, le sue strutture e relazioni, e quello che crea: paradigmi, miti, modelli educativi, storie, benessere o malessere. Per comprendere una specifica famiglia sarà necessario ascoltarla attentamente. Per “farsi l’orecchio”, quindi, l’educatore entra in una rete di relazioni e interdipendenze consolidate nel tempo, che ancora non conosce. Una caratteristica delle famiglie è la consuetudine, la ripetitività e la ridondanza dei modelli di comunicazione. Provare e riprovare, sbagliare, trovare insieme le soluzioni che convincono tutti. Imparare a lavorare in modo sistemico significa innanzitutto “apprendere i contesti”, cioè mettersi in relazione e in interazione con i sistemi comunicativi. Dal punto di vista sistemico, l’educatore non è un direttore d’orchestra, né un semplice ascoltatore della famiglia. Quando si suona insieme è necessario che si faccia un lavoro attivo per tenere il ritmo e l’accordo, perché nella complessità è facile perdersi. Gli errori di coordinamento sono una regola della comunicazione umana. 1 Re – inventare la famiglia. Consulenza familiare. Con – vivenza: le condizioni materiali della vita. Per farci l’orecchio sul sistema familiare dobbiamo partire da ciò che innanzitutto lo qualifica, cioè la convivenza, che vuol dire abitare concretamente uno spazio condiviso nel quale sono date alcune possibilità di interagire, mentre altre sono precluse. Con-vivenza vuol dire anche tempi e ritmi condivisi: gli orari scandiscono la giornata della famiglia, organizzano le attività ed i copioni, definiscono chi sta con chi, per quanto tempo e come. Spazi e tempi si modificano continuamente e ci accorgiamo che le transizioni sono strutturali, le esigenze dei singoli cambiano, e non in maniera lineare perché sono interdipendenti. La prospettiva storica, evolutiva e genealogica è cruciale per comprendere il sistema familiare nella sua complessità. Nel Settecento la convivenza non era regolata dalla divisione in spazi privati e pubblici; la definizione stessa della famiglia era molto ampia. È solo con la nascita della famiglia borghese che la casa si differenzia in base alle funzioni e agli usi. Oggi c’è una grande varietà di stili di vita: viviamo in una multi-culturalità diffusa, e non solo perché genti di origini diverse abitano nelle nostre città, ma perché ogni famiglia si presenta come una cultura essa stessa. Le diversità culturali si sono appiattite perché sottoposte alle pratiche più digitalizzate. Ora le famiglie sono più simili tra di loro anche se si trovano in parti opposte del mondo, ma sono più diverse per le forme di “fare famiglia”. Quello che ci interessa è mettere a fuoco l’insieme di relazioni che sono prodotte e insieme producono questa cultura. Il modo di gestire gli aspetti della vita quotidiana è strettamente connesso alle idee di relazione, di educazione, di famiglia, di individuo che una società porta avanti. Per ogni società o famiglia il proprio modello diventa normativo: “è giusto fare così”. Politica della vita familiare: verso l’azione deliberata. Questo è il lavoro educativo con la famiglia: aprire possibilità perché tutti stiano un po’ meglio. La linea politica di una famiglia è sancita dai genitori: la direzione da prendere, le misure da adottare, sono un compito degli adulti che rappresentano la parte istituente del sistema familiare. Nessuno è genitore per decreto o per nascita. Nessuno è prototipo del genitore, perché è nell’unicità e nella specificità di “quella relazione lì”, con quei figli, in quel contesto, che la genitorialità prende forma. Le scelte che facciamo per gli altri sono sempre arbitrarie. Può un genitore sottrarsi a questa arbitrarietà, evitare di scegliere, evitare di determinare la vita del figlio? In realtà ogni esito educativo, compreso il senso di libertà dei figli, è il prodotto complesso di una serie di azioni e retroazioni concatenate, non è una realtà statica, ma dinamica. L’educatore può affiancare il genitore nello scoprire il suo modo unico e creativo di scegliere che genitore vuole essere. Il senso di noi. Come si impara il senso di noi? L’apprendere in famiglia è un processo poco conosciuto anche perché poche sono le occasioni di pensiero riflessivo, critico, interrogante. “Noi siamo una famiglia”. Sì ma a quali condizioni questa affermazione è accettabile, soprattutto in un’epoca che ha messo in discussione tutti i punti di riferimento precedenti? Il senso di famiglia è fortemente intrecciato, nel suo divenire, al mondo, alla cultura, al territorio in cui vive. Il senso del noi appare più complesso della somma di tante prese di posizione individuali. Per comprenderlo, allora, bisogna tornare a osservare che cosa accade. Dove nasce il senso del noi? La proposta è di portare l’attenzione sulla struttura che connette tutti gli attori della famiglia. Il senso del noi si nutre di momenti dove tutti “stanno bene”, e cioè partecipano, rispettano i turni e sono emotivamente sintonizzati. Determinante però sarà il ruolo del linguaggio e la punteggiatura che noi daremo nel comunicare sulla famiglia, nel dare senso al nostro star insieme, ogni volta che rispondiamo letteralmente o simbolicamente alla domanda: “Chi siamo noi?” 2 Re – inventare la famiglia. Consulenza familiare. Come ci si prepara? Imparare a raccogliere una storia di relazioni familiari modificherà la percezione dei fatti per aiutare a capirne la complessità, prevede una postura educativa che si calibra in itinere. Le storie non fanno altro che connetterne le vicende, rendendo esplicita una dimensione interattiva naturalmente sistemica. La complessità non sta nella natura in sé, ma nei codici che utilizziamo per descriverla, raccontarla. Educarsi a uno sguardo sulla famiglia significa connettere lo sguardo di quel determinato narratore con quello che vede. Moltiplicare e comporre gli sguardi. L’iter scolastico contribuisce a sedimentare distanze abissali tra soggetti e contenuti dell’apprendimento, come se gli uni fossero perennemente stranieri agli altri. Questa frattura emotiva, cognitiva e culturale tra saperi accreditati e saperi personali influisce in maniera rilevante sulla motivazione ad apprendere e sulle possibilità di apprendimento adulto negli studenti universitari. Solo dopo che si è compiuto il percorso si può stabilire l’itinerario che si è seguito; eppure i nostri pregiudizi su cosa significhi conoscere e imparare tracciano a priori il nostro agire e pensare. Partire dalle pratiche. Partire dalle pratiche per interrogarle e significarle rappresenta una cornice per l’azione, che invita a fare attenzione al contesto, alla peculiarità di ogni situazione, alla storia di chi apprende, i presupposti di ogni impresa formativa. A) Domandare per accogliere e ricercare. Domandare aiuta a problematizzare sollevando questioni su temi che appaiono scontati. Una posizione metodologica che invita a una postura di ricerca e di accoglienza. Porre domande anziché esordire con affermazioni apre possibilità al ricercare insieme risposte soddisfacenti, invita alla molteplicità delle visioni e valorizza le differenze. Apprendere a formulare buone domande è un esercizio che produce effetti sulla qualità delle relazioni interpersonali: rompe copioni, introduce elementi di novità in un rapporto che rischia di essere scontato e prevedibile, promuove l’attenzione per la complessità delle relazioni familiari, dei servizi e di chi vi opera. Cos’è una buona domanda? Una buona domanda è quella che rende visibili i presupposti, li ridiscute e solleva questioni su aspetti assodati, problematizzandoli. Le domande sono mezzi per indagare, descrivere e raccontare la realtà, significarla, trasformarla attraverso il linguaggio. Esse possono far nascere storie, innescare cambiamenti, predisporre ricerche, oppure possono chiudere conversazioni e possibilità. Perseguire l’ottica sistemica nella formulazione delle domande significa imparare l’arte della ristrutturazione e della connotazione positiva: da una parte per non chiudere troppo lo sguardo dentro i pregiudizi, dall’altra per evitare generalizzazioni. Le domande più generative sono quelle che: esplorano presupposti, evidenziano interazioni complesse, focalizzano particolari culture domestiche. B) Sperimentare concetti: “le teorie vanno rispettate, non riverite”. Dando nomi alle cose, sottraiamo al tempo, alla relazione, al movimento ciò che perennemente cambia. Se non fosse così, del resto, non potremmo imparare. Quali parole useremo per definire una famiglia? Siamo circondati da un’infinità di immagini retoriche che inneggiano alla famiglia come luogo felice, sicuro riparo. Ammettere che non è sempre così, che si tratta anche di un luogo in cui si soffre, si litiga, si viene maltrattati, porta ad assumere una posizione più critica e articolata. Se dunque non possiamo sottrarci a ritenere valide le descrizioni che generiamo, è però possibile monitorare come lo facciamo, da dove vengono le nostre mappe e come abbiamo imparato a costruirle, per costruire così una definizione provvisoria compiendo un primo passo per connettere l’esperienza e trasformarla in sapere. 5 Re – inventare la famiglia. Consulenza familiare. C) Pensare ad alta voce. Alla complessità del lavoro educativo con la famiglia in quanto sistema deve corrispondere una complessità di idee e progettualità. Lavorare in gruppo, durante la formazione, funziona poiché ci si scontra e ci si incontra alternativamente con passione, indolenze, punti di vista, proprio come avviene in una famiglia o in un contesto di lavoro. Questa modalità, conduce ad assumere una posizione di ricerca flessibile e problematizzante. Allenarsi a pensare insieme significa incontrare oltre il proprio, il pensiero dell’altro. Pensare ad alta voce ci porta ad accorgerci del nostro pensiero. Esplicitare i presupposti aiuta a imparare conversando, educa all’auto-riflessività. Una didattica che forma alla conoscenza e alla consapevolezza di sé, nella presa di coscienza del proprio modo di pensare e agire con la famiglia e in famiglia. D) Trasformare l’esperienza in sapere. Apprendere criticamente dall’esperienza comporta un cambiamento di visione che rende impossibile pensare come prima e fornisce un modello operativo per imparare a pensare. Ma cosa significa “valutare criticamente”? L’attenzione sistemica è orientata alle pratiche che l’osservatore o la comunità di osservatori condividono per attribuire significato all’esperienza. Il processo di conoscenza è socialmente costruito: poiché non possiamo evitare di attribuire significati, è proprio questo che va valutato criticamente. Il mondo della mente e il mondo delle cose si modellano a vicenda. In questo percorso di formazione allo sguardo sistemico non si perde mai di vista la famiglia. Vedere ogni famiglia come portatrice di risorse non significa condividerne ingenuamente ogni scelta morfologica, ma adottare un pregiudizio di fiducia nelle possibilità generative, nell’alleanza tra operatore e famiglia, nei suoi sforzi a sopravvivere alle avversità, nella sa creatività per costruire forme inedite di autogoverno. Pietre parole: una pratica per rinnovare lo sguardo. Educatori si diviene anche grazie alle eredità familiari che hanno segnato la vita. Ripercorrerle e interrogarle ci consente di capire che educatori siamo e cosa abbiamo ereditato e quale ricaduta ha sul nostro modo attuale di prenderci cura degli altri. Capitolo 3 – Alla ricerca delle tracce. I sensi della genitorialità tra frammenti autobiografici e teorie evolutive. Tracce: un impegno di ricerca. Le nostre pratiche sono intrise di immagini, azioni, gesti compiuti in altri contesti, in altri momenti della nostra esistenza e dei quali ci sembrava di esserci completamente dimenticati, ma che ugualmente determinano il nostro modo di muoverci oggi. L’esperienza ci insegna che spesso ci imbattiamo in suggestioni per la casualità di un incontro; in altri casi perché non troviamo soddisfacenti le teorie accreditate o ancora perché non rileviamo una coerenza tra quanto affermato dalle teorie di riferimento e quanto vissuto nella quotidianità. In altri casi, semplicemente non ci piacciono. Possiamo affermare che la spinta al cambiamento e alla ricerca avviene tutte le volte che non troviamo “una spiegazione soddisfacente dal punto di vista cognitivo, morale, estetico e pratico”: è da lì che costruiamo le teorie. Quando parliamo di teorie il riferimento è alle Grandi Teorie, accettate e condivise dalla comunità scientifica e accademica, quelle di cui si legge nei libri. Ogni teoria è un frammento di autobiorafia. In questa prospettiva, l’approccio autobiografico ci permette di intuire il ruolo della storia di vita nella costruzione del sapere, nei processi di apprendimento, nelle motivazioni che ci portano alle scelte di vita e professionali. La famiglia non costruisce teorie nel vuoto, ma sempre collegate al sistema di saperi accreditati. Se vogliamo individuare tracce di famiglia, il primo movimento risiede nel volgere lo sguardo alle relazioni tra saperi familiari e saperi accreditati. 6 Re – inventare la famiglia. Consulenza familiare. Qui c’è odore di famiglia. Teoria e pratica. Se il primo passo del cercatore di tracce è verso il riconoscimento della teoria, il movimento immediatamente successivo, in una prospettiva sistemica, va verso l’esplorazione dei nessi che intercorrono tra il sapere e l’esperienza. La cultura occidentale risponde anche ad un principio di economia che permette di non ri-pensare ogni volta alla connessione tra il pensiero e l’azione, creando così dei nessi consolidati che da una parte permettono di procedere nella relazione, ma dall’altra rischiano di trasformarsi in azione-non-pensata. Una visione radicata è quella che oppone la teoria alla pratica, dove alla teoria è attribuito un valore di presunta scientificità e la pratica diventa mera applicazione della teoria. (l’approccio autobiografico) i frammenti di autobiografia ci parlano di percezioni, di emozioni e sensazioni, a ben guardare ci parlano di corpo, di mente ma anche di gesti e di pensieri. Ci parlano di teorie e pratiche interconnesse. Ecce homo: pater et mater. Le teorie evolutive di stampo sistemico-costruttivista possono offrici alcune indicazioni per riconoscere altre tipologie di tracce di famiglia. Quando parliamo di teoria dell’evoluzione bisogna fare i conti con Darwin: nell’evoluzione il motore del cambiamento risiede nella diversità individuale e solo una visione storica e narrativa ci porta a comprendere il mondo del vivente nella sua interezza. È in questo pensare evolutivo e biografico che possiamo comprendere altre trame di significati. Una comprensione parziale e provvisoria. Come imparare a riconoscere altre tracce? Che cos’è la genitorialità? Siamo abituati a guardare alla genitorialità con un occhio legato alla storia recente. Procediamo per comparazione tra ieri ed oggi. “La genitorialità ha perso il carattere di universalità che l’ha contraddistinta per lungo tempo per assumere sempre più un carattere di individualità ed unicità”. Questa affermazione non scalfisce la dimensione di universalità dell’essere padre e madre: la genitorialità è un universale, un tratto specie-specifico del genere homo sapiens. Quando riusciamo a individuare tracce di universalità in uno spazio e un tempo può cambiare non solo la funzione ed il ruolo che competono ai padri e alle madri, ma l’identità stessa del diveniente genitore può assumere nuove sfumature. Storicizzare e contestualizzare: operazioni cruciali. Anche uno sguardo rivolto a spazi geografici distanti da noi, altre etnie, altre culture può offrirci ampliamenti di prospettiva. Non esiste società che non abbia elaborato teorie, pratiche, rappresentazioni e organizzazioni relative ai rapporti tra genitori e figli. La genitorialità è bio-culturale. Ha le sue radici nella natura, nasce nel fatto biologico della riproduzione, ma si sviluppa nella dimensione culturale e sociale. Per riconoscere le tracce di famiglia è necessario restare in una complessità senza perdere di vista il contesto. Per riconoscere una traccia abbiamo bisogno di non perdere di vista l’insieme di circostante ambientali, simboliche e relazionali all’interno della quali è nata e si è sviluppata. Quando entriamo nelle storie che ciascuna famiglia ci racconta, sforzandoci di connetterle con il contesto nel quale nascono ed evolvono, possiamo anche scorgere indizi che ci parlano di de-sincronizzazione tra osservatore e osservato. Uno sguardo storico e contestuale può fornirci tracce che raccontano altre storie. Genitorialità, modelli di cura, educazione familiare, processi di crescita, sono una trama di biologico, culturale, storico, sociale e individuale e, grazie a ciò, abbiamo la possibilità di comporre quella traccia data dalla storia. Il genitore, la famiglia che oggi ho davanti è anche l’esito di un modo di intendere la genitorialità costruito in un processo storico e in uno specifico contesto di cui sono parte sia la famiglia sia l’educatore. 7 Re – inventare la famiglia. Consulenza familiare. La possibilità di vedersi concretamente in interazione pone il genitore nella condizione di riuscire a riconoscere e comprendere il proprio stile interattivo e relazionale (il genitore si chiede “come faccio?”), rapportandolo con quello degli altri e con i pattern in cui si inserisce. Il genitore diventa maggiormente consapevole degli effetti che le sue proposte di relazione e azioni di cura hanno sugli altri membri del sistema famiglia. Conversare e riflettere insieme fa sì che il genitore in difficoltà viva meno la solitudine della sua situazione e riesca a far comprendere meglio all’altro che i suoi vissuti sono associati a qualcosa di reale. Gli aspetti concreti, educativi e pedagogici, di cura e di relazione, vengono invece portati in primo piano. Il confronto attiva il “senso del noi”: la costruzione di un’idea comune di cosa sia essere e fare i genitori in questa famiglia, proprio partendo dagli aspetti più pratici e gestionali, ai quali sono intimamente connessi anche quelli più astratti e ideali. Dall’auto-osservazione alla costruzione di altre-storie. Una delle azioni dimostratesi più funzionali è stata l’attuazione di una sorta di visione dall’alto di se stessi in interazione. È in questo processo di distanziamento e riavvicinamento a sé che viene man mano costruita una nuova microteoria di sé e della propria famiglia, consapevole, chiara e condivisa. Può essere utile a identificare le modalità e strategie con cui le famiglie affrontano le crisi, i conflitti o i problemi legati alle routine familiari. I genitori sono chiamati a ri-osservare la propria storia come dall’esterno, sperimentando una possibilità di nuovi riconoscimenti e nuove consapevolezze di sé e del proprio essere in interazione con gli altri membri della famiglia. Questa esperienza permette, quindi, una maggior consapevolezza del fatto che la propria storia, il proprio punto di vista non è l’unico, ma uno tra i tanti possibili. Capitolo 5 - L’ABC dell’osservare. Questo capitolo mette a fuoco un’azione specifica, quella dell’osservare, e una pratica che utilizza il mezzo audiovisivo. L’obiettivo è imparare a osservare, fermandosi su quelle interazioni che, a una prima visione, risultano difficili da leggere. Osservare perché, cosa e come? La comunicazione è il fondamento delle relazioni umane: essa diventa l’oggetto osservativo. Cosa osservare: i processi interattivi nei quali la comunicazione si sviluppa, usando come lente il modello e i principi della Programmazione Neuro-linguistica (PNL), un approccio che “nasce dall’esigenza di dare origine a una base teorica appropriata per la descrizione dell’interazione”. (Bateson) Il film si presta a essere uno strumento privilegiato per l’addestramento all’osservazione: - Racconta una serie di storie in maniera efficace e in un tempo definito; - Permette di esaminare uno spaccato di vita a più livelli; l’esperienza di visione è contemporanea a tutti - Consente di rivedere le sequenze dove le interazioni sono più complesse e significative In formazione, si usano i film molto spesso per osservare le interazioni familiari. Nella letteratura sistemica, la famiglia viene definita come “gruppo di individui con storia” che mentre si fa si disfa, per permettere a ciascuno di sviluppare la propria individualità. Attraverso il film c’è la possibilità di condividere un contesto e uno stesso oggetto, che può essere visto con e da vari punti di vista; la sequenza del film diventa “un poco più oggettiva” perché la stiamo vedendo tutti contemporaneamente. Quali film? La scelta dei film dipende dall’obiettivo. Ci sono due criteri generali: il primo basato sul contenuto; il secondo legato a situazioni comunicative specifiche che mostrano in modi efficaci come si costruiscono e si trasformano le relazioni umane. 10 Re – inventare la famiglia. Consulenza familiare. Il processo osservativo. L’uso del mezzo audiovisivo permette quell’utile distanza che serve ad addentrarsi all’osservare. Le sequenze si possono far rivedere più volte, tutte quelle necessarie perché ciascuno possa attrezzarsi e affinare i propri canali percettivi sulle interazioni comunicative. Non si tratta semplicemente di fruire di un prodotto più o meno artistico: il film è usato come strumento di formazione come occasione di apprendimento e dunque di riflessività. L’immagine è evocativa, provoca molte possibili letture dal punto di vista personale. Il processo osservativo può essere mirato a livelli diversi; che cosa fare concretamente dipende dagli obiettivi formativi: 1. Primo livello : far emergere i pregiudizi. Una sorta di “abitudine” è quella di leggere le interazioni in termini intrapsichici, cioè inferendo quello che gli attori pensano o provano. Separare ciò che si vede da ciò che si pensa non è facile: se so che nell’incontro con l’altro sono guidata da questo pregiudizio, posso metterlo da parte e così riesco in qualche modo a incontrarlo più facilmente. Il film è efficace: la sequenza è uguale per tutti e ciò rende palesi i pregiudizi di ognuno. Far emergere i pregiudizi è importante: se so come funziono, se sono consapevole di come penso, dei miei processi attribuzionali, posso più facilmente riconoscere quando attribuisco all’altro qualcosa che invece viene da me. Il processo di conoscenza dei pregiudizi è una postura e una pratica di grande utilità nel lavoro educativo e di cura. 2. Secondo livello : ricostruire i processi interattivi e comunicativi (anche non verbali) tra i personaggi. Questo affina l’occhio sui processi relazionali: ogni azione comunicativa è preceduta e seguita da un’altra azione di uno o più personaggi. L’80% della comunicazione è non verbale. 3. Terzo livello : affinare le tecniche di comunicazione. Per lavorare su questo obiettivo uso come modello di riferimento la Programmazione Neurolinguistica. L’intervento di cura “dipende essenzialmente dall’arte di creare un rapporto, vale adire costruire quel processo attraverso il quale si stabilisce e si mantiene un buon rapporto interpersonale di reciproca fiducia e di accordo”. Il rapporto rimane la cosa più importante perché è quella che garantisce la relazione: se sono in relazione, allora posso cogliere nell’altro i bisogni, le situazioni, i desideri ecce cc. Questa lettura riguarda sé ancora prima dell’altro poiché la capacità di auto-osservazione apre possibilità diverse nel mettersi in relazione: modificare la postura significa invitare anche l’altro a farlo. Promuovere la messa in gioco di sé nella formazione. Il film diventa uno strumento di “addestramento dello sguardo”: lo posso interrompere e riprendere, si può tornare indietro, far rivedere. Si può considerare il film come l’ABC per la costruzione dei processo osservativo, soprattutto del non verbale, all’interno di un processo relazione interattivo. Nelle storie narrate sono contenute tutte le interazioni particolari che hanno dato origine a quella storia, teoria o metodologia. Il vantaggio del linguaggio narrativo è che ogni singola interazione può essere mostrata o narrata, anche nel dettaglio. Diventa così un modello per altre interazioni analoghe, purchè questa visione sia attiva e riflessiva. 11 Re – inventare la famiglia. Consulenza familiare. Sentire e/è osservare. Osservare è la stessa cosa del sentire, ma con il sentire la questione si fa più complessa. Devo essere in grado di utilizzare il canale percettivo primario dell’altro, se voglio riuscire a costruire la relazione e lo devo fare non solo attraverso il riconoscimento, ma adeguando il mio linguaggio, le metafore che possono costruire. Grazie all’addestramento sull’osservazione è possibile riconoscere le modalità con cui entriamo in rapporto, mantenerlo per il periodo dell’incontro, adattandosi al canale percettivo dell’altro per poter accedere al suo mondo e sostenerne le trasformazioni. Capitolo 6 – Posizionamenti estetici e ricerca della bellezza. C’era una volta una famiglia.. Il riconoscimento reciproco, la possibilità di essere visti e “ben raccontati” dai propri familiari è un bisogno che accompagna la vita di ciascuno. “Che storie si raccontano?” partire da questa domanda con le famiglie significa avviare un percorso aperto di ricerca e di posizionamento mentale in cui l’attenzione dell’operatore non è volta tanto alla comprensione dei giochi relazionali o dell’organizzazione familiare, quanto a rintracciare le idee, le immagini e l’organizzazione del linguaggio e dei significati di ogni storia raccontata. Spostare l’attenzione dalle dinamiche interattive a quelle narrative significa prima di tutto accettare l’idea che le storie e le narrazioni rappresentano uno strumento di (auto)formazione e (auto)conoscenza molto potente. Le narrazioni si costituiscono come una forma particolare di conoscenza che agisce sulla formazione dell’identità personale e che usiamo per dar forma e significato, vincoli e possibilità, alla nostra esistenza. Storie saturate da una prospettiva unica. Un rischio educativo che si profila è che la famiglia venga rappresentata attraverso narrazioni fisse, dove ogni apprendimento sembra da escludersi. Ne storie narrate, irrigidite e “automatiche”, rischiano di non onorare più la complessità delle relazioni e dei soggetti che vi partecipano. Raccontare è rammemorare, ma non per fissare una volta per tutte il ricordo: per far rinascere ciò che si è vissuto. C’è un nesso profondo tra pensiero riflessivo e narrazione, cura delle relazioni e cura di sé. Una delle più importanti funzioni della memoria familiare è la riflessione formativa: “la riflessività diventa autoformazione quando innesca cambiamenti”. Le narrazioni familiari sono processi complessi, continuamente in trasformazione. In una prospettiva che mira a rintracciare “l’ecologia delle idee” di una famiglia, ossia le credenze, le premesse, i paradigmi familiari, ci accorgiamo che in alcune narrazioni si ribadisce una sorta di ineluttabilità e impossibilità di cambiamento. Il “problema” diventa la lente attraverso cui interpretare e leggere ogni esperienza. Considerando che nel pensiero di Bateson un sistema si può definire “patologico” quando ha perso la capacità di ricevere informazioni e dunque di generare differenza, possiamo comprendere il potenziale di sofferenza psichica e relazionale insito nelle trame narrative rigide e chiuse. Se l’atto del raccontare è inteso come opportunità di pensare e creare una visione della propria vita, e se le persone conferiscono senso alla loro vita attraverso il racconto dell’esperienza, allora la presenza di narrazioni saturate dal problema che per questo motivo non vedono l’interessante complessità dell’esperienza rischia di atrofizzare il romanzo familiare e con esso l’identità autentica dei singoli. Potremmo anche parlare di “storie bloccate” in quanto non permettono l’introduzione di nuove informazioni, escludendo qualsiasi significato diverso da quello già espresso e costruito nel racconto. Gli studiosi e clinici di ambito sistemico hanno messo in evidenza la centralità della narrazione nel funzionamento dei sistemi familiari e nella loro cura. Questo ha portato un’evoluzione dell’approccio sistemico, tradizionalmente basato sulla cura delle dinamiche interattive nella famiglia, verso la cura delle storie raccontate. Le trame narrative orientate alla negazione del riconoscimento possono sviluppare rappresentazioni poco salutari di sé e della propria famiglia. Da qui si può utilizzare l’elogio alla bellezza. 12 Re – inventare la famiglia. Consulenza familiare. Costruzioni biografiche. Le storie, nella pedagogia della famiglia, possono offrire sia un modo di leggere le trasformazioni della vita familiari, sia un metodo di intervento educativo. Secondo West, per comprendere l’impatto della dimensione biografica sulla vita familiare, e viceversa, ci è necessaria la “immaginazione auto-biografica”, cioè la capacità di comporre sguardi multipli, andando oltre le nostre cornici disciplinari e professionali. Memorie familiari intergenerazionali. Alla metà del secolo scorso, tecnologia significava soprattutto maggior comfort e nuovi standard nel lavoro domestico; questo cambiò le relazioni e i compiti casalinghi, soprattutto per le donne. Esercitò una funziona rilevante nella creazione della famiglia contemporanea, presa tra due immagini: quella della “famiglia consumatrice” e quella della “famiglia sentimentale”. Le storie che raccogliamo ci aiutano a ricordare che lo scenario cambia continuamente e le soluzioni che ogni famiglia mette in atto sono una combinazione di adattamenti che permette di stare al passo con i tempi pur mantenendo un’identità, una coerenza. La tecnologia però non è che una delle dimensioni dei cambiamenti sociali e culturali in atto. Molti esperti si soffermano sull’analisi di altri aspetti, soprattutto sui cambiamenti strutturali del “far famiglia” coinvolgendo il piano etico e politico. Sembra ovvio soffermarsi sull’aumento delle famiglie monoparentali, delle coppie di fatto, delle separazioni e dei divorzi, delle famiglia omogenitoriali che portano alla ricostruzione di nuovi legami familiari più complessi e creativi; su come cambia non tanto il “far famiglia”, ma la “cultura familiare”, intendendo come cultura quel “sistema complesso di saperi, ideologie, valori, leggi e norme, rituali quotidiani che struttura le relazioni in modi ridondanti, ripetitivi e normativi. Mettere l’accento sulla cultura significa affrontare il tema dell’educazione come processo che avviene continuamente nella famiglia, per lo più inconsapevolmente attraverso l’immersione quotidiana nei modelli comunicativi, negli stili di vita, nella materialità dei rituali, dei gesti e dei discorsi. E nelle storie condivise. Disordine e incertezza: quale idea di apprendimento per la famiglia? Il concetto di “ciclo di vita familiare” oggi diventa controverso perché è andata in frantumi la regolarità e sequenzialità delle tappe, la loro durata e soprattutto i significati che si attribuiscono ai vari momenti. Questo cambiamento non è omogeneo. Dipende da molti fattori: economici, sociali, geografici, educativi.. Vediamo coesistere modelli e stili di vita differenti nella stessa area geografica, a volte nella stessa casa. Questa diversificazione crescente di strutture e stili di vita è una sfida per l’educazione: in assenza del modello unico, porta in primo piano la necessità di accompagnare a una scelta deliberata. La famiglia “in disordine”, fondata sui sentimenti e sulla libertà individuale, richiede un surplus di negoziazione che non era necessario alle generazioni precedenti, per le quali tutto poteva apparire scontato. Questo richiama la necessità di apprendimenti che ognuno deve portare a termine nei primi anni della propria formazione come essere umano: abilità nella comunicazione, auto-consapevolezza emotiva e riflessività (life skills). Le relazioni oggi sono (soprav) valutate, ma paradossalmente ciò accade in uno scenario che ha per regola l’individualizzazione. Come si impara oggi la famiglia? Con i new media c’è interazione e una possibilità di contaminazione, di trasformazione di punti di vista. Eppure, la sensazione prevalente rimane quella dell’incertezza, in tutte le sfere dell’esistenza umana vista più come una minaccia che come opportunità. In una società incerta, che cosa è, dove sta, la solidità per una famiglia che sappiamo essere comunque in costante trasformazione? Questa domanda ci riporta al tema dei livelli di apprendimento: è necessario prendersi cura del proprio apprendere ed apprendere (lifelong learning e lifelong caring) è la competenza propria dei nostri tempi, che indica non solo la capacità di apprendere per tutta la vita, ma di prendersi cura di sé, degli altri, del proprio apprendere e della capacità di apprendere dei contesti in cui viviamo. L’educazione non può permettersi oggi di connotare il disordine e l’incertezza come solamente negativi: la complessità è una caratteristica costitutiva del vivere. 15 Re – inventare la famiglia. Consulenza familiare. L’invenzione del privato. La caratteristica più evidente della cultura familiare contemporanea è la “vita privata”. Lo spazio domestico evolve con la definizione dei confini tra sfera pubblica e quella privata. Genera simbolicamente il senso del privato. L’oggetto della condivisione è un prodotto culturale che a sua volta educa ai nuovi valori sociali; allo stesso tempo estrania, cioè ha poco o nulla a che fare con la realtà dei sentimenti e delle relazioni di quel nucleo familiare. Le relazioni private sono così, da un lato, celebrate, dall’altro negate. Un doppio legame generalizzato. Doppi legami istituzionali. Le contraddizioni appaiono particolarmente interessanti, perché mettono in evidenza il “potenziale trasformativo” della cultura familiare. Se da un lato siamo testimoni della crescente privatizzazione della vita familiare e valorizzazione delle relazioni interne a scapito di quelle esterne, dall’altro lato la famiglia non appare affatto libera di definire il proprio spazio d’azione e di vita. Una costante azione di controllo è esercitata da ogni tipo di istituzione, e in modo particolare dallo Stato. È una prerogativa generalizzata degli stati democratici esercitare controllo e influenza sulla famiglia, anche attraverso l’apparato delle leggi e delle politiche sociali. La possibilità che un adulto perda, del tutto o in parte, i propri diritti di genitore, a fronte di una valutazione negativa dei suoi comportamenti, è molto alta. Questo anche grazie alle leggi che, in molti paesi, hanno messo al centro dell’attenzione i diritti dei bambini. È sicuramente una grande conquista dell’umanità. Quello che invece merita una riflessione attenta è l’aumento del controllo sociale sulla famiglia e i rischi che comporta. Il controllo esercitato da pochi è sempre un rischio, se ostacola la possibilità di apprendere, di evolvere, specialmente quando una famiglia viene connotata come “fuori norma”. È lavorando sulla cultura dei servizi, sulla cura dei legami e dei contesti, sulla formazione degli operatori che si può sperare di risolvere, almeno in parte, questo doppio legame istituzionale. In quanto educatori dovremmo insistere di più sull’apprendimento e sull’evoluzione come chiavi per comprendere le famiglie, il loro funzionamento e le possibilità di intervento. Oggi anche il modello di Welfare è sotto revisione, in diverse regioni italiane. Il problema nasce quando il supporto non ha il senso di aiutare a superare la difficoltà, ma stabilisce un obiettivo di cambiamento. Il sostegno temporaneo diventa presa in carico, occasione per esercitare pressioni verso la “normalizzazione” della famiglia. La ricerca pedagogica sugli eventi cruciali della vita familiare mostra spesso la presenza di comunicazioni paradossali e doppi legami istituzionali. Le famiglie, o meglio ogni componente della famiglia, non sono passive: si organizzano, danno senso e significato alle situazioni, costruiscono strategie. C’è bisogno di sviluppare una conoscenza più approfondita e sensibile dei processi di apprendimento, delle loro interconnessioni e complessità. Come si impara la famiglia? L’apprendere riguarda l’intero, i componenti e le relazioni tra di loro. Tutti imparano costantemente e reciprocamente. La famiglia educa per definizione, proprio perché è un sistema di ridondanze, di relazioni circolari e di comportamenti interdipendenti; è caratterizzata dunque sia dalla permanenza sia dal cambiamento. I processi narrativi sono educativi, ma non intenzionali: il modo di apprendere proprio della famiglia è quello dell’educazione informale. Secondo la tesi di Bateson, è probabilmente il carattere inconscio e simbolico della relazione a consentire che l’educazione familiare sia “ecologica”, cioè rispettosa della complessità del divenire umano. Quelle occasioni in cui qualcuno intende educare qualcun altro in modo consapevole e finalizzato danno origine facilmente a doppi legami e paradossi. Con – vivere è dunque il modo più comune per la famiglia di apprendere. La metafora della famiglia come cultura ci invita a comprendere quella famiglia, incrociando 3 tipi di dati: l’osservazione della famiglia in azione per scoprire ridondanze nel tessuto delle interazioni, la raccolta delle storie per svelare il mondo dei significati e creazioni simboliche, per esplorare l’immaginario di quel sistema. 16 Re – inventare la famiglia. Consulenza familiare. Verso la biograficità: l’esempio della nascita. Una famiglia è un insieme di individui, una comunità di osservatori accoppiati strutturalmente grazie al linguaggio che condividono, che è una pratica di con-vivenza e uno strumento di costruzione della realtà. Far parte di una famiglia significa sviluppare un sistema coordinato di storie e dunque condividere una buona parte della “stessa” epistemologia, dello “stesso” paradigma. Le storie che si raccontano nella famiglia possono essere considerate co-costruzioni collettive, anche quando sono in contrasto tra loro, anche quando noi ne conosciamo una sola versione. La vita di famigli non si può capire dalla sommatoria delle storie dei suoi membri presi separatamente: dobbiamo capire come le storie si interconnettono e come sono collettivamente generate e trasformate. Come educatori abbiamo la responsabilità di creare contesti relazionali nei quali sia possibile narrare storie più ricche; se siamo consapevoli che noi, con le nostre domande, con i nostri feedback, esercitiamo vincoli su quello che può o non può essere. Quando si sono sperimentati setting multipli nel lavoro auto-biografico, non è più possibile pensare alla narrazione come qualcosa di statico, di oggettivo e neutrale. L’approccio sistemico cerca di generare versioni diverse della “stessa storia”, differenze che fanno una differenza, moltiplicando sguardi e linguaggi. Si può lavorare preventivamente in modo tale che producano di per sé storie più ricche e apprendimenti più funzionali. Si potrebbero prevenire molti disagi e storie difficili, con un buon intervento educativo che si prenda cura non solo del singolo soggetto, ma dei legami significativi che ha. Il contesto auto-biografico costruisce uno spazio transizionale dove le relazioni sono sufficientemente sicure non solo per raccontarsi, ma per aprirsi a nuovi apprendimenti. Nell’approccio sistemico la biograficità non è solo una manifestazione della soggettività, ma è sempre inter- soggettiva: l’apprendimento di secondo livello avviene quando si modificano relazioni, cioè quando la storia raccontata dà un potere d’azione sul contesto di vita. Tra il micro e il macro, la famiglia. Per concludere, sul piano sociale le storie illuminano le trasformazioni dei sistemi organizzativi, istituzionali, in continuo movimento sia a livello formale, sia a livello informale. A livello micro, le storie raccontano trasformazioni che avvengono nello sviluppo di un sapere biografico significativo. Due livelli che ritroviamo, contrapposti, in una visione dualistica che contrasta il sociale con il soggettivo. Le interazioni che accompagnano ogni apprendimento individuale, infatti, avvengono a livello “meso”: né micro, né macro. La vita familiare ha luogo in questo livello, che è connesso sia al macro che al micro. Costruiamo la nostra identità attraverso storie co-costruite e trasformate nelle relazioni con gli altri significativi, cioè nel meso-livello, sia che lo chiamiamo “famiglia”, sia che lo chiamiamo “sistema prossimale di cura”. L’apprendimento familiare è un deuteroapprendimento, cioè va oltre l’acquisizione di nuovi comportamenti o l’elaborazione di nuovi significati, che comporterebbero semplicemente un adattamento di cornici precedenti alle nuove informazioni in ingresso. 17 Re – inventare la famiglia. Consulenza familiare. Posizionarsi rispetto all’invio in modo corretto e generativo è importante, soprattutto nelle prime fasi dell’intervento quando i giochi vengono definiti e i contatti stipulati, ma la relazione con l’inviante resta sempre attiva, anche quando non si vede o la si dimentica. Il mandato: Che cosa si chiede all’educatore che lavora con la famiglia? Interrogarsi sul mandato e disporsi a interpretarlo e ridefinirlo rende l’operatore protagonista del proprio lavoro. Non è necessario subire passivamente un mandato. Porre domande sul proprio mandato è un dono che l’educatore fa al servizio, ai suoi mandanti e agli altri professionisti coinvolti, perché li aiuta a definire meglio finalità e obiettivi chiedendosi se sono coerenti con le aspettative della famiglia. È l’operatore che compone la domanda e il mandato in un’azione sensata. Non dare per scontato il mandato, sospendere l’azione quando non si è convinti, chiedere incontri per concordare le finalità, avviare conversazioni riflessive dentro il proprio luogo di lavoro sono competenze che danno autorevolezza al lavoro dell’educatore. Competenze che non nascono spontaneamente ma richiedono lunghi apprendistati, tanti errori ed esperienze fallimentari. Solo l’educatore che personalizza i propri interventi, che si mette in gioco analizzando le proprie posture e pregiudizi, disposto a imparare e trasformarsi risulterà credibile nel momento in cui prova a ridefinire il proprio mandato. La convocazione di tutto il sistema: Nell’approccio sistemico la convocazione è l’invito a tutta la famiglia a presentarsi al servizio. I significati della convocazione sono aperti: ognuno porta il suo e nell’interazione si prova a costruire una storia condivisa. Per un educatore che lavora con il sistema familiare, la convocazione è una questione delicata. Convocare significa definire chi fa parte di quella famiglia. Il mandato educativo, spostando in modo scontato un pregiudizio culturale, si limita spesso al nucleo familiare composto da genitori e figli. In un’ottica sistemica, è “famiglia” l’insieme delle persone coinvolte nella cura, “nel problema”. Il pensiero dell’operatore sistemico è sempre volto all’insieme delle relazioni e al desiderio di allargare il contesto, perché sappiamo che i sistemi viventi trovano più facilmente e più rapidamente in modo naturale i loro equilibri, se hanno a disposizione tante risorse nell’ambiente circostante. Anche quando incontra solo il bambino, l’educatore che ha una formazione sistemica sa che c’è una famiglia e la rete delle relazioni significative, ed è aperto a conoscerle, incontrarle, ad ascoltarne le voci; non è giudicante. La costruzione del setting: Quanli condizioni concrete rendono possibile l’azione educativa? Sappiamo che è utile istituire un setting policentrico e flessibile. Flessibilità non significa confusione, caos, relativismo metodologico. I contesti, per diventare matrici di significati, hanno bisogno di marche ben definite: messaggi verbali e non verbali che dicono “cosa stiamo facendo qui” e accompagnano le eventuali ridefinizioni. Le pratiche sono ciò che “si vede”: definiscono le regole del gioco, ma è la loro dimensione simbolica, il senso che assumono, i significati che veicolano, a definire il setting. Ancora una volta, non è il cosa, ma il come, ciò su cui puntare l’attenzione. Pensare al setting, organizzarlo, prendersene cura nei minimi dettagli significa chiedersi continuamente, riflessivamente, quali messaggi si vogliono dare e ricevere, nell’intento di sostenere e accompagnare le trasformazioni delle relazioni familiari, di prendersi cura dei legami, di installare senso di competenza, speranza e bellezza nelle situazioni problematiche. L’umanità varia delle famiglie e degli operatori possono avere luogo, finalmente, in modo fluido e flessibile. Il processo: contratto, intervento, valutazione, chiusura. La prima operazione da fare sarà mettere in discussione la successione delle operazioni del titolo proposto. Il contratto si fa all’inizio: ne siamo così sicuri? Nel contratto sono definiti gli obiettivi, ma nell’intervento educativo non può solo avere esiti attesi; il bricolage evolutivo proprio dei sistemi viventi farà scoprire in itinere altri aspetti, non conoscibili all’inizio. 20 Re – inventare la famiglia. Consulenza familiare. L’intervento ha una durata: è bene definire in modo esplicito inizio e chiusura. Uno dei problemi più diffusi dell’intervento educativo è la sua cronicizzazione, che mostra gli effetti perversi di una trasformazione bloccata, negli utenti e nei servizi. L’approccio sistemico è tendenzialmente breve: mira alla perturbazione, non alla presa in carico, attribuisce al sistema una capacità di autocura che va rivitalizzata. Partire dalla fine, cioè dai criteri di valutazione, è utile perché la valutazione ci dice a che cosa diamo valore. I criteri di valutazione dovrebbero essere fissati insieme alle famiglie, tenendo conto dei bisogni, dei desideri e dei punti di vista di ciascuno dei membri. Un contratto è, formalmente, un documento che sancisce un accordo tra liberi nel quale vengono fissati obblighi e diritti reciproci. Per essere onesto, un contratto dovrebbe esplicitare tutti i vincoli non contrattabili e prevedere comunque un margine di negoziazione per i contraenti. La circolarità tradotta in comunicazione. Il concreto del lavoro educativo avviene in un flusso comunicativo incessante al quale le persone partecipano. L’operatore sistemico tiene conto del processo comunicativo in atto e prova a perturbarlo alla ricerca di nuove possibilità. Usa la propria posizione nel sistema per introdurre differenze che diventino informazioni per provocare apprendimenti. È responsivo, cioè adotta una postura di grande attenzione per i feedback, quelli da dare e quelli da ricevere. Il suo modo di comunicare non è centrato sull’intenzionalità del messaggio, ma sugli effetti. 1 Ipotizzazione – 2 circolarità – 3 neutralità sono le linee guida che portano da una concezione della conversazione “come raccolta di informazioni” sulla famiglia, all’idea (molto più sistemica) di una conversazione a più voci nella quale si generano informazioni attraverso il gioco delle differenze. L’equipe sistemica, adottando la postura dell’ipotizzazione 1, riconosce il valore parziale e temporaneo delle proprie idee sulla famiglia, che saranno coltivate e arricchite continuamente, per garantire una visione circolare e utile al cambiamento. L’ipotesi sistemica è il prodotto di una conversazione generativa nella quale gli operatori solo discutendo riescono a prendere le distanze dai propri pregiudizi, grazie all’ascolto reciproco. L’incontro con le altre prospettive disciplina lo sguardi: è evidente che nessuno è nel giusto, che bisogna cambiare di livello, mettere insieme le diverse letture lineari, superando il giudizio, e formulare un’ipotesi più complessa, che tiene insieme le diverse visioni. Quando un’equipe diventa una “mente sistemica” riesce a sintonizzarsi sulla complessità della famiglia, a rispecchiarne la circolarità 2. L’educatore sistemico lavorando a stretto contatto con la famiglia in situazioni di vita quotidiana, ha altre possibilità per esprimere ipotesi sistemiche, per celebrare la circolarità e assumere posture neutrali 3. Compito dell’educatore è allestire un contesto operativo come una nuova matrice di significati, uno sfondo nel quale la circolarità delle comunicazioni sia presente e possa trasformarsi. Alle tre linee guida della conduzione sistemica dobbiamo dunque aggiungerne una quarta: la creatività, o meglio l’immaginazione 4. Giocare diversi ruoli, copioni diversi, immaginare altrimenti, sognare la famiglia ed il futuro, sono azioni cruciali per la trasformazione educativa. La famiglia non va mai a dormire. Quale teoria ci serve per inquadrare il lavoro educativo con la famiglia? Ogni azione educativa con le famiglia è comprensibile se vediamo i singoli, le famiglie e i servizi come sistemi dinamici interconnessi e in continua trasformazione. L’azione educativa basata sull’idea di perturbazione ha qualche chance di essere ecologica se sviluppa una grande sensibilità verso il contesto e verso i processi comunicativi che lo costruiscono e commentano continuamente. Quali movimenti per stare tutti un po’ meglio? Dal libro emergono 4 dimensioni della cura, fortemente intrecciate: la fedeltà del soggetto a sé stesso (come sistema individuale), la cura dei legami, la cura del “noi”, l’apertura al sistema più ampio, sociale e naturale. 21 Re – inventare la famiglia. Consulenza familiare. La fedeltà del soggetto a sé stesso. Sembra che questo punto riguardi il singolo, in realtà definisce la qualità delle relazioni. Imparare la fedeltà a sé stessi non dovrebbe essere così difficile. L’aspettativa biologica si incontra con il dato culturale che porta alla discontinuità. Ogni cultura, ogni famiglia ha le sue discontinuità: attraverso le interazioni offre informazioni che aiutano a crescere e a strutturarsi nei modi previsti per diventare un individuo adatto a quel mondo. La cura dei legami. Significa (ri)creare le condizioni materiali, psicologiche, organizzative per far incontrare i “pezzi” della famiglia che erano stati separati e garantire che l’incontro sia reale, cioè che avvenga in modo da ricomporre il senso delle interconnessioni, anche riconoscendone la complessità e la difficoltà. Prendersi cura dei legami non significa negare i problemi, creare mondi dove tutti si vogliono bene, dove bisogna “fare finta”. Ri-comporre i legami messi a rischio oggi diventa sempre più urgente: le biografie sono frammentate dal punto di vista quantitativo e qualitativo, al punto che la necessità di prendersi cura attivamente dei legami riguarda tutte le famiglie. La discontinuità si traduce in frattura, in una oggettiva impossibilità di coltivare la relazione con l’altro. Prendersi cura dei legami richiede attenzione per quei fili sottili che tengono insieme il tessuto delle relazioni familiari, che possono essere ritrovati, rinforzati se serve. Cura dei legami significa quindi recuperare la capacità simbolica. La cura del “noi”. Anche questa cura trae vantaggio dalla composizione, che tiene insieme il piano reale con il simbolico. Il senso del noi fa stare tutti un po’ meglio. Coltivare insieme i due livelli di significa trovare soluzioni creative a vecchi dualismi, che hanno dominato a lungo gli studi sulla famiglia: autonomia vs eteronomia, indipendenza vs dipendenza, individualità vs appartenenza, differenziazione vs unità familiare. Apertura la sistema più ampio, sociale e naturale. Cura è costruire proposte che creino occasioni naturali di partecipazione, non perché qualcuno ha deciso come un dover essere al quale adeguarsi, ma perché il desiderio dell’altro nasce quando c’è il contesto giusto. Un altro problema è la disconnessione dal mondo naturale e dal territorio fisico in cui si vive. Le famiglie d’oggi vivono gran parte del loro tempo serrate in casa. Capitolo 3 – Tracciare le connessioni: l’ADM come questione di famiglia. Poter interagire con la famiglia all’interno dei propri ambienti permette di co-costruire nella quotidianità delle strategie e modalità interattive resistenti nel tempo, in grado di continuare anche dopo l’uscita di casa dell’educatore. Condizione perché questa trasformazione avvenga è, però, la curiosità, un posizionamento che consente ai percorsi educativi di prendere avvio dalle caratteristiche di quella famiglia, dalla conoscenza della sua storia, con i suoi vincoli e le sue possibilità. L’intervento, quindi, pur nato a partire dai bisogni di più piccoli, non può prescindere dal tenere in costante considerazione il sistema di relazioni complessive che dovrebbero offrire appartenenza e benessere a tutti quanti i membri della famiglia. ADM: una riflessione pedagogica tra premesse e definizioni. I pregiudizi relativi all’ADM riguardano non solo quello che viene richiesto all’educatore ma anche il modo di considerare il bambino e la famiglia nell’intervento educativo, il modo di dare senso alle relazioni tra i diversi attori sociali coinvolti nell’intervento. Il termine ADM viene usato per indicare in maniera generica interventi molto diversi che assumono sfaccettature e connotazioni differenti: dall’assistenza, all’animazione, dal sociale all’educativo, in relazione al tipo di progetto, agli obiettivi fissati e alle pratiche concretamente messe in campo. La famiglia può apparire come la figura principale, come contesto da tenere più o meno in considerazione, a volte come risorsa, altre come vincolo o addirittura come motivo di sofferenza per il “minore” e anche per l’operaore. Assistenza Domiciliare Minori. 22 Re – inventare la famiglia. Consulenza familiare. Capitolo 6 – Costruire consapevolezza nella relazione con le famiglie. Poniamo l’accento su quello che la cibernetica del secondo ordine ha individuato come problema centrale della conoscenza: come conosciamo la conoscenza? L’educatore entra sempre in interazione con sistemi, anche se non sempre ne è consapevole. Ancor più: l’educatore diventa parte di un sistema di cui tenta di conoscere la complessità e all’interno del quale promuove azioni rivolte a una qualche forma di cambiamento. Come possiamo diventare consapevoli della nostra maniera di conoscere questi sistemi? Che cosa rivelano di me, cioè del sistema osservante, le esperienze educative che vivo? Quali pratiche del corpo, del pensiero e delle emozioni mi permettono di sentirmi, pensarmi , ascoltarmi come parte del sistema e quindi di agire più efficacemente con esso? Il legame tra conoscenza di sé e rapporto educativo ha solide fondamenta. La conoscenza di un sistema complesso come quello che si viene a creare tra famiglia e operatore non può prescindere dallo studio della mente che conosce e dai suoi condizionamenti. Trovare la posizione, né troppo né troppo poco. L’atto educativo è frutto di un posizionamento, che è fisico, ma soprattutto mentale, fatto di emozioni e pensieri. Trovare la giusta posizione è una ricerca che permette di orientale la naturale propensione all’altro entro un percorso studiato e condiviso, all’interno del quale è possibile ristabilire i giusti confini rispetto alle richieste della famiglia. I confini della famiglia. I racconti degli educatori sono pieni di confini, violati, guadagnati, sanciti o semplicemente difesi: i confini spazio-temporali del servizio, quelli del proprio coinvolgimento personale. Il tema dei confini del sistema familiare ritorna diverse volte: la famiglia nel nostro modello culturale è uno spazio privato, chiuso anche fisicamente dalle mura di casa, dove avvengono i rapporti intimi, personali, connotati della dimensione affettiva e perciò anche meno manifestabili. Le proprie relazioni familiari. Il contatto con le famiglie sollecita il ricordo o la riflessione sulle proprie esperienze familiari. L’atto educativo consiste nell’offrire ai ragazzi e alle famiglie un punto di vista diverso, all’interno di una vicenda personale e relazionale di crescita. Quest’atto, sollecitato dall’esigenza di intervento educativo, è anche profondamente auto-educativo per l’educatore. Differenze d’età. Nel nostro usuale percorso formativo viene rinforzata l’idea che l’educatore sia più grande dell’educando. Che cosa accade quando questa premessa è messa in discussione, ovvero quando chi svolge il ruolo dell’educatore è “minore” per esperienza e per età, di chi occupa il ruolo di educando? In che senso possiamo definire “asimmetrica” la relazione con i genitori dei nostri utenti? L’asimmetria della relazione con i genitori è fondata in primo luogo su una visione più ampia: l’educatore vede il punto di partenza e un possibile punto di arrivo: è solo la completezza di questa visione che definisce “educativo” l’intervento. L’altro aspetto di asimmetria è dato dalla capacità dell’educatore nel gestire le risorse, che la famiglia non ha e che viene condivisa nel processo di mediazione. Questo secondo passaggio (condividere una capacità, un sapere) da solo non avrebbe un potere educativo, se non accompagnato dal primo (acquisire una visione più ampia). Nella mente dell’educatore. Il percorso di consapevolezza si avvale degli strumenti della Pedagogia per il Terzo Millennio (PTM). Definiamo alcune delle pratiche di cura della relazione, e quindi di sé, che possono essere riassunte nello slogan “Educarsi per educare”. 25 Re – inventare la famiglia. Consulenza familiare. Per quanto concerne il lavoro educativo, se l’educatore reagisce in maniera automatica a una serie di stimoli, come può l’interazione educativa avere un carattere intenzionale? Comprendere lo stimolo fa riferimento in parte alla capacità di riflettere sull’intervento educativo, trovando cornici più ampie che permettano un’interazione più orientata; in parte indica uno stato psico-fisico ed emotivo che l’educatore può ricercare nel vivo dell’interazione educativa. L’interprete. L’interprete costruisce spiegazioni anche sulle interazioni educative, sulle motivazioni degli eventi e dei processi comunicativi, sulle cause dei comportamenti ecc. la consapevolezza di ciò piò aiutare a porsi in una maniera critica verso le proprie “facili interpretazioni” e ad allargare la soggettiva rappresentazione della realtà. Nella pratica educativa tutto ciò comporta la necessità di sviluppare e allenare un’attenzione vigile per il modo in cui ci raccontiamo gli eventi, per i presupposti delle inferenze logiche nostre e altrui, promuovendo un’attitudine di sospensione del giudizio e di esplorazione dei significati che ognuno di noi dà alle situazioni. Una pratica di consapevolezza nella relazione. Proviamo a sviluppare una pratica, ovvero una consapevolezza di sé nella relazione educativa, attraverso due idee-strumenti utilizzati dalla PTM: l’osservazione di sé e la mediazione. L’esercizio dell’auto-osservazione consiste nella ricerca continua di uno stato di attenzione verso sé. L’attenzione p in realtà divisa, perché nella relazione educativa mentre osservo me stesso, osservo e porto attenzione anche all’altro. Caratteristica fondamentale dell’osservazione è la neutralità, ovvero la distinzione tra dati e informazioni. Il processo di consapevolezza nella direzione del dato, sia che avvenga in fase di rielaborazione dell’esperienza, sia che avvenga nella materialità della relazione, si configura come uno strumento utile per cercare di svelare i filtri che applichiamo per interpretare la realtà. La mediazione è l’atto che permette l’incontro dei saperi tra educatore ed educando affinchè si verifichi un effettivo apprendimento da parte di quest’ultimo. Il punto di contatto tra educatore ed educando varia da caso a caso e per individuarlo occorre un grande impegno valutativo da parte del primo. Il processo di mediazione nella PTM viene riassunto nella cosiddetta “legge dei 100 passi”: detta 100 la distanza iniziale tra educatore ed educando, il primo compie anche 99 passi, pur di riuscire a trovare il luogo di comunicazione (l’azione comune). Da quel luogo è in grado di stimolare l’altro a fare dei passi nella sua direzione. L’educatore che compie tutti e i 100 passi corrisponde al caso di colui che si sostituisce all’altro. Chi non compie alcun passo, o passi non sufficienti all’incontro, esprime una rinuncia al suo ruolo educativo. Il processo di mediazione implica una componente emotiva: l’educando è attratto dalla posizione proposta perché l’educatore è un modello con cui c’è un’intensa relazione affettiva. Migliorarsi per migliorare insieme. Con l’ausilio dell’osservazione di sé e della mediazione, possiamo dare un nome alle relazioni, ai gesti, alle emozioni, alle cornici di pensiero, per tracciare una mappa delle nostre conoscenze. Da un punto di vista educativo, la prima consapevolezza che appare in ogni intervista è che l’interazione educativa avviene all’interno di un sistema, di una rete di relazioni complessa e viva. Capitolo 9 – Interrogare le rappresentazioni reciproche, tra ricerca e formazione. Esistono molti mondi possibili, ognuno legato a un viaggio. È il viaggio che compie il ricercatore a fare la differenza sul racconto del luogo ignoto, ricco di meraviglia e spiazzamenti, che ha incontrato. La ricerca si presenta differente in base a chi e come la guarda. Quale contributo può dare la ricerca nella formazione degli educatori? Possiamo dire che i partecipanti a una ricerca sono ingaggiati in un’esperienza formativa? Quale? 26 Re – inventare la famiglia. Consulenza familiare. Ricerca e lavoro educativo sono pensati come mondi separati come dimensioni intrecciate? È un lavoro di ricerca sulla famiglia o con la famiglia? Una cornice per la ricerca. Con quale res stai entrando in ricerca? Che cosa cerchi in questo viaggio? La res è la storia condivisa e provvisoria del “perché siamo qui” o “che cosa stiamo facendo insieme?”. È una narrazione, una direzione di senso, più che un obiettivo. La relazione operatori-famiglie è un costrutto sul quale interrogarsi, e lo è anche il dispositivo educativo, inteso come la struttura dentro cui si giocano tutte le relazioni. All’interno di tale complessità l’intento è quello di osservare una relazione in corso, pensandola come una danza dinamica tra educatore e famiglie. Guardare al processo educativo in quest’ottica significa pensare a ciò che si osserva come una relazione in continua trasformazione. Ogni persona vive dentro un tempo e un luogo, cioè inserita in una storia che si sviluppa in un contesto costantemente in trasformazione. In ricerca è chi si abbandona alla scoperta: si è in ricerca di fronte al nuovo m anche tutte le volte che ci si interroga sul quotidiano. La domanda è una condizione necessaria dell’essere in ricerca, ma non basta a fare di noi dei ricercatori. Laura Formenti distingue tra “sguardo ingenuo”, ideologicamente centrato, carico di pregiudizi vissuti come verità; e “sguardo scientifico”, attento a sé e agli altri, continuamente disposto a interrogarsi sui pregiudizi. Non è dunque solo la domanda a fare la differenza, ma come la si pone e a chi. Potremmo dire che il ricercatore è qualcuno che si prende cura del proprio punto di vista, non lo trascura, se ne interroga. Stessa cosa fa con il punto di vista altrui. Un buon educatore è dunque anche un ricercatore: si mette in ricerca nell’interrogarsi, non ingenuamente ma con consapevolezza e riflessività. Un educatore è ricercatore quando si rende conto di essere implicato in prima persona nella relazione educativa in corso ed è attento a mantenere viva nella quotidianità la curiosità dell’esploratore. Essere curiosi vuol dire mettersi in viaggio non dando nulla per scontato, ponendosi domande sugli usi e costumi della popolazione che si incontra lungo il cammino. La curiosità apre le porte a nuove visioni di ciò che ci sembrava ovvio; a volte apre alla bellezza, quando permette al ricercatore/educatore di guardare quello che c’è e non quello che manca. Ciò implica una responsabilità: ognuno di noi, con la sua presenza curiosa, incide notevolmente sui contesti nei quali agisce. Se un buon educatore è un ricercatore, vale anche l’opposto: chi ricerca è sempre in qualche modo un educatore. Essere un ricercatore che si occupa di storie, in particolare le narrazioni di famiglia, vuol dire essere consapevoli che le storie producono effetti. Quando l’altro ci racconta la sua storia, il racconto stesso ha una fortissima contingenza formativa. Narrare di sé apre alle possibilità di ripensare alla propria storia e riguardarla attraverso nuovi punti di vista. In campo educativo e pedagogico, a volte prevale lo “sguardo ingenuo” di un’indagine prevalentemente attenta ai contenuti delle storie raccolte e non alla relazione che il ricercatore instaura con le persone che le narrano. Il ricercatore/educatore ingenuo si dimentica di avere a che fare con relazioni e tratta le persone come “fornitori di dati”. Per compiere ricerche con uno “sguardo scientifico” in educazione bisogna essere consapevoli della co- implicazione di tutti i soggetti e del viaggio che stanno compiendo. Ancora una volta è la res, la direzione di senso condivisa, a fare la differenza. Il ricercatore di trova ad affrontare diverse responsabilità etiche. Prima di tutto la responsabilità di prendersi cura delle storie che gli sono affidate, leggerle da una postura di neutralità e attenta ai posizionamenti. Prendersi cura delle storie implica una particolare attenzione anche ai contesti istituzionali in cui avviene la ricerca, al ruolo e alla posizione del ricercatore, alle ricadute della ricerca in termini concreti. La seconda responsabilità etica riguarda la trasparenza. Questo principio etico richiama in causa la visibilità del patto tra ricercatore e soggetti. Processi educativi e di ricerca sono similmente forgiati sulla negoziazione di diritti e doveri. 27
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