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Re-inventare la famiglia, Appunti di Pedagogia

Riassunto del libro "Re-inventare la famiglia"

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 23/08/2022

arianna.cle
arianna.cle 🇮🇹

4.4

(40)

22 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Re-inventare la famiglia e più Appunti in PDF di Pedagogia solo su Docsity! RE-INVENTARE LA FAMIGLIA Prima Parte CAPITOLO 1 – Farsi l’orecchio (Laura Formenti) La famiglia è caratterizzata da: - consuetudine – ripetitività – ridondanza dei modelli di comunicazione L’idea che ci facciamo degli altri e di noi stessi è legata alle azioni comunicative nei contesti  è difficile separare percezione, categorizzazione e giudizio: sono processi che avvengono insieme in automatico. Per tenerli separati ci vuole sforzo e la pratica dello sguardo (anche se nella realtà tutti i sensi sono coinvolti). Lavorare con la famiglia richiede una consapevolezza epistemologica, cioè un atteggiamento interrogante nei nostri confronti dei nostri presupposti, una conoscenza del modo di funzionare della mente umana. Il modello a cui ispirarsi è quello sistemico, che mette l’idea di “comunicazione” al centro di tutti i processi  tutto è un messaggio. La comunicazione umana è concepita come un insieme organico di livelli complessi, contesti multipli e circuiti riflessivi. Albert Scheflen  uno dei primi ricercatori a paragonare la comunicazione a una composizione musicale, poiché entrambe realizzano strutture con stile e specificità proprie ma con una configurazione precisa. Pregiudizio dei giovani educatori è che l’idea di tutti i comportamenti ed eventi si possano o si debbano spiegare ricercandone le cause o motivazioni a partire dalle intenzioni, azioni e valori dei singoli soggetti. Ma l’approccio sistemico si fonda su una ecologia delle idee, sulla curiosità per tutto quello che non appare immediatamente valido o scontato  si adotta una postura di curiosità, aprendo lo sguardo sulla famiglia per cercare di afferrare le verità che si nascondono dentro le storie. Educatore deve farsi l’orecchio, cioè apprendere a interfacciarsi con situazioni nelle quali si trova immerso come se fosse lui stesso uno strumento, uno strumento musicale. La famiglia, per un educatore sistemico, è come una rock band. Questa metafora è molto interessante perché ci permette di capire che all’interno di ogni sistema familiare ogni membro cerca di trovare la sua voce, ma l’insieme avrà comunque un sound inconfondibile, che noi abbiamo chiamato “senso del Noi”. Ogni familiare ha un timbro unico, personale, e il modo peculiare in cui si amalgamano e armonizzano i vari timbri ci dà il Noi. La famiglia è un sistema. Ma che cos’è tecnicamente un sistema? E’ un aggregato di parti interagenti, ciascuna delle quali può esistere in sé ma è interdipendente dalle altre e dal tutto secondo determinate leggi e regole. Un sistema è caratterizzato da totalità: è un tutto inscindibile, e questo vuol dire che se una parte cambia o viene danneggiata, tutte le parti sono coinvolte. Ogni sistema è omeostotatico: ha un equilibrio che non è fisso, ma è metastabile, si mantiene cioè attraverso un continuo processo di retroazione negativa (riduzione dei valori che si discostano dalla norma di una certa varibile). Ogni sistema è caratterizzato poi da retroazione e circolarità (ovvero non c’è linearità tra causa-effetto, ma ogni azione può influenzarne un’altra, creando circolarità) e da equifinalità (due sistemi partiti da condizioni iniziali diverse possono raggiungere lo stesso risultato finale, e condizioni iniziali uguali possono produrre risultati diversi). Queste sono tutte caratteristiche che ritroviamo nel sistema-famiglia. Bisogna capire poi che la famiglia è un’opera collettiva, incompiuta e sempre in costruzione, in cui tutti danno un contributo attivo. I ruoli sono intercambiabili ed esistono dei copioni familiari in ogni famiglia (un copione è un insieme di aspettative condivise dalla famiglia di come i ruoli debbano essere rispettati all’interno di contesti differenti). A volte i copioni finiscono per creare veri e propri personaggi su cui i membri familiari si sintonizzano (il pigro, il genio, la pecora nera ecc). Sono importanti anche i rituali familiari, che realizzano apprendimenti espliciti e impliciti e implicano una serie di messaggi su chi è quella famiglia e su chi sono i suoi membri (per es. cucinare tutti insieme). Quindi un educatore, per comprendere una specifica famiglia, non potrà limitarsi a capire e studiare le intenzioni, le azioni e i valori dei singoli membri, ma dovrà cercare di farsi orecchio sulla musica suonata da tutta la famiglia, dovrà ascoltare attentamente e concentrarsi sulle relazioni familiari. E’ riduttivo spiegare i comportamenti umani attraverso i vissuti individuali, bisogna guardare quello che accade tra le persone. L’educatore per farsi orecchio sul sistema familiare deve partire da ciò che per prima cosa lo qualifica, cioè la convivenza. La casa è un simbolo molto forte del Noi e anche del sé, è il luogo dove possiamo essere noi stessi, dove sono scanditi i tempi e i ritmi condivisi della famiglia, è uno spazio di interazione che l’educatore deve imparare a osservare con curiosità e con rispetto, senza giudicarla o analizzarla. Con-vivenza vuol dire anche spazi e tempi condivisi  quando un membro della famiglia cambia la sua relazione rispetto agli altri o il suo ritmo di vita, questo incide in maniera significativa sulla vita di tutti. Ogni famiglia ha il suo stile di convivenza, il proprio modello. Questo però non vuol dire che l’educatore debba adottare una posizione di relativismo culturale: lo sguardo sistemico va oltre il relativismo, per adottare una postura relazionale e costruttiva, sempre attenta alle possibilità di evoluzione della famiglia in questione (quindi se in una famiglia i figli vengono picchiati perché fa parte della cultura familiare, l’educatore sistemico non può accettarlo sulla base del relativismo, perché non sono rispettate le possibilità evolutive della famiglia.) Lavoro educativo con la famiglia  aprire possibilità perché tutti stiano un po’ meglio. Ma cos’è il Noi familiare? Ogni famiglia è portatrice di una sua logica, di un’identità, di una cultura. Ma chi decide che una famiglia è un Noi? La famiglia spesso sfugge all’attenzione perché come tutto ciò che ci è familiare in gran parte è percepita come qualcosa di ovvio. Il senso della famiglia è intrecciato al mondo, cultura e territorio in cui vive. Per comprendere il senso del Noi bisogna osservare con occhi curiosi ciò che accade nella famiglia stessa, e in particolare quale rapporto sussiste tra la famiglia praticata e la famiglia rappresentata, cioè tra come la famiglia è quotidianamente nel suo habitat naturale e come noi osserviamo e raccontiamo la famiglia. Quindi se vogliamo comprendere il senso del Noi il primo quesito da sciogliere è: chi è l’osservatore della famiglia e quale idea di famiglia sostiene il suo sguardo? Nessuna osservazione può prescindere dalla soggettività di chi osserva, e quindi l’educatore deve diventare consapevole del suo sguardo e bravo a mettere in parole ciò che si presenta ai suoi sensi. Il senso del Noi dipende dalla nostra posizione nel sistema  è importante però non esprimere giudizi, descrivere azioni concrete e mettere a fuoco tutte le persone coinvolte nell’interazione. Obiettivo primario quando si osserva è la rappresentazione estetica, cioè mettere a parole quello che si presenta ai sensi. L’educatore deve diventare in grado di riprodurre la scena osservata cogliendo il senso della “danza familiare” a cui assiste. Il senso del noi si appoggia quindi su uno sguardo che abbraccia, celebra, con-partecipa e soprattutto com- pone, cogliendo la danza interattiva dei membri della famiglia e non solo i singoli comportamenti. La famiglia in quanto sistema è caratterizzata da coerenze, ridondanze (cioè ripetizioni di mosse, schemi e modelli) e interdipendenze. Ognuno dei componenti della famiglia si muove e si trasforma in relazione agli altri, e questo rende la famiglia un corpo, in cui sono visibili le interconnessioni. La famiglia reale si mostra, come se fosse su un palcoscenico, ogni volta che agisce concretamente (ad esempio al momento del pranzo). Altrettanto importante è la famiglia simbolica, cioè le immagini, le storie e i simboli che usiamo per rappresentare la famiglia reale. Le rappresentazioni simboliche sono definite da Caillè e Rey “oggetti fluttuanti”  danno forma a qualcosa che trascende il singolo, cioè il sapere familiare, che è mobile, intuitivo e poco formalizzato. Gli oggetti fluttuanti rappresentano il Noi, creando uno spazio intermedio nel quale si può essere creativi e vedere le relazioni in una luce nuova. Non hanno un significato univoco ma propongono un senso del Noi che è dinamico, sempre in movimento. Non bisogna pensare che il senso del Noi sia qualcosa di monolitico e compatto: esso è nella continua trasformazione, nella con-posizione dialogica e nel riconoscimento delle differenze. Ci vuole davvero orecchio per lavorare con la famiglia in senso educativo  la vita familiare comprende molteplici livelli, ognuno dei quali va preso in considerazione:  Individuo come unità, voce unica  Relazioni io-tu, come possibilità di armonizzazione  Senso del Noi (o assoluto familiare), come totalità che trascende i singoli  Rapporto con il contesto per evitare de-sincronizzazioni CAPITOLO 2 – Formare lo sguardo attraverso le pratiche (Beppe Pasini) Oggi il termine famiglia si presta a essere declinato in molte sfumature. La visione della famiglia come qualcosa di monolitico e rigido è ormai entrata in crisi: negli ultimi 35 anni i matrimoni si sono dimezzati, le separazioni sono aumentate, esistono single, coppie omosessuali, coppie senza figli, coppie di fatto ecc.. Il problema è che queste diverse forme familiari non sono riconosciute davanti alla legge e quindi non sono tutelate dallo Stato, che è ancora fermo alla concezione di “famiglia naturale” come unione uomo-donna fondata sul matrimonio. Come fa allora un educatore a prepararsi ad affrontare uno scenario così complesso? Imparando a raccogliere le storie di relazioni familiari, che poi una volta narrate aiuteranno a capire meglio la famiglia. Una storia però non vale l’altra: il La dimensione di flessibilità nel genitore è una grande risorsa  è chiamato a risolvere ogni giorno questioni nuove, misurarsi con la linearità, il cambiamento, l’imprevisto. CAPITOLO 4 – Interazioni: osservare la famiglia in azione (Mara Pirotta) L’interazione umana non si ferma a livello verbale, grandissima parte della comunicazione ha luogo attraverso segnali, mimiche, gesticolazioni e posture. L’osservazione è un procedimento selettivo che si differenzia dal semplice guardare, per il fatto che lo sguardo dell’osservatore è intenzionalmente guidato da premesse, pregiudizi e ipotesi che sono una guida nell’ottenere le informazioni desiderate. Non si può osservare tutto: l’osservazione è sempre un processo di selezione e di scelta metodologica intenzionale; non è possibile quindi osservare in modo totale né oggettivo poiché l’osservatore è sempre inserito nel processo di osservazione, lo caratterizza e ne è a sua volta influenzato. Quando l’oggetto di osservazione è la famiglia, la pratica osservativa sembra assumere una complessità ancora maggiore. L’osservazione della famiglia tende a dare importanza al contesto relazionale nel quale avviene il processo di evoluzione e crescita di un bambino. Focus dell’osservazione diventano quindi più che l’adulto e il figlio, intesi individualmente come portatori di competenze e caratteristiche, le relazioni e le interazioni esistenti tra di loro. Non è quindi possibile osservare in modo totale né oggettivo: l’osservatore è sempre inserito nel processo di osservazione, lo caratterizza e ne è a sua volta influenzato. Attraverso l’osservazione diretta delle interazioni familiari è possibile riconoscere e sottolineare le modalità di funzionamento della famiglia, in quel determinato contesto osservativo. È anche possibile coinvolgere la famiglia come protagonista attiva del processo di analisi e valutazione, in cui ogni suo membro può diventare osservatore. L’esperienza di chi osserva, i suoi pregiudizi e preconcetti inevitabilmente vengono messi in scena, con il rischio di filtrare talmente tanto i dati da non riuscire a cogliere aspetti che potrebbero modificare le sue ipotesi di partenza. L’osservazione è una vera e propria pratica che richiede cura, attenzione e responsabilità: se guardo in un certo modo, so che riuscirò a vedere delle cose e non altre. Ognuno di noi ha una propria e personale esperienza di famiglia; questa esperienza viene inevitabilmente evocata quando nel lavoro educativo o di consulenza si è chiamati a interagire con un genitore che chiede aiuto a vari livelli. “Come mi vedi?” questo è l’interrogativo con cui molti genitori si rivolgono a un professionista della relazione pedagogica poiché vogliono essere valutati come genitori. Quello che sembra essere un bisogno di valutazione è in primo luogo un bisogno di riconoscimento: il desiderio di essere visti e riconosciuti nel ruolo di genitore. Di fronte al bisogno di essere visti e riconosciuti si può proporre un uso trasformativo e riflessivo della videocamera come strumento che crea uno sguardo possibile. La richiesta avanzata dai genitori è di tipo valutativo (“ditemi che sono un bravo genitore”) ma la risposta, o meglio il percorso che viene proposto, è osservativo-riflessivo. Se esiste un dubbio o un giudizio negativo su di sé, è meglio partire da quello perché è proprio dal dubbio che nasce la domanda di consulenza. Questo primo passo porta il genitori in un circuito riflessivo armonico  da un lato lo sostiene nell’idea che qualcosa non funziona; dall’altro dà il messaggio che il genitore è competente nell’esprimere quell’idea. La metodologia proposta, ispirata al Lausanne Triadic Play, prevede l’osservazione delle interazioni tra i componenti della famiglia; il setting scelto è la casa, quindi un ambiente naturale dove è possibile osservare quelle attività di routine che appaiono, nei racconti dei genitori, le più cariche di ansia e timori. Il passaggio successivo alla ripresa delle immagini è quello di ritrovarsi insieme a osservarle. In questa fase il compito dell’educatore è affiancare i genitori aiutandoli soprattutto da un punto di vista tecnico; e da li partono le domande (“quali sono stati i momenti in cui ti sei sentita non competente?”…) Attraverso il processo di visione, selezione, taglio e montaggio delle scene (rivedersi per più volte consecutive in momenti diversi), i genitori hanno la possibilità di soffermarsi e prendersi cura di sé e della propria storia: ciò permette di attribuire nuove punteggiature possibili alla stessa scena, ri-significarla e ri-connotarla. Punteggiatura  Watzlawick definisce la punteggiatura come l’azione di un soggetto che impone un ordine in un mondo altrimenti casuale, imprevedibile e caotico. La punteggiatura organizza la sequenza e stabilisce un ordine. Una relazione quindi può essere letta in vari modi, dipende da quale punteggiatura le si attribuisce. Prendere in mano la propria storia, immagini e sceglierle puntando l’attenzione sugli aspetti difficili, non solo ha il senso di assumere la responsabilità delle proprie azioni, ma anche di isolare il momento difficile dal resto, permettendo al genitore di cercare strade alternative per trasformare la situazione.  riconoscere e circoscrivere l’incompetenza permette di salvare tutto il resto. Riflettere insieme fa sì che il genitore in difficoltà viva meno la solitudine della sua situazione e riesca a far comprendere meglio all’altro i suoi vissuti. Questo lavoro di post-produzione può essere utile a identificare le modalità e strategie con cui le famiglie affrontano crisi, conflitti o problemi legati alle routine familiari. La tappa successiva di questo lavoro consiste nell’utilizzare le immagini scelte dai genitori e com-porle allo scopo di creare punteggiature differenti, altre storie possibili, basate non più sull’incapacità o incompetenza, ma sulle risorse e sulle strategie messe in campo. CAPITOLO 5 (Daniela Gini) Questo capitolo mette a fuoco l’azione dell’osservare e una pratica che utilizza il mezzo audiovisivo come strumento di lettura delle interazioni umane, e dunque anche quelle familiari. La comunicazione è il fondamento delle relazioni umane: essa diventa l’oggetto osservativo nei suoi vari livelli, nei diversi stili e nelle svariate modalità. Cosa osservare? I processi interattivi nei quali la comunicazione si sviluppa, usando il modello e i principi della Programmazione Neurolinguistica (PNL). Comunicazione  è un sistema, qualcosa che è più e va oltre la somma o la sequenza dei singoli messaggi e va anche oltre il livello informativo. Comunicare è un’attività che produce effetti sulle persone che vi partecipano. Comunicare è dunque entrare in un processo nel quale interagiscono diversi fattori: l’identità dei comunicanti, il tipo di relazione che si va sviluppando tra di loro, il contenuto, i modi, il contesto… Nella Pragmatica della comunicazione umana definiti 5 assiomi della comunicazione:  È impossibile non comunicare, ogni azione comunica qualcosa  Ogni azione contiene aspetti verbali (parole e frasi) e aspetti analogici (gesti, voce, corpo)  Ogni comunicazione è simultaneamente stimolo, risposta, rinforzo di altre azioni comunicative  In ogni comunicazione ci sono messaggi di contenuto (ciò che si dice) e messaggi di relazione (come si vuole che il messaggio venga inteso)  Gli scambi possono essere simmetrici (basati sull’uguaglianza) o complementari (basati sulla differenza tra i comunicanti) Programmazione Neurolinguistica (PNL)  programmazione, in quanto è possibile scoprire i programmi comunicativi che usiamo per raggiungere obiettivi specifici; neuro, in quanto l’esperienza è filtrata ed elaborata dal sistema nervoso attraverso i sensi; linguistica, poiché le rappresentazioni sono codificate e fornite di significato attraverso il linguaggio. La PNL si fonda su feedback forniti dall’ascoltatore o osservatore, che possono essere intenzionali o spontanei; attribuisce a ogni comportamento un valore comunicativo che segue la regola dell’equilibrio tra le funzioni psichiche e organiche.  ogni stimolo sensoriale è tradotto in termini comunicativi. Il film è uno strumento privilegiato per l’addestramento all’osservazione, in quanto:  racconta una o più storie, in maniera efficace e in un tempo definito  permette di esaminare uno “spaccato di vita” a più livelli (punto di vista del regista o dei vari personaggi)  consente, ogni volta che serve, di rivedere le sequenze dove le interazioni sono più complesse o più significative e ne permette lo studio. Nella letteratura sistemica, la famiglia viene definita come “gruppo di individui con storia”; un gruppo di individui con storia che mentre si fa si disfa, per permettere a ciascuno di sviluppare la propria individualità e quindi realizzare la propria vita: il film mette in scena proprio questi processi costruttivi e trasformativi. La scelta dei film o sequenze da proiettare dipende dall’obiettivo  ci sono due criteri: • il primo basato sul contenuto (trama, temi trattati…); • il secondo legato a situazioni comunicative specifiche che mostrano come si costruiscono e si trasformano le relazioni umane. Le sequenze si possono far rivedere più volte, tutte quelle necessarie perché ciascuno possa attrezzarsi e affinare i propri canali percettivi sulle interazioni comunicative. Per permettere ai futuri operatori di attivare i loro strumenti osservativi, si può chiedere di individuare delle sequenze del film (solitamente si fa vedere prima senza audio così che si possano concentrare maggiormente sulla comunicazione non verbale), studiarne il processo, analizzare le azioni e retroazioni dei singoli personaggi oppure si può proporre una sequenza uguale per tutti: tutti vedono le stesse azioni, ma ognuno le racconterà e commenterà in modo diverso. La visione del film è un modo per chiedere agli studenti di mettersi in gioco. Il processo osservativo può essere mirato a livelli diversi, a seconda degli obiettivi formativi: 1. Far emergere i pregiudizi  non è facile separare ciò che si vede da ciò che si pensa, ma ci si può addestrare; se so che nell’incontro con l’altro sono guidata da questo pregiudizio, posso metterlo da parte in modo da incontrarlo più facilmente. Il film in ciò è efficace poiché la sequenza è uguale per tutti, l’audio è tolto per tutti e quindi ciascuno proietta un po’ di sé stesso in ciò che vede. Il confronto fra le diverse versioni e punteggiature rende palesi i pregiudizi. 2. Ricostruire i processi interattivi e comunicativi tra i personaggi  “chi fa/che cosa/a chi/come”. Il film, potendolo fermare e far tornare indietro, rende possibile l’osservazione analitica delle sequenze e questo affina l’occhio sui processi relazionali. Tolto l’audio è possibile approfondire la postura, i gesti, modi di porsi,… 3. Affinare le tecniche di comunicazione  l’osservazione può offrire strumenti all’operatore per entrare in relazione con le persone o famiglie. Per lavorare su questo obiettivo è utile la Programmazione Neurolinguistica, che mette in risalto le capacità creative e organizzatrici della nostra mente inconscia, offre cioè strumenti di lettura del non verbale e questa lettura riguarda sé  capacità di auto-osservazione. Il film diventa uno strumento di addestramento dello sguardo: si può interrompere e riprendere, tornare indietro, condividere e discuterne. Grazie alla visione di film posso ampliare la mia visuale di osservazione sul mondo e il mio repertorio di azioni, purchè questa visione sia attiva e riflessiva. CAPITOLO 6 – Posizionamenti estetici e ricerca della bellezza (Andrea Prandini) Lavorare con le famiglie significa portare l’attenzione sugli aspetti di narrazione e sul tipo di storie che i vari membri raccontano per definire se stessi. Bisogna partire dalle storie che si raccontano in modo da avviare un percorso aperto di ricerca volto a rintracciare le linee, le immagini, il linguaggio, i significati di ogni storia raccontata. La narrazione e le storie sono uno strumento fondamentale di autoformazione e autoconoscenza, in cui si prende atto che ciò che ci fa soffrire e gioire non sono le cose in sé (azioni, fatti, eventi) ma come vengono percepiti e raccontati da noi o dagli altri. Sono i racconti e le storie generati nelle e dalle pratiche comunicative che definiscono le appartenenze, i significati, l’identità di ciascuno, l’identità di famiglia. Pensare e ripensare alla propria storia, narrarla riflessivamente e creativamente è una pratica utile per mantenere vivo il senso di ciò che avviene. Un rischio educativo però è che la famiglia sia narrata e si narri in modo fisso e uguale rischiando di non dare la giusta attenzione. E’ importante la riflessività  riflettere su ciò che accade nella quotidianità, in quanto il processo di autoformazione prende avvio proprio quando ci si distacca dalla solita riproduzione automatica della famiglia fissa. Quando un bambino impara a raccontare una storia, impara a pensarsi. Importante è interrogarsi sullo stile narrativo e sulla semantica che gli operatori usano per descrivere e raccontare la famiglia, per due ragioni:  Benessere degli operatori  può succedere che gli educatori si trovino bloccati in una certa relazione o progetto e necessitano di aiuto; in questi casi è importante non dimenticare di osservare con curiosità le famiglie  Livello interattivo tra famiglia e operatori  chiedersi come gli educatori interagiscono con i componenti della famiglia e come contribuiscono alla co-costruzione di narrazioni familiari. Nel lavoro di cura, si possono individuare 2 teorie o posizionamenti: • patogenesi  attenzione sulla malattia e ciò che l’ha scatenata (causa-effetto), sulle debolezze; • saluto-genesi  attenzione su ciò che c’è, sui punti di forza e risorse delle famiglie per costruire processi di risoluzione. L’orientamento migliore è quello salutogenesi in cui l’educatore, senza negare i problemi, si concentra sui punti di forza, sulle risorse della famiglia e sulle persone che la compongono per raggiungere la normalità. Bellezza  per Bateson proviene dall’incontro tra un organismo e il suo mondo Lavorare con storie familiari che generano sofferenza e fatica significa non inseguire il cambiamento o una strada prestabilita, ma perseguire l’apertura a nuove visioni del mondo  apertura visionaria, che darà origine a possibili cambiamenti e trasformazioni. Il lavoro di cura educativa consiste nel proporre nuovi sguardi differenti, lavorando nella convinzione che esistono sempre tracce, anche minime, di bellezza e che queste possono essere rese visibili dagli stessi componenti della famiglia, valorizzarle.  si tratta di un posizionamento di cura che privilegia la ricerca della Lo scaffolding (l’allievo esegue il compito con l’assistenza dell’esperto) è un processo relazionale reciproco: non si tratta solo di “offrire sostegno”, c’è un processo comunicativo fatto di azioni e reazioni circolari, continuamente adatto alle successive prese di posizione e risposte dei singoli. L’educatrice offre una struttura che non sorregge le persone, ma le azioni. Nulla avrebbe senso se fuori contesto, c’è una rete di relazioni significative intorno a ogni famiglia; sono necessarie alla sua sopravvivenza, a volte appaiono molto vaste e intricate, altre volte (apparentemente) più semplici, impoverite dall’isolamento sociale e da vicende precedenti. Un educatore è qualcuno che sa come muoversi tra queste relazioni, come valorizzarle per sfruttarne le potenzialità, come prendersi cura dei legami riconoscendoli e rendendoli visibili. Per riuscirci deve fare quella che i sistemici chiamano analisi del contesto, cioè una riflessione che risponde alla domanda “dove siamo?”. Un aspetto più specifico del contesto sociale è il contesto istituzionale, cioè il luogo concreto dentro il quale avviene l’intervento educativo  non si può lavorare fuori contesto, la caratteristica base della comunicazione umana è la ripetitività, che rende prevedibile ciò che accadrà in un certo scambio. L’analisi del contesto serve per realizzare una com-posizione delle cornici, per creare comunicazioni favorevoli alla trasformazione. L’analisi del contesto dunque significa comprendere come il servizio evolve e si trasforma. C’è poi il contesto qui e ora, della relazione specifica “con questa famiglia”, interrogarsi è importante, l’educatore che non si interroga rischia di non essere utile alla trasformazione. Gli ingredienti base di ogni intervento educativo: • La domanda  Di chi è questo intervento? A quale bisogno risponde? Il bisogno e la domanda sono da costruire, da interpretare. Le domande legittime sono quelle che non contengono già in sé la risposta, ma ci invitano alla trasformazione. • L’invio  L’inviante è colui che ritiene che in una determinata famiglia c’è bisogno di un intervento educativo (es. medico, assistente sociale,..); ma uno dei problemi più frequenti riguarda lo scontro di premesse tra chi pensa l’intervento soprattutto in termini di controllo sociale e chi ha in mente scopi educativi. • Il mandato  Interrogarsi sul mandato e disporsi a interpretarlo e ridefinirlo rende l’operatore protagonista del proprio lavoro. Non è necessario subire passivamente un mandato, l’educatore personalizza l’intervento, a seconda dei suoi pregiudizi e posture. • La convocazione di tutto il sistema  Nell’approccio sistemico la convocazione è l’invito a tutta la famiglia a presentarsi al servizio; non si tratta di risolvere il problema di uno ma di mettersi in gioco assieme e provare a costruire una storia condivisa. La convocazione contiene in sé i presupposti dello stigma. Un’altra questione è quella dei confini, convocare significa definire chi fa parte di quella famiglia; in un’ottica sistemica, è “famiglia” l’insieme delle persone coinvolte nella cura, “nel problema”, quelle che vedono questo bambino, quelle che chiedono aiuto, quelle che danno un contribuito nel cercare soluzioni (quindi anche insegnanti, vicini di casa ecc). • La costruzione del setting  Definire un setting come educativo, far capire che “qui ci si prende cura dei legami”, far sentire alle persone che ci si può fidare, sono messaggi difficili da costruire. Non è importante il cosa ma il come sui cui puntare l’attenzione. L’operatore, all’interno di questo spazio propone azioni specifiche, diverse dal solito e ciò non vuole finalizzare il cambiamento ma un offerta di esperienze potenzialmente trasformative. Pensare il setting, organizzarlo, significa chiedersi continuamente e riflessivamente quali messaggi si vogliono dare e ricevere, nell’intento di sostenere e accompagnare le trasformazioni delle relazioni familiari e di prendersi cura dei legami. • Il processo: contratto, intervento, valutazione, chiusura  Nel contratto educativo sono definiti gli obiettivi, ma l’intervento educativo non può solo avere esiti attesi. L’intervento ha una durata: è bene definire in modo esplicito inizio e chiusura, anche per dare un chiaro segnale che la vita della famiglia va oltre il tempo dell’intervento. L’approccio sistemico è tendenzialmente breve, mira alla perturbazione, non alla presa in carico, attribuisce al sistema una capacità di autocura che va rivitalizzata. I criteri di valutazione dovrebbero essere fissati insieme alle famiglie, tenendo conto dei bisogni, desideri e punti di vista di ogni membro. Il processo è costantemente monitorato attraverso strumenti di (auto)osservazione gestiti dalla famiglia insieme agli operatori. La circolarità tradotta in comunicazione L’operatore sistemico partecipa alla comunicazione in modo attivo, tiene conto del processo comunicativo in atto e prova a perturbarlo alla ricerca di nuove possibilità. Usa se stesso come messaggio, usa la proprio posizione nel sistema per introdurre differenze che diventino informazioni. E’ responsivo, cioè adotta una postura di attenzione per i feed-back, quelli da dare e quelli da ricevere. Il suo modo di comunicare non è centrato sull’intenzionalità del messaggio ma sugli effetti pragmatici. Queste posture epistemologica, molto lontana dal pensiero comune, è evidente nelle procedure inventate dai terapeuti della famiglia per condurre colloqui familiari congiunti:  L’ipotizzazione  nella capacità dell’équipe di formulare un’ipotesi sistemica fondata sulle informazioni in suo possesso, e funzionale a garantire l’attività dei conduttori nel ricostruire i giochi relazioni della famiglia. Fin dalla prima seduta, serve a iniziare e organizzare il processo di indagine, come una struttura che connette tutti i comportamenti dei diversi componenti del sistema dato che l’ipotesi non è vera né falsa ma solo più o meno utile.  La circolarità  era una conduzione basata sulle retroazioni della famiglia, sollecitate da domande che venivano poste in termine di rapporti, cioè di differenze e mutamenti. Le domande circolari vengono poste a tutti i membri della famiglia, perché quello che interessa sono le differenze.  La neutralità  si concentrava sulle differenze e sui giochi, l’équipe neutralizzava ogni tentativo di coalizione, seduzione o relazione privilegiata, poiché era interessata a provocare retroazioni o ad accogliere informazioni e non a pronunciare giudizi moralisti di qualsiasi tipo. La linea guida della neutralità costituiva un doppio vincolo terapeutico: i terapeuti riconoscevano le soluzioni adottate dalla famiglia come sensate e allo stesso tempo creavamo un contesto che offriva alternative possibili, ma senza imporle. L’équipe sistemica, adottando la postura dell’ipotizzazione, riconosce il valore parziale e temporaneo delle proprie idee sulla famiglia, che saranno coltivate e arricchite continuamente, per garantire una visione circolare e utile al cambiamento. L’ipotesi sistemica è il prodotto di una conversazione generativa nella quale gli operatori appaiono inizialmente lineari e ingenui, e solo discutendo riescono a prendere le distanze dai propri pregiudizi, grazie all’ascolto reciproco. Quando un’équipe diventa una “mente sistemica” riesce a sintonizzarsi sulla complessità della famiglia, a rispecchiarne la circolarità. Il lavoro d’équipe è dunque una condizione per poter lavorare in modo sistemico, per cogliere e onorare la complessa circolarità delle relazioni familiare e immaginare quello che potrebbero diventare. L’azione educativa basata sull’idea di perturbazione ha qualche chance di essere ecologica se sviluppa una grande sensibilità verso il contesto e verso i processi comunicativi che lo costruiscono e commentano continuamente. CAPITOLO 2 – Prevedere l’imprevisto nella tutela dei minori (Luca Massari) Con tutela dei minori generalmente si definiscono quelle funzioni pubbliche e quei servizi che hanno il compito di affiancare le bambine, i bambini, le ragazze e i ragazzi in favore dei quali è richiesto un controllo. Questo controllo può divenire penalizzante dei diritti di qualcuno della famiglia, pertanto è richiesto che le decisioni in proposito siano assunte da un’autorità giudiziaria. Intervenire in una famiglia quindi richiede oggettività. Qualsiasi ambito educativo deve fare i conti con l’imprevedibilità, con l’imprevisto che può essere sia positivo che negativo  per dare senso all’imprevisto solitamente lo mettiamo in relazione ai risultati e al finale, cercando il lieto fine, quel “e vissero tutti felici e contenti per tutta la vita”. Questo lieto fine però è ideale non sempre è realizzabile e ciò che si persegue nell’intervento educativo è il bene del minore, arrivando a sacrificare ora l’insieme, ora il felici e contenti oppure il per tutta la vita. Il lavoro educativo che si compie nell’ambito della tutela dei minori non può rinunciare alla dimensione relazionale che è essenziale. L’imprevisto investe anche il funzionamento dei servizi e lo stile dei nostri interventi. Vivere in comunità non è come vivere in istituto, però vi sono elementi molto istituzionalizzati (si tratta di servizi organizzati apposta, in cui si è spesso obbligati a starci e dove occorre organizzare un setting che fornisca la contestualizzazione necessaria per promuovere una trasformazione. C’è il rischio di proporsi con un’ottica istituzionalizzante, che può presentarsi sulla scena in ogni momento, e non solo da parte degli operatori, ma che gli operatori devono essere in grado di riconoscere. CAPITOLO 3 – Tracciare le connessioni: l’ADM come questione di famiglia (Mara Pirotta) Cosa fa un educatore di ADM (assistenza domiciliare minori)? Si mette in gioco a livello professionale e personale e agisce partendo dalla relazione e dall’alleanza con la famiglia. La famiglia è considerata come il luogo privilegiato per il benessere dei figli e la possibilità per l’educatore di entrare in contatto con la famiglia proprio ne suo ambiente di vita, la casa, costituisce una risorsa speciale  permette di co-costruire nella quotidianità delle strategie e modalità interattive resistenti nel tempo, anche dopo la fine del progetto educativo. Condizione perché avvenga questa trasformazione è la curiosità, che permette l’avvio di percorsi educativi dalle caratteristiche specifiche di quella determinata famiglia, dalla conoscenza della sua storia, con i suoi vincoli e possibilità. Il punto di partenza dell’agire dell’educatore è la relazione e alleanza con la famiglia. Questo intervento avviene in casa: nella maggior parte dei casi l’intervento dell’educatore è stato imposto dal giudice, per questa ragione l’operatore non può essere percepito da subito come una potenziale risorsa, anzi a volte potrebbe essere visto come un nemico. Il compito dell’educatore è quello, quindi, di guadagnarsi quella fiducia che permetta alla famiglia di aprirsi e raccontare la propria storia, così da poter iniziare un percorso di co-costruzione di possibilità nuove. E’ necessario che l’educatore entri in punta di piedi, con delicatezza e che sappia leggere ciò che la casa esprime: abitudini, vissuti, relazioni, così da farla diventare il setting educativo per eccellenza. Per la famiglia l’educatore è un estraneo che è stato assegnato per mostrare loro dove sbagliano. Con la sua presenza l’educatore modifica gli equilibri che la famiglia si è creata. Non stupisce, quindi, che la famiglia opponga resistenze all’ingresso dell’operatore. Molti interventi domiciliari si trasformano in una sorta di sostituzione del genitore da parte dell’educatore nella funzione di sostegno e supporto ai figli. Questo genera una conseguenza: porta sullo sfondo le figure genitoriali: svalorizzandole ulteriormente. Il rischio del sostituirsi ai genitori può portare a una sorta di deresponsabilizzazione progressiva degli stessi rispetto al loro ruolo educativo. E’ utile lavorare non tanto sulle mancanze, quanto sulle risorse; bisogna trovare le strategie per potenziare queste risorse e co-costruire insieme alla famiglia delle risorse nuove, dei percorsi percorribili che la famiglia possa sentire come propri e portare avanti anche quando l’intervento educativo terminerà. Una famiglia che si sente conosciuta e riconosciuta nelle sue peculiarità e capacità diventa un insieme di persone che si sentono legittimate a chiedere aiuto nel momento di bisogno, senza sentirsi giudicate negativamente. Per questo anche l’educatore deve fare un lavoro personale di trasformazione, diventare consapevole dei suoi pregiudizi, stato emotivo e valori  queste sono azioni auto-riflessive che sono il punto di partenza e arrivo di ogni sua azione. Tendiamo a definire educativi tutti i contesti in cui la famiglia entra in contatto con servizi e operatori le cui professionalità hanno come obiettivo il cambiamento. Tuttavia, il contatto tra le famiglie e i servizi non si dimostra educativo, ma anti-ecologico e dis-educativo, quando la famiglia viene svalutata, inascoltata, etichettata. Il compito dell’educatore è quello di sostenere l’autonomia nel trovare di volta in volta, nei momenti di crisi, le strategie più funzionali al superamento della crisi stessa e alla ricerca di un nuovo equilibrio che permetta a tutti di stare bene. Ma questo non è possibile senza il contributo e la partecipazione attiva della famiglia con cui ci si relaziona. Quello che l’educatrice auspica, nel lavoro educativo, è una pedagogia della famiglia capace di tenere sempre presenti e valorizzare le risorse dei membri di quella famiglia, la loro storia e le loro evoluzioni. CAPITOLO 4 – Comporre i legami messi alla prova dal carcere (Lia Sacerdote) L’arresto del genitore, è un momento topico che spezza i rapporti e mette in pericolo i legami. I primi ad essere vittima sono i figli e il nucleo familiare violato nella sua interezza e organizzazione. Il carcere è il luogo dove i legami si interrompono per legge, ma, è anche quel luogo in cui è fortemente necessario e vitale l’intervento di cura mirato al ricongiungimento con la famiglia. La carcerazione, determina una catena di eventi che la famiglia subisce e vive per lo più in solitudine, essa sperimenta ostacoli e barriere di distanza con i propri cari, quasi come se questi modi siano gli unici per offrire sicurezza, ma non è così, in quanto questi, portano solo a rinforzare e amplificare le debolezze e gli squilibri. La famiglia, rappresenta non solo un sostegno affettivo importante durante la detenzione, ma è anche l’ambito in cui la persona detenuta può trascorrere parte della pena (quando vengono adottate misure alternative al carcere), per questo è importante rafforzare i legami. Si è osservato con numerose ricerche, che, il recupero della relazione con i figli, porta la persona detenuta a ritrovare una motivazione al cambiamento e a un recupero della responsabilità genitoriale. Il colloquio è un momento prezioso, cruciale per la cura di questo legame e perciò le istituzioni devono fare in modo che avvenga nelle condizioni migliori. Un costume culturale diffuso, ritiene che una persona in carcere non sia in grado di essere un buon padre o una buona madre, il genitore in carcere ha bisogno di essere aiutato a ritrovare il proprio ruolo genitoriale. uscire da un isolamento sociale nel quale si erano confinati. L’intervento con i familiari si va sempre più caratterizzando come un becoming parent, concentrato sull’unicità della storia di ognuno e sulle risorse, apprendimenti e relazioni che hanno dato vita a quella storia. CAPITOLO 8 – Apparecchiare contesti di apprendimento per promuovere competenze (Bettinaglio, Loverso e Rosti) Degli educatori hanno organizzato dei laboratori, pensati per famiglie prese in carico dai servizi sociali, nei quali si sperimentava attraverso attività formative le relazioni educative e il rapporto genitori-figli. Questi laboratori sono dei posti vivi dove adulti e ragazzi, ognuno nel proprio ruolo, provano a osservarsi e parlarsi dei loro modi di stare insieme. Gli incontri hanno favorito la conoscenza reciproca delle famiglie, offrendo strumenti adeguati per far percepire con maggior consapevolezza le difficoltà ma anche la fiducia nelle proprie capacità, portando i singoli soggetti a tendere lo sguardo oltre, a osservarsi più attentamente, a identificarsi e a cogliere la specificità di ognuno, riconoscendone il valore e la qualità. Gli operatori dei servizi hanno intravisto la possibilità di costruire contesti nei quali non si porge solo la funzione di aiuto e sostegno, spesso unita al controllo, ma dove le famiglie possono esprimere le loro competenze, guardare, vedere, nominare il proprio modo di fare famiglia senza che questo sia sottoposto a giudizio  partecipanti si sentono attivi, coinvolti e competenti; è difficile cambiare quando ci si sente inadeguati, impotenti o sofferenti. I laboratori non hanno fini di cambiamento, inteso come mutamento di atteggiamenti, modi di fare e di essere, o di risoluzione dei problemi; ciò a cui si punta è offrire a ogni famiglia, attraverso il gruppo, la possibilità di sperimentare forme di comunicazione inedite tra adulti e figli e un’esperienza di condivisione. In modo tale da fare sentire autenticamente coinvolti i soggetti, regole e programmazione dell’attività sono state costruite insieme, assecondando le esigenze. 1 gruppo  più eterogeneo, comprendeva famiglie con figli allontanati in passato, famiglie con educazione domiciliare e altre famiglie in carico ai servizi sociali. I membri hanno mostrato capacità di razionalizzare, discutere, comprendere gli stati emotivi e dar loro significato. 2 gruppo  famiglie in gravi difficoltà, con figli in comunità per minori. Quasi tutti i membri hanno mostrato difficoltà nel significare le esperienze e scarsa capacità di astrarre e simbolizzare. Incontri suddivisi in questo modo:  Apertura della serata  saluti e firma registro-presenze  Memoria degli incontri  chi se la sente racconta ciò che è stato fatto la volta prima  Presentazione dell’attività  collegare attività dentro le finalità del gruppo (presentare attività motivandola)  Svolgimento dell’attività formativa  tutti impegnati e coinvolti  Cena  momento conviviale rilevante del fare e sentirsi gruppo  Conclusione attività e saluti  ritualizzati, viene dato un foglietto con la data del prossimo incontro e un’immagine e una poesia o aforisma, con il tema dell’incontro successivo. Da questi laboratori è emerso che quando ci avviciniamo alle famiglie, prima di avere degli obiettivi bisognerebbe avere in mente riconoscimento, rispetto e dignità come presupposti della relazione con l’altro, sui quali poi prefigurare il lavoro. Ostacolo nel lavoro con le famiglie  idea di “buona famiglia” o “buon genitore”. Lavorare con le famiglie significa sfatare queste rappresentazioni: la capacità di essere un adulto di riferimento per i piccoli non sta nel fare o nel dire “la cosa giusta”, ma nella capacità di sbagliare e poi provare a raddrizzare il tiro. Lavorare con le famiglie significa trovare modalità e strumenti innovativi perché possano trovare luoghi condivisi, attraversati da legami vitali, e così uscire dal problema della privatizzazione del compito educativo, solitudine e distorsioni relazionali amplificate dall’eco delle mura domestiche. CAPITOLO 9 – Interrogare le rappresentazioni reciproche, tra ricerca e formazione (Alessia Vitale) Ogni educatore durante il suo cammino deve porsi delle domande:Con quale res stai entrando in ricerca? Che cosa cerchi in questo viaggio? Che cosa ti muove? La res è la storia condivisa e provvisoria del “perché siamo qui” o “che cosa stiamo facendo insieme”; è una narrazione, una direzione di senso più che un obiettivo. L’intento con cui ci si avvia verso questo viaggio non è quello di realizzare una fotografia della realtà, ma di osservare una relazione in corso. Guardare al processo educativo in quest’ottica significa pensare a ciò che si osserva come una relazione in continua trasformazione. Ogni persona vive dentro un tempo e un luogo, cioè inserita in una storia individuale, famigliare, sociale e ogni storia si sviluppa in un contesto costantemente in trasformazione. “In ricerca” è chi si abbandona alla scoperta (come un viaggiatore). La “domanda” è una condizione necessaria dell’essere “in ricerca”, ma non basta fare di noi dei ricercatori; a tal proposito Laura Formenti distingue “sguardo ingenuo” e “sguardo scientifico” dell’educatore: il primo ideologicamente centrato, carico di pregiudizi vissuti come verità; il secondo attento a sé e gli altri, continuamente disposto a interrogarsi sui propri pregiudizi. Potremmo dire che il ricercatore è qualcuno che si prende cura del proprio punto di vista e di quello altrui. Un buon educatore è dunque anche un ricercatore. Un educatore è ricercatore quando si rende conto di essere implicato in prima persona nella relazione educativa in corso ed è attento a mantenere viva nella quotidianità la curiosità dell’esploratore non dando nulla per scontato. Essere ricercatore che si occupa di storie in particolare di narrazioni di famiglie, vuol dire essere consapevoli che le storie producono effetti. Quando l’altro ci racconta la sua storia, il racconto stesso ha una fortissima contingenza formativa. Le responsabilità etiche dell’educatore sono: • Prendersi cura delle storie che gli sono affidate, ovvero mantenere una postura di neutralità; • La seconda responsabilità etica riguarda la trasparenza. Il principio etico della trasparenza chiama in causa la visibilità del patto tra ricercatore e soggetti. La trasparenza non è un dato di fatto, ma un’azione che stimola la riflessività, uno spazio prossimale di apertura alla comprensione di fonemi. Gli esploratori usano mappe. Per un ricercatore/educatore la mappa è la “teoria” da cui si muove per guardare il mondo. Se ricercatori e partecipanti sono doppiamente impliciti e mossi da domande, le domande che si pongono sono però differenti, così come il loro posizionamento nel processo di ricerca: non ricoprono lo stesso ruolo, né godono degli stessi diritti e doveri. Al ricercatore è dato il compito di preparare il progetto, allestire e prendersi cura del contesto d’indagine, farsi da garante della metodologia ecc.
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